PIER VINCENZO COVA LA PATRIA NEGLI AUTORI ROMANI1 Una studiosa tedesca, Franziska Gasser, ha studiato in un corposo e annotatissimo volume dell’editrice Teubner (Lipsia, 1999) «la patria d’origine nelle opere di autori romani della tarda repubblica e del primo impero» (come suonerebbe la traduzione del sottotitolo). Benché alla ricerca manchino scrittori spagnoli, come i due Seneca e Quintiliano, e africani fuori periodo come Frontone e i Cristiani, già dall’indice colpisce la percentuale di autori, che sentiamo ben romani, ma sempre legati a un luogo natale progressivamente più lontano da Roma. A un lettore moderno, che avverte il problema del rapporto tra il proprio sentimento nazionale e più ampie comunità, nelle quali viene inserito, suggerisce qualche riflessione di più il titolo Germana Patria, se per germanus si intende «fratello». Posto che la patria del titolo è la località di nascita, di cui tratta il libro, la sua germana è la sempre più vasta comunità che prende il nome da Roma. La parola patria è normalmente usata in senso affettivo, con riguardo alla sua etimologia, (la terra) dei padri. Tanto più è notevole che Cicerone l’adoperi anche con riferimento a tutto lo stato. In un passo del libro secondo Delle Leggi afferma: «Io giudico che ... tutti abbiamo due patrie, una naturale, l’altra comunitaria (unam naturae, alteram civitatis)». La civitas è la più grande comunità, nella quale si entrava acquisendo certi diritti (patria iuris). Ma il dato significativo è che verso questa comunità Cicerone affermi che si sente lo stesso attaccamento che verso il luogo natale al punto da poterla definire con lo stesso titolo affettivo. Se si tien conto dell’importanza, che aveva allora il riconoscimento giuridico della persona, la definizione patria iuris perde ogni connotazione legalistica. Del resto Cicerone sostiene che le leggi vengono dalla natura. Fare della più grande comunità un’altra patria verso cui esercitare la stessa caritas, non significa rinnegare la propria origine e le proprie caratteristiche valide. A Livio, che pure è un grande cantore di Roma (al punto di non voler parlare di avvenimenti che non la riguardano) si riconosceva una «padovanità», forse non solo di lingua, ma anche di idee e di costumi. E Plinio il Giovane appoggia la fondazione di scuole a Como, perché «fin da piccoli si impari ad amare e frequentare il suolo natio». A sua volta il potere centrale per secoli riconobbe e rispettò le autonomie locali. Certo, man mano che questa patria si allargava, crescevano anche le diffidenze dei suoi membri ormai consolidati. Per sostenere il diritto di accesso al senato di personaggi provenienti da una certa zona della Gallia, l’imperatore Claudio è costretto a ricordare che la comunità romana è sempre stata il risultato della integrazione di altri popoli, fino al punto di elevare al trono degli stranieri e trasformare i nemici in cittadini. Il discorso di Claudio si legge in Tacito, ma non è un’invenzione dello storico, perché si trova anche in un’iscrizione scoperta a Lione. Però doveva esserci anche chi riusciva indifferente o restio all’integrazione. La polemica di Giovenale contro la capitale «ingrecata» si riferisce appunto a masse di extracomunitari, che rimanevano estranei al tessuto sociale e alle sue tradizioni. Il termine «greco» o spregiativamente «greculo» colpisce alla rifusa gli stranieri più disprezzati e disinteressati all’acquisizione della cittadinanza. Giovenale assume il punto di vista del «romano di Roma», che si sente espropriato della sua città dal soverchiare di masse straniere e di costumi esotici. Il poeta satirico calca le tinte e non risparmia nessuno. Ma sarebbe interessante anche una testimonianza obiettiva circa l’atteggiamento reale delle persone comuni. A livello colto e letterario la piena romanità di non romani di nascita è chiara. Inutile per esempio cercare il luogo di origine di Tacito, che pure attribuisce ai provinciali, che arrivano alla capitale da lontano, la superstite osservanza dei costumi, che avevano fatta grande Roma. La sua valutazione non è isolata, segno indubbio della diffusa sensibilità per la patria civitatis nella sua unità morale, senza sconfessione della propria origine. Già Strabone nel I secolo a. C. osservava la doppia patria di ogni cittadino. Descrivendo la varietà delle popolazioni, che abitavano l’Italia Settentrionale, poteva scrivere che i conquistatori «salvaguardano 1 Giornale di Brescia, 8.8.2004 anche l’esistenza delle stirpi preesistenti, e ora sono tutti Romani, benché alcuni si dicano Umbri e Tirreni e così Veneti, Liguri e Insubri».