num 8

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etica in modelli storici TU 2009
Nietzsche Freud
incontro 8
Nietzsche
Freud
L’etica in analisi
Nietzsche - genealogia della morale e trasvalutazione
(1844-1900)
1. Un compito
L’opera di Friedrich Nietzsche, come lui stesso affermava in Umano, troppo umano, viene
interpretata sin dal primo apparire come una scuola del sospetto, del sovvertimento, dell’audacia.
Nel disprezzo di Nietzsche per le più consolidate tradizioni, nella sua diffidenza per norme e valori
accreditati, i contemporanei vedono l’esercizio di un provocatorio, dissacrante, ma coraggioso
sospetto che si propone di smascherare l’origine «umana, troppo umana» dei falsi mondi ideali della
filosofia, della morale, della religione, della scienza, della storia.
Ciò che però i contemporanei non possono comprendere, confessa orgogliosamente Nietzsche, è il
profondo rivolgimento che la sua critica è destinata a produrre, «una crisi come non ve ne furono
mai sulla terra»; il suo proposito di smascherare i bisogni da cui nascono la fiducia nella scienza e
nel progresso, la speranza nell’aldilà e in Dio, l’assegnamento sulla storia, potrà essere compreso e
condiviso solo dai posteri (Nietzsche non esita a definirsi un autore «postumo», che si occupa di
problemi «inattuali»): il «gregge venerante» dei suoi contemporanei non è in grado di comprendere
e approvare un’opera di demolizione e liberazione che non ha avuto eguali nella storia.
1.1. il coraggio analitico e teoretico del sospetto (tra i “maestri del sospetto” P. Ricoeur)
«I miei scritti sono stati definiti una scuola del sospetto, anzi del disprezzo, ma fortunatamente
anche del coraggio, anzi dell’audacia. In effetti, io credo che nessuno abbia mai guardato nel mondo
con un sospetto altrettanto profondo, e non solo come occasionale avvocato del diavolo, ma, per
dirla in termini teologici, anche come accusatore e nemico di Dio.» (Umano troppo umano)
1.2. il compito etico del nichilismo
«Non siamo, appunto con ciò, incorsi nel sospetto di un’opposizione, un’opposizione fra il mondo
in cui siamo stati fino a oggi di casa con le nostre venerazioni — per amor delle quali, forse,
sopportavamo di vivere — e un altro mondo, che noi stessi siamo: in un sospetto implacabile,
radicale, estremo circa noi stessi, che tiene noi europei sempre di più, sempre più duramente, in sua
balia, e che facilmente potrebbe porre le generazioni venture dinanzi a uno spaventoso aut-aut: «O
cancellate le vostre venerazioni oppure voi stessi»? Quest’ultima cosa sarebbe il nichilismo, ma non
sarebbe anche la prima – il nichilismo? Questo è il nostro interrogativo.» (Gaia scienza §346)
Nietzsche è nichilista perché distrugge valori… religione, morale e scienza. In realtà si proclama lui
per primo nichilista (Gaia scienza): quei valori sono nichilisti perché riducono al nulla il vivere,
Nietzsche riduce a nulla il nichilismo della cultura del disprezzo dell’uomo, sono “nichilista che
crea” (solo dal nulla si può creare, creatio ex nihilo; e viceversa “solo come creatori noi possiamo
annientare” - Gaia scienza) Una posizione nichilista, quella del pensiero dominante e,
contemporaneamente, venerante (non troverebbe altrimenti diffusione), che si realizza con la
tecnica e con lo stratagemma del doppio mondo: opporre a questo un altro mondo e da quello
avviare il giudizio, la condanna, la distruzione di questo. Occorre invece un nichilismo da creatori,
del creare dal nulla, che diventa: trasmutazione dei valori.
1.3. la trasmutazione dei valori (trasvalutazione, trasfigurazione)
«Conosco il mio destino. Un giorno il mio nome sarà associato al ricordo di qualcosa di prodigioso,
— a una crisi, come non ve ne furono mai sulla terra, alla più profonda collisione della coscienza, a
un verdetto evocato contro tutto ciò che è stato finora creduto, preteso, santificato. Io non sono un
uomo, sono dinamite. — E con tutto ciò non vi è in me nulla del fondatore di religioni — le
Sergio Gabbiadini
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religioni sono affari per la plebe, io ho bisogno di lavarmi le mani dopo il contatto con uomini
religiosi... Non voglio “credenti”, penso di essere troppo maligno per credere a me stesso, non parlo
mai alle masse... Ho una paura terribile che un giorno mi canonizzino: si indovinerà perché
pubblico prima questo libro, deve impedire che con me si commettano degli eccessi... Non voglio
essere un santo, piuttosto un buffone... Forse sono un buffone… E tuttavia, o piuttosto, non tuttavia
— perché non ci fu niente di più menzognero sinora del santo — per bocca mia parla la verità. —
Ma la mia verità è terribile: poiché finora si è chiamata verità la menzogna. Trasvalutazione di tutti
i valori, questa è la mia formula per un atto di sublime autodeterminazione dell’umanità, che è
divenuto in me carne e genio.» (Ecce homo)
Una trasvalutazione di tutti i valori, questo interrogativo così nero, così enorme, che getta ombre su
colui che lo pone — un tale destino come compito lo costringe ogni attimo a correre nel sole, a
scuotere da sé una pesante serietà, ormai fattasi troppo pesante. Ogni mezzo è buono a questo
scopo, ogni «caso» è un caso fortunato. (Trasvalutazione di tutti i valori)
2. il metodo
2.1. il metodo ermeneutico della genealogia
Per rimuovere la terra e scoprire le radici, sollevare le maschere e liberare il volto nascosto di
Dioniso, Nietzsche si affida alla genealogia: essa muove dai sintomi per spingere la sua attenzione
verso l’origine delle malattie di cui soffre l’umanità; dietro i sintomi cerca il disagio, il bisogno, le
carenze in cui trovano terreno fertile per diffondersi la febbre storica, la malattia morale, la peste
metafisica, il delirio delle fedi. La genealogia nasce dal sospetto che i valori tradizionali non siano
ciò che crediamo, i principi e la fondazione dei sistemi teorici organici della religione, morale,
scienza, storia … ma strumenti per imporre, attraverso di essi, la cultura del comando e della
potenza, del dominio e del disprezzo della vita nella sua prima, autonoma e originaria
manifestazione e creatività. Questo sospetto muove Nietzsche a mettere a nudo le radici del
pensiero dominante in quei sistemi e a ricercarne le origini e la dinamica mediante un lavoro
interpretativo che non si configura come semplice ricostruzione archeologica del passato, ma come
messa a nudo delle radici nascoste e dimenticate delle menzogne «credute e venerate», della «falsità
che dura da millenni».
2.2. Una ricostruzione genealogica per destrutturare. La genealogia delle menzogne: «Dove sta
dunque la loro origine?». Ai filosofi, responsabili di «destoricizzare» gli oggetti su cui verte la loro
ricerca e irrigidire gli strumenti teorici di cui si servono, Nietzsche oppone un proprio metodo di
indagine teso a ricostruire la genealogia dei concetti filosofici. A tale metodo «genealogico»
Nietzsche ricorre spesso per smascherare i processi che hanno condotto all’affermazione dei valori,
della morale, dell’ascetismo. Alla genealogia egli non attribuisce quindi il significato «fondativo»
che, in genere, i metafisici assegnano alla ricerca delle origini; non domanda di portare alla luce il
primo manifestarsi di una qualche entità originaria, di qualche essenza metafisica; al contrario, egli
interpreta la genealogia come lo strumento critico mediante il quale mostrare come si producono i
concetti, esibire i vari modi del loro concreto divenire, tra fraintendimenti, lacune, interpretazioni.
Tracciando la storia degli errori della ragione, ricostruendo la genesi della «mummificazione» dei
concetti, Nietzsche mostra il contraddittorio processo di duplicazione del mondo in cui si sono
espressi il disprezzo della vita e l’incapacità di sentirne la pienezza, propri dei filosofi e ne avvia,
contestualmente, un percorso di demolizione.
2.3. fare filosofia con il martello, «Io non sono un uomo, sono dinamite» (Ecce homo)
L’immagine della caduta delle menzogne, della liberazione dagli errori, ritorna nel titolo di uno
degli scritti più significativi dell’ultimo periodo dell’attività di Nietzsche: Crepuscolo degli idoli
ovvero come si fa filosofia col martello (1888). Così Nietzsche presenta quest’opera in Ecce bomo
(una provocatoria autobiografia composta nello stesso anno): «Questo scritto di neppure
centocinquanta pagine, sereno e fatale nel tono, un demone che ride, l’opera di così pochi giorni che
esito a dire quanti, è l’eccezione tra i libri: non vi è nulla di più ricco di sostanza, di più
indipendente, di più eversivo, di più cattivo. Se ci si vuol fare rapidamente un’idea di come, prima
Sergio Gabbiadini
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di me, tutto fosse capovolto, si inizi con questo libro. Ciò che nel titolo è indicato come “idoli” è
molto semplicemente ciò che sino ad ora è stato chiamato verità. Crepuscolo degli idoli, detto a
chiare lettere: le antiche verità stanno per finire..» Si tratta, come Nietzsche annuncia nella
Prefazione, di «una grande dichiarazione di guerra»: contro la ragione dei filosofi e i suoi errori (la
verità, i concetti, la contrapposizione tra vero e apparente), contro Socrate che per primo ha indicato
nella «razionalità ad ogni costo» il fondamento della «morale del perfezionamento», contro ogni
morale che elevando la rinuncia a norma, impone all’uomo una vita «contronatura», contro i dotti
tedeschi e le loro istituzioni scolastiche, contro l’ideale di perfezione che si è imposto nell’età
classica soffocando la libera volontà dionisiaca di vivere. Nietzsche vibra sugli idoli un colpo di
martello che ha lo scopo di far risuonare quel «suono cavo», quel vuoto che i filosofi celano con le
loro parole, i loro concetti, le loro verità.
3. il piano
3.1. aforismi per la filosofia della liberazione. Interrogativi, enigmi, aforismi. «Noi per nascita
divinatori d’enigmi»
3.1.1. Nietzsche rifiuta di servirsi delle tradizionali forme del testo filosofico (come il trattato, la
lezione, il saggio) vedendo nell’esposizione ordinata, organica, argomentata l’espressione di un
sapere dogmatico, pietrificato; non a caso nella forma del trattato sono scritte le opere di metafisica,
scienza, morale che i dotti destinano al «gregge degli animali veneranti». Allo spirito libero cui
Nietzsche si rivolge si addicono invece la frammentarietà e l’essenzialità dell’aforisma,
l’inquietudine dell’interrogativo, l’ambiguità dell’enigma. Queste forme paiono imporsi
naturalmente alla sua filosofia, che esige modi espressivi capaci di rompere i rigidi schemi della
razionalità ottocentesca per dare spazio al dubbio, alla meraviglia, all’irrisione, all’invettiva. La
scelta aforistica, adottata nella Gaia scienza, consente in particolare a Nietzsche di abbandonare
l’unicità e l’assolutezza della prospettiva di indagine assunta dai precedenti sistemi filosofici (lo
spirito nell’idealismo, i rapporti economici nel marxismo, la scienza nel positivismo sono intesi
come principi esplicativi totali a cui viene ricondotto ogni fenomeno) e di assumere molteplici punti
di vista, riprendendo da diverse angolature gli stessi temi. Il procedere aforistico, volutamente
sganciato da strutture di sistema ma teso a demolire ostacoli, smontare pregiudizi, aprire varchi,
indicare e iniziare strade… è uno stile che impone la sola lettura delle opere come modo per
avvicinare Nietzsche e impedisce una riconduzione delle sue affermazioni a piani di sistematicità
teoretica, filosofica (magari manualistica).
3.1.2. la forma diventa una prassi filosofica particolare; nell’aforisma (nella forma) è contenuto uno
specifico impegno filosofico. La filosofia nella forma dell’aforisma (della sentenza, della massima,
del frammento) è una filosofia che non si accontenta di lettori attenti, vuole lettori che assumano il
coraggio della interpretazione e quindi dell’analisi genealogica e del “fare filosofia con il martello”.
Nella Genealogia della morale (1887) Nietzsche stesso indica il modo in cui si dovrebbe leggere un
aforisma: «In altri casi la forma aforistica presenta delle difficoltà ... un aforisma, modellato e fuso
con vigore, per il fatto che viene letto non è ancora ‘decifrato’; deve invece prendere inizio, a
questo punto, la sua interpretazione, per cui occorre un’arte dell’interpretazione.» Il complesso
gioco di significati sottintesi e di allusioni, di illuminazioni folgoranti e di ardite metafore, nonché
una certa dose di freddo argomentare, rendono l’aforisma di Nietzsche di ardua lettura e richiede il
coraggio dell’interpretazione, resta perennemente un testo aperto, richiede la pacatezza e la
lentezza dell’ascolto.
3.1.3. una riflessione di Bonhoeffer sul tema del frammento (una anticipazione poi ripresa): scrive
Bonhoeffer: « Ci sono poi frammenti che […] restano significativi attraverso i secoli, perché il loro
completamento può essere solo affare di Dio, cioè frammenti che devono essere frammenti —
penso ad esempio all’Arte della fuga. Se la nostra vita rispecchia anche solo da lontano un
frammento di questo tipo, nel quale i diversi temi che si aggiungono sempre più numerosi si
armonizzano almeno per un breve istante, e nel quale il grande contrappunto viene mantenuto
stabilmente dall’inizio alla fine, sicché poi, dopo l’interruzione, al massimo si può intonare ancora il
Sergio Gabbiadini
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corale “Così mi avanzo davanti al tuo trono” — allora non dovremo lamentarci neppure della nostra
vita frammentaria, ma dovremo anzi esserne contenti.» (Resistenza e Resa).
3.2. direzioni e costanti di temi e di metodo
3.2.1. possibilità di costanti tematiche e direzioni. Di fronte ad un procedere aforistico è
inopportuno ricostruire grandi disegni di sistema, ma di fronte a testi aforistici di così vasta
ampiezza (e di fronte alla insopprimibile esigenza di orientamento e comprensione a cui il lettore
continua a restare vincolato) si possono cogliere ed evidenziare nei testi di Nietzsche il ricorrere di
temi e alcune costanti o dominanti di metodo.
3.2.2. i campi dell’indagine. Partito dall’interesse per la filologia classica (La nascita della tragedia
1871), il campo dei suoi interessi si allarga alla religione, al cristianesimo, alla morale, alla
conoscenza scientifica, alla storia, all’arte. È proprio dal percorso in tutti questi campi che la
filosofia di Nietzsche va sempre più definendosi come strumento di liberazione: dalla idealizzazione
del passato professata dagli storici; dallo sdoppiamento, introdotto dai filosofi, tra mondo superiore
delle pure verità eterne e mondo svalutato della realtà materiale; dalla servitù, imposta dai sistemi
morali e dalle religioni; dai principi della rinuncia, dell’umiliazione, dell’obbedienza. La critica
«bellicosa» condotta da Nietzsche non risparmia alcuno dei valori che le filosofie ottocentesche
avevano posto al centro della loro riflessione. Ciascuna di esse è la manifestazione di un disagio, di
una debolezza dell’umanità: con l’occhio attento del clinico, Nietzsche interpreta i sintomi e risale
all’origine della «mostruosa malattia della volontà» che affligge l’umanità.
4. genealogia della morale
Sempre più convinto che il suo primo compito sia quello di «preparare un momento di
autocoscienza dell’umanità, un grande mezzogiorno» che riveli finalmente quale auto inganno si
celi dietro i valori morali, Nietzsche getta il suo sguardo diffidente sulla morale filosofica e
religiosa, sui valori ascetici che essa ha imposto all’uomo. In due scritti, cui lavora tra il 1886 e il
1887 e pubblica con i significativi titoli Al di là del bene e del male e Genealogia della morale,
smaschera gli ignobili sentimenti, gli impulsi meschini che sono all’origine della morale: la
santificazione della rinuncia e della sofferenza, la glorificazione dell’umiltà e del sacrificio, cui
invitano le morali di ogni tempo, nascono dal risentimento di tutti quelli che, incapaci di «dire di sì»
alla vita, trasformano la loro impotenza in regola aurea. È dunque da un istinto vendicativo, proprio
degli «schiavi», dei «malriusciti» che è sorta l’idea di una morale che, con le sue tavole di valori,
impone a tutti gli uomini quell’esistenza contronatura propria degli emarginati.
Sintomo di una patologica incapacità di vivere, la morale si è imposta nelle filosofie e nelle
religioni senza che nessuno abbia mai osato metterne in dubbio il valore, mostrarne l’origine
«umana, troppo umana»; sacerdoti e filosofi, vittime della stessa impotenza, hanno dibattuto sulla
definizione dei valori, ma non hanno dubitato della loro opportunità. Frutto di questa ingenua
fiducia negli ideali morali sono i sensi di colpa, di peccato, di rimorso nei quali l’animo dell’uomo
si tormenta, infelice ma fiducioso nel riscatto che gli è promesso nell’aldilà.
4.1. il tema Un esame critico delle morali occidentali: analisi della morale in sé, nei suoi elementi
invarianti (bene e male, valore e giudizio, merito e colpa, premio e pena), nella tecniche della
propria legittimazione (l'origine degli elementi che la compongono, l'autogiustificazione, la
reiterazione). Con l’obiettivo di smascherare e smontare la morale mettendone a nudo le radici
occulte, i meccanismi ricorrenti, la funzione “stravolgente” repressiva svolta dalla morale
dominante.
«in quali condizioni l'uomo si è inventato quei giudizi di valore: buono e cattivo? e che valore
hanno essi stessi? fino a oggi hanno ostacolato o promosso la prosperità del genere umano? sono
segno di uno stato di necessità, di immiserimento, di degenerazione della vita? o invece in essi si
tradisce la pienezza, la forza, la volontà della vita, il suo coraggio, la sua certezza, il suo futuro?»
(Genealogia della morale, pref. 3)
Sergio Gabbiadini
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4.2. il metodo Una critica genealogica che è analisi storica, studio delle traslazioni e dei
ribaltamenti attraverso un’ermeneutica linguistica e fattuale.
«abbiamo bisogno di una critica dei valori morali, di porre in questione finalmente proprio il valore
di questi valori, e per fare ciò abbiamo bisogno di una conoscenza delle condizioni e delle
circostanze da cui sono stati prodotti, in cui si sono sviluppati e modificati, conoscenza che fino a
oggi non solo non è esistita, ma non è stata nemmeno mai auspicata (pref. 6). Qualcuno vuole forse
sondare un po' il mistero delle modalità con cui sulla terra si fabbricano gli ideali? chi ne ha il
coraggio? (I,14 [modalità adottata per le citazioni dalla Geneaologia della morale]). Ogni concetto,
in cui si concentri semioticamente tutto un processo, si sottrae alla definizione; è definibile solo ciò
che non ha storia (II,13)».
4.3. le strade della genesi della morale scoperte e indicate dall’analisi critica genealogica.
La tecnica dei molti punti di vista, la scoperta e la presentazione delle molte ipotesi di genealogia
della morale.
4.3.1. una genesi storica sociale (e psicologica)
4.3.1.1. la morale nasce da un capovolgimento storico: la morale dei vincitori, degli aristocratici
(istinto, passione, orgoglio, forza, pienezza, crudeltà, violenza) è stata sconfitta dalla morale dei
vinti, degli schiavi (sconfitta, sofferenza, sacrificio, dedizione, obbedienza, morte) quando questa è
diventata numero, gregge, massa. La debolezza è salita al cielo delle virtù, così come la povertà,
l’umiltà, la sofferenza, il sacrificio, l’autopunizione, la compassione, l’agape … tutte virtù del
disprezzo dell’uomo, accompagnate da risentimento e autodifesa dei deboli (schiavi,gregge). Viene
messa in atto quella logica secondo la quale il debole cerca di dominare il forte tentando di
indebolirlo con la compassione. In realtà quando questa morale vince e domina, mistifica e crea il
sospetto e l’odio (e una nuova forma di compassionevole violenza, di dominio e possesso in nome
del servizio e della carità). La solida reputazione etica di cui siamo fatti oggetto coincide con il
nostro essere diventati un buon strumento (Gaia scienza § 296); «I nostri doveri sono i diritti degli
altri su di noi » (Aurora § 112); «per lo più siamo per tutta la vita i giullari di giudizi infantili
incarnati nell’abitudine» (Aurora § 140).
«Quelli che fin dall'inizio sono stati colpiti dalla sventura, i prostrati, i distrutti,i più deboli, sono
quelli che più degli altri minano la vita tra gli uomini, che avvelenano e problematizzano, nella
maniera più pericolosa, la nostra fede nella vita, nell'uomo, in noi stessi.» (III,14)
4.3.1.2. Alla radice di questo capovolgimento: il risentimento. «Da Nietzsche in poi, in particolare
da La genealogia della morale del 1887, la parola ha acquisito il significato che siamo soliti
attribuirle oggi: un desiderio di vendetta inappagato che si radica negli strati più profondi della
personalità. Il filosofo tedesco ha posto al centro delle trasformazioni istituzionali e culturali della
modernità l’azione creatrice della vendetta immaginaria, assumendola come strumento teorico
privilegiato per comprendere le dinamiche in corso nell’era moderna. Scrive Nietzsche: «La rivolta
degli schiavi nel campo della morale comincia col fatto che il ressentiment stesso diventa creativo e
genera valori; il ressentiment di quei tali a cui la vera reazione, quella dell’azione, è negata e che si
consolano soltanto attraverso una vendetta immaginari». Nietzsche lega il risentimento direttamente
alle dinamiche della vendetta, nello specifico all’impossibilità della sua piena realizzazione e ai
dispositivi sociali che ne regolano il funzionamento. La rivolta degli “schiavi” per Nietzsche ha
comportato un vero e proprio rovesciamento delle configurazioni di idee e valori del passato.
L’aspetto più creativo di una simile rivolta, secondo Nietzsche, risiederebbe nel fatto che essa ha
assunto le forme secolarizzate della democrazia e del socialismo, i cui fondamenti etici sarebbero
radicati nella tradizione giudaico-cristiana. I principi e i valori diffusi dal messaggio evangelico
avrebbero operato un capovolgimento della morale aristocratica ed elitaria precristiana, nel
presentarsi come rivincita di tutti coloro che non sono in grado di affermarsi con le proprie forze,
ma che attraverso l’adesione al cristianesimo possono aspirare alla vittoria sul “malvagio nemico”».
(Tomelleri Stefano 2009 Identità e gerarchia. Per una sociologia del risentimento, Carocci, Roma
p.23-24)
4.3.2. una genesi strategica psicologico-pubblicitaria presentata in quattro dinamiche
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4.3.2.1. la forza e la nascita della morale deriva da un capovolgimento: essa presenta valori che
danno certezza (di azione e di giudizio), in realtà è accaduto il contrario: la morale afferra il
“l’anelito di certezza” (Gaia scienza § 347) che l’uomo esprime e forgia risposte adatte e funzionali
(variabili non a caso nelle varie epoche) basta che abbiano i tratti dell’incondizionato, necessari al
loro ruolo; sono infatti prodotti sulla base del bisogno.
4.3.2.2. il sommo valore degli enunciati/sentenze/massime morali (religiose, politiche) non risiede
nei loro contenuti ma nelle cerimonie e nei modi solenni della loro enunciazione, nella credulità e
nel timore che tali riti di fondazione, con il loro carico di simboli e di cerimonie solenni, sono in
grado di generare, nel pathos e nella gravità della sua predicazione ed enunciazione
4.3.2.3. una coercizione che fa appello al pensiero, come proprio dell’uomo, mentre ne annulla
l’autonomia: l'uomo non è un animale dominabile con la sola coercizione fisica, egli pensa; chi
intende possedere l'uomo deve raggiungerlo fino al pensiero; occorre analizzare le funzioni
psichiche di cui la morale si avvale: la memoria, la ragione (fonti di mediazione e regola), l'istinto
gregario (gli exempla). Si tratta di usare la ragione e la memoria (con arte retorico-pubblicitaria di
convinzione) per creare l’istinto: un istinto di consenso e sottomissione proclamato con ragione e
memoria.
«…non esiste niente di più terribile e misterioso della mnemotecnica … questa è la lunga storia
della origine della responsabilità. Quel compito di allevare un animale cui sia concesso promettere,
include l'impegno più diretto di rendere l'uomo necessario, uniforme, uguale tra gli uguali,
conforme alla regola e di conseguenza prevedibile». (II,3,1).
4.3.2.4. l’autoalimentarsi del circolo debolezza – morale: è la debolezza («l’istinto della
debolezza») a far sorgere la morale e la morale alimenta i valori della debolezza (sudditanza,
ubbidienza, rispetto, dipendenza…)
4.3.3. una genesi economico-giuridica: la morale deriva la propria logica dalla natura
costitutivamente "valutante" dell'uomo: la colpa crea il debito, il risarcimento comporta la pena, il
danno vuole la punizione.
«In questa sfera, nel diritto delle obbligazioni, dunque, ha il suo primo focolare il mondo dei
concetti morali di colpa, coscienza, sacralità del dovere.» (II,6)
4.3.4. una genesi linguistica (ermeneutica): le connessioni linguistiche dominanti e diffuse
chiamano a raccolta il mondo dei valori morali fissando legami destinati a imporsi come senso
comune. Sulla premessa che l’origine della lingua è espressione di chi è al potere (I,2). Il termine
buono indica il nobile, guerriero aristocratico; il cattivo indica l’infimo, il volgare, il plebeo.
«L'indicazione della via giusta mi è stata offerta dal problema di ciò che le definizioni di buono,
coniate dalle diverse lingue, debbano realmente significare dal punto di vista etimologico, e così ho
scoperto che esse conducono tutte alla stessa metamorfosi concettuale; che dovunque 'aristocratico',
'nobile', nel senso di condizione sociale, sono i concetti fondamentali da cui discende
necessariamente il concetto di 'buono'...»(I,4)
4.3.5. una genesi religiosa: la morale è il modo con cui la religione sopravvive alla morte di Dio;
anche dopo la morte di Dio (in un mondo che si definisce ateo) persistono valori, principi, regole
cui viene attribuito il carattere dell’assoluto e della certezza; e, come la religione, la morale resta
una prassi che ruota sui concetti del sospetto (disprezzo, condanna e risentimento), della redenzione
(ascesi e salvezza).
«Si potrebbe definire il cristianesimo, in modo particolare, come la grande tesoreria dei più
spirituali mezzi di conforto, tanta consolazione, pietà, narcotizzazione si accumulano in esso...
Quella insoddisfazione dominante si combatte in primo luogo con mezzi che riducono il senso della
vita in generale a livello infimo.» (III,17)
4.3.6. una genesi epistemologica: la scienza è il luogo moderno, in apparente veste laica, dell'idea
ascetica e teologica della verità e dell’assoluto; essa, più o meno consapevolmente, ricava
dall’ambito religioso e morale il metodo della causalità (necessità), la volontà di verità e di assoluto.
«Dio...nascosto dietro la grande trama a traliccio della causalità (III,9). A partire dal momento in cui
la fede nel Dio dell'ideale ascetico viene negata, si crea anche un nuovo problema: quello del valore
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della verità. La volontà di verità ha bisogno di una critica - con ciò definiamo il nostro proprio
compito.» (III,24)
4.3.7. genealogia della morale è, in sintesi unitaria e in forma di “sostanza”, genealogia della
coscienza e della sua variante metafisica, l’anima. Gli atteggiamenti molteplici e contrastanti,
individuali e collettivi storici, prendono il nome unico di “coscienza”, si sostanzializzano e danno
vita ed esistenza ad una sede unica di moralità: la coscienza morale, l’anima. Inizia da qui una
costruzione e spiegazione circolare secondo causalità reciproca: l’analisi morale si esprime
attraverso un continuo rapporto reciproco di causa ed effetto tra coscienza, da una parte, che si
manifesta negli atteggiamenti morali diversi e contrastanti di risentimento, disprezzo, dominio,
debolezza, paura, snaturamento… di cui è causa e, dall’altra, l’insieme dei molti atteggiamenti
morali che generano formano e definiscono (sono causa) la coscienza morale e l’anima.
«Tutti gli istinti che non si scaricano all'esterno, si rivolgono all'interno - questo è quello che io
chiamo interiorizzazione dell'uomo: solo così si sviluppa nell'uomo quella cosa che più tardi
riceverà il nome di anima. Tutto il mondo interiore, all'inizio sottile come se fosse teso tra due strati
epiteliali, si è espanso e spalancato, ha guadagnato, profondità, larghezza, altezza, tanto quanto le
possibilità dell'uomo di scaricarsi all'esterno sono state impedite.» (II,16)
4.4. l’urgenza dell’oltrepassamento e della trasmutazione
4.4.1. come divenire naturale: «Tutte le grandi cose si annientano da sole, con un atto di
autoeliminazione: così vuole la legge di natura,la legge del necessario 'autooltrepassamento'
nell'essenza della vita...Così è crollato il cristianesimo come dogma, a causa della sua stessa morale;
così anche il cristianesimo come morale deve ancora andare in rovina: noi siamo alle porte di questo
avvenimento.» (III,27)
4.4.2. come compito della filosofia, che è ermeneutica, critica, smascheramento, chiarificazione.
«Poiché non dobbiamo ingannarci a questo proposito: ciò che costituisce il segno distintivo più
tipico delle anime moderne, dei libri moderni, non è la menzogna, ma l'innocenza incorporata nella
mendacia moralistica. Dover mettere ovunque allo scoperto questa innocenza, ciò costituisce forse
la parte più disgustosa del nostro lavoro di tutto quel lavoro in sé non trascurabile, cui oggi deve
sobbarcarsi uno psicologo.» (III,19)
5. trasmutazione dei valori (trasvalutazione)
Nella descrizione che Nietzsche traccia di sé in Ecce homo le sue scelte di vita e di pensiero si
animano di una tensione, di un «movimento» che trova il suo culmine nel tema della
«trasvalutazione»: presentati come momenti di un processo di liberazione (dai valori morali, dalle
credenze religiose, dai miti della scienza e della storia, dai principi assoluti della filosofia), gli atti e
gli scritti di Nietzsche rivelano la loro natura di «colpi di sparo» diretti contro gli inganni, contro le
«falsità di millenni» da cui il gregge degli uomini si è lasciato raggirare. Cadono le antitesi
tradizionali che vogliono il mondo e l’uomo divisi tra il bene e il male, la verità e la falsità, la salute
e la malattia; si rivaluta la dimensione del «sì alla vita», della fedeltà alla terra, del recupero della
componente dionisiaca dell’esistenza; crolla ogni forma di rinuncia, di annullamento di sé (quali
sono per esempio la virtù, l’ascesi, la fede nella verità o nell’aldilà); si apre il cammino a un
«grande mezzogiorno di sublime autocoscienza.., a una salute riconquistata», a una piena
guarigione dell’anima. Quella che d’ora in poi il filosofo andrà perseguendo sarà una trasmutazione
dei valori, un rovesciamento delle più comuni prospettive di vita e di conoscenza: l’etica del
risentimento e della colpa lascerà il campo all’ebbrezza della vita, il fraintendimento del corpo si
trasformerà nella «grande salute», all’ombra che l’immagine di Dio per secoli ha gettato
sull’umanità subentreranno i raggi della nuova aurora del primo giorno senza Dio.
Molti sono i modi con cui Nietzsche delinea il sorgere di una nuova Aurora e una nuova umanità, o
meglio l’uomo va oltre se stesso. La descrizione della nuova umanità liberata dalla morsa plurima
del nichilismo si affida a espressioni molto varie, allusive, poco concettualizzabili ma per questo
(non per questo meno) efficaci: vivere (nel nulla), ridere, danzare, creare, giocare, vivere nel
divenire, fedeltà alle proprie brevi abitudini, restare in cammino, amore della lentezza, vivere nella
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transizione, aprirsi all’intera meravigliosa incertezza e ambiguità dell’esistenza, e… passione,
istinto, follia … All’apparenza intuizioni frammentarie, si tratta invece di schemi che si organizzano
in una totalità che non è per nulla inferiore, quanto a densità, coerenza e ampiezza, alle più solide
costruzioni della filosofia classica.
5.1. l’eterno ritorno (la nuova temporalità dell’atto di volontà)
5.1.1. una rivelazione improvvisa. Al termine del Libro IV della Gaia scienza Nietzsche riferisce di
un concetto che gli si è improvvisamente presentato, come una rivelazione, nell’agosto dell’anno
precedente (il 1881), provocando un mutamento «improvviso e profondamente decisivo» del suo
gusto. Si tratta del tema dell’«eterno ritorno» che si affaccia nel testo di Nietzsche con questi
interrogativi: «Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più
solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: “Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai
viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà mai in essa niente di nuovo, ma
ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa
della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte - nella stessa sequenza e successione, e così pure questo
ragno e questo lume di luna tra i rami e così pure questo attimo e io stesso. L’eterna clessidra
dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello della polvere!” Non ti
rovesceresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato? Oppure hai
forse vissuto una volta un attimo immenso, in cui questa sarebbe stata la tua risposta: “Tu sei un dio
e mai intesi cosa più divina”?»
5.1.2. Nell’aforisma successivo Nietzsche presenta Zarathustra, futuro protagonista dell’opera Così
parlò Zarathustra, che egli scriverà in pochi mesi, nel corso del 1882. Tema centrale di quest’opera
è l’eterno ritorno, «la più sublime formula di affermazione che in generale possa essere raggiunta».
5.1.2.1. contro l’interpretazione tradizionale. L’idea dell’eterno ritorno non si affaccia alla mente di
Nietzsche con i tratti di un ricorrere fatale e doloroso degli stessi attimi, degli stessi eventi, come
fosse un tempo destinato inesorabilmente a svelare l’inutilità degli atti di volontà degli esseri
(questa è l’interpretazione fatalistica di coloro che rinunciano alla vita, alla salute, alla gaiezza), ma
si presenta come la negazione della possibilità di porsi fuori dal tempo, al principio o alla fine, e di
emettere dall’esterno giudizi sul tempo, sul mondo, sull’uomo; tali giudizi si risolverebbero in una
calunnia alla vita, come accade ai «predicatori di penitenza con o senza cristianesimo» e ai «cultori
della verità immutabile».
5.1.2.2. la retta e la circonferenza. Il concetto di eterno ritorno, richiamato da Nietzsche, nella sua
concezione circolare del tempo mette in critica la più recente ma più diffusa e tradizionale
concezione lineare del tempo, consacrata dalla civiltà occidentale e dal cristianesimo, e sottrae
valore ai principi morali, religiosi e metafisici fondati proprio su tale concezione lineare.
Ammettere la linearità del tempo significa infatti riconoscere l’esistenza di un principio e di una
fine, significa pensare che tutto tende a una meta e a una definitiva stabilità in relazione alla quale i
singoli momenti del cammino sono transitori e irrilevanti; in tale prospettiva i principi e le verità
assolute che la cultura occidentale (e in particolare la metafisica, la morale, la religione, la scienza)
propone assumono il valore di totali certezze. Se invece «non vi è una fine» e tutto eternamente
ritorna, non vi sono momenti privilegiati, né direzioni prescritte; cade la possibilità di orientarsi nel
tempo in vista di principi e di scopi; l’eterno ritorno svela anzi il nulla di ogni progetto etico,
religioso, scientifico, fondato sulla visione lineare del tempo.
5.1.2.3. l’attimo (un battito di ciglia). La figura circolare viene però da Nietzsche ricondotta alla sua
forma schematica più essenziale: l’incontro e la coincidenza del passato e del futuro nel momento
presente, nell’attimo della decisione e della volontà. La circolarità ripetitiva del passato e futuro,
propria della idea dell’eterno ritorno e della concezione circolare del tempo, viene spiegata nella sua
origine in quanto il passato ed il futuro accadono realmente nel tempo solo nell’atto di volontà e
nell’istante (un “battito di ciglia”) in cui il soggetto decide. La teoria dell’eterno ritorno introduce
così una nuova forma di orientamento del pensiero e dell’azione che consiste nel partire sempre
dall’attimo, dal presente, cioè da un inizio totalmente affidato alla decisione, al coraggio, alla
volontà soggettiva; vivendo nell’attimo l’uomo libera pienamente la propria volontà di potenza,
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rimuove ogni ostacolo (i valori, i progetti, le norme consolidate dalla tradizione) che si frappongono
alla piena realizzazione della dimensione libera, creativa, vitale, del fanciullo e dell’oltreuomo. Non
si tratta, tuttavia, di un processo gratuitamente distruttivo; nell’attimo in cui si incontrano i due
sentieri del passato e del futuro, l’atto di volontà presente è il momento in cui l’uomo vuole il suo
passato, annullandone così il condizionamento, e, decidendo, dà forma e avvia il proprio futuro.
Noto ed esplicito è il capitolo di Così parlò Zarathustra, intitolato: La visione e l’enigma.
«Alt, nano! dissi, O io! O tu! Ma di noi due il più forte son io —: tu non conosci il mio pensiero
abissale! Questo — tu non potresti sopportarlo!» —
Qui avvenne qualcosa che mi rese più leggero: il nano infatti mi saltò giù dalle spalle, incuriosito!
Si accoccolò davanti a me, su di un sasso. Ma, proprio dove ci eravamo fermati, era una porta
carraia.
«Guarda questa porta carraia! Nano! continuai: essa ha due volti. Due sentieri convengono qui:
nessuno li ha mai percorsi fino alla fine.
Questa lunga via fino alla porta e all’indietro: dura un’eternità. E quella lunga via fuori della porta e
in avanti — è un’altra eternità.
Si contraddicono a vicenda, questi sentieri; sbattono la testa l’un contro l’altro: e qui, a questa porta
carraia, essi convengono. In alto sta scritto il nome della porta: “attimo”.
Ma, chi ne percorresse uno dei due — sempre più avanti e sempre più lontano: credi tu, nano, che
questi sentieri si contraddicano in eterno?». —
«Tutte le cose diritte mentono, borbottò sprezzante il nano. Ogni verità è ricurva, il tempo stesso è
un circolo». […]
E, davvero, ciò che vidi, non l’avevo mai visto. Vidi un giovane pastore rotolarsi, soffocato,
convulso, stravolto in viso, cui un greve serpente nero penzolava dalla bocca.
Avevo mai visto tanto schifo e livido raccapriccio dipinto su di un volto? Forse, mentre dormiva, il
serpente gli era strisciato dentro le fauci e — lì si era abbarbicato mordendo.
La mia mano tirò con forza il serpente, tirava e tirava — invano! non riusciva a strappare il serpente
dalle fauci. Allora un grido mi sfuggì dalla bocca: «Mordi! Mordi! Staccagli il capo! Mordi», così
gridò da dentro di me: il mio orrore, il mio odio, il mio schifo, la mia pietà, tutto quanto in me —
buono o cattivo — gridava da dentro di me, fuso in un sol grido. […]
— Il pastore, poi, morse così come gli consigliava il mio grido; e morse bene! Lontano da sé sputò
la testa del serpente —: e balzò in piedi. — Non più pastore, non più uomo, — un trasformato, un
circonfuso di luce, che rideva! Mai prima al mondo aveva riso un uomo, come lui rise!
Oh, fratelli, udii un riso che non era di uomo, — e ora mi consuma una sete, un desiderio
nostalgico, che mai si placa. La nostalgia di questo riso mi consuma: come sopporto di vivere
ancora! Come sopporterei di morire ora! — Così parlò Zarathustra.
(Così parlò Zarathustra)
5.1.2.4. «non più uomo – un trasformato» Rifiutata l’antica, banale concezione dell’eterno ritorno
(con il simbolico gesto del morso al capo del serpente, simbolo storico del circolo dell’eterno
ritorno) il pastore afferma la nuova e più profonda natura dell’eterno ritorno. Il passato non incombe
come ciò che è già avvenuto, come ciò che condiziona e obbliga; il futuro non si presenta come un
dovere che distoglie l’uomo da se stesso, dalla terra e dal presente; i due sentieri «sbattono la testa
l’un contro l’altro» nell’attimo. Esso si presenta non solo come la perfetta sospensione, ma anche
come il pieno possesso del tempo: mentre nella visione cronologica lineare ogni momento acquista
significato in quanto si lega ad altri e con essi a un fine, nella visione dell’eterno ritorno ogni
momento può essere vissuto per se stesso come presente ed eterno; poiché ogni attimo può essere
eternamente ripetuto, l’eternità è un eterno ritorno dell’uguale in forza della decisione di chi
possiede il tempo della volontà, dell’“io voglio”; l’attimo è dunque l’eternità e la totalità.
5.2. l’oltreuomo (il Superuomo, l’uomo va oltre se stesso: la nuova umanità oltre l’inganno)
Comincia così il tramonto di Zarathustra: giunto in città annuncia agli uomini: «Ecco, io vi insegno
l’oltreuomo! L’oltreuomo è il senso della terra... Vi scongiuro fratelli miei restate fedeli alla terra e
non prestate fede a coloro che vi parlano di speranze ultraterrene! Si tratta di avvelenatori, che lo
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sappiano o no. Spregiatori della vita, moribondi, essi stessi avvelenati, di loro la terra è stanca:
possano scomparire! Un tempo il peccato contro Dio era il peccato più grande, ma Dio è morto e
quindi sono scomparsi anche i peccatori». (Così parlò Zarathustra, dalla Prefazione)
Zarathustra è dunque venuto ad annunciare una liberazione e una rinascita: per l’oltreuomo che
accoglie consapevolmente la morte di Dio si apre una nuova esistenza libera dai valori, dalle catene
che lo legano al bene e al male, dai fini che lo orientano verso l’aldilà; l’annuncio di Zarathustra
schiude all’oltreuomo il senso della terra e della salute.
Colui che si dimostra pronto ad accogliere il suo annuncio è infatti disposto a sbarazzarsi di ogni
inganno, ad accettare il rischio di un’esistenza senza eredità né mete; Nietzsche indica quest’uomo
con il termine Übermensch, per indicare la sua capacità di stare sempre «oltre», liberandosi dei lacci
che l’esistenza e la società continuamente creano. L’oltreuomo è infatti in costante movimento per
superare se stesso e gli eventi, non è spaventato dalle tragiche contraddizioni della vita, non è
attratto dalle confortanti mete del bene e dell’aldilà.
5.3. la volontà di potenza (un nichilismo creativo)
Nell’oltreuomo si esprime con forza la «volontà di potenza», cioè il desiderio di affermarsi
positivamente, autonomamente, dal nulla dei pesi e degli obblighi nelle sue azioni e creazioni; la
sola radice cui egli si sente fedele è la terra, la naturalità del suo corpo e della realtà materiale. In
quanto rifiuta le seduzioni offerte dai fini, dagli scopi cui gli altri uomini dirigono tutti i loro atti,
l’oltreuomo si colloca in una temporalità diversa da quella comune. L’oltreuomo non può che
rifiutare il tempo lineare nel quale tutto passa, «tutto è vano, tutto è indifferente e, ancora, tutto fu»;
il tempo nel quale egli sceglie di vivere è quello dell’«eterno ritorno dell’uguale»: nel tempo
circolare dell’eterno ogni istante è vissuto nella sua pienezza e nella pienezza della potenza della
volontà.
« Io passo in mezzo agli uomini, come in mezzo a frammenti dell’avvenire: di quell’avvenire che io
contemplo.
E il senso di tutto il mio operare è che io immagini come un poeta e ricomponga in uno ciò che è
frammento ed enigma e orrida casualità.
E come potrei sopportare di essere uomo, se l’uomo non fosse anche poeta e solutore di enigmi e
redentore della casualità!
Redimere coloro che sono passati e trasformare ogni “così fu” in un “così volli che fosse!” — solo
questo può essere per me redenzione!
Volontà — è il nome di ciò che libera e procura la gioia: così io vi ho insegnato, amici miei! Ma
adesso imparate ancor questo: la volontà, di per sé, è ancora come imprigionata.
Volere libera: ma come si chiama ciò che getta in catene anche il liberatore?
“Così fu” — così si chiama il digrignar di denti della volontà e la sua mestizia più solitaria.
Impotente contro ciò che è già fatto, la volontà sa male assistere allo spettacolo del passato. […]
Via da tutte queste filastrocche, io vi condussi quando vi insegnai: «la volontà è qualcosa che crea».
Ogni “così fu” è un frammento, un enigma, una casualità orrida - fin quando la volontà che crea
non dica anche: «ma così volli che fosse!».
— Finché la volontà che crea non dica anche: «ma io così voglio! Così vorrò!».
(Così parlò Zarathustra)
5.4. il fanciullo che gioca, «il giuoco della creazione»
Oltreuomo (superuomo), volontà di potenza … non esprimono progetti di dominio e sopraffazione,
ma declinano il tema centrale di Nietzsche (motivo costante di Così parlò Zarathustra): la fedeltà
alla terra, alla natura nella sua enigmatica complessità e la conseguente condanna per le cultura del
disprezzo dell’uomo, della natura, della vita; disprezzo tanto più dannoso e devastante quanto più si
presenta nei toni della compassione, della misericordia e del perdono. La figura più adatta ad
esprimere l’oltreuomo è indicata in apertura di Così parlò Zarathustra: è un fanciullo che gioca.
«Ma ditemi, fratelli, che cosa sa fare il fanciullo, che neppure il leone era in grado di fare? Perché il
leone rapace deve anche diventare un fanciullo? Innocenza è il fanciullo e oblio, un nuovo inizio, un
giuoco, una ruota ruotante da sola, un primo moto, un sacro dire di sì.
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Si, per il giuoco della creazione, fratelli, occorre un sacro dire di sì: ora lo spirito vuole la sua
volontà, il perduto per il mondo conquista per sé il suo mondo.
Tre metamorfosi vi ho nominato dello spirito: come lo spirito divenne cammello, leone il cammello,
e infine il leone fanciullo.» (Così parlò Zarathustra, Delle tre metamorfosi)
5.5. la contemplazione (una «dimenticanza attiva»)
«oh come siamo felici noi che ci interessiamo alla conoscenza, ammesso che si sappia tacere
abbastanza a lungo (prefazione. 2) E' chiaro che per esercitare così la lettura come arte, è
necessaria soprattutto una cosa che al giorno d'oggi si è disimparata più di tante altre - e perciò per
arrivare alla leggibilità delle mie opere, ci vorrà ancora tempo - una cosa, cioè, per cui si deve
essere piuttosto simili a una vacca e in nessun caso a un "uomo moderno": il ruminare.(pref. 8)
Chiudere ogni tanto le porte e le finestre della coscienza, non farsi molestare dal fracasso e dalla
lotta con cui il mondo occulto degli organi al nostro servizio manifesta la sua collaborazione e
opposizione, un po’ di tranquillità, un po’ di tabula rasa della coscienza, per fare ancora spazio a
qualcosa di nuovo...questo è il vantaggio di una dimenticanza attiva (II,1).» (Genealogia della
morale).
«È passato il tempo in cui la Chiesa possedeva il monopolio della meditazione, quando la vita
contemplativa doveva essere sempre in primo luogo vita religiosa: e tutto quanto la Chiesa ha
costruito esprime questo pensiero. Io non saprei come potremmo lasciarci appagare dalle sue
costruzioni, anche se queste fossero spogliate della loro destinazione ecclesiastica: queste
costruzioni parlano un linguaggio anche troppo patetico e parziale, in quanto case di Dio e sfarzose
sedi di un commercio ultramondano, perché noi, i senza Dio, si possa qui dar vita ai nostri pensieri.
Quando andiamo errando in questi loggiati e giardini, è noi che vogliamo aver tradotto in pietra e
pianta, è in noi stessi che vogliamo passeggiare.» (Gaia scienza § 280)
Contemplazione è dar vita ai propri pensieri in noi stessi, staccando il legame antico tra pensiero,
verità, realtà (e la preoccupazione venerante che quel legame crea), e procedere con il gusto della
lentezza. «…nel cuore di un’epoca del “lavoro”, intendo dire della fretta, della precipitazione
indecorosa e sudaticcia», imparare la lentezza: «Oggi non rientra soltanto nelle mie abitudini, ma fa
anche parte del mio gusto — un gusto malizioso forse? — non scrivere più nulla che non porti alla
disperazione ogni genere di gente « frettolosa ». Filologia, infatti, è quella onorevole arte che esige
dal suo cultore soprattutto una cosa, trarsi da parte, lasciarsi tempo, divenire silenzioso, divenire
lento, essendo un’arte e una perizia di orafi della parola, che deve compiere un finissimo attento
lavoro e non raggiunge nulla se non lo raggiunge lento.» (Aurora, § 5)
5.6. imparare se stessi (e ascoltare l’inconscio)
«Che cos’è il sigillo della raggiunta libertà? Non provare più vergogna davanti a se stessi» (Gaia
scienza § 275); la fedeltà al proprio essere continuamente diversi, al proprio divenire, l’amore per le
proprie «brevi abitudini» (ivi § 295), al «tu sei sempre un altro» (ivi § 307); il «divenire quello che
tu sei» (ivi § 270) e il non consegnarsi ai giudizi generali (con la conseguente scoperta del pregio e
della necessità della solitudine). «L’egoismo apparente. La maggior parte degli uomini, qualunque
cosa possano ognora pensare e dire del loro «egoismo», ciononostante, in tutta la loro vita, non
fanno nulla per il loro ego, bensì soltanto per il fantasma dell’ego, che si è formato, su di essi, nella
testa di chi sta intorno a loro, e che si è loro trasmesso; in conseguenza di ciò, vivono tutti insieme
in una nebbia di opinioni impersonali e semipersonali, e di arbitrari, quasi poetici, apprezzamenti di
valore; ciascuno di costoro vive sempre nella testa di un altro e questa testa ancora in altre teste: un
curioso mondo di fantasmi che sa darsi, in tutto questo, un’aria così assennata! Questa nebbia di
opinioni e di abitudini si sviluppa e vive quasi indipendentemente dagli uomini che essa avvolge;
risiede in essa l’enorme influsso dei giudizi generali sull’uomo, — tutti questi uomini sconosciuti a
se stessi credono nell’esangue entità astratta « uomo », vale a dire in una finzione; e ogni
trasformazione introdotta in questa astratta entità attraverso i giudizi di singoli potenti (come
principi e filosofi) influisce straordinariamente ed in misura irrazionale sulla grande maggioranza:
tutto questo per la ragione che ogni singolo, in questa maggioranza, non è in grado di contrapporre
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un reale ego, a lui accessibile e da lui scrutato fino in fondo, alla pallida finzione universale, e non
può, quindi, annullarla.» (Aurora § 105)
5.6.1. ascoltare il nostro inconscio: «Si considera la coscienza una stabile grandezza data! Si negano
il suo sviluppo, le sue intermittenze!» (Gaia scienza § 11) « Noi, che siamo consapevoli delle
ultime scene di conciliazione e della liquidazione finale di questo lungo processo, riteniamo perciò
che intelligere sia qualcosa di conciliante, di giusto, di buono, qualcosa di essenzialmente
contrapposto agli impulsi: mentre esso è soltanto un certo rapporto degli impulsi tra di loro. Per
lunghissimo tratto di tempo, si è considerato il pensiero consapevole, come il pensiero in generale:
soltanto oggi, ci balugina la verità che la maggior parte del nostro produrre spirituale si svolga
senza che ne siamo coscienti, a noi inavvertito; penso tuttavia che questi impulsi — qui in lotta
l’uno con l’altro — sapranno benissimo farsi sentire tra loro e procurarsi vicendevolmente del
male: quel forte improvviso sfinimento, da cui sono afflitti tutti i pensatori, potrebbe avere qui la
sua origine (è lo sfinimento del campo di battaglia). Sì, forse esiste nelle nostre lotte interiori
parecchio eroismo nascosto, non certo alcunché di divino, di eternamente riposante in se stesso,
come pensava Spinoza. Il pensiero consapevole, e particolarmente quello dei filosofi, è il più
svigorito e perciò stesso anche il relativamente più temperato e più quieto modo del pensiero: e così
precisamente il filosofo può essere indotto in errore, con la maggior facilità, sulla natura del
conoscere.» (Gaia scienza § 333)
Freud - genealogia della morale e gestione delle pulsioni
(1856 – 1939)
Che fine ha fatto la psicanalisi ? «Oggi la psicoanalisi ha un grave limite: si occupa quasi
esclusivamente dei problemi clinici e tecnici legati alla cura dei pazienti. Ma questa è una
regressione rispetto alle idee di Freud, e anche di Jung. Ben altro è stata infatti la psicoanalisi nel
ventesimo secolo, una rivoluzione della visione dell’uomo che ha plasmato la cultura, dalla
letteratura al cinema, dalla musica all’arte... Negli ultimi anni invece prevale la pratica terapeutica:
gli analisti non tematizzano più le grandi questioni culturali, si rinchiudono nelle loro “stanze”, in
un mondo sempre più autoreferenziale e marginale. La psicoanalisi dovrebbe tornare ad essere
quella che è sempre stata: una griglia di lettura della realtà, una terapia della cultura». Così il
bilancio di Luigi Zoja, 2009 Contro Ismene, Bollati Boringhieri (intervista in La Repubblica 30
maggio 2009).
La concezione della vita psichica maturata da Freud nel corso della sua intensa attività di studioso e
di medico psicoterapeuta presenta un respiro, e un’ambizione, molto più vasto: mette
progressivamente in crisi una serie di schemi e modelli tradizionali di spiegazione della natura
dell’essere umano, dell’origine dei suoi comportamenti, dei suoi desideri e bisogni, dei suoi valori,
indaga la civiltà contemporanea e le forme storiche del suo disagio. Freud lo dichiara esplicitamente
nelle lezioni di introduzione alla psicanalisi. «Nel corso del lavoro psicoanalitico si stabiliscono
rapporti con numerosissime altre discipline; ebbene, esplorando questi rapporti si ottengono
preziosissimi chiarimenti: sono i rapporti con la mitologia, con la linguistica, con i1 folklore, con la
psicologia sociale e con la filosofia della religione. […] In essi la psicoanalisi ha essenzialmente la
parte di chi dà, raramente di chi riceve. Certo, la psicoanalisi trae il vantaggio che, per il fatto di
ritrovarli in altri campi, gli esiti peregrini della sua indagine ci diventano più familiari; ma, tutto
sommato, è essa a fornire i metodi tecnici e i punti di vista la cui applicazione si dimostrerà feconda
negli altri campi. Grazie all’indagine psicoanalitica la vita psichica dell’individuo singolo fornisce
le delucidazioni atte a risolvere, o almeno a mettere in giusta luce, parecchi enigmi che si
presentano nelle grandi comunità umane. (Freud Sigmund 1917,1932 Introduzione alla psicanalisi,
Bollati Boringhieri, Torino 1978, p. 153). Sono nate in un contesto extra-filosofico (Freud ha una
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formazione scientifica, è medico di professione e nega con una certa irritazione che le sue teorie
abbiano natura filosofica), ma le ricerche di Freud hanno influito in modo decisivo, oltre che sulla
storia della medicina e in particolare della psichiatria, sui più diversi campi della cultura,
dall’antropologia alla letteratura, dalla psicologia all’arte, alla filosofia, alle teorie morali. La
concezione dell’uomo che la psicoanalisi di Freud è venuta elaborando rivela, infatti, profonde
implicazioni filosofiche ed etiche: non riguarda solo campi d’indagine come la psiche, gli affetti, i
comportamenti, per tradizione oggetto specifico della riflessione filosofica, ma modifica
profondamente le nozioni di coscienza, ragione, libertà, salute elaborate nel corso dei secoli dai
filosofi. L’impostazione che principalmente viene posta in discussione e liquidazione è quella che
ricorrendo ai facili dualismi che assolutizzano in estremi opposti gli aspetti della realtà ne annulla in
semplificazioni banali e dicotomiche la ricchezza, rendendo la vita incomprensibile e non avvertita.
1. il contesto: l’analisi del disagio
1.1. psicanalisi: teoria e prassi terapeutica in tre direzioni. La psicanalisi è una strategia di
indagine della psiche (un metodo) , è una teoria complessiva della struttura della mente e dei modi
della loro interazione (un sistema), ma nasce come una prassi terapeutica e resta una analisi del
disagio individuale e sociale, praticata allo scopo di portare a risoluzione i conflitti da cui il disagio
deriva (una terapia). L’ipotesi di Freud è che all’origine degli stati di disagio dei suoi pazienti vi sia
uno spontaneo e inconsapevole meccanismo di difesa che «distacca» nuclei della psiche (pulsioni e
istinti) e li «rimuove» dalla sfera della coscienza, sospingendoli in una zona inconscia da dove
apparentemente cessano di influire sugli stati e sulle scelte del paziente, in realtà esercitano un
influsso continuo, imprevedibile, resistente alla consapevolezza, a fatica controllabile e gestibile a
livello di mente e di corporeità.
«A questo riguardo, si sorvola abitualmente sul seguente punto essenziale: che il conflitto patogeno
dei nevrotici non va scambiato per una normale lotta tra impulsi psichici che si trovano sullo stesso
terreno psicologico. È un contrasto di forze, una delle quali è giunta al gradino del preconscio e del
conscio, mentre l’altra è stata trattenuta al gradino dell’inconscio. È per questo che il conflitto non
può giungere a conclusione: i contendenti non hanno nulla da spartire tra di loro, come l’orso polare
e la balena. Una decisione vera e propria può aver luogo soltanto quando i due s’incontrano sullo
stesso terreno. Rendere ciò possibile è secondo me l’unico compito della terapia.» (Freud,
Introduzione o.c. p. 390)
1.2. la complessità dello psichismo
1.2.1. l’inconscio. L’attenzione analitica e terapeutica e la diagnosi psicologica formulate come
causa e terapia di disfunzioni comportamentali, gravi (come paralisi, cecità, afasie ecc.) o
momentanee (dimenticanze, lapsus ecc.), fanno emergere un aspetto centrale della psiche, sino a
quel momento ignorato o emarginato come irrazionale: l’inconscio. Ad esso Freud attribuisce
grandissima importanza: la psicanalisi è soprattutto analisi dell’inconscio; alla propria psicologia
medico-scientifica (non filosofica) darà il nome di «psicologia del profondo» e affiderà il compito
di fornire un flessibile strumento di conoscenza del comportamento umano e di cura delle forme
patologiche della vita mentale (nevrosi) proprio a partire dall’indagine dell’inconscio, del profondo.
La grande scoperta di Freud non è l’inconscio; se ne parlava già da tempo ed era caro soprattutto ai
romantici. «La vera scoperta è l’idea che l’inconscio abbia un suo linguaggio, una sua logica, e
possa essere oggetto di interpretazione nonostante l’apparente assurdità delle sue manifestazioni.
(Fusillo Massimo 2009 Estetica della letteratura, il Mulino, Bologna p.64) Afferma Freud nella
lezione 13 pubblicata nella Introduzione alla psicanalisi (Bollati Boringhieri, Torino 1978 p.191):
«“Inconscio” non è più un nome che indica ciò che è latente in un determinato momento;
l’inconscio è un particolare regno della psiche con impulsi di desiderio propri, con una propria
forma espressiva e con propri caratteristici meccanismi psichici che non valgono altrove».
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1.2.2. Dalle sue analisi emerge una doppia presentazione e una doppia ipotesi di nascita e
formazione dell’inconscio.
1.2.2.1. È luogo delle pulsioni originarie che spingono ad una loro immediata soddisfazione
secondo una logica definita “principio del piacere” (da “Precisazioni sui due principi dell’accadere
psichico” 1911); come centro pulsionale è perennemente attivo, un potenziale energetico in costante
direzione di soddisfazione; a garantire l’esito del soddisfacimento di fronte a censure e divieti,
mette in azione la “logica dello spostamento” (e del soddisfacimento deviato), sintesi e
compromesso tra la pulsione (retta dal principio del piacere: urgenza della immediata
soddisfazione) e il divieto (definito secondo il “principio della realtà”: impone censure, proibizioni
e freni) delle pulsioni (la libido è, per Freud, la pulsione dominante e determinante l’intera vita
psichica del soggetto).
1.2.2.2. È luogo della psiche incrementato dai processi di rimozione dell’immediato
soddisfacimento delle pulsioni libidiche sotto l’influsso di istanze sociali e di un mondo di norme e
regole, soprattutto non scritte, imposte secondo l’implacabile logica definita “principio della realtà”;
principi di “contenimento” che prendono la forma di processi di adattamento educativo, inserimento
sociale, hanno a che vedere con la formazione di una “coscienza morale”, sono in linea di continuità
(anche se a livello fisiologico e psicologico) con le misure estreme presenti nella forma di “letto di
contenimento” (“camicie di forza” fisiche o chimiche [psicofarmaci]) per contenere (creare !) le
patologie psichiche.
Nei due casi, si tratta di presentazioni che sottolineano la natura perennemente attiva dell’inconscio.
A partire da questi aspetti e dalla sua dinamica è possibile spiegare sia i comportamenti solitamente
qualificati come patologici, sia quelli degli individui «sani». Dietro le nostre scelte «razionali»,
«consapevoli» si cela una sfera di natura «extra-razionale», «inconsapevole» sede delle pulsioni più
profonde, luogo dei desideri, degli istinti, dell’energia vitale. Assumendo questo nuovo punto di
vista, Freud ritiene di poter disegnare una nuova mappa della psiche che gli consenta di spiegare la
complessità della psiche stessa e dei comportamenti umani.
1.2.3. la doppia mappa della psiche e le relazioni tra le rispettive componenti. Freud precisa: non si
tratta di zone della psiche materialmente esistenti, né, tanto meno, fisiologicamente localizzabili.
Sono schemi di orientamento per la lettura e la diagnosi dei comportamenti. Anzi, in modo più
preciso, nelle sue seconde lezioni di introduzione e bilancio sulla psicanalisi, tenute tra il 1915 e il
1917, o occupandosi del tema «La scomposizione della personalità psichica» (lezione 31) definisce
gli elementi della prima mappa (conscio, preconscio, inconscio) «le tre qualità della
consapevolezza»; mentre definisce i tre elementi della seconda mappa (Es, Io, Super-Io) «le tre
province dell’apparato psichico» si tratta di una presentazione che mette da subito in chiaro la
funzione delle due mappe e la loro relazione interna; le tre «province, regni, territori», aree si
presentano e si riscontrano, psicologicamente e qualitativamente secondo diversa accentuazione,
nella situazione e nello stato di coscienza, preconscio e inconscio. Il diverso porsi qualitativamente
(in situazioni di inconscio, preconscio o coscienza) di ciascuna delle tre zone della psiche ne mette
in rilievo la funzione e la dinamica. (Freud, Introduzione o.c. p. 129 e 464-485)
1.2.3.1. La seconda (la più nota) mappa della psiche si articola secondo Freud in tre «province,
regni, territori»: «Es» (o «Id»), «Super-Io» (o «Super-Ego») e «Io» (o «Ego»).
1.2.3.1.1. Il primo (l’Es) costituisce «la parte più oscura, inaccessibile della personalità»:
prevalentemente inconscio, l’Es è il regno delle pulsioni istintuali che funge da serbatoio
dell’energia psichica.
1.2.3.1.2. Il Super-Io, anch’esso prevalentemente inconscio, è una sorta di antagonista dell’Es:
dando voce alle esigenze esterne, sociali, mira al controllo delle pulsioni che censura, suscitando in
chi gli disobbedisce un senso di colpa che può culminare nella depressione.
1.2.3.1.3. L’Io, originariamente parte dell’Es (nell’indistinzione che caratterizza originariamente la
psiche, sotto l’influsso del mondo esterno (da cui riceve stimoli e istanze) si trova a mediare, in
forme di perenne evoluzione, tra le esigenze contraddittorie delle altre due istanze, Es e Super-Io.
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1.2.3.2. La prima mappa della psiche (formulata prima da Freud e fondamento di comprensione
della dinamica della seconda topica: Es, Io, Super-Io) presenta tre qualità, modi di essere,
situazioni: coscienza (ciò che è presente ora alla coscienza), pre-coscienza (non presente alla
coscienza ma facilmente richiamabile in base alla utilità), inconscio (contenuti assenti alla
coscienza, tenuti esclusi; elementi che oppongono resistenza al loro richiamo alla coscienza).
Servendosi di questa (prima) ripartizione Freud dà forma e spiega la natura attiva della relazione Es,
Io, Super-Io. La dinamica pulsionale dell’Es e delle istanze del Super-Io si spiegano in forza della
loro natura prevalentemente inconscia: dell’inconscio condividono i tratti dell’essere perennemente
attivi, continui e alla ricerca di soddisfacimento immediato o per spostamenti e alterazioni. L’Io (e i
richiami possibili alla coscienza di aspetti dell’Es e del Super-Io) fa riferimento alla psiche della
coscienza e del pre-conscio e trova così spiegazione la sua naturale discontinuità.
1.3. la teoria della libido e il coinvolgimento totale e differenziato della corporeità nel
comportamento. Per una comprensione più completa dei comportamenti umani è dunque necessario
indagare nella sfera inconscia della psiche: l’accesso a questa regione, reso possibile
dall’interpretazione di ricordi, sogni, gesti, associazioni, rivelati dai pazienti durante le sedute di
psicoanalisi, conduce Freud ad approfondimenti, correzioni e conferme delle sue tesi fondamentali.
1.3.1. dall’analisi delle malattie definite nevrosi (alterazioni comportamentali con eziologia
psichica) ricava una diagnosi per lo più costante: la centralità della pulsione libidica nella sfera
dell’inconscio. Gli attuali conflitti, che si manifestano come nevrosi, riproducono conflitti
verificatisi nell’età prepuberale e sono essenzialmente di carattere sessuale, relativi ad una
sessualità originaria, potente e indifferenziata presente fin dai primi anni dell’infanzia e quindi in
situazioni di debolezza della coscienza (età prepuberale, anni 0-6).
1.3.2. libido e complesso di Edipo. Freud si convince sempre più delle profonde tracce che talune
esperienze infantili (rimosse dalla coscienza) lasciano nella vita psichica di ciascuno, della
complessità della relazione che oppone il figlio al padre nel loro rapportarsi alla figura della madre
e moglie (rapporto che Freud definisce con l’immagine della «costellazione edipica», riprendendo il
caso classico di Edipo, la cui vita è totalmente segnata dal particolare rapporto con la madremoglie), della determinante influenza delle pulsioni sessuali (all’energia psichica della pulsione
sessuale Freud dà il nome appunto di libido) nelle quali egli vede la radice ultima delle scelte
individuali, persino dell’intelligenza creatrice e del piacere che essa riscontra nel suo attuarsi.
1.3.3. la teoria della libido e le fasi. Proprio alla sessualità la psicologia del profondo dedica
particolare interesse, convinta della sua centralità nella vita dell’individuo. Affrontando questo tema
nei Tre saggi sulla sessualità, Freud abbatte alcuni tradizionali e radicati luoghi comuni: «Cerco di
mostrare che la pulsione sessuale dell’uomo è molto complessa e che risulta dagli apporti di
molteplici componenti e pulsioni parziali» (Tre saggi sulla teoria sessuale). Contro una tradizionale
concezione della sessualità a carattere univoco Freud segnala la complessità delle motivazioni
sessuali e ne mette in luce la funzione indispensabile nel processo di formazione della personalità;
si tratta di una funzione corporale di tutto l’uomo, di un processo altamente composito e
storicamente variabile (nella storia dell’individuo e della società), tutto da organizzare secondo
coordinate sociali (istanze di valore) e individuali (verso il concetto di genere).
1.3.3.1. Innanzitutto allarga la nozione di sessualità, comunemente circoscritta alla genitalità,
estendendola alle attività che procurano un piacere non puramente fisiologico: un impulso sessuale
è certamente all’origine dell’attrazione fisica tra individui, ma anche del piacere che producono il
cibo, il divertimento e persino attività in apparenza «puramente spirituali» come la creazione
artistica, scientifica o letteraria.
1.3.3.2. La sessualità non è esclusiva degli adulti (come si credeva tradizionalmente); anche i
bambini hanno un’attività sessuale: essa attraversa tre fasi (orale, anale, fallica), ciascuna
caratterizzata dall’organo cui è legato il piacere (la bocca, nella suzione del latte materno; gli
sfinteri, nel controllo della espulsione e della ritenzione; i genitali per il piacere sessuale inteso in
senso stretto).
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1.3.3.3. teoria della libido e autoerotismo. L’auto-erogenità (e il narcisismo) è una componente che
definisce le tre fasi della sessualità infantile ed è un tratto costante della sessualità in generale anche
quando si manifesta in forme chiaramente eteroerogene. La pulsione sessuale è espressione del
soggetto non è definita dall’oggetto di riferimento ma dalla funzione corporale che sostiene, attiva
ed esprime; proprio queste caratteristiche (autoerotismo, indipendenza dall’oggetto, sostegno di
funzioni vitali plurime) la rendono condizione di scoperta, rapporto, gestione coinvolgimento del
corpo nell’agire complessivo; la corporeità si rivela come una necessaria componente affinché
l’azione (anche quindi l’agire morale) possa realizzarsi come azione e comportamento (“virtù”)
personale. «Fin dall’inizio si possono riconoscere le manifestazioni delle pulsioni sessuali, ma in un
primo momento queste non sono rivolte ad un oggetto esterno. I vari elementi pulsionali della
sessualità agiscono ognuno per sé, tendendo al piacere, e trovano sul corpo del soggetto il loro
soddisfacimento. Questo è lo stadio dell’autoerotismo, cui subentra quello della scelta dell’oggetto.
… L’individuo agisce come se fosse innamorato di sé; ancora non si possono distinguere tra di loro,
per analisi, le pulsioni dell’Io e i desideri libidici. Sebbene non possiamo ancora con esattezza
definire le caratteristiche di questo stadio narcisistico, in cui le pulsioni sessuali sinora dissociate si
compongono in unità e prendono l’Io come oggetto, tuttavia sospettiamo che l’organizzazione
narcisistica non sarà mai completamente abbandonata.» (Totem e tabù 99-100) «La differenza più
incisiva tra la vita amorosa del mondo antico e quella nostra risiede nel fatto che l’antichità
sottolineava la pulsione, noi invece sottolineiamo il suo oggetto. Gli antichi esaltavano la pulsione
ed erano disposti a nobilitare con essa anche un oggetto inferiore, mentre noi stimiamo poco
l’attività pulsionale di per sé e la giustifichiamo soltanto per le qualità eminenti dell’oggetto […]
Come risultato generalissimo di queste considerazioni, rileveremo tuttavia l’idea che, in un gran
numero di condizioni e in una massa straordinaria di individui, la specie e il valore dell’oggetto
sessuale passano in seconda linea. Nella pulsione sessuale l’elemento essenziale e costante è
qualcos’altro.» (Tre saggi sulla teoria sessuale)
1.3.4. le pulsioni eros e thanatos. Un’interessante revisione delle proprie posizioni riguarda la teoria
delle pulsioni: nell’opera Al di là del principio del piacere (1920) Freud introduce e contrappone
alle pulsioni di vita (desideri sessuali e di autoconservazione cui dà anche il nome di Eros) le
pulsioni di morte, tendenze aggressive e distruttive che rivelano nell’uomo un desiderio di
«ritornare ad uno stadio precedente», di annullarsi, connesso e opposto a quello di vita (a queste
pulsioni Freud nelle sue conferenze dà il nome di Thànatos). Mediante questo dualismo Freud avvia
una nuova rilettura di certi comportamenti “malinconici” (nei quali il Super-Io appare come «una
cultura della pulsione di morte») o masochistici (nei quali la pulsione di morte si dirige verso il
soggetto, che si compiace della propria distruzione). Si tratta di binomi che permettono l’analisi non
dei soli comportamenti individuali, ma anche di quelli sociali dominanti in un periodo storico; la
psicanalisi diventa così sguardo e lettura della contemporaneità. (Disagio della civiltà)
1.4. meccanismi di spostamento
La tendenza delle pulsioni al proprio soddisfacimento è la radice dei meccanismi di spostamento da
una funzione all’altra, da un oggetto all’altro allo scopo di aggirare i divieti e raggiungere, pur in
forma deviata o non immediata, un soddisfacimento. La dinamica dello spostamento costituisce la
logica dell’inconscio: «Nell’inconscio i processi psichici non sono affatto identici a quelli noti nella
vita psichica conscia, ma godono di certe libertà che a questi ultimi sono negate. Un impulso
inconscio non è necessariamente sorto proprio dove riscontriamo le sue espressioni; esso può essere
provocato da cause diverse, può aver in origine riguardato altre persone e rapporti, e attraverso il
meccanismo dello spostamento essere pervenuto dove lo abbiamo riscontrato. Posta poi
l’indistruttibilità ed immutabilità dei processi psichici inconsci esso può essere sopravvissuto da
tempi remotissimi ai quali era adeguato a tempi e rapporti successivi, nei quali le sue manifestazioni
appaiono bizzarre e fuori posto. Queste sono solo delle indicazioni, ma una più approfondita
indagine dei casi ci rivelerebbe quanto esse potrebbero dimostrarsi utili per comprendere
l’evoluzione della civiltà.» (Totem e tabù, 83-83)
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Freud più volte sottolinea «la tendenza propria della pulsione inconscia nelle nevrosi, di spostarsi,
per associazione, verso oggetti sempre nuovi … i desideri proibiti vanno spostandosi nell’inconscio
da un oggetto all’altro.» (Totem e tabù, 50, 51) «È caratteristica propria dei divieti ossessivi una
facoltà molto ampia di spostarsi e di estendersi dall’uno all’altro oggetto, attraverso un qualunque
nesso associativo, rendendo il nuovo oggetto «impossibile», secondo la calzante espressione di una
mia ammalata, fino a che è il mondo intero a trovarsi sotto un embargo di «impossibilità». […] La
forza del divieto, il suo carattere ossessivo, dipende dal rapporto che lo lega alla sua controparte
inconscia, cioè al desiderio sempre vivo nell’inconscio di realizzare una necessità interiore
inaccessibile al riconoscimento cosciente. La facoltà propria del divieto di spostarsi e di espandersi
riflette un processo suscitato dal desiderio inconscio, il quale è in special modo secondato dalle
condizioni psicologiche in cui l’inconscio si trova. Per evitare le barriere entro le quali si viene a
trovare, il desiderio si sposta in continuazione e cerca di procacciarsi i surrogati dei divieti (oggetti
e pratiche sostitutive). Nello stesso tempo però è anche il divieto a spostarsi e ad estendersi a tutti i
nuovi scopi dell’impulso proibito. Ogni volta che di nuovo la libido rimossa urge, il divieto reagisce
acuendosi ancora. L’ostacolo che vicendevolmente le due forze in lotta contrappongono fa nascere
una necessità di sfogo, in maniera da diminuire la tensione.» (Freud, Totem e tabù, 44-5, 47)
1.4.1. la funzione e il ruolo della censura. «La censura non è solo un’istanza che reprime, come si
sarebbe portati a credere dato il parallelismo con l’istituzione politica: è un processo che permette il
passaggio dei contenuti fra le varie zone della psiche. [ad esempio] L’arte si colloca in un’ampia
sfera che va dall’espressione meccanica del desiderio, considerata rozza e poco interessante,
all’eccesso di controllo e di deformazione, che inibirebbe del tutto il piacere estetico. Come si vede,
siamo ben lontani dalla registrazione immediata delle fantasie inconsce che i surrealisti auspicavano
proponendo la tecnica della scrittura automatica, ispirandosi proprio a Freud, il quale mostrò invece
sempre scarsissima sintonia nei loro confronti, come nei confronti di tutte le avanguardie.» (Fusillo,
Estetica della letteratura, o.c. p.65)
1.4.2. il modo e le forme dello spostamento. La rimozione, cioè l’estromissione dell’impulso
pulsionale dalla coscienza, non impedisce quindi alla pulsione di persistere nell’inconscio,
organizzarsi ed essere attiva e aprirsi la strada ad un soddisfacimento; a cogliere e indicare la
successiva dinamica ricorrono i termini: traslazione, transfert, proiezione, sublimazione,
compensazione, soddisfacimento sostitutivo … per indicare le situazioni emerse nelle esperienze
dell’analisi e oggetto di analisi: transfert affettivo, paraprassie (psicopatologie, gli “atti mancati”)
della vita quotidiana, attività onirica, totem e tabù e soprattutto, in generale, nevrosi (psiconevrosi),
ecc.
1.4.3. compito e risultato della psicanalisi è il riconoscimento e l’analisi delle forme di spostamento
a partire dalla scoperta e dalla descrizione degli atti non giustificati (mancati, non funzionali allo
scopo, privi di evidente scopo), sia quelli propri della vita considerata “normale” (paraprassie della
vita quotidiana) sia quelli considerati segno di patologia in atto (nevrosi più o meno ossessive).
1.4.4. assenza di rigido confine tra normale e patologico. La vasta diffusione della logica dello
spostamento e la varietà delle forme assunte richiamano la natura sia normale che patologica del
processo di soddisfazione e rispetto del divieto; tra normale e patologico non è possibile tracciare
un preciso confine, si può parlare solo di livelli di maggior o minor evidenza di soddisfacimento
sostitutivi in base ai contesti di comportamento e al grado di apertura, tolleranza sociale
generalizzato e condiviso.
1.4.5. la volontà di comprensione – spiegazione all’origine dello spostamento e delle ambivalenze.
Freud stessa spiega questa volontà con riferimento (in forma di introduzione e esempio) a quanto
emerge dall’analisi dei sogni e dalla rielaborazione secondaria fornita dal paziente sugli episodi
della vita onirica da lui vissuti: «L’elaborazione secondaria del risultato del lavoro onirico
costituisce il tipico esempio della natura di un sistema e di tutte le sue esigenze. C’è in noi una
funzione intellettuale che esige da tutto il materiale che si offre alla percezione o al pensiero un
minimo di unità, di connessione e d’intelligibilità e non esita a creare un nesso errato se, a causa di
particolari circostanze, non può comprendere quello esatto. Conosciamo questi sistemi non soltanto
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dal sogno, ma anche dalle fobie, dai pensieri ossessivi e da alcune forme di delirio. Il sistema
s’impone e domina il quadro clinico nelle malattie deliranti (paranoia); ma anche nelle altre forme
di neuropsicosi esso non va trascurato. Siamo in grado di provare che in tutti questi casi c’è stato un
riassestamento del materiale psichico in vista di un nuovo scopo, riassestamento spesso assai
violento se il risultato deve apparire intellegibile dal punto di vista del sistema. Ciò che soprattutto
contraddistingue la formazione di un sistema è il fatto che ogni suo risultato fa intravedere almeno
due motivazioni, una che muove dalle premesse del sistema – quindi eventualmente di natura
delirante - ed un’altra nascosta, che però dobbiamo riconosce come quella effettivamente valida e
reale.» (Totem e tabù 106). (Come se, nel caso specifico, venisse messo in atto un doppio percorso,
in realtà convergente, di ricerca di una spiegazione che risponda a coerenza, di contenimento del
disagio e del timore derivante da assenza di spiegazioni.)
1.5. ambivalenza in atto nel disagio (ambivalenza di atteggiamenti verso un’azione, un
oggetto, un comando …)
1.5.1. la dinamica narrata. «Ecco come procede la storia clinica, per quel che la riguarda, in un
tipico caso di fobia del contatto. In origine si è manifestato, nella primissima infanzia, un intenso
piacere di toccare, il quale tendeva ad uno scopo ben più definito di quanto si sarebbe disposti a
supporre. A questo piacere si oppose, ben presto, una proibizione dall’esterno di quel particolare
tipo di contatto. La proibizione fu accettata per il fatto che si trovava sorretta da grandi forze interne
e perché si dimostrò più potente dell’impulso che induceva al contatto. Tuttavia, data la costituzione
psichica originaria del bambino, il divieto non giunse fino ad eliminare del tutto la tendenza. Esso
riuscì soltanto a rimuovere l’impulso, il desiderio del contatto; ed a confinarlo nell’inconscio. In
questo modo divieto ed impulso continuarono ambedue ad esistere: l’impulso perché era stato solo
rimosso e non eliminato, il divieto perché, se fosse venuto meno, avrebbe permesso il ritorno alla
coscienza dell’impulso e la sua conseguente soddisfazione. In una situazione di questo genere, non
risolta, si determina una fissazione psichica, e dal conflitto fra la proibizione e l’impulso, poi,
scaturisce tutto il resto.
La caratteristica più importante dell’insieme dei fenomeni psichici che risultano in questo modo
fissati, sta in quel che potrebbe definirsi l’atteggiamento ambivalente dell’individuo verso un
particolare oggetto o, per meglio dire, verso un’azione connessa con quell’oggetto.
Egli desidera nello stesso tempo svolgere quest’azione (toccare) ed aborre da essa. Il conflitto fra le
due tendenze non è facilmente risolvibile, perché la loro localizzazione psichica non è tale da
permettere il loro incontro. Il divieto è perfettamente cosciente, mentre il piacere prepotente di
toccare è inconscio. La loro diversa localizzazione determina inoltre (e queste rende ancor più
difficile l’incontro) un comportamento (logico-dinamico) diverso perché ispirato e sorretto da
diversi principi: del piacere (inconscio), della realtà (coscienza). Se non si realizzasse una
situazione psicologica di questo genere, una ambivalenza non potrebbe resistere per un così lungo
tempo, né comporterebbe tali conseguenze.
Noi abbiamo osservato quale fenomeno decisivo, nella storia clinica testé riassunta, l’imposizione
del divieto nella primissima infanzia. Tutto il successivo meccanismo della nevrosi si deve far
risalire alla rimozione che si è prodotta in questa età. La motivazione del divieto cosciente rimane
ignota dal momento che è stata rimossa e connessa ad un’amnesia. Finisce per fallire qualsiasi
tentativo di ricerca mentale, poiché tale tentativo non sarà mai in grado di raggiungere un punto al
quale riallacciarsi.» (Freud, Totem e tabù, 46-7)
1.5.2. ambivalenza attiva in situazione antropologico sociale. «Questi popoli posseggono dunque
atteggiamento ambivalente verso i precetti del tabù. Essi vorrebbero inconsciamente violarli, ma
temono nel contempo di farlo: lo temono appunto perché lo desidererebbero, ma la paura è più forte
del piacere. Questo piacere conserva però per ogni individuo che faccia parte della tribù, così come
per il nevrotico, una vita inconscia. … in fondo al tabù c’è un’azione proibita, per la quale esiste
nell’inconscio una attrazione nettissima.» (Freud, Totem e tabù, 48, 49)
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1.5.3. ambivalenza attiva in situazione di nevrosi ossessiva, un quadro sintomatico. «Conosciamo a
fondo la sua origine. Essa insorge nei casi in cui accanto all’affettuosità predominante sussiste un
sentimento di inconscia ostilità, cioè quando si verifica il tipico caso di un atteggiamento affettivo
ambivalente. L’ostilità viene allora soffocata da un smisurata tenerezza che si manifesta in forma
angosciosa che diventa ossessiva perché altrimenti non basterebbe al suo compito, che consiste nel
tenere rimosso il sentimento opposto. Non c’è psicoanalista che non abbia constatato con quanta
certezza, nelle situazioni più inverosimili (per esempio, tra madre e figlio o tra coniugi molto uniti),
questa spaventosa iperaffettuosità possa essere spiegata in questo modo.» (Totem e tabù 65) Il
ricorrere più generale dell’ambivalenza degli impulsi affettivi: «In quasi tutti i casi di forte
attaccamento ad una persona si riscontra questa avversione celata nell’inconscio dietro un tenero
affetto: si tratta del tipico caso, del prototipo dell’ambivalenza degli impulsi affettivi. Questa
ambivalenza, quando più quando meno, è insita nell’uomo; nei casi normali non ce n’è tanta che ne
possano derivare i descritti autorimproveri ossessivi. Però, qualora sia presente in forma più
accentuata, si rivela appunto nei rapporti con le persone più care, cioè proprio nei casi più
impensati.» (Totem e tabù 74)
1.5.4. l’ambivalenza delle dinamiche pulsionali è attiva per la sua residenzialità in doppio contesto,
in doppio luogo della psiche. «L’azione ossessiva è apparentemente un atto di difesa contro ciò che
è proibito, ma in realtà ne è una riproduzione. L’apparenza si riferisce alla vita psichica conscia, la
realtà alla vita inconscia.» (Totem e tabù 66). Si tratta di un processo difensivo che la psicanalisi
indica con il termine “proiezione”, «diffuso nella vita psichica sia normale che patologica» (Totem e
tabù 76,77), «serve alla soluzione di un conflitto affettivo; in parecchie situazioni psichiche che
conducono alla nevrosi essa adempie alla stessa funzione.» (Totem e tabù 78)
[Si può concludere in relazione semplificata e schematica: conscio = apparenza; inconscio = realtà
(anche l’apparenza è una realtà: l’apparire della realtà)].
2. la formazione della coscienza morale
Nelle lezioni del 1930, Freud riassume l’evolversi della psicanalisi, nata con primari intenti
terapeutici: «La teoria ha nel frattempo compiuto dei progressi; parti importanti quali la
scomposizione della personalità in un Io, un Super-Io e un Es, una profonda modificazione della
dottrina delle pulsioni, ipotesi relative al sorgere della coscienza morale e del senso di colpa, si sono
aggiunte ad essa.» (Freud, Introduzione o.c. p.16).
L’ambivalenza delle pulsioni affettive e la loro dinamica legata alla logica dell’inconscio e alla
complessità della psiche diventano contesto obbligato per lo studio della nascita e della funzione dei
comportamenti etici, degli aspetti normativi presenti in ogni sistema morale e, più ampiamente, di
ogni sistema culturale. Freud concludeva (1913) gli studi di psicologia e psicanalisi antropologica
presentati in Totem e tabù con queste parole: «Potrei dunque terminare e riassumere questa rapida
ricerca rilevando che nel complesso di Edipo si ritrovano i principi insieme della religione, della
morale, della società e dell’arte e ciò in piena conformità con i dati della psicoanalisi che vede in
questo complesso la sostanza di tutte le nevrosi, per ciò che della loro natura siamo finora riusciti a
penetrare.» (Totem e tabù 166)
2.1. l’analisi degli “atti mancati” e la complessità intenzionale generale dell’agire
La psicanalisi è anche studio dei comportamenti interpretati come segni e sintomi per la lettura della
psiche e la terapia delle nevrosi; da questo punto di vista ha una evidente connessione con la
filosofia pratica che pone a tema l’agire dell’uomo con l’intento di sostenerne l’efficacia. La
prospettiva di studio assolutamente nuova scelta dalla psicanalisi nel campo dell’azione è fornita dal
tema che è posto come primo argomento di presentazione della psicanalisi nelle lezioni tenute da
Freud dal 1915 al 1917 (Freud Sigmund, Introduzione alla psicanalisi, Bollati Boringhieri, Torino
1978). È l’analisi degli “atti mancati”.
2.1.1. definizione e motivo: «fenomeni che sono molto frequenti, molto noti e tenuti in assai poco
conto, fenomeni che non hanno nulla a che vedere con le malattie, in quanto possono venir osservati
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in ogni persona sana. Si tratta dei cosiddetti “atti mancati” cui tutti vanno soggetti. Ciò accade per
esempio quando si vuol dire una cosa e al suo posto se ne dice un’altra (lapsus verbale), o quando
succede lo stesso nello scrivere, sia che ci se ne renda conto o no; oppure quando si legge in un
foglio stampato o in un manoscritto qualcosa di diverso da quello che vi è scritto (lapsus di lettura);
o, analogamente, quando si ode in modo errato qualcosa che viene detto (lapsus di ascolto),
ovviamente senza l’intervento di una perturbazione organica delle facoltà uditive. Un’altra serie di
fenomeni di tal genere ha per base una dimenticanza, non permanente però, ma soltanto
temporanea; per esempio, quando non si sa trovare un nome, che pure si conosce e si riconosce
regolarmente, o quando si dimentica di attuare un proposito, di cui più tardi ci si ricorda e che
quindi si era dimenticato solo per un determinato momento. … Non sottovalutiamo i piccoli indizi;
forse a partire da essi, sarà possibile trovarsi sulle tracce di qualcosa di più grande. … Se lo si fa
con scrupolo, senza ipotesi o aspettative preconcette, e se si ha fortuna, anche da un lavoro così
privo di pretese può scaturire l’appiglio allo studio dei grandi problemi, grazie al nesso che lega
tutto con il tutto, anche il piccolo col grande». (Freud, Introduzione p.27, 29)
Una riflessione sull’agire che parte dall’analisi degli atti mancati, dal “fallimento” dell’azione. Atti
che difficilmente possono considerarsi morali perché privi di intenzionalità nella loro origine e di
efficacia visibile nel loro risultato. A partire da loro Freud coglie lo specifico dell’azione umana, la
dinamica e la funzione. Andando dietro quegli atti, con tecniche psicanalitiche, ricostruisce la
struttura e il sistema della psiche dell’uomo e la dinamica che sorregge in generale ogni azione.
Sono gli atti mancati, non ridotti a “inezie” irrilevanti, a impedire la riduzione della psiche alla sola
superficie della coscienza, a rimandare ad una sua complessa profondità; «posso assicurarvi che,
con l’ammissione di processi psichici inconsci, si è aperto un nuovo, decisivo orientamento nel
mondo e nella scienza.» (Freud, Introduzione p. 23) Perciò «La psicologia dell’Io, alla quale
aspiriamo, non deve essere fondata sui dati della nostra autopercezione, ma, come per la libido,
sull’analisi dei disturbi e delle devastazioni dell’Io.» (Freud, Introduzione p. 381)
2.1.2. interpretazione e scoperta. L’esame degli atti mancati parte dalla constatazione di una
sovrapposizione («ci sembra che talvolta l’atto mancato sia di per se stesso un’azione del tutto
normale che si è messa al posto di un’altra azione attesa e progettata» Freud, Introduzione p.36) e
mette poi in evidenza come in essi vi sia una intenzione (intenzionalità) e un effetto (esito) dotati di
specifiche caratteristiche. In essi si intrecciano indistricabilmente inconscio e coscienza:
apparentemente sono di ostacolo e disturbo, in realtà soddisfano pulsioni ed emozioni profonde
(inconsce o non del tutto coscienti) della psiche di cui sono sintomo, cioè segno e soddisfacimento.
Per comprendere tale loro esito è necessario evidenziarne l’ambivalenza sentita dal soggetto nei
confronti dell’esito che determinano, cioè il soddisfacimento (rifiuto e desiderio) e la doppia sede
dell’atto (collocato appunto nell’intreccio e rimando tra coscienza e inconscio). «La mia
interpretazione implica l’ipotesi che in colui che parla possano esternarsi intenzioni di cui egli
stesso non sa nulla, ma che sono in grado di inferire sulla base di indizi … Possiamo ora affermare
di aver fatto ulteriori progressi nella conoscenza degli atti mancati. Non solo sappiamo che essi
sono atti psichici nei quali si può riconoscere un senso e un’intenzione, non solo che hanno origine
dall’interferenza di due diverse intenzioni, ma anche che una di queste intenzioni, per giungere ad
esprimersi attraverso la perturbazione dell’altra, dev’essere stata in certo modo trattenuta
dall’attuarsi. Dev’essere stata perturbata essa stessa, prima di diventare perturbatrice» (Freud,
Introduzione p. 61, 62; le lezioni di Freud si affidano a molte analisi di atti mancati e dei sogni:
Freud, Introduzione lezioni 1-15).
2.1.3. una concezione dinamica dei fenomeni psichici: «Noi non vogliamo semplicemente
descrivere e classificare i fenomeni, ma concepirli come indizi di un giuoco di forze che si svolge
nella psiche, come l’espressione di tendenze orientate verso un fine, che operano insieme o l’una
contro l’altra. Ciò che ci sforziamo di raggiungere è una concezione dinamica dei fenomeni
psichici. Nella nostra concezione i fenomeni percepiti vanno posti in secondo piano rispetto alle
tendenze, che pure sono soltanto ipotetiche.» (Freud, Introduzione o.c. p. 63) «Per raffigurarci
concretamente questa eventualità supponiamo che ogni processo psichico esista dapprima in uno
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stadio o fase inconscia e che solo da questa passi alla fase conscia, pressappoco come un’immagine
fotografica dapprima è una negativa e poi diventa una vera figura attraverso la riproduzione
positiva. Non ogni negativa, tuttavia, deve necessariamente diventare una positiva; allo stesso modo
non è necessario che ogni processo psichico inconscio si trasformi in un processo cosciente. Ci
esprimeremo meglio dicendo che il singolo processo appartiene dapprima al sistema psichico
dell’inconscio e poi, se si verificano certe condizioni, può passare nel sistema di ciò che è
cosciente.» (Freud, Introduzione, o.c. p. 267)
2.1.4. una concezione generale dell’agire umano (per estensione generale della logica degli atti
mancati): l’esito si traduce in attenzione specifica a tutto l’agire dell’uomo. La natura dell’azione, la
sua intenzione e i suoi effetti in termini di risultati storici e psicologici (di raggiungimento degli
obiettivi e di soddisfazione piacevole), non si riducono a quanto emerge alla coscienza vigile di
colui che agisce, ma risulta dal concorso dinamico di molte componenti. Prendere atto della
dinamica complessa dell’azione, di ogni azione, è rendere possibile la scoperta e l’incontro con la
persona, con noi stessi e con gli altri, nella sorprendente ricchezza delle componenti attive e delle
potenzialità. (È ricorrente in Freud l’invito a non opporre e nemmeno separare con netti confini le
cosiddette situazioni del normale e del patologico)
2.2. la natura e il ruolo della coscienza morale in rapporto con la formazione del Super-Io
2.2.1. origine. Il Super-Io si costituisce attraverso l’accumulo di divieti, obblighi, censure, punizioni
che nell’infanzia ogni individuo subisce dai genitori, dagli educatori e da ogni forma di
condizionamento sociale; interiorizzati e organizzati, questi divieti e obblighi vengono a costituire
uno specifico (per contenuti, logica di comportamento e funzione) nucleo della psiche, per livello e
per dinamica è per lo più inconscio, e si comporta come un severo giudice; per questi ultimi tratti il
Super-Io viene considerato (non del tutto erroneamente) come la versione psicoanalitica della
cosiddetta “coscienza morale” individuale. Formatosi nel soggetto dietro un lungo processo di
contatto e rapporto educativo con il mondo sociale organizzato (in atto soprattutto dopo il
superamento del complesso di Edipo), il Super-Io diventa infatti la sede delle istanze morali, norme,
principi, valori, stili di vita, modalità di giudizio e di relazione e comprende anche quella che suole
appunto essere indicata come «coscienza morale».
2.2.2. comportamento. Questi elementi, tuttavia, diventano fattori determinanti del comportamento,
agendo in modo immediato e spontaneo come delle vere e proprie pulsioni, solo in quanto sono stati
interiorizzati attraverso un processo di identificazione, diventando così componenti dell’inconscio e
agendo, di conseguenza, secondo la logica dell’inconscio: il principio del piacere, la rivendicazione
di un immediato soddisfacimento. Non sono quindi principio di comportamento adottati e attivi in
forza della libera e cosciente scelta e adesione del soggetto a un sistema di valori; in tal caso la loro
incidenza sull’agire risulterebbe fragile, facilmente travolta dalla forza delle pulsioni affettive
originarie. Norme, divieti, istanze di valore, precetti agiscono nella persona quando, interiorizzate,
si comportano come pulsioni dell’inconscio (della parte dell’inconscio denominata Super-Io); solo
con lungo sforzo (riflessivo e analitico) possono acquisire anche la caratteristica, solitamente loro
attribuita, di produzioni razionali e di convinzioni vagliate, deliberate e scelte dal soggetto che
opera assumendole a guida, come se fossero prodotto della sua coscienza morale. La natura per lo
più inconscia del Super-Io guida a avvertire la natura anch’essa per lo più inconscia della cosiddetta
“coscienza morale” o del senso morale e permette di cogliere, di conseguenza, la logica del suo
agire. Diventa altrimenti impossibile comprendere la dinamica di alcuni atteggiamenti morali
ricorrenti e diffusi: atteggiamenti dogmatici, posizioni irrigidite, talora violente ed emotive,
incontrollate, irragionevoli (incapaci di dare una propria plausibile ragione), non disponibili al
confronto; sia che tali affermazioni dei principi e dei giudizi morali vengano espressi a livello
individuale (di intolleranza e implacabile giudizio emesso dall’individuo nei confronti di se stesso),
sia che diventino orientamento e giudizio collettivo (di intolleranza e implacabile giudizio emesso
dalla società [presentati spesso nei termini di senso comune, buon senso] nei confronti dei singoli
individui). Mettere in discussione o sottoporre a verifica convinzioni morali e abitudini di giudizio
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è quindi sempre anche esercitare una forma di violenza nei confronti di pulsioni inconsce, cioè nei
confronti della componente profonda, attiva, strettamente personale (Lacan) della psiche. Si
comprendono le vivacità delle reazioni e delle resistenze che si manifestano quando tale obiettivo
vorrebbe essere avviato e raggiunto.
2.2.3. la dinamica di mediazione. All’Io, regione “intermedia” della psiche, compete il ruolo di
mediatore tra le contrapposte istanze dell’Es e del Super-Io: a seconda di come esso riesce a
svolgere la sua funzione di raccordo tra istanze pulsionali e ragioni morali e sociali, la personalità
del soggetto si presenterà con una sua propria fisionomia e, a giudizio sociale, verrà ritenuta più o
meno equilibrata. Considerazione personale e giudizio sociale sono strettamente interdipendenti:
«Chi si avvicini al problema del tabù dal punto di vista psicoanalitico, cioè dall’esame
dell’inconscio nella vita psichica individuale, arriverà ben presto alla conclusione che fenomeni di
questo genere non gli sono affatto estranei. Egli ha incontrato individui i quali si sono creati da se
stessi i divieti dei tabù, e che li seguono con la stessa scrupolosità con la quale i selvaggi seguono
quelli della loro tribù. Se non esistesse già una terminologia abituale secondo la quale queste
persone sono degli «ossessivi», esse potrebbero ben esser chiamate «ammalati di tabù». Ma quando
attraverso l’esame psicoanalitico egli riesce a chiarire questa malattia, la sua eziologia clinica e gli
elementi fondamentali della sua struttura psicologica, non può che a gran fatica rinunciare ad
applicare la nuova cognizione al fenomeno sociologico parallelo.» (Totem e tabù, 43)
2.3. ambivalenza e rimozione nella lettura dei comportamenti etici (azioni e virtù)
Lo studio dell’apporto specifico di Es (pulsioni e forza), Super-Io (valori, divieti, obblighi e
censure), Io (strategia personale di gestione e mediazione) porta a sostenere la tesi che
l’ambivalenza di fronte ad una azione, situazione, desiderio, oggetto… è il tratto specifico non solo
del comportamento morale ma, più generalmente, della cosiddetta coscienza morale. Bivalenza che
si manifesta con particolare evidenza nel caso della condanna di comportamenti; o meglio, nel caso
di una condanna “interiore”: il senso di colpa avvertito in occasione della realizzazione di
particolari desideri, non necessariamente catalogati dal senso comune come riprovevoli
(emblematico è l’analisi esposta da Freud nel breve racconto: Un disturbo della memoria
sull’Acropoli). La riprovazione della coscienza, a livello cosciente quindi, si accompagna alla
sensazione piacevole difficilmente sopprimibile (per lo più inconscia) derivata dal soddisfacimento
che l’azione ha provocato. «La coscienza morale è l’interiore percezione di una condanna per
qualche nostro particolare desiderio. L’accento però, viene posto sul fatto che questo rimprovero
non ha bisogno di ricollegarsi a niente, che è sicuro di sé. Questo carattere ci appare con ancora
maggiore evidenza nel senso di colpa, cioè nella percezione dell’interiore riprovazione per gli atti
con cui abbiamo realizzato particolari desideri. In questo caso una motivazione appare superflua:
tutti quelli che posseggono una coscienza avvertono in sé la ragione della condanna, il biasimo per
l’azione compiuta. […] Probabilmente anche la coscienza morale sorge dunque, sul terreno
dell’ambivalenza affettiva, da certi rapporti umani in cui è insita questa ambivalenza, e nelle
condizioni che abbiamo stabilito per il tabù e la nevrosi ossessiva, cioè che un elemento dell’antitesi
sia inconscio e costretto dall’altro in stato di rimozione. Vari dati ricavati dall’analisi della nevrosi
concordano con questa conclusione. […] Si può quindi affermare che, se non riusciamo a scoprire
l’origine del senso di colpa nei malati ossessivi, dobbiamo rinunciare a sperare in altre opportunità.
Dunque, la soluzione del problema è facile nel caso di un singolo individuo nevrotico; così
possiamo sperare di arrivare allo stesso risultato anche per quanto riguarda i popoli.» (Totem e tabù,
82)
2.4. ridefinizione dei concetti etici di intenzione, responsabilità, scelta, libertà, colpa, felicità …
a partire dalle competenze della psicanalisi.
2.4.1. I concetti morali di libertà, scelta, intenzione, felicità, “sommo bene” ecc. vanno riscontrati
nella gestione personale della relazione tra i vari aspetti della psiche, della irrinunciabile
ambivalenza delle pulsioni-azioni, dei due principi del piacere e della realtà, della diversa logica che
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contraddistingue il comportamento spontaneo determinato dalle pulsioni e dalle norme, dei processi
di traslazione (spostamento, nelle sue varie forme) attuati allo scopo di realizzare le originarie
pulsioni affettiva in armonia (tollerata e condivisa) con istanze e regole già socialmente esistenti…
nella consapevolezza di non poter più tracciare confini tra sano e malato, normale e anormale,
naturale e innaturale sia con riferimento a situazioni individuali sia nel campo delle relazioni
sociali.
Lo sviluppo armonico della personalità si fonda sulla capacità dell’Io di regolare, mediante il
principio di realtà, le pulsioni dell’Es che esigono una soddisfazione immediata e diretta: nella
maturazione dell’individuo il principio di piacere, che invoca la più rapida realizzazione degli
impulsi libidici, verrà regolato dal principio di realtà che tiene opportunamente conto delle
condizioni della realtà esterna e cerca di mediare, in tal modo, le conflittualità interiori. Là dove
l’Es è troppo esigente o il Super-Io è troppo debole, può accadere che la mediazione dell’Io non si
realizzi e che si manifestino comportamenti devianti; quando invece il Super-Io è troppo esigente e
reprime con eccessivo rigore le pulsioni dell’Es, l’alterazione dell’equilibrio psichico può dar luogo
a comportamenti nevrotici.
2.4.2. I concetti di bene e male e i paralleli dualismi [manichei] che li accompagnano. La psicanalisi
annovera a proprio merito, e come condizione per risolvere conflitti fonte di nevrosi, il superamento
di antichi dualismi e rigide contrapposizioni.
2.4.2.1. È più volte ribadita l’impossibilità di tracciare un netto confine tra patologico e normale; i
due concetti tendono a perdere significato e rilevanza.
2.4.2.2. In campo etico, parallelamente, cade la possibilità di una netta e assoluta distinzione e
contrapposizione tra bene e male. «Ci soffermiamo con maggior insistenza sulla malvagità
dell’uomo solo perché gli altri non vogliono ammetterla, con il risultato non di rendere migliore la
psiche umana, ma di renderla incomprensibile. Se rinunceremo alla valutazione unilateralmente
etica, potremo certamente trovare una formula più corretta per quanto riguarda il rapporto tra il bene
e il male nella natura umana.» (Freud, Introduzione o.c. p 134-135)
2.4.2.3. Più in generale gli antichi e tradizionali dualismi sono compresi e riletti come ambivalenze.
E l’ambivalenza è l’aspetto specifico di ogni agire, e soprattutto dell’agire morale, così come risulta
fin dall’analisi degli (innocui) atti mancati.
3. psicanalisi e società
«… come, applicando il metodo psicoanalitico, i fatti della psicologia dei popoli possano essere
visti sotto aspetti completamente nuovi». (Totem e tabù, 34)
3.1. le ipotesi e i campi dell’indagine
L’attenzione analitica di Freud, a partire soprattutto dal 1910, si allarga a questioni antropologiche e
sociali. In Totem e tabù (1914) individua l’origine storico-antropologica del senso di colpa nella
ribellione compiuta in età remota dai figli maschi contro il capo-padre cui hanno sottratto con il
parricidio il monopolio dell’accoppiamento con le donne dell’orda. Nel Disagio della civiltà (1929)
smaschera le limitazioni imposte alla libertà dell’individuo dal processo di civilizzazione indicando
in quest’ultimo il responsabile del sacrificio delle pulsioni sessuali cui ciascun individuo è
sottoposto nella società; imponendo agli uomini di deviare la propria libido verso attività
socialmente utili (mentre la pratica sessuale tende essenzialmente al piacere), la civiltà li costringe a
un sacrificio continuo. Il principio di realtà, che regola il soddisfacimento dei desideri tenendo
conto delle condizioni imposte dalla realtà esterna, prevarica allora con eccessivo rigore sul
principio di piacere, dando origine alle nevrosi: l’individuo paga con la malattia psichica il prezzo
della civiltà.
3.2. storicità sociologica e psicologica della coscienza morale, considerata agire anche nelle
manifestazioni reattive (nevrotiche) di fuga e di rifiuto.
«Già da quest’ultimo confronto tra il tabù e la nevrosi ossessiva si possono intuire i rapporti fra le
nevrosi e le istituzioni culturali, e come un’estrema importanza per la comprensione dell’evoluzione
della civiltà vada attribuita allo studio della psicologia delle nevrosi. Da un lato le nevrosi
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presentano chiare e profonde concordanze con le grandi istituzioni sociali inerenti l’arte, la religione
e la filosofia; dall’altro ci appaiono come deformazioni delle istituzioni stesse. Potremmo quasi dire
che l’isterismo è una deformazione di un’opera d’arte, la nevrosi ossessiva una deformazione della
religione, il delirio paranoico una deformazione di un sistema filosofico. In definitiva questa
diversità si spiega col fatto che le nevrosi sono formazioni asociali, che si sforzano di creare con
mezzi privati ciò che la società ha creato col lavoro collettivo. Analizzando le tendenze che sono
alla base delle nevrosi si comprende che in esse esercitano l’influsso decisivo forze istintuali
d’origine sessuale, mentre le corrispondenti produzioni culturali sono basate su impulsi sociali, cioè
su quelli che sono derivati dall’unione di elementi egoistici ed erotici. L’esigenza sessuale non è
appunto in grado di tenere uniti gli uomini come lo fa l’istinto di conservazione; il soddisfacimento
sessuale è in primo luogo faccenda privata dell’individuo. Dal punto di vista genetico, la natura
asociale della nevrosi dipende dalla sua originaria tendenza a fuggire da una realtà insoddisfacente
in un mondo immaginario pieno di attraenti promesse. Nel mondo reale, da cui il nevrotico rifugge,
domina la società umana con le istituzioni create col lavoro collettivo; volgendo le spalle alla realtà
il nevrotico si ritira dalla comunità umana. (Totem e tabù, 86)
Confronto e conclusione: l’elemento che lega le due proposte Nietzsche – Freud
1. Il metodo analitico della scoperta e della fondazione: dai dualismi (metafisici ed etici)
all’analisi e cura. Vengono sconfessati i dualismi classici e tradizionali di tipo metafisico ed etico
(bene e male, anima e corpo, spirito e materia, ragione e impulsi …) nella loro pretesa di costituirsi
soggetti autonomi e ben definiti di comportamento. Vengono ripresi nel loro ruolo di lettori etici
dell’azione in quanto, ridefiniti, permettono un percorso di scoperta e di intervento analitico.
1.1. I tanti dualismi diventano in Nietzsche strumento di denuncia della tendenza a costruire un
mondo doppio; tendenza che genera, nel campo etico, atteggiamenti di disprezzo nei confronti della
vita. Nella diagnosi di Nietzsche infatti, la cultura dell’apollineo, dell’ordine, del sistema e delle
regole attua una costruzione fittizia di un altro mondo oltre e opposto a quello della vita nel suo
darsi autonomo e primo. La visione ordinata e composta della realtà, i progetti di salvezza
dell’umanità, i valori dell’etica dei vinti ( la solidarietà, il sacrificio, la dedizione…) si sono
costituiti come morale dominante in forza di una reazione: nascono come processi reattivi di difesa,
di negazione o freno opposti ad atteggiamenti più originari e fondamentali, il “dionisiaco” e le sue
naturali e istintive manifestazioni. La morale (l’etica) è il rivestimento degli istinti, la seconda
natura degli istinti, così come la morale è la seconda natura dell’uomo (di qui l’ambivalenza dei
sentimenti). (Aurora § 38) Di contro Zarathustra annuncia il ritorno al senso della terra, della
fedeltà alla sua complessità e al suo divenire.
1.2. Nella analisi di Freud i dualismi prendono la dinamica della ambivalenza scoperta in ogni
azione: evidente negli atti mancati e, ancor più, nelle nevrosi, ma propria di processi culturali
individuali e sociali propri del vivere definito normale. Non i dualismi, ma l’ambivalenza permette
di leggere l’azione dell’uomo, di valorizzarne e sostenerne la ricchezza e le direzioni. Le pulsioni
originarie conservate in modo attivo in quanto costituenti l’inconscio e la sua energia sorretta dal
“principio del piacere”, giungono a soddisfazione attraverso un loro spostamento in aree e in
contesti accettati secondo il “principio della realtà”; ciò che emerge alla coscienza e giunge a
sistema culturale definito razionalmente è allora ciò che ha storicamente superato atteggiamenti di
controllo e censura.
1.3. Per una sociologia dell’ambivalenza. Spunti iniziali. Calabrò Anna Rita 1997 L’ambivalenza
come risorsa. La prospettiva sociologica, Laterza, Roma-Bari.
«Le persone hanno spesso comportamenti contraddittori. Dichiarano un’intenzione per poi agire in
maniera apparentemente contraria, provano sentimenti contrastanti rispetto alle stesse persone e alle
stesse situazioni, esprimono opinioni che sembrano negare subito dopo con opinioni di segno
contrario, comunicano tra loro in modo tale da lasciare ampi margini di dubbio sul significato reale
di ciò che essi intendono. p.3
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Il termine ambivalenza, invece, definisce una situazione molto circoscritta e particolare. Possiamo
dire che si ha una configurazione ambivalente quando agiscono contemporaneamente due differenti
istanze A e B, istanze che possono avere a che fare con le credenze, le motivazioni, i bisogni, gli
statuti normativi, i valori, i sentimenti, i modelli di conoscenza. Tali istanze, che possono riferirsi ad
individui, gruppi o classi, sono in relazione tale da risultare tra loro contrapposte, irriducibili l’una a
l’altra, ineliminabili a vicenda perché l’una garanzia dell’esistenza dell’altra; non possono essere
risolte in una sintesi e creano un campo di tensione all’interno del quale agisce l’attore sociale.» p. 4
In presentazione dalla Prefazione: «I proverbi, si sa, sono un condensato di precetti che la saggezza
popolare ha accumulato per insegnare agli uomini l’arte di ‘saper vivere’. Uno, assai noto, ci
sconsiglia di volere contemporaneamente ‘la botte piena e la moglie ubriaca’, un altro, ci suggerisce
di ‘dare un colpo al cerchio e uno alla botte’ e altri ancora ci invitano, in certe situazioni, a ‘usare il
bastone e la carota’ e, in altre, a cercare di ‘salvare capra e cavoli’. Non c’è dubbio, la saggezza
popolare non solo riconosce la presenza quotidiana di ambivalenza, ma ci aiuta a muoverci in essa
e, talvolta, sembra quasi che ne celebri l’elogio. Perché allora l’ambivalenza continua ad essere
considerata una ‘brutta cosa’? In effetti, nessuna persona ragionevole ama avere a che fare con
individui ambivalenti (non si sa mai bene quali sono le loro vere intenzioni) o a trovarsi in
situazioni ambivalenti (non si sa mai bene che cosa ci si può aspettare e come ci si deve
comportare). E altrettanto poco piacevole è la situazione nella quale non si sa bene che cosa si
desidera, o che cosa si teme, di più. L’ambivalenza, nostra o altrui, è un’infinita fonte di disagio,
una componente della ‘fatica di vivere’ in un mondo dominato dall’incertezza. Eppure, nulla meglio
dell’ambivalenza esprime il fondamento della condizione umana. Un mondo privo di ambivalenza
sarebbe un mondo popolato da angeli o da robot e finché gli esseri umani non diventeranno tutti
angeli, o robot, dovremo convivere con l’ambivalenza. Dovremo fare, tanto per non abbandonare i
luoghi comuni, di ‘necessità virtù’. p.V La sfida non si risolve eliminando la dimensione, ma
facendo ‘chiarezza’ sull’ambivalenza. p.VI. (ivi, Cavalli Alessandro, Prefazione)
2. Avanzare per indizi, enigmi e metafore. Con l’attenzione rivolta ai momenti in cui un
procedimento, un meccanismo si inceppa, si interrompe bruscamente e diventa segnale di disagio e
di soddisfazione deviata. Per Nietzsche può essere una sottomissione morale devota e venerante che
in realtà interrompe la vita e impedisce di essere quello che naturalmente si è. Per Freud gli atti
mancati e le nevrosi soddisfazione e segnale di un disagio.
3. Nuove forme di logica si impongono per narrare il movimento e la dinamica del soggetto nel
campo dell’agire. Sia quando si vuole restituire all’uomo la sua natura autentica espressa dalla
volontà di potenza di un bambino che gioca a creare (Nietzsche), sia quando si coglie la logica
inconscia delle pulsioni, la parte attiva e più vivace della psiche, per poter avanzare ipotesi di
gestione armonica delle forze del soggetto (Freud). Queste nuove logiche si presentano come
strategie di rinnovamento generale delle scienza e della strategia scientifica di lettura della realtà.
L’etica si apre alla scienza non solo perché mira a darsi una forma classica di scientificità, non solo
perché a sorreggere la ricerca scientifica vi è o vi deve essere una motivazione etica (Epicuro), ma
in quanto le logiche che emergono nell’etica diventano forme di rinnovamento e rilancio della
scienza contemporanea, tra indagine e teoria.
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