Il governo dell`economia in Europa. Un approccio post

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IL GOVERNO DELL’ECONOMIA IN EUROPA:
UN APPROCCIO POST-KEYNESIANO*
Guido Montani, Università di Pavia
L'euro, la politica economica e il principio di sussidiarietà
L'Unione monetaria europea è una innovazione istituzionale senza precedenti storici. Mai era
avvenuto che undici Stati sovrani decidessero di creare una moneta comune. Si tratta di un'impresa
audace, il cui esito è ancora incerto, perché il progetto di Unione monetaria è stato portato a compimento
prima dell'unificazione politica, in una situazione internazionale che mostra inquietanti segni di disordine.
L'Unione monetaria deve dunque essere considerata solo una tappa di un percorso ancora da completare.
Ma è probabilmente una tappa decisiva, perché la politica monetaria non è che un aspetto di una politica
economica in fieri. In effetti, decidendo di creare l'euro, i governi nazionali dell'Unione hanno posto il
problema ineludibile del governo europeo. Per questo, si affronterà qui il rapporto tra euro, politica
economica e governo europeo.
Per evitare equivoci, è bene precisare subito che per governo europeo non si intende, come si
sostiene comunemente, che gli orientamenti di politica economica debbano scaturire dal Consiglio dei
Ministri. In questo organismo si esprimono i legittimi interessi degli Stati, ma l'Unione europea deve
fondare i suoi orientamenti politici anche sulla volontà del popolo europeo, rappresentato dal Parlamento
europeo. Dunque, la Commissione, i cui poteri sono oggi simili a quelli di un esecutivo tecnico del
Consiglio dei Ministri, dovrebbe diventare, quando verrà fatta la necessaria e urgente riforma
costituzionale, un vero organo politico, responsabile nei confronti del potere legislativo e dotato dei poteri
sufficienti per agire con efficacia. Se questa riforma verrà fatta, l'Unione diventerà uno Stato federale, cioè
un sistema di governi «indipendenti e coordinati»1 tra di loro.
La creazione della moneta europea non è solo una sfida alla sovranità degli Stati nazionali. E' una
sfida alla teoria economica. Infatti, l'economia politica, sin dalle sue origini, ha sempre accettato come un
dogma l'ipotesi che la politica economica fosse decisa da un solo livello di governo, il governo nazionale,
mentre nei rapporti internazionali non si ipotizza come necessario alcun potere sovranazionale di
coordinamento.2 L'economia internazionale, per gli economisti, è un sistema di poteri sovrani, non
coordinati tra di loro. Ma l'Unione europea non è più un'economia internazionale. Il mercato interno,
specialmente, con la creazione dell'euro, è una realtà. Consideriamo il problema centrale della politica
economica, ciò che viene definito policy-mix, ovvero il rapporto tra politica monetaria e politica fiscale.
Esso non può più essere affrontato nei termini tradizionali. Mentre con il Trattato di Maastricht e
l'istituzione della Banca Centrale Europea la politica monetaria diventa europea, le politiche fiscali
rimangono ancora di competenza dei governi nazionali, seppure entro i limiti previsti dal Patto di stabilità
e di crescita. Si tratta dunque di ripensare i fondamenti stessi della politica macroeconomica, senza
escludere l'ipotesi che sia necessario sviluppare interventi di politica economica a più livelli di governo —
al livello europeo e ai livelli inferiori a quello nazionale, nell'ambito dei governi locali — e come possano
essere tra di loro coordinati. Di fatto, ciò significa applicare il principio di sussidiarietà: realizzare al
livello superiore di governo quelle misure di politica economica che risultano inefficaci, o impossibili, al
livello inferiore.
L'indirizzo di politica economica che, nel dopoguerra, in tutti i paesi europei è riuscito a godere del
maggior consenso tra le forze politiche e sociali, sino a plasmare la forma stessa dello Stato, è il
keynesismo, che Keynes stesso ha definito come una via di mezzo tra pianificazione centrale e laissez
faire del secolo XIX, ovvero un liberal-socialismo.3 Le politiche keynesiane, tuttavia, sono cadute in
disgrazia a mano a mano che è progredito il processo di integrazione europea e si è affermata la
*
Relazione alla IV Conferenza annuale della Facoltà di Economia dell'Università di Pavia su "Il governo
dell'economia in Europa e in Italia", 9-10 ottobre 1998. Ringrazio Carluccio Bianchi, Carlo Giannini e Francesco
Mazzaferro per i loro utili commenti ad una prima versione di questo articolo. Pubblicato in G.Montani, D. Velo
(eds), Il governo dell’economia in Europa e in Italia, Giuffrè, Milano, 2000.
1 Questa definizione di governo federale è di K. C. Wheare, Federal Government, London, Oxford University Press,
1963; trad. it. Del governo federale, Bologna, Il Mulino, 1997.
2 Ho esaminato questo problema in G. Montani, L'economia politica e il mercato mondiale, Bari, Laterza, 1996.
3 Questa espressione appare in una conversazione pubblicata da The New Statesman nel gennaio 1939. Ora in J. M.
Keynes, The Collected Writings, London, Macmillan and Cambridge University Press, 1982, vol. XXI, p. 500.
1
globalizazione finanziaria, che ha minato le basi dell'ordine monetario creato a Bretton Woods. Il fatto è
spiegabile. Keynes ha concepito una politica economica per lo Stato nazionale chiuso. Questa era la sola
risposta possibile negli anni Trenta, quando il nazionalismo economico e la grande depressione hanno
provocato la disgregazione dell'economia internazionale. Oggi, si tratta di riesaminare quel punto di vista
in una prospettiva del tutto nuova: quella del governo dell'economia europea, per consentire all'Unione di
affrontare con successo la sfida della globalizzazione.
La globalizzazione dei mercati è un fatto che non può essere ignorato, né dai governi né dalla teoria
economica. L'Europa fortezza, come qualcuno prospetta ed altri temono, è una illusione. Gli Stati Uniti
traggono la maggior forza della loro economia dalla capacità di governare il processo di globalizzazione.
L'URSS aveva intrapreso la strada difficilissima, oggi continuata dalla Federazione Russa e dagli altri
paesi della CIS, di trasformare l'economia di comando in economia di mercato nel tentativo di partecipare
ai vantaggi della divisione internazionale del lavoro. Altrettanto sta tentando di fare la Cina, seppure con
maggiore gradualità. Il Giappone, che pure ha goduto del vantaggio di poter sfruttare pienamente il
mercato occidentale, deve ora superare una difficile crisi finanziaria ed istituzionale per adeguare il suo
mercato interno a quello internazionale. Il successo iniziale delle Tigri asiatiche si spiega in gran parte con
la loro capacità di penetrare le barriere economiche dei paesi ricchi. Nessuna nazione può oggi sperare in
un futuro di progresso chiudendosi nell'autarchia. Nella misura in cui è possibile misurare i vantaggi
economici dell'interdipendenza, si può affermare che «i paesi più aperti hanno conseguito anche i più
elevati tassi di crescita».4 Il problema centrale della politica economica contemporanea è quello di
sfruttare i vantaggi della globalizzazione, senza subirne passivamente l'impeto.
Infine, è opportuna una precisazione terminologica. L'economia post-keynesiana di cui si discute in
questo saggio non ha nulla a che fare con la tradizione accademica che si definisce post-keynesiana. Postkeynesiano è un termine che viene qui utilizzato per indicare una politica economica post-nazionale: è una
politica per la crescita e l'occupazione di un governo sovranazionale in un mercato mondiale sempre più
interdipendente ed integrato.
Il Piano Delors: un passo nella giusta direzione
L'elaborazione di un piano europeo per l'occupazione e lo sviluppo non deve partire da zero. Esiste
un solido punto di riferimento. Dopo la decisione presa a Maastricht sull'Unione monetaria, l'allora
Presidente della Commissione Delors ha sentito la necessità di accompagnare al progetto della moneta
unica anche un piano che mettesse l'Unione in condizione di affrontare il gravissimo problema della
disoccupazione. In effetti, nel dicembre 1993, il Consiglio europeo di Bruxelles approvò il Libro bianco
proposto dalla Commissione europea su Crescita, competitività, occupazione. Le sfide e le vie da
percorrere per entrare nel XXI secolo.5
L'obiettivo centrale del Piano Delors è così formulato: «creare almeno 15 milioni di nuovi posti di
lavoro, dimezzando così l'attuale tasso di disoccupazione entro l'anno 2000». Il Piano prendeva atto che la
lotta contro la disoccupazione europea non poteva essere condotta con i tradizionali strumenti keynesiani.
Infatti, la disoccupazione in Europa può essere suddivisa in disoccupazione congiunturale, disoccupazione
strutturale, pari a circa la metà del totale, e disoccupazione tecnologica. Il vero problema, se l'Europa
viene messa a confronto con gli Stati Uniti, è che a partire dagli anni 70, ad ogni fase di ripresa
dell'economia, l'Europa non è riuscita ad assorbire interamente i disoccupati, che sono così cresciuti di
ciclo in ciclo. Il fenomeno è messo in evidenza dalla soglia occupazionale, cioè il rapporto tra crescita ed
occupazione. Gli Stati Uniti, nel periodo 1973-1990, hanno avuto una tasso di crescita medio del PIL
(GDP) del 2,3% annuo, un aumento della produttività del lavoro dello 0,4% annuo ed una crescita
dell'occupazione dell'1,9% all'anno. Al contrario, secondo il Libro bianco, data la bassa intensità
occupazionale della sua crescita, l'economia europea riesce a creare nuova occupazione solo ad un tasso di
crescita del PIL superiore al 2% all'anno. Questa elevata soglia occupazionale, costringe dunque l'Unione
europea a cercare di aumentare non solo il tasso di crescita del PIL, ma anche l'intensità occupazionale
della crescita.
Da questa analisi, la Commissione traeva l'indicazione che era necessario puntare ad un aumento
della competitività dell'industria europea sul mercato internazionale, eliminando nel contempo le maggiori
rigidità del mercato del lavoro nei paesi dell'Unione. Ciò avrebbe potuto consentire di aumentare
4 S. Edwards, «Openess, Productivity and Growth: What do we Really Know?», in The Economic Journal, 108,
March 1998, pp. 383-398, cit. p. 396.
5 Commissione europea, Crescita, competitività, occupazione. Le sfide e le vie da percorrere per entrare nel XXI
secolo, Lussemburgo, 1993.
2
l'intensità occupazionale della crescita. Le due direzioni d'intervento sembrano in contrasto, poiché
l'aumento dell'intensità occupazionale comporta una diminuzione della produttività del lavoro. La
contraddizione è tuttavia superabile perché una delle caratteristiche dello sviluppo dell'economia postindustriale è che a fianco di una contrazione in termini di occupati del settore manifatturiero si assiste ad
una crescita imponente del settore dei servizi, dove l'intensità occupazionale è elevata. In effetti, gli Stati
Uniti riescono a creare numerosi posti di lavoro grazie alla crescita del settore terziario, la cui produttività
è in genere inferiore alla media nazionale. Ma essi sono anche altamente competitivi in alcuni settori
d'avanguardia, come l'elettronica, le telecomunicazioni e l'industria aerospaziale.
La strategia della Commissione si fondava su due presupposti cruciali. Il primo era l'apertura
dell'economia europea alla competitività del mercato globale, cioè l'esplicito rifiuto della proposta di
un'Europa fortezza. Il timore della concorrenza proveniente sia dai paesi a basso costo del lavoro, come le
Tigri asiatiche, sia dai paesi ad elevato sviluppo tecnologico, come gli Stati Uniti ed il Giappone,
porterebbe alla lunga l'economia europea alla sclerosi. L'indispensabile dinamismo di una economia postindustriale può derivare solo dal continuo confronto con i maggiori concorrenti mondiali. Il secondo
presupposto riguardava l'orientamento delle politiche monetarie e fiscali. La riduzione dei deficit di
bilancio e una politica monetaria non inflazionistica erano considerate condizioni necessarie per la
riduzione del tasso di interesse reale e il rilancio degli investimenti, che in Europa erano scesi ad un livello
preoccupante.
Su queste basi, la Commissione proponeva una serie di interventi che possono essere ricondotti a
due aree fondamentali. La prima area riguarda le misure rivolte alla crescita della produzione ed al
miglioramento della competitività dell'industria europea. Un lungo elenco di progetti proposti dalla
Commisione riguardava lo sviluppo delle reti dell'informazione, che metterebbero le imprese private e
pubbliche, oltre che le università ed i centri di ricerca in condizione di migliorare la propria efficienza e di
accelerare la trasformazione in corso dalla società industriale alla società dell'informazione. In questa area
era previsto, inoltre, un numero elevato (26) di progetti riguardanti reti transeuropee di comunicazione
(autostrade, reti ferroviarie ad alta velocità e canali navigabili), che migliorerebbero le condizioni di vita
dei cittadini europei e consentirebbero alle imprese europee di diminuire i loro costi di produzione. Con
finalità analoghe erano proposte numerose reti per il trasporto dell'elettricità e del gas. Inoltre, si
riconosceva la necessità di incentivare gli sforzi per la ricerca scientifica e tecnologica, a cui i paesi
dell'UE dedicano uno sforzo (2% del PIL) inferiore a quello di USA (2,8%) e Giappone (3%). La seconda
grande area di intervento riguardava le misure per l'occupazione. Per tradurre la crescita in posti di lavoro,
la Commissione consigliava agli Stati membri di migliorare il funzionamento del mercato del lavoro,
introducendo maggiore flessibilità, e di ridurre i gli oneri fiscali sul lavoro, specialmente nei lavori poco
qualificati. La riduzione del costo del lavoro può incentivare una maggiore occupazione, ma è necessario
che i bilanci statali non vengano squilibrati. Per questo si proponeva l'introduzione di una carbon tax sulle
tecnologie inquinanti. In questo modo, si sarebbe ottenuto l'ulteriore vantaggio di orientare l'economia
europea verso un modello di sviluppo sostenibile. Infine, era necessario puntare sulla formazione di
capitale umano, investendo maggiori risorse nei sistemi educativi, riqualificando i lavoratori ed avviando
un sistema di formazione permanente mediante un sistema di crediti alla formazione.
In generale, si trattava di un insieme di provvedimenti che dovevano essere articolati al livello
europeo, al livello nazionale ed al livello degli enti locali (risanamento urbano, difesa dell'ambiente, ecc.).
La Commissione individuava, tuttavia, due compiti prioritari al livello europeo: «creare le grandi reti di
infrastruttura europee e preparare senza indugi e gettare le fondamenta della società dell'informazione»,
poiché «le ultime due azioni sono la chiave di una maggiore competitività e ci metteranno in grado di
padroneggiare il progresso tecnico, al servizio dell'occupazione e del miglioramento delle condizioni di
vita».6
Se a distanza di cinque anni dovessimo dare un giudizio sintetico del Piano Delors, sulla base
dell'obiettivo prioritario che si era proposto, cioè il dimezzamento del tasso di disoccupazione entro il
2000, si dovrebbe affermare che è fallito: il tasso di disoccupazione che era all'incirca dell'11% nel 1993
non è mutato significativamente e nella misura in cui è diminuito, lo si deve probabilmente a ragioni
congiunturali. Questo drastico giudizio può, tuttavia, essere attenuato se teniamo in considerazione il
processo riformatore che si è messo in moto sia al livello nazionale sia al livello europeo proprio grazie a
quelle proposte. In molti paesi dell'UE si sono prese decisioni per rendere più flessibile il mercato del
lavoro e ridurne il costo, introducendo nuove forme di contrattazione, il lavoro part-time e interinale,
rendendo più flessibili gli orari e alleviando alcuni oneri sociali. Sforzi sono stati fatti per combattere
l'esclusione sociale e per ridurre la piaga della disoccupazione giovanile. Un'attenzione crescente si sta
6 Commissione europea, cit., p. 22.
3
concentrando sulla riforma del sistema educativo, per introdurre standard comunitari e facilitare la
circolazione dei diplomi, primo passo verso una società cognoscitiva europea. Ma ben poco è stato fatto al
livello europeo per quanto riguarda il piano di investimenti. A causa del clima di rigore imposto dallo
sforzo di convergenza dei sistemi finanziari nazionali verso i parametri di Maastricht, il consiglio dei
Ministri delle finanze (Ecofin) ha preferito moderare drasticamente le ambizioni del Piano Delors,
riducendo i progetti ammessi al finanziamento (da 26 a 14) e diluendoli nel tempo. Nelle nuove proposte
di bilancio della Commissione per il periodo 2000-2006 si legge che verranno dedicate alle reti
transeuropee di trasporto, energia e telecomunicazioni 5,5 milardi di ECU. Si tratta di circa un
settantesimo di quanto viene dedicato alla politica agricola comunitaria (PAC) nello stesso periodo.7 Il
Piano Delors, secondo la proposta iniziale, prevedeva a carico del bilancio dell'Unione 5,3 miliardi annui.
Nel periodo 1995-99 ne sono stati impiegati 1,8 dunque 0,45 all'anno. Per il prossimo esercizio finanziario
la Commissione propone di salire a 0,79 miliardi annui. Il Piano Delors si è così ridotto al finanziamento
di qualche investimento marginale e simbolico.8 Non è certo su queste basi che l'Europa potrà affrontare
le sfide del XXI secolo.
Strategie alternative dopo l'euro
Una volta presa la decisione di dar vita all'Euro, si è aperto il dibattito sulle strategie da seguire per
governare l'Unione economica e monetaria. Il punto di vista che sembra affermarsi è quello del
coordinamento delle politiche economiche nazionali. Esso è sostenuto dai governi nazionali, che hanno
istituito il Consiglio Euro-11, dove siedono i ministri nazionali e che, secondo il governo francese,
dovrebbe rappresentare il «governo economico» dell'Europa. Anche alcuni economisti si sono espressi in
questo senso. Ad esempio, Franco Modigliani9 sostiene che per combattere la disoccupazione in Europa
sia necessario aumentare gli investimenti del 50% in sei-otto anni, attraverso una politica coordinata di
espansione dei bilanci nazionali. La BCE dovrebbe coadiuvare questo sforzo con una politica monetaria
che, mantendo bassi i tassi di interesse, non intralci lo sforzo di espansione della domanda effettiva. Ciò
può significare la rinuncia a perseguire l'obiettivo di un euro forte sui mercati internazionali. Una
quotazione modesta dell'euro potrebbe contribuire a stimolare le esportazioni europee. Ma, osserva
Modigliani, «se si dovesse concludere che la politica monetaria è inefficace, allora bisognerebbe rivedere
drasticamente il Patto di stabilità e assegnare alle politiche di bilancio il compito di promuovere,
attraverso gli investimenti pubblici, una ripresa dell'occupazione».
Questa strategia di sviluppo, che si potrebbe definire intergovernativa o di keynesismo nazionale,
mostra alcuni limiti evidenti. In primo luogo, è poco realistica, perché, come l'esperienza ha dimostrato, è
quasi impossibile che undici governi riescano a mettere in atto manovre di politica economica che abbiano
simultaneamente valenza espansiva o restrittiva. In secondo luogo, è inutilmente centralistica, perché
toglie ai governi nazionali quel margine di manovra nelle politiche di bilancio che lasciava loro il Patto di
stabilità. In terzo luogo, è pericolosa, perché in caso di fallimento, i governi nazionali, non ricevendo
alcun aiuto concreto dal livello europeo, sarebbero tentati di liberarsi dai vincoli comunitari nell'illusione
che sia possibile fare meglio da sé. Infine, poiché la proposta si ispira a politiche keynesiane nazionali, si
rinuncia a priori ai vantaggi che si potrebbero ottenere con una politica europea. Quest'ultima obiezione è
essenziale e va ulteriormente indagata. In verità, senza un governo europeo, le politiche economiche
dell'Unione restano «indipendenti, ma non coordinate».
Nel prendere in esame le linee essenziali di una strategia alternativa, è opportuna una riflessione
preliminare sui rapporti tra mercato interno e mercato internazionale nell'epoca della globalizzazione. La
teoria keynesiana della domanda effettiva deve essere riconsiderata nel nuovo contesto del mercato
globale. A questo scopo, può essere utile osservare che esiste un rapporto tra il pensiero di Keynes e
quello di Friedrich List sulla strategia nazionale di sviluppo. La connessione non è arbitraria. Keynes
stesso si richiama al mercantilismo. List affrontava il problema dello sviluppo industriale in una fase della
storia in cui la sua nazione, la Germania, ancora divisa, subiva l'egemonia economica della più avanzata
Gran Bretagna. Per List, l'imperativo era quello della «conquista del mercato interno» mediante una
politica di protezione doganale che consentisse l'«educazione industriale» delle forze produttive nazionali,
7 European Parliament, Agenda 2000. The legislative proposals, IP/98/258, Brussels, 18 march 1998.
8 Sulla insufficienza della iniziativa della Commissione, cfr. J. H. Drèze et E. Malinvaud, «Croissance et emploi:
l'ambition d'une initiative européenne», in Revue de l'OFCE, n° 49, avril 1994, pp. 247-88.
9 Cfr. Il Sole-24 ore, 24 aprile 1998, in cui viene data notizia di un «Manifesto» di economisti a favore di politiche
nazionali di rilancio dell'economia europea. La citazione successiva è tratta dall'articolo di F. Modigliani e G. La
Malfa pubblicato su Il Corriere della Sera del 4 maggio 1998.
4
per metterle in condizione di competere apertamente sul mercato mondiale. Il punto di arrivo, secondo
List, avrebbe dovuto essere la creazione del libero scambio mondiale, quando tutte le nazioni avessero
raggiunto lo stesso stadio di sviluppo. E occorre osservare che la strategia indicata da List è stata
effettivamente seguita da molti paesi, non solo dalla Germania unificata. Il mercato mondiale che si è
formato verso la fine del secolo XIX è consistito nell'interscambio di merci e capitali tra «economie
nazionali» relativamente indipendenti. Il processo contemporaneo di globalizzazione presenta
caratteristiche del tutto nuove. Lo sviluppo delle imprese multinazionali, della finanza internazionale e la
diffusione mondiale delle moderne tecnologie è tale per cui non è più possibile individuare una base
produttiva nazionale che possa rendersi «indipendente» (al limite, autarchica) dal mercato mondiale, se
non al costo di un drastico ridimensionamento del tenore di vita degli abitanti. L'obiettivo prioritario della
politica economica contemporanea deve dunque essere riformulato in questi termini: «conquistare il
mercato mondiale». Questo non significa ignorare le potenzialità del mercato interno. Significa solo che
per evitare che il mercato interno venga «colonizzato» dalle imprese dei paesi all'avanguardia tecnologica,
è indispensabile competere alla pari sul mercato mondiale. Consideriamo l'esempio delle tecnologie
informatiche. Il governo francese, seguendo fedelmente le indicazioni di List, all'inizio della loro
diffusione aveva cercato di proteggere il mercato interno fornendo ad ogni famiglia francese un terminale
collegato alla rete nazionale (progetto Minitel). Questa strategia ha retto solo pochi anni. La diffusione di
Internet, una tecnologia aperta al mercato globale, ha costretto il governo francese a dichiarare fallito il
piano di Minitel, permettendo ai cittadini e alle imprese francesi di collegarsi liberamente a Internet. Gli
Stati Uniti che sono stati capaci di progettare e diffondere la tecnologia di Internet oggi hanno anche il più
grande numero di siti: il 90% del totale. Conquistando il mercato globale, gli Stati Uniti hanno conquistato
e difeso il loro mercato interno.10
Per l'Unione europea non è difficile tradurre questo orientamento generale in indicazioni più
specifiche di politica economica. Per quanto riguarda la politica monetaria, la BCE dovrebbe cercare di
perseguire la massima stabilità monetaria internazionale in una situazione in cui il dollaro, per ora l'unica
moneta mondiale, verrà ridimensionato, assumendo sempre più il ruolo di una moneta regionale a fianco
dell'euro. L'internazionalizzazione dell'euro avrà successo nella misura in cui la BCE riuscirà a
conquistare la fiducia degli investitori internazionali, attraverso una politica di stabilità dei prezzi interni e
dei cambi.11 Manovre del tipo beggar-thy-neighbour, per facilitare le esportazioni europee, devono essere
evitate. Solo se l'euro diventerà una moneta più solida del dollaro sarà possibile una riforma del sistema
monetario internazionale, di cui vi è urgentemente bisogno, come ha dimostrato la crisi finanziaria
asiatica, perché le istituzioni create a Bretton Woods non sono più in grado di garantire la stabilità
monetaria internazionale.
Più in generale, tuttavia, il governo europeo, nella misura in cui avrà i poteri sufficienti per agire,
dovrà proporsi come obiettivo di mettere l'economia europea nella condizione di raggiungere i livelli di
efficienza e di competitività possibili negli USA, in Giappone e nelle maggiori potenze industriali. Keynes
considerava essenziale che il governo garantisse uno stato di fiducia (state of confidence o, come si dice
nel Piano Delors, business confidence) tale da stimolare gli investimenti. Questa indicazione deve valere
anche per il governo europeo, ma ora il contesto dell'azione è il mercato globale. Si tratta, dunque, di
promuovere non solo investimenti nelle reti transeuropee, come era già previsto nel Piano Delors, ma
anche di stimolare e coordinare la ricerca europea nei settori d'avanguardia, come l'informatica, le
biotecnologie, l'energia e l'aerospaziale.
Paul Krugman ha criticato l'obiettivo della promozione di una maggiore competitività dell'industria
europea contenuta nel Piano Delors, con l'argomento che il concetto di competitività non è applicabile agli
Stati, ma solo alle imprese. In ultima istanza, sostiene Krugman, l'idea di competitività non significa altro
che miglioramento della produttività dell'industria. L'obiettivo è dunque ragionevole, ma deve essere
perseguito indipendentemente da ragioni di politica commerciale internazionale, perché un aumento della
produttività consente di migliorare il livello di vita della popolazione. Se la produttività aumenta in un
paese, non si danneggia necessariamente un paese concorrente. «Se l'economia europea va bene, non
necessariamente ne devono fare le spese gli USA», sostiene Krugman. Il commercio internazionale non è
un gioco a somma zero. Entrambe le parti ne traggono un vantaggio. 12 Il riferimento alla teoria ricardiana
dei vantaggi comparati è evidente e l'argomento di Krugman sembra a prima vista convincente. Ma
10 Sulla capacità del sistema economico statunitense di governare il processo di globalizzazione cfr. M. B.
Zuckerman, «A Second American Century», in Foreign Affairs, N. 77, May/June 1998, pp. 18-31.
11 Sulla internazionalizzazione dell'euro, cfr. European Commission, External Aspects of Economic and Monetary
Union, Brussels, 1997.
12 P. Krugman, Pop Internationalism, Cambridge, Massachussetts, The MIT Press, 1996, p. 9.
5
consideriamo alcuni fatti. Se poniamo pari a 100 l'indice medio di specializzazione dei prodotti ad alta
tecnologia dei paesi dell'OCSE, nel 1992, le industrie del Giappone raggiungono un indice pari a 144 (era
124 nel 1970); quelle degli USA 151 (era 159 nel 1970) e quelle dell'UE solo 82 (era 86 nel 1970). Vi è
dunque un ritardo tecnologico europeo. Il fatto è del resto segnalato da altri indici. Nel 1992, le spese
civili interne per la ricerca e lo sviluppo nelle imprese erano pari all'1,3% del PIL in Europa e all'1,9%
negli USA e in Giappone. Di queste spese, solo il 12,2% in Europa veniva finanziato dalla Stato, mentre
gli USA ne finanziavano il 20% (il Giappone, per contro, ne finanziava solo l'1,2%, ma proteggeva il suo
mercato con altri mezzi). Infine, Il numero di ricercatori ed ingegneri in Europa è di 4 su 1000 persone
attive, negli USA è di 8 e in Giappone di 9.13 La posizione di Krugman è quindi criticabile con gli stessi
argomenti che List usava contro la dottrina classica del libero scambio. E' vero che dal commercio
internazionale entrambe le parti possono trarre un vantaggio, ma i vantaggi comparati riflettono e
perpetuano una situazione in cui vi è un paese con un ambiente più favorevole alla ricerca scientifica e
tecnologica ed uno con una situazione peggiore. Entrambi possono guadagnare dallo scambio, ma il paese
nella situazione peggiore, se non vuole perpetuare la sua condizione di colonia tecnologica, dovrebbe
mettere in atto politiche per raggiungere uno «stadio di sviluppo» più elevato.
Ecco perché l'Unione europea deve promuovere efficaci politiche per conquistare il mercato
mondiale. Se riuscirà in questo intento, allora riuscirà a conseguire anche uno sviluppo sostenuto, duraturo
e di piena occupazione. Tuttavia, a differenza degli Stati Uniti, l'Europa non ha una capacità di governo al
livello federale. Per promuovere una politica economica efficace occorre una «massa critica» di manovra
che attualmente non esiste. In effetti, il bilancio comunitario non può attualmente superare il tetto
dell'1,27% del PIL europeo. Si tratta di una dimensione talmente esigua da lasciare poche speranze a
coloro che auspicano una «politica keynesiana» europea. In media, i bilanci degli Stati membri
dell'Unione europea raggiungono il 48% del PIL nazionale. Il bilancio federale degli USA è pari al 21,5%
del PIL (difesa inclusa).14 Raggiungere una «massa critica» di manovra con un bilancio così modesto può
sembrare un'impresa disperata. Si pensi, solo per avere un punto di riferimento, che recentemente il
governo giapponese ha varato una manovra «keynesiana» di rilancio dell'economia pari a più del 2% del
PIL.15 Puntare su una politica keynesiana europea può dunque sembrare altrettanto realistico che cercare
di andare a piedi sulla luna. Eppure, esiste un sentiero percorribile, per quanto angusto. Si tratta, è vero, di
rafforzare il bilancio europeo, ma solo, come direbbe Archimede, come «punto d'appoggio» per sollevare
l'intera economia europea. Prima di accertare questa possibilità, è tuttavia necessario riconsiderare la
relazione keynesiana fondamentale tra domanda effettiva ed occupazione nel mondo contemporaneo.
Domanda effettiva e Welfare State
La lotta contro la disoccupazione in Europa non può oggi essere combattuta solo sul fronte della
domanda, come ai tempi di Keynes, ma anche su quello dell'offerta. Il Piano Delors in effetti riconosce la
necessità di rendere maggiormente flessibile il mercato del lavoro e di alleggerire gli oneri sociali gravanti
sui lavoratori meno qualificati, per renderne più conveniente l'assunzione. Le analisi che hanno messo a
confronto il mercato del lavoro statunitense con quello europeo mostrano che esistono rigidità in Europa
che vanno eliminate.16 Tuttavia, la politica della flessibilità del mercato del lavoro non può spingersi sino
al punto di abbandonare il modello sociale europeo. Occorre riconoscere, come del resto fa il Piano
Delors, che vi è un limite inferiore alla flessibilità del mercato del lavoro europeo. Gli Stati Uniti tollerano
una grado molto maggiore di diseguaglianza nella distribuzione del reddito. Se il reddito famigliare viene
suddiviso in percentili, la distanza tra il novantesimo percentile ed il decimo è pari a 5.94 negli USA e
3.32 in Europa. Inoltre, negli USA, negli anni Ottanta, le famiglie del decimo percentile hanno visto
declinare il loro reddito del 3.4%, mentre quelle del novantesivo percentile hanno avuto un incremento
medio del 25.4%. A confronto di questa sempre più ineguale distribuzione del reddito negli USA, l'Europa
dimostra di voler difendere un modello più solidale, perché, nonostante le difficoltà economiche, non sono
aumentati considerevolmente i divari tra redditi elevati e redditi più bassi (salvo che in Gran Bretagna).
13 Questi dati sono tratti dal Libro verde sull'innovazione, Bollettino dell'Unione Europea, Supplemento 5/95.
14 Questi dati sono trati dal rapporto «Stable money, sound finances», European Economy, N. 53, Brussels, 1993.
15 Le Monde. Dossiers & Documents, N. 265, mai 1998.
16 Cfr. A. Lindbeck, «The West European Employment Problem», in Weltwirtschaftliches Archiv, 1996, vol. 132 (4),
pp. 609-637; e W. Köster, «Unemployment in Europe: Characteristics and Causes in an International Comparison»,
in S. Urban, Europe in Global Competition, Wiesbaden, Gabler, 1997, pp. 51-75.
6
Infine, il numero degli adulti al di sotto della soglia di povertà è due volte maggiore negli USA che in
Europa, mentre il numero degli adolescenti poveri è cinque volte maggiore. 17
Ma la lotta alla disoccupazione non si può limitare all'adeguamento del mercato del lavoro. Esiste
un problema keynesiano di scarsità di domanda effettiva. Su questo punto Modigliani ha ragione. Il Piano
Delors stesso, d'altro canto, lo riconosce quando ammette che il livello degli investimenti comunitari
dovrebbe salire dal 19% del GDP al 23-24%. Ulteriori indagini riguardanti il confronto tra reddito lordo
potenziale ed effettivo in Europa dimostrano che «cumulativamente, la debolezza relativa della domanda
globale è causa, dal 1992 al 1995, di un eccesso di disoccupazione di 3.1 punti; per il periodo 1992-97 si
arriva a 6.4 punti».18 Si deve dunque ammettere che vi è un problema di domanda effettiva,19 che tuttavia
non può più essere affrontato attraverso i classici metodi keynesiani. Le politiche di deficit spending non
sono più efficaci, specialmente se fatte al livello nazionale, e per di più, con il Patto di stabilità, i paesi
membri dell'Unione si sono vincolati a politiche di bilancio severe, con deficit che possono raggiungere il
3% del PIL solo in casi straordinari. Il governo della domanda effettiva deve dunque essere posto in
relazione con la crisi del Welfare State e con la strategia di conquista del mercato mondiale.
La difesa del Welfare State in Europa incontra difficoltà crescenti perché non è più possibile
conciliare il mantenimento di livelli elevati di vita e di una equa distribuzione del reddito con le esigenze
della crescita e degli investimenti. Il cosiddetto modello fordista di sviluppo è in crisi. Si dice che Ford
fosse favorevole al pagamento di elevati salari ai suoi operai perché si aspettava che ogni lavoratore
acquistasse un'automobile. Ed in verità, la fase consumistica di sviluppo, che ha caratterizzato gli anni
d'oro dell'economia statunitense e di quella europea, sembra confermare questa intuizione. Il keynesismo
si può considerare una teorizzazione del modello fordista di sviluppo. Nella Teoria Generale si trovano
affermazioni che sostengono questo punto di vista: una distribuzione del reddito più favorevole ai salari
accresce la domanda effettiva; una magggiore domanda effettiva stimola gli investimenti; maggiori
investimenti consentono un livello maggiore di produttività e di consumo, ecc. In questa prospettiva, più
elevati salari si accompagnano a maggiori profitti. Ma il modello fordista di sviluppo si autosostiene nella
misura in cui il sistema economico non presenta importanti «perdite» verso l'esterno. La globalizzazione
ha mutato radicalmente il quadro.
Consideriamo gli investimenti, la parte che Keynes riteneva giustamente come la componente più
volatile della domanda effettiva. Oggi il contesto in cui devono agire gli imprenditori è indiscutibilmente il
mercato globale. La World Trade Organisation (WTO) che nel 1994 ha sostituito il GATT, sorto
nell'immediato dopoguerra per facilitare le riduzioni tariffarie, deve gestire compiti del tutto nuovi. Le
tariffe doganali non rappresentano più il principale ostacolo ai commerci ed agli investimenti
internazionali come accadeva nel secolo scorso e ancora in anni recenti. Oggi, il principale compito della
WTO è quello di assicurare che gli investitori internazionali possano contare su regole fiscali, condizioni
di lavoro, standard di consumo e di produzione, ecc. simili tra paese e paese. In effetti, attraverso la WTO
si sta cercando di far scomparire, o di attenuare, le differenze tra mercato interno e internazionale. La
liberalizzazione dei movimenti di capitali, avvenuta a partire dagli anni Settanta, ha consentito una
rapidissima circolazione dei risparmi, raccolti da banche e da fondi di investimento, che sta provocando
una tendenziale riduzione dei differenziali dei tassi di interesse nazionali a livello mondiale.20 Il
perseguimento dello state of confidence non può dunque essere più garantito dalla sola politica nazionale.
Nella funzione dell'efficienza marginale del capitale entrano componenti quali la stabilità monetaria, la
sicurezza dei profitti conseguiti, la legislazione fiscale, le garanzie di moderazione del mercato del lavoro,
ecc. che sfuggono al controllo degli Stati nazionali, in specie se di dimensioni modeste come quelli
europei. In effetti, questa è una delle ragioni per cui i governi nazionali sono costretti a negoziare sempre
più stretti accordi di cooperazione sovranazionale. L'Unione europea è solo la punta più avanzata di un
17 Questi dati sono tratti da T. I. Palley, «Restoring Prosperity: Why the US Model is not the Answer for the United
States or Europe», in Journal of Post Keynesian Economics, Spring 1998, Vol. 20, N. 3, pp. 337-353.
18 F. Heylen, L. Goubert, E. Omey, «L'origine du chömage en Europe: structure de la demande de main-d'oevre ou
problème de demande globale?», in Revue internationale du Travail, vol. 135 (1996), N. 1, pp. 17-38, cit. p. 32.
19 Non vi è accordo tra gli economisti sul fatto che il deficit di domanda effettiva abbia un ruolo rilevante nel
determinare la disoccupazione in Europa (cfr. ad esempio Ch. Bean, «European Unemployment: A survey», in
Journal of Economic Literature, June 1994, pp. 573-619). Tuttavia, anche se il deficit di domanda effettiva dovesse
incidere solo per una frazione modesta sul tasso generale di disoccupazione, occorre riconoscere che una politica di
promozione della domanda effettiva sul fronte della tecnologia d'avanguardia, come si sosterrà in seguito, è
indispensabile per stimolare tutti gli investimenti, anche quelli tradizionali. Oggi, una politica della domanda effettiva
è nel contempo una politica industriale e una strategia di sviluppo.
20 Cfr. «Globalization. Opportunities and Challenges», in IMF,World Economic Outlook, May 1997, pp. 112-116; e
S. Dev Gupta, The Political Economy of Globalization, London, Kluwer Academic Publishers, 1997.
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iceberg. Gli Stati Uniti stessi stanno cercando di tessere, nel quadro più ampio della WTO, accordi
regionali quali il NAFTA, l'APEC e più recentemente un'area di libero scambio delle Americhe,
dall'Alaska alla Terra del Fuoco. La recente visita in Cina del Presidente americano aveva tra i suoi scopi
anche la conquista di quello che sta diventando il più vasto mercato del mondo. Questa è la politica di
promozione della domanda effettiva nell'epoca della globalizzazione.
Dalla globalizzazione della funzione degli investimenti, scaturiscono alcune rilevanti conseguenze
per i paesi dell'Unione europea. Il modello fordista di crescita si è ormai inceppato. Poiché il modello
sociale europeo si è organizzato, a partire dal secolo XIX, al livello nazionale, con la globalizzazione, gli
interessi del capitale e gli interessi del lavoro non sono più coincidenti. Gli imprenditori considerano
sempre più il lavoro come un costo che deve essere ridotto al minimo, poiché il mercato di sbocco della
loro produzione non è più esclusivamente il mercato interno. La difesa del Welfare State diventa pertanto
problematica se condotta solamente al livello nazionale e senza prospettive di una crescita economica
sostenuta. I governi europei sono tenuti al rispetto di condizioni minime di livelli di vita e di benessere
della popolazione. Ma non possono più garantire adeguati livelli di sviluppo e di competitività
internazionale alle proprie imprese. E' su questo fronte che il governo europeo si dimostra indispensabile.
Non si tratta di costruire un Welfare State europeo, ma di garantire attraverso un efficace piano di crescita
dell'economia europea la sopravvivenza dell'Europa della solidarietà. Per questo, i compiti del governo
europeo non si possono limitare allo stimolo della domanda interna, come già prevedeva il Piano Delors.
L'Unione europea deve garantire condizioni di profittabilità ai capitali diretti nell'Est europeo, in Russia e
nel Mediterraneo, per citare solo le regioni contigue all'Europa. Ma non solo. L'Unione deve
salvaguardare i suoi interessi verso gli USA, il Giappone, l'Asia, l'America latina e l'Africa. Seppure con
gradi diversi di intensità, l'Unione europea ha interessi in ogni continente e può salvaguardarli solo
assumendo un ruolo di potenza economica mondiale pari a quello degli USA.
Il moltiplicatore
Il moltiplicatore occupa una posizione strategica nella teoria keynesiana. La teoria del
moltiplicatore si fonda sulla constatazione che un investimento di un certo ammontare provoca un
aumento di reddito pari a k volte l'investimento iniziale. Inoltre, se vi è una data relazione tra reddito e
occupazione, il moltiplicatore del reddito è automaticamente anche un moltiplicatore dell'occupazione. Si
tratta di argomenti decisivi per sostenere una attiva politica dell'occupazione.
Oggi, tuttavia, queste tesi non sembrano più fondate. In primo luogo, non esiste più una
connessione empirica evidente tra investimenti ed occupazione, specialmente nel caso in cui gli
investimenti riguardano tecnologie d'avanguardia che consentono di risparmiare lavoro. Una delle
caratteristiche dell'economia post-industriale è quella della crescita senza occupazione (jobless growth). Il
progresso tecnico consente di introdurre processi automatizzati ovunque e la fabbrica senza operai non è
più una fantasia futurista. In effetti, il settore manifatturiero perde costantemente occupati da decenni in
tutti i paesi industrializzati. In secondo luogo, come si è già detto, la via del finanziamento degli
investimenti pubblici mediante politiche di deficit spending è oggi impraticabile. Scavare buche per terra
per poi riempirle poteva essere una buona ricetta negli anni della grande depressione. Oggi gli
investimenti devono essere produttivi e i bilanci pubblici, nell'era della globalizzazione, non possono più
superare certi livelli di deficit senza sollevare sospetti di insolvenza da parte della finanza internazionale.
In effetti, una politica di deficit spending ha senso solo per economie nazionali chiuse. 21
La questione rilevante, ai nostri fini, è la prima. Oggi, è vero che non esiste più una stretta relazione
tra investimenti e occupazione creata direttamente o indirettamente attraverso il meccanismo keynesiano
della propensione al consumo, ma esiste tuttavia una connessione tra crescita ed occupazione che, seppure
problematica, può consentire di definire le grandi linee di una politica degli investimenti e
dell'occupazione. Il Piano Delors già indica la via. Gli investimenti devono concentrarsi nei settori che
consentono alle industrie europee di accrescere la loro competitività internazionale perché in questo modo
si possono ottenere tutti i vantaggi derivanti da una espansione della produzione, grazie alla conquista
della crescente domanda mondiale. E' vero che la crescita economica nell'età post-industriale è
caratterizata da una contrazione degli occupati nell'industria, ma questa contrazione può essere più che
compensata da un aumento di occupazione nel settore dei servizi, pubblici e privati. La politica degli
investimenti si deve dunque accompagnare ad una politica che faciliti l'espansione dell'occupazione nel
settore dei servizi, come propone in effetti il Piano Delors, con opportuni suggerimenti ai governi
nazionali e locali. Alcuni studi empirici sulle elasticità dell'occupazione rispetto alla produzione per la
21 Ho discusso più a fondo di questi problemi nell'articolo G. Montani, «A European Government of the Economy»,
in The Federalist, N. 3, 1997.
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fase di sviluppo post-industriale confermano queste ipotesi. Sia negli USA che in Europa la crescita senza
creazione di posti di lavoro si è manifestata solo nel settore manifatturiero. Ma se si considera l'economia
nel suo insieme, dunque incluso il settore dei servizi, dove l'intensità occupazionale è maggiore, la crescita
si accompagna alla creazione di posti di lavoro, anche se negli USA, a differenza dell'Europa, la crescita è
più sostenuta e la creazione di posti di lavoro è maggiore. La conclusione di politica economica è pertanto
che «incoraggiare la crescita e gli investimenti nelle tecnologie dell'informazione e delle comunicazioni,
più particolarmente nel settore manifatturiero, rischia di avere effetti limitati sul lavoro diretto, ma può
incoraggiare la crescita economica complessiva e contribuire ad aumentare l'occupazione». 22 Non si tratta
dunque più di investire per creare direttamente occupazione, come era possibile ai tempi di Keynes. Oggi
occorre promuovere investimenti nell'industria d'avanguardia per simolare la crescita e, su questa base,
migliorare con opportune politiche il contenuto occupazionale della crescita, specialmente nel settore dei
servizi. La politica degli investimenti deve dunque perseguire due obiettivi: il miglioramento della
competitività e l'occupazione. E di questi due obiettivi, il primo è strategico. L'occupazione è un risultato
secondario e non automatico.
Una volta accertato il nesso tra investimenti, crescita e occupazione è necessario fare un passo
ulteriore, per tentare di quantificare, anche solo grossolanamente, l'efficacia di un intervento pubblico al
livello europeo. Si possono individuare due tipi di moltiplicatore. Il primo è il moltiplicatore di efficacia
comunitaria che compare nel Rapporto Albert-Ball preparato per il Parlamento europeo nel 1983. In
questo rapporto si dimostra che la spesa pubblica dei governi nazionali è poco efficace nello stimolare la
crescita europea a causa delle «dispersioni» degli effetti moltiplicativi negli altri paesi dell'Unione. Quanto
maggiore è l'apertura di un'economia, tanto maggiore è la dispersione. Ciò significa che un governo
nazionale che voglia stimolare la crescita attraverso la spesa pubblica avrà tutti gli oneri a carico del
proprio bilancio, ma i benefici saranno ottenuti in gran parte dagli altri paesi. Questo effetto di dispersione
naturalmente non cessa con la creazione della moneta unica, perché dipende dal fatto che le aree
amministrative nazionali dell'Unione sono ormai molto integrate tra di loro. Se si scarta la possibilità,
puramente virtuale, della simultaneità di politiche espansive nazionali, non resta che la via di un intervento
del governo europeo. Nel Rapporto Albert-Ball si calcola che un incremento degli investimenti europei
pari all'1% del PIL comunitario genererebbe un incremento del tasso di crescita da 2 a 4 punti maggiore di
quanto si potrebbe ottenere con lo stesso ammontare al livello nazionale. Inoltre, si calcola che un piano di
investimenti pari allo 0,6% del PIL comunitario provocherebbe un aumento del tasso di crescita pari
all'1%.23 Stime più recenti24 confermano questi risultati.
Il secondo moltiplicatore può essere definito come moltiplicatore della spesa. Ci si può fare un'idea
della sua grandezza sulla base delle indicazioni contenute nel Piano Delors. Il programma complessivo di
investimenti era pari a 250 miliardi di ECU entro il 2000 per le reti di trasporto e di energia; di 150
miliardi di ECU per le information highways e di 174 miliardi per i progetti ambientali (in totale 574
billion). Questi investimenti sarebbero stati finanziati sulla base dei principi seguenti: «l'equilibrio
finanziario, deve poter essere garantito in massima parte da investitori privati; la compatibilità con le
finanze pubbliche, gli eventuali interventi degli Stati membri devono attenersi agli orientamenti in materia
di deficit e indebitamento pubblico; la sussidiarietà, la Comunità può intervenire a sostegno degli studi di
fattibilità, garantendo prestiti o agevolando la copertura di tratti non ancora coperti nell'ambito dei progetti
di interesse comune».25 La Comunità avrebbe posto a carico del proprio bilancio 5,3 miliardi di ECU
all'anno per il periodo 1994-99 ed avrebbe chiesto un ammontare di prestiti alla Banca Europea degli
Investimenti, al Fondo Europeo per gli Investimenti e direttamente al mercato finanziario europeo con
l'emissione di Union Bonds sino ad un totale di 20 miliardi all'anno. Se ci limitiamo all'ammontare a
carico del bilancio europeo (5,3 miliardi) si può dunque affermare che il moltiplicatore della spesa sarebbe
pari a 18; se consideriamo l'intero pacchetto finanziario comunitario (20 miliardi di ECU) il moltiplicatore
è 4,8. Naturalmente questi coefficienti possono variare ampiamente a seconda del piano finanziario
ipotizzato. Ma ciò che qui importa rilevare è che se i progetti europei vengono finanziati in parte con fondi
a carico del bilancio europeo e in parte con fondi a carico dei bilanci nazionali e del mercato finanziario si
22 S. Padalino, M. Vivarelli, «L'intensité d'emploi de la croissance économique dans les pays du G7», in Revue
internationale du Travail, vol. 136, N. 2, pp. 205-230; cit. p. 228.
23 Cfr. M. Albert, Un pari pour l'Europe, Seuil, Paris, 1983, p. 66 e p. 88.
24 H. Sterdyniak, E. Fourmann, F. Lerais, H. Delessy, F. Busson, («Lutter contre le chômage de masse en Europe», in
Revue de l'OFCE, n° 48, janvier 1994, pp. 177-236) calcolano sulla base del modello econometrico MIMOSA che un
aumento degli investimenti europei pari all'1% del PIL comunitario provocherebbe un aumento del 2% del tasso di
crescita annuo e una riduzione dell'1% del tasso di disoccupazione corrente (p. 213).
25 Commissione europea, cit., p. 32.
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mette in moto un meccanismo moltiplicatore della spesa, impossibile con piani nazionali «indipendenti».
In verità, la spesa europea è il vero fattore di coordinamento, perché imprime un impulso unidirezionale a
tutta l'economia europea ed alle singole economie nazionali.
In conclusione, si può discutere se l'ammontare di 20 miliardi di ECU all'anno, previsti nel Piano
Delors, pari allo 0,3% del PIL comunitario, rappresenti un impulso iniziale sufficiente per imprimere una
crescita significativa all'economia europea. Forse si trattava di una pretesa eccessiva. Ma è certo che,
anche se l'ammontare richiesto dovessere essere il doppio od il triplo, non si tratterebbe di progetti al di
fuori della portata di un bilancio europeo che comunque resterebbe di dimensioni modeste rispetto ai
bilanci nazionali (in effetti, il Piano Delors non si proponeva di superare il tetto dell'1,27% del PIL
comunitario concordato a Edimburgo con i governi nazionali).
Gli ultimi due tabù
Il Piano Delors è fallito non perché non sia riuscito a provocare gli effetti sperati di crescita e di
riduzione del tasso di disoccupazione. E' fallito perché non è mai stato realizzato a causa
dell'ostruzionismo dei governi nazionali. Si tratta dunque di individuare quali sono i poteri che mancano
attualmente alla Commissione europea per agire efficacemente sul fronte della lotta alla disoccupazione. Il
primo potere riguarda la capacità di spesa. In effetti, dopo la creazione dell'Unione monetaria è urgente
definire quali sono i poteri di bilancio necessari per governare l'economia europea. Il secondo problema,
riguarda la complementarietà tra industria d'avanguardia e politica estera e della sicurezza. Una delle
cause indirette del sottosviluppo tecnologico europeo dipende proprio dal fatto che alcune risorse non
vengono messe in comune perché esistono «santuari» nazionali da proteggere.
Il regime del bilancio comunitario si basa sul principio delle «risorse proprie». Si potrebbe dunque
pensare che l'Unione abbia la possibilità di contare su risorse finanziarie autonome, rispetto a quelle degli
Stati membri. La realtà è diversa. In effetti, non esiste un Ministro europeo del Tesoro. La nozione di
risorse proprie è stata definita come «une fausse notion claire»26 perché la procedura per la pianificazione
finanziaria pluriannuale è tale da consentire ai governi nazionali di definire alcuni vincoli invalicabili al
bilancio europeo. In breve, seppure il Parlamento europeo partecipi alla procedura per la redazione del
bilancio, il Consiglio dei ministri si è riservato il potere di fissare il tetto massimo di spesa (attualmente
l'1,27%) rispetto al PIL. Inoltre, le risorse proprie non vengono riscosse direttamente dall'Unione, ma
dagli Stati membri che poi le trasmettono all'Unione, anche quando si tratta di prelievi che
indiscutibilmente non possono essere attribuiti a nessun Stato membro, come ad esempio i dazi doganali
dopo la creazione della tariffa esterna comune. Questa procedura genera conseguenze politiche rilevanti e
nefaste. Diventa infatti inevitabile che si instauri una sub-contabilità nazionale delle «risorse proprie»
secondo la quale ogni paese pretende un «giusto ritorno». Infine, l'Unione non può emettere debito
pubblico, a differenza di quanto fanno i governi nazionali e locali e qualsiasi impresa privata.
Questi vincoli impediscono di fatto alla Commissione di godere dei poteri necessari per agire come
un vero governo federale per quanto riguarda la politica economica. La discussione che è sorta intorno
all'introduzione della quinta risorsa è significativa. Alcuni propongono una percentuale europea dell'IVA,
oppure una ecotassa, per ridurre l'inquinamento e favorire l'occupazione, altri propongono una imposta
sulle società oppure una frazione della imposta personale sul reddito. Secondo la Commissione europea
una vera risorsa comunitaria dovrebbe avere «un legame diretto e chiaramente visibile con il
contribuente»; inoltre «la nuova risorsa dovrebbe essere connessa ad una politica comune in cui la
Comunità giochi un ruolo ben identificato e riconosciuto».27 In definitiva, l'Unione europea dovrebbe
poter riscuotere direttamente dai cittadini le risorse necessarie per finanziare le sue politiche. Solo in
questo modo si creerebbe una responsabilità politica piena del governo europeo e del Parlamento europeo:
essi dovrebbero infatti rispondere di fronte all'opinione pubblica dell'efficacia della spesa comunitaria.
Inoltre, non ha senso il divieto assoluto al ricorso al debito pubblico. E' necessario un patto costituzionale
europeo che, come il Patto di stabilità, fissi i vincoli di indebitamento che devono essere rispettati al
livello europeo. Ma non si capisce perché, se i governi nazionali possono ricorrere all'indebitamento,
altrettanto non possa fare il governo europeo (ed in effetti, il Piano Delors è stato bloccato anche dal
divieto di emissione degli Union Bonds).
L'obiezione che più spesso si sente ripetere ad un riconoscimento della sovranità europea anche in
materia fiscale è che i cittadini devono già pagare imposte al livello locale e nazionale e pertanto non
accetterebbero di buon grado una ulteriore imposizione europea. Con questa argomentazione si vuole in
26 N-J Brehon, Le budget de l'Europe, Paris, LGDJ, 1997, p. 90.
27 N-J Brehon, Le budget de l'Europe, cit., pp. 216-7.
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effetti suggerire che la fiscalità europea sarebbe un'inutile doppione della fiscalità nazionale. Questo
argomento è falso. Il problema era già stato sollevato, nei medesimi termini, in occasione della ratifica
della Costituzione americana. Anche allora vi era chi sosteneva l'accusa di una doppia tassazione.
L'efficace riposta di Hamilton è stata che «i fabbisogni dell'Unione devono essere soddisfatti in un modo o
nell'altro; se lo sono dal governo federale, non saranno a carico del governo dello Stato. La quantità di
tasse che deve essere pagata dalla comunità sarà la stessa in entrambi i casi».28 Questa osservazione di
Hamilton è cruciale. Il solo problema rilevante riguarda la decisione, sulla base del principio di
sussidiarietà, di quale sia il livello di governo più appropriato per una certa politica. In effetti, si può
andare oltre l'osservazione di Hamilton e sostenere che il federalismo riduce complessivamente il carico
fiscale del cittadino, perché consente di assegnare le risorse a quel livello di governo che può realizzare la
spesa nel modo più efficiente. Questa possibilità, evidentemente, non esiste in uno Stato centralizzato. Per
quanto riguarda l'Unione europea è facile osservare che la mancata realizzazione del Piano Delors ha
provocato un accrescimento della pressione fiscale nazionale, perché il problema della disoccupazione ha
un doppio costo: una mancata produzione potenziale ed un aggravamento dei deficit di bilancio nazionali
per i maggiori oneri di sostegno ai disoccupati. Nel Rapporto Albert-Ball si osserva, in effetti, che un
aumento della crescita dell'1% del PIL europeo provoca una riduzione dei deficit pubblici nazionali dello
0,2-0,3% del PIL.29
L'ultimo problema da discutere è la relazione tra euro, bilancio europeo e politica estera e della
sicurezza. La prima osservazione da fare in proposito è che, quando l'euro diventerà una moneta
internazionale, l'Unione non potrà più lasciare la responsabilità della soluzione di crisi internazionali
gravi, come quella asiatica, quasi interamente sulle spalle degli USA e del FMI. Un ruolo dell'euro come
moneta mondiale comporta anche l'assunzione di responsabilità globali da parte dell'Unione. E questa
responsabilità si deve naturalmente tradurre in maggiori impegni di bilancio per quanto riguarda la politica
estera e della sicurezza. Non è certo qui il caso di affrontare questo problema nei dettagli. E' tuttavia
necessario mettere in evidenza l'effetto nefasto giocato dalla conservazione di politiche nazionali di difesa
sullo sviluppo dell'economia europea e sull'occupazione. Per quanto riguarda il settore della difesa non
valgono le osservazioni fatte in precedenza sulla relazione tra domanda effettiva e mercato globale. Poiché
nel settore della difesa la sola domanda effettiva certa è quella nazionale, la dimensione del mercato è
nazionale e resterà nazionale sino a che non esisterà una difesa europea. Ciò provoca gravissime
conseguenze anche per quanto riguarda lo sviluppo di alcuni settori strategici sia per l'industria civile che
militare (a causa delle cosiddette dual-use technologies). Il caso dell'industria aerospaziale è significativo.
Gli USA detengono una quota pari al 58% del mercato aerospaziale mondiale, contro una quota europea
del 29%. La ragione di questo fatto è la frammentazione nazionale del mercato europeo. Il mercato degli
armamenti non può funzionare come il mercato degli elettrodomestici. Anche le maggiori compagnie
aerospaziali europee, come British Aerospace, Aerospatiale e Daimler-Benz Aerospace non raggiungono
che un quarto o un quinto della dimensione dei maggiori concorrenti negli USA. La recente fusione tra
Boeing e McDonnel Douglas ha tra le sue motivazioni anche quella di ottenere maggiori finanziamenti per
la ricerca, che non sarebbero possibili (secondo le regole della WTO) per una industria dedicata
completamente al settore civile. Il governo americano sostiene per spese di ricerca e sviluppo nel settore
militare un ammontare di circa quattro volte quanto spendono i governi europei insieme. Il risultato è
naturalmente che il mercato mondiale degli armamenti è praticamente dominato dagli USA. Negli anni
1992-96 le commesse per aerei da combattimento sono state così distribuite: 80% agli USA; 15-20% a
produttori europei. Questa sudditanza dell'industria militare europea si ripercuote pesantemente sul settore
civile. Oggi il settore delle telecomunicazioni si può sviluppare solo in stretta congiunzione alla politica
spaziale, perché i satelliti sono diventati un veicolo essenziale dei messaggi via etere. Ebbene, le industrie
europee occupano solo il 5% del mercato mondiale delle attrezzature terrestri e il 20-25% per quanto
riguarda i satelliti.30 Non si può dunque fare a meno di condividere le conclusioni della Commissione
quando osserva che il futuro «dell'industria aerospaziale europea nel prossimo secolo dipenderà non solo
dalla concezione dell'industria aerospaziale, ma dell'Europa; tuttavia il tempo non gioca a favore
dell'Europa». Se l'Europa non riuscirà a fare, per quanto riguarda la difesa, ciò che ha fatto per la moneta,
l'obiettivo di raggiungere un livello di sviluppo economico e tecnologico pari a quello degli USA dovrà
essere abbandonato. Come per la moneta, anche per la difesa non vi sono soluzioni intermedie: la difesa o
28 A. Hamilton, J. Madison, J. Jay, The Federalist, New York, McLean, 1788, Essay XXXVI; trad. it, Il Federalista,
Bologna, Il Mulino, 1998, p. 352.
29 M. Albert, Un pari pour l'Europe, cit., p. 89.
30 Questi dati sono tratti dalla Comunicazione della Commissione europea, The European Aerospace Industry:
Meeting the Global Challange, COM (97) 466, Brussels, settembre 1997.
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è europea o è nazionale. Si tratta di scegliere tra l'unità e la divisione, non di integrare le industrie
nazionali.
Conclusioni
La discussione sul problema della disoccupazione in Europa ha mostrato strette connessioni con il
problema politico centrale: la costruzione di un efficace governo europeo. E, a sua volta, il tentativo di
definire i poteri del governo europeo per quanto riguarda l'economia ha messo in evidenza strette
connessioni con il problema della sicurezza e della politica estera. In breve, l'Unione europea è ormai alle
soglie di un decisivo salto di qualità politico-istituzionale. Se compirà questa scelta, non cambierà solo il
destino degli europei ma quello del mondo intero, perché l'Unione europea è una potenza comparabile a
quella degli USA e ben superiore a quella del Giappone e della Russia, salvo il potenziale nucleare.
Questa potenza può essere messa al servizio della costruzione di un nuovo ordine internazionale più giusto
e pacifico a patto che i cittadini europei lo vogliano. Il mondo unipolare, ereditato dalla guerra fredda, è
sempre più instabile e insicuro. La crisi finanziaria e la proliferazione nucleare in Asia dimostrano che la
globalizzazione è un velo sottile che può spezzarsi in ogni istante, con conseguenze drammatiche, come è
avvenuto per il sistema internazionale tra le due guerre mondiali. E' interesse vitale dell'Unione europea
che ciò non avvenga.
Infine, va sottolineato il rapporto tra sviluppo della teoria economica e costruzione di un governo
federale sovranazionale. L'economia politica è nata come scienza dell'amministrazione dello Stato
nazionale. Nel corso dei secoli, si è sviluppata senza mettere in discussione questo postulato. Il liberalismo
ha elaborato strumenti concettuali e precetti di politica economica per lo Stato nazionale. Il socialismo, in
polemica con il liberalismo, ha fatto altrettanto. L'economia internazionale si è formata e sviluppata solo
per discutere i rapporti tra Stati nazionali, come fossero cittadelle assediate che abbassano il ponte
levatoio solo per scambiare le sussistenze. Lo studio dell'economia dell'Unione europea richiede che
vanga superata la nozione di Stato nazionale sovrano. Non esiste un'economia sovranazionale senza uno
Stato sovranazionale. L'economia europea si è costruita attraverso la trasformazione del mercato europeo
da mercato internazionale a mercato interno. Ma l'Unione non è e non diventerà uno Stato centralizzato.
Lo studio dell'economia europea riguarda dunque i rapporti tra differenti livelli di governo, dai governi
locali a quello europeo, che devono agire come organi indipendenti e coordinati tra di loro. Nella misura
in cui si approfondirà lo studio di questa nuova realtà politica ed economica si comprenderà anche meglio
la natura delle organizzazioni internazionali, come l'ONU, il FMI e la WTO che sono sorte solo per la
necessità di coordinare l'azione degli Stati sovrani, ma sono del tutto prive dei poteri sovranazionali
necessari per agire con efficacia. Se verrà rinnovata su questa base, la scienza economica potrà aiutare
l'umanità a costruire un secolo XXI meno ingiusto e sanguinario di quello che sta per chiudersi.
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