In vece del mainstream: estetica, tecnologia e `workplace studies`

Convegno AIS-ELO Cagliari 25-26 ottobre 2002
CONFINI E TRASGRESSIONI DI CONFINI
NELLA SOCIOLOGIA ECONOMICA, DEL LAVORO E
DELL’ORGANIZZAZIONE
Antonio Strati
In vece del mainstream: estetica, tecnologia e
‘workplace studies’
Con questo scritto si intende sottoporre all’attenzione dei colleghi dell’AIS-ELO alcuni
sviluppi occorsi nel dibattito internazionale contemporaneo in relazione alla definizione del
soggetto dell’agire organizzativo, delle tecnologie in uso e delle pratiche lavorative.
A questo fine verranno riprese e discusse le questioni sollevate in merito allo studio delle
pratiche organizzative e della vita lavorativa quotidiana nei contesti organizzativi dagli studi
relativi a) alla conoscenza estetica e alla corporeità dell’agire umano nelle organizzazioni; b)
alla definizione delle tecnologie in quanto masse di elementi non-umani che sono parte attiva
ed essenziale dei processi e delle dinamiche organizzative; c) alla riconcettualizzazione del
lavorare nelle organizzazioni in quanto pratiche lavorative situate e complesse.
Si tratta di tematiche di confine che si sono sviluppate in particolare negli ultimi decenni del
secolo che si è appena concluso. Esse hanno radici in diverse discipline di studio, quali
l’antropologia culturale, la sociologia della scienza, l’estetica filosofica, le teorie
dell’organizzazione e altre scienze sociali ancora. Si tratta di tradizioni di studio che hanno
impianti teorici di fondo differenti tra di loro, ma che hanno prospettato tematiche nuove o
riconcettualizzazioni di temi abituali proprio nel dibattito multidisciplinare che ha alla sua
base, tra le altre cose, la trasgressione di confini disciplinari, il tradire senso e contenuto di
concetti che vengono traslati da una disciplina all’altra e - non di rado - il distacco e la
distanza da main stream disciplinari.
Il senso di questo lavoro è quello di illustrare e discutere, sia pure nell’economia di un
breve scritto, alcune tematiche che mi stanno a cuore e che non fanno parte dei filoni
di ricerca che hanno maggiore peso e rilevanza nello studio dei lavori, delle
tecnologie e delle organizzazioni. Il titolo stesso che ho dato a questo contributo – In
vece del main stream – è inteso ad evocare che l’ambito di studi cui mi riferisco non è
certo predominante nella sociologia economica, del lavoro e delle organizzazioni; la
precisazione che quest’ambito è composto da estetica, tecnologia e ‘workplace
studies’ dovrebbe richiamare il complesso, difforme e disomogeneo che sto cercando
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di circoscrivere come fosse un tutt’uno, ma che tale, sia ribadito subito per chiarezza,
di fatto non è.
Innanzitutto, gli studi sulla tecnologia hanno acquisito nel loro insieme uno statuto
teorico tale che pone questo contesto di analisi tra i “main stream” delle teorizzazioni
su economia, lavoro e organizzazione. Sin dagli studi della cosiddetta Scuola Classica
e dell’Organizzazione Scientifica del Lavoro si studia la tecnologia di cui si avvale il
lavoro nelle organizzazioni (Accornero, 1994; Bonazzi, 1995), mentre solo di recente
estetica e “workplace studies” sono state oggetto di dibattito internazionale attraverso
convegni, seminari e pubblicazioni scientifiche (Biggiero, 1997; Carmagnola, 1997;
De Masi, 1989; Gagliardi, 1990, 1996; Gherardi, 2000a; Heath e Button, 2002; Heath,
Knoblauch e Luff, 2000; Linstead e Höpfl, 2000; Law e Hassard, 1999; Nicolini,
Gherardi e Yanow, 2002; Ottensmeyer 1996; Suchman, 1994; Suchman et al., 1999;
Strati, 1992, 1999; Strati e Guillet de Montoux, 2002).
Perché mai, allora, accomunare in questa riflessione tanto una tematica che è stata
oggetto di un dibattito ormai secolare – quella sulle tecnologie – quanto temi di studio
che solo negli ultimi anni del secolo scorso sono stati messi a fuoco e costruiti
socialmente dalla comunità scientifica internazionale? Perché mi pare di poter notare
come da questi diversi contesti della ricerca possa emergere:
a) una cautela nella definizione antropocentrica della soggettività nelle pratiche
lavorative e organizzative e, al tempo stesso, paradossalmente, una maggiore
attenzione alla specifica soggettività di ciascun individuo, alle istanze individuali e
particolari, alle differenze che rendono una persona diversa dall’altra a seconda
delle simbologie e dei valori collettivamente e socialmente costruiti;
b) la valorizzazione del concetto di pratica come nozione da privilegiare nello studio
del lavoro e delle organizzazioni e che mette in risalto, tra le altre cose, l’influenza
che su di essa hanno le culture materiali, le forme sensoriali-estetiche ed
emozionali di conoscenza umana, i linguaggi ed i codici normativi;
c) la commistione e l’ibridazione dello studio sociologico con discipline diverse che
vanno dall’antropologia culturale alla psicologia sociale, alla filosofia, alla
semiotica e ad altre ancora. Ciò non costituisce un fenomeno nuovo nelle scienze
sociali, dove la suddivisione per discipline crea talora più difficoltà che soluzioni
ma ripropone utilmente la questione dei termini in cui ripensare i confini
disciplinari e che è l’oggetto principe di questo Convegno.
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Il fuoco di quanto seguirà in questo scritto verte perciò sul fatto che in alcuni dibattiti
internazionali sul lavoro e l’organizzazione – ed entro alcune comunità di studiosi –
emerge la ripresa della “pratica” come categoria conoscitiva utile alla comprensione
del lavorare nelle organizzazioni. Ciò, da un lato, rimanda a grandi tradizioni teoriche
quali la fenomenologia, il marxismo, la sociologia della vita quotidiana,
l’interazionismo simbolico; dall’altro, ricorda l’influenza di approcci di studio che si
sono affermati più recentemente negli studi e nelle ricerche sul lavorare nelle
organizzazioni – quali il cognitivismo, l’apprendimento organizzativo, il simbolismo,
il neoistituzionalismo e altri ancora – e che hanno valorizzato la creazione di senso, la
formazione di culture, la costruzione simbolica, l’intessere forme comunitarie e
l’attivazione della conoscenza personale per lavorare nelle organizzazioni intese come
contesti sociali (Strati, 2000).
Ho cercato in questa premessa di indicare l’ambito circoscritto ed il significato
principale di questo mio contributo. Passo ora a trattare di estetica, tenendo come filo
conduttore principale le commistioni tra filosofia, semiotica e storia dell’arte, da un
lato, e lo studio delle pratiche lavorative e organizzative, dall’altro.
Conoscenza plurale in azione nelle organizzazioni
Cosa mette in luce l’estetica al riguardo del lavoro e della vita quotidiana che le
persone passano in contesti organizzativi? Essa fa vertere l’attenzione dello studioso
sulle forme di conoscenza sensibile delle persone che lavorano nelle organizzazioni,
sui loro gusti, sulle loro abilità ed i loro talenti. Lo fa sottolineando la capacità ed il
potere delle persone che operano nelle organizzazioni e/o in nome di esse,
valorizzandone, cioè, la volitività, la soggettività interpretativa, l’agire.
Ciò non sta a significare, ovviamente, che le persone siano sempre soggetti
protagonisti che liberamente creano e ricreano la quotidianità lavorativa ed
organizzativa, ma che potere, libertà e discrezionalità di azione da parte di chi lavora
nelle organizzazioni costituiscono tematiche centrali della riflessione sociologica
lavorista e organizzativista, soprattutto in Europa (Crozier e Friedberg, 1977). E’
questo il piano su cui, infatti, l’estetica ha assunto valore nello studio delle pratiche
organizzative. Quello che, infatti, l’estetica mette al centro della riflessione del
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sociologo economico, del lavoro e dell’organizzazione è che le persone si avvalgono
di una pluralità di forme conoscitive e che sono in grado di attivarle nelle loro
pratiche lavorative e organizzative.
Esse sono costituite dalla conoscenza sensoriale dovuta alle facoltà percettive della
vista, dell’udito, del tatto, dell’odorato e del gusto e dal giudizio sensitivo-estetico a
questi cinque sensi connesso. Esse si abbinano e si combinano con la facoltà di
raziocinio, con la consapevolezza intellettuale, con le forme conoscitive basate sul
pensare, dando luogo, tra l’altro, anche a paradossi e contraddizioni. Lo si è visto
nella ricerca empirica e questo mi pare un nodo essenziale: si è osservato nella
pratica la dimensione estetica che contraddistingue un lavorare o un agire
organizzativo da un altro.
Ma vediamo, prima di tutto, con qualche esempio tratto dalla ricerca empirica come
“l’estetica” abbia a che fare con le pratiche lavorative e organizzative.
Con le mani
Il tatto, uno dei cinque sensi, è fondamentale per muoversi nell’ambiente di lavoro e
per lavorare in esso. Se prendiamo il lavoro di medico, notiamo immediatamente il
valore dell’estetica nelle organizzazioni. Con le mani, il medico ‘sente’, ‘conosce’,
‘opera’, svolgendo atti talora fondamentali per il suo lavoro. Se ci spostiamo dalla sala
medica alla camera oscura del fotografo possiamo osservare che questi si sposta
magari a tentoni in essa e che si trova ad avvalersi della facoltà percettiva del tatto per
orientarsi e per ‘vedere’. Se ci muoviamo verso altri contesti di lavoro, possiamo
valutare quanto essenziale sia il tatto: con le mani si prendono appunti in una riunione,
si serve nei ristoranti, si mette a punto il motore di un’automobile, si riceve e si saluta
una persona. E’ più difficile dire invece quando, per poter svolgere il proprio lavoro
nella quotidianità della vita organizzativa, le persone non usino le mani e non
muovano il proprio corpo per “toccare” qualcosa, per “usare” qualcosa, per “fare”
qualcosa. Il tatto è, dunque, una facoltà umana fondamentale tuttora, nonostante la
rivoluzione tecnologica dei sistemi informativi, per conoscere, apprendere e agire
nelle organizzazioni.
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Questa osservazione può suonare banale per la sua disarmante evidenza. Mi permette,
però, di mettere bene in risalto un aspetto della vita lavorativa che si tende a non
valorizzare appieno e che, tante volte, viene solo dato per scontato anche negli studi
qualitativi del lavoro e nelle etnografie organizzative che meglio si prestano all’analisi
sociologica dei processi e delle dinamiche sociali che danno luogo alla quotidianità
organizzativa. Per questo farò un esempio riandando ad una ricerca ergonomica
condotta diversi anni fa nelle industrie di prima segagione del legno dell’arco alpino
Nord-Orientale.
Durante quella ricerca avevo potuto osservare che in talune segherie coloro che
smistavano le tavole segate nel piazzale esterno dell’azienda non portavano i guanti
prescritti a protezione delle loro mani. Lavorando in coppia, gli uomini - erano solo
uomini quelli che lavoravano all’esterno, nei piazzali - agguantavano con le mani,
l’uno da un capo e l’altro dall’altro, tavole della medesima lunghezza ma di spessore
differente e si dicevano un numero: “due e mezzo”; “tre”; “quattro e mezzo”; “tre”;
“due e mezzo” e così via. Con andamento ritmico piuttosto veloce, a seconda del
numero detto accatastavano la tavola che avevano in mano con quelle da “due e
mezzo” o con quelle da “tre” o con quelle di un’altra dimensione. Il numero detto
stava a significare la misura in centimetri dello spessore della tavola e la misurazione
veniva fatta ‘a mano’ invece che con un metro o altra strumentazione scientifica.
Proprio per poter svolgere queste operazioni basate sul giudizio sensoriale del tatto i
guanti erano mal sopportati; il timore di ferirsi con qualche scheggia di legno, o di
patire troppo freddo nel piazzale per via delle mani nude, non faceva parte della
cultura della sicurezza (Gherardi e Nicolini, 2000) di quelle persone. Certo, questa
pratica lavorativa non era quella prevalente del lavoro e, per di più, era praticata da
lavoratori che avevano un’alta anzianità aziendale.
In altre parole, in qualche azienda il personale che operava nei piazzali
all’accatastamento delle tavole si avvaleva di una forma di conoscenza e di azione che
non era basata sulla comprensione intellettivo-analitica, bensì su quella estetica, e con
questa modalità svolgeva il proprio lavoro in azienda. Ed è proprio riflettendo su
questi aspetti del lavorare che si può cogliere appieno il senso ed il valore del
contributo che filosofia, semiologia e storia dell’arte possono dare alla ricerca
qualitativa del sociologo nei contesti organizzativi.
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Lo studio della sensibilità al lavoro nell’organizzazione
La filosofia, innanzitutto, ci dà un contributo significativo sui temi prima indicati. Lo
fa realizzando quello che potremmo forse chiamare un “programma di ricerca”
(Lakatos, 1978) – lo studio della sensibilità umana in quanto nucleo teorico attorno al
quale venne richiamata l’attenzione e attivato il lavoro di alcuni filosofi, i quali
divennero in seguito sempre più numerosi – e che, come vedremo, assunse i caratteri
di una “rottura paradigmatica” (Kuhn, 1962) al riguardo delle concettualizzazioni
circa il soggetto umano, tema di cui stiamo trattando in questo scritto. Questo studio
della sensibilità diede corpo all’estetica come “specifica disciplina filosofica” che – ci
ricorda Gianni Vattimo (1977: 7) – “nasce solo alla fine del settecento”, ed è perciò
“un fenomeno essenzialmente moderno”.
L’estetica – lo abbiamo visto a proposito del tatto – rimanda “all’idea del sentire, ma
non con il cuore e col ‘sentimento’, bensì con i sensi, con la rete delle percezioni
fisiche” (Barilli, 1995: 16). Il termine stesso di estetica deriva etimologicamente dal
greco antico, dalla radice aisth e dal verbo aisthánomai, e significa per il filosofo
tedesco Alexander Gottlieb Baumgarten (1750-58; trad. it. 1992: 17) che lo coniò
teoria delle arti liberali, gnoseologia inferiore, arte del pensare bello, arte dell’analogo
della ragione.
Baumgarten, che assieme a Giambattista Vico (1725) è ritenuto uno dei padri
fondatori dell’estetica filosofica, definisce sin dalle prime note che scrive l’estetica
come “la scienza della conoscenza sensitiva” e precisa in proposito che essa non è
solo arte, vale a dire che essa non è solamente “non scienza” (1750-58; trad. it. 1992:
18). Quante sono, d’altra parte, si interroga retoricamente Baumgarten, quelle arti che
“oggi non sono anche scienze?” Domanda che sottolinea l’importanza del dibattito su
arte e scienza e che, se riproposta attualmente, invita a riconsiderare il fenomeno
sociale della diffusione delle scienze a tal punto che, come nota con una punta di
amarezza Stefano Zecchi (1996: 10), l’educazione estetica “nella nostra civiltà
contemporanea, laica, non ha più assolutamente alcuna funzione di guida e di
direzione” in quanto “il suo valore formativo è del tutto subalterno a quello della
scienza, appartiene all’antiquariato della coscienza” e viene “rispolverato come un
elemento decorativo e controllato con diffidenza”.
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L’estetica non costituisce un elemento decorativo del lavoro e dell’organizzazione, o,
meglio, non costituisce solo ed essenzialmente questo, visto che, come abbiamo detto
prima, essa ha invece per suo oggetto principe di studio la sensitività o sensorialità
delle forme di conoscenza umana e dell’azione umana. In questo modo e in
contrapposizione
alle
forme
di
conoscenza
mentale
e
spirituale
che
contraddistinguevano in maniera distintiva, allora, il soggetto umano, le riflessioni
filosofiche di Baumgarten e di Vico danno origine all’estetica.
Il filosofo napoletano è più netto che non Baumgarten nel porre una cesura con la
preminenza del conoscere grazie al pensiero razionale. Ciò non riguarda gran parte
della conoscenza umana, ribadisce Giambattista Vico (1725), il quale sostiene la
priorità nelle forme di conoscenza umana dell’elemento fantastico e l’importanza per
essa del pensare in maniera visuale, per immagini. In questo senso Vico assegna un
valore particolare al linguaggio poetico del procedere per metafore della conoscenza
umana, alla ‘logica poetica’, dunque, la quale dà senso alle cose insensate e che ha,
oltre ad un valore scientifico-conoscitivo, quello di corrispettivo linguistico del mito
(Dorfles, 1967-90: 17-18). Il ‘dar senso alle cose insensate’ è l’oggetto principe anche
dell’indagine sociologica qualitativa sulle attività lavorative e le pratiche
organizzative, perché esso mette in luce la costruzione sociale e collettiva di culture
del lavoro e dell’organizzazione, ovvero di quelle sezioni finite dell’infinità “priva di
senso del divenire del mondo” alle quali “è attribuito senso e significato dal punto di
vista” del soggetto, come sostiene Max Weber (1922; trad. it. 1958: 96), e Clifford
Geertz riprende, per affermare che il concetto di cultura “è essenzialmente un concetto
semiotico” (1973; trad. it. 1987: 41, corsivo mio).
Ritenendo, insieme con Max Weber, che l’uomo è un animale sospeso fra ragnatele di
significati che egli stesso ha tessuto, credo che la cultura consista in queste ragnatele e che
perciò la loro analisi non sia anzitutto una scienza sperimentale in cerca di leggi, ma una
scienza interpretativa in cerca di significato.
La ‘logica poetica’, come forma di conoscenza umana che Vico ha teorizzato nella
sua filosofia della nuova scienza, non fece, dunque, dell’estetica un “oggetto di
indagine autonoma, speciale” – così come farà Baumgarten – ma “quel lato delle
‘scienze umane’ che, attraversando l’analisi delle varie forme artistiche, indaga
l’evoluzione, gli stadi antropologici, psicologici, linguistici dell’umanità” (Milani,
1991: 20). Due, allora, sono le fondazioni teoriche dell’estetica che conviene
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riprendere e considerare per lo studio del lavoro e dell’organizzazione. In netta
contrapposizione con il ‘mentale razionale’ quella di Vico; ancora “nell’ambito di una
filosofia dominata dal principio teoretico, speculativo, cognitivo” quella di
Baumgarten (Barilli, 1995: 26), il quale vi contrappone l’estetica come analogo – ma
ancillare – della ragione. Esigenza polemica che è oggi meno sentita in filosofia,
semiotica e storia dell’arte, ci fa notare Renato Barilli (1995: 30), perché nel secolo
scorso si è riconosciuto ad ogni intervento della persona umana “un carattere
fondamentalmente pragmatico”, per cui
vivere, agire, muoversi nel mondo vuol dire esercitare una praxis; e se anche è giusto e
indispensabile riconoscere e preservare dei momenti di conoscenza, cioè di attività non
rivolta a fini immediatamente pratici, pure in questo caso si tratta, a ben vedere, di una
prassi differita, temporaneamente sospesa, ma non del tutto abrogata. […] Se un tale
carattere più o meno immediatamente pragmatico è sempre insito in ogni nostra
operazione […], esso inerisce ancora più palesemente agli atti di natura sensoriale, che
evidentemente esigono il pieno intervento del corpo con tutta la sua dotazione fisiologica:
sentire, percepire, vuol dire muovere gli organi, tendere nervature, contrarre muscoli, pur
con varia gradualità ed evidenza. Ma un nucleo di azione, anche minima e contratta, non
potrà mai mancare in qualsivoglia atto sensoriale.
L’estetica, perciò, mette bene in risalto la pratica e questo costituisce il senso
principale dell’approccio estetico allo studio del lavoro e dell’organizzazione (Strati,
1992). Discutere le fondazioni teoriche dell’estetica filosofica ci permette di rendere
più esplicito il significato delle comprensione estetica delle pratiche lavorative e
organizzative, cogliendo come quel “progetto di dedicare allo studio della sensibilità
una scienza autonoma, l’estetica” abbia rappresentato “una rottura decisiva rispetto al
punto di vista classico, non solo della teologia, ma di tutta la filosofia platonica”
(Ferry, 1990: 30-31):
a) il mondo sensibile viene a cadere nella “sfera del non-razionale”;
b) la soggettività umana “non si riduce più alle sole facoltà intellettuali”;
c) l’estetica “assume l’aria di una vera e propria sfida lanciata alla logica”;
d) “l’umanità cessa di distinguersi dall’animalità in virtù della sola ragione”.
L’avvento dell’estetica filosofica, proprio in quanto disciplina che nasce con la
modernità, “presuppone un’eclisse del punto di vista divino a vantaggio di quello
umano” – puntualizza ancora Luc Ferry (1990: 37-39) – e “questo capovolgimento
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senza precedenti del discorso platonico”, vale a dire il capovolgimento del primato
dell’intelligenza nei confronti della sensibilità, rimescola “anche le carte della storia
della soggettività”, se si considera che “la sensibilità è per eccellenza il segno della
condizione umana, della conoscenza finita”.
Fatte queste considerazioni, le quali mettono in luce l’importanza dell’estetica
filosofica – in particolare; ma, più in generale, anche della semiotica e della storia
dell’arte – per lo studio delle pratiche lavorative e organizzative, possiamo passare ad
approfondire altri aspetti che interessano la ricerca organizzativa e sul lavoro, e che
emergono grazie alla rottura paradigmatica che si è prodotta con l’estetica nel
concepire il soggetto umano e l’agire sociale.
Sempre la stessa musica
Nel corso di una ricerca invece più recente (Strati, 1999), ad un certo punto, mi sono
trovato nella situazione seguente. Entrando nell’ufficio di segreteria di un dirigente
col quale dovevo incontrarmi, mi sfuggì di dire, rivolgendomi in maniera cortese alle
due segretarie: “che bello! Avete anche la musica qui” o qualcosa di simile. Ricordo
le facce che fecero e la loro reazione piena di rabbia. “Non tocchi questo tasto!” mi
disse una di loro e così venni a sapere che erano giorni che cercavano di interessare il
“boss” a questo loro problema.
Il palazzo in cui mi trovavo era nel centro cittadino, nella zona medievale di una città
del Centro-Nord e, nella piazzetta sottostante, un giovane da diversi giorni suonava un
motivo con il flauto – il cui volume era un poco amplificato con apposita
strumentazione elettrica – e raggranellava in questo modo qualche lira. All’inizio,
questo suono dolce era stato piacevole per le orecchie delle due segretarie, così come
lo fu per me. Ma il giovane non variava molto il suo repertorio, finendo col riproporre
un po’ sempre lo stesso motivo: lo cominciava, lo suonava per qualche minuto, lo
interrompeva per qualche momento, lo ricominciava e avanti così. La musica dolce
dei primi istanti era finita con il divenire ossessiva con il passare delle ore e delle
giornate. Le due segretarie ad un certo punto non ne poterono più ed esplorarono delle
soluzioni al problema di quel suono di flauto che le infastidiva. Provarono a chiudere
le finestre, ma non servì a molto, mentre faceva soffrire loro il caldo dell’estate.
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Tentarono poi di coprire quel suono di flauto con musica di loro piacimento che
facevano suonare con uno dei due computer della segreteria, ma dovettero smettere
quasi subito perchè il ‘capo’ era “saltato sù”, protestando che quella non era una
discoteca. Ricorsero allora alle cuffie, ma dovevano toglierle per una telefonata, per
una chiamata del dirigente, per la visita di qualche cliente; metterle e non sentire il
suono di flauto, toglierle e sentirlo di nuovo, rimetterle, insomma, “fu più che altro
uno stress”. Avanzarono, allora, la richiesta che il loro capo si facesse valere con il
giovane sottostante e che riuscisse a mandarlo via. Ma il dirigente replicò che non
poteva farci nulla, che quel giovane aveva tutto il diritto di stare dove stava e di fare
quello che faceva, malgrado che quella situazione non piacesse neanche a lui. Le
segretarie conclusero a questo punto che “l’organizzazione non si interessava per
nulla dei loro problemi” e che allora “si sarebbero fatte sentire” anche con non meglio
precisate forme di lotta.
Ora, anche in questo caso, come in quello del tatto, si osserva il formulare un giudizio
sensitivo-estetico dalla persona che lavora. Stavolta questo giudizio non misura, come
nel caso degli operai del piazzale visto prima; inoltre, non c’è, da parte delle due
segretarie, l’attivazione intenzionale della facoltà percettiva dell’udito al fine di potere
così ascoltare il suono di flauto, mentre nel caso del giudizio sensitivo-estetico visto
prima esso era attivato dagli operai per svolgere il lavoro che dovevano fare. Le due
segretarie, come sappiamo, avrebbero voluto invece poter disattivare la facoltà uditiva
proprio per non sentire più quel suono di flauto divenuto oramai inascoltabile per le
loro orecchie. Ma le orecchie non si possono aprire e chiudere a piacimento, così
come si può fare, ad esempio, con gli occhi. Non si può ascoltare il capo e non sentire
allo stesso tempo quel suono di flauto; non si può rispondere al telefono e non udire
inevitabilmente quel motivo che si ripete; non si può trattare con il visitatore e non
percepire quella musica.
Il suono di flauto, dunque, oltrepassava i confini dell’organizzazione e divenne fonte
dei problemi anzidetti nell’organizzazione. Il punto che qui mi preme sottolineare è
che il senso dell’udito delle due segretarie ha giudicato in maniera sensitiva: all’inizio
la musica dolce del flauto è gradevole; poi, sostanzialmente la medesima musica dolce
non è più gradevole per via della sua reiterata ripetizione. Il motivo sonoro non è
cambiato, non è divenuto brutto o sgradevole, ma, per quanto esso continui ad essere
un suono dolce di flauto, non è più sopportabile dall’udito. La bellezza iniziale di
questo evento che io stesso avevo potuto apprezzare era divenuto un problema per il
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lavoro, turbando sia le condizioni dell’ambiente di lavoro, che i rapporti tra segretarie
e dirigente. Quella grazia che mi aveva sedotto per un momento, quando ero entrato in
segreteria, era andata perduta, era solo un ricordo anche per me, soppiantata com’era
stata dal sentimento estetico del brutto su cui mi avevano coinvolto le due segretarie
con i racconti del loro vissuto organizzativo.
Queste mie osservazioni riguardanti il problema originato nell’organizzazione dal
suono di flauto che veniva dalla piazzetta sono influenzate dal contributo teorico di
filosofia, semiotica e storia dell’arte che ho richiamato prima. Lo sono perché tengono
conto
a) della corporeità delle modalità di conoscenza e di azione del soggetto delle
pratiche lavorative ed organizzative;
b) del giudizio di gusto e del ‘senso comune’ che l’oggetto bello suscita e, quindi,
della intersoggettività che l’artefatto veicola anche in maniera ambigua e
paradossale;
c) della capacità che la ‘qualità estetica’ dell’artefatto ha di incominciare un processo
sociale nell’organizzazione, originando, per bellezza, per fascino o per bruttezza,
delle opportunità di azione per il soggetto.
Proprio quest’ultimo punto ci pone di fronte al paradosso e, per certi versi, all’ironìa
dell’estetica che anestetizza i sensi delle persone che lavorano nell’organizzazione e/o
in nome di essa.
L’an-esteticizzazione organizzativa
L’estetizzazione delle esperienze lavorative e delle pratiche organizzative può
ottundere la nostra sensibilità e nascondere, mascherare, coprire quel che di brutto e
sgradevole ci può essere nello svolgimento del proprio lavoro e nel partecipare alla
costruzione e ricostruzione della nostra vita quotidiana nell’organizzazione. E’ un
fenomeno più diffuso e pervasivo di quanto non si pensi e lo si può osservare in molte
pratiche organizzative. E’ inquietante, scrive Odo Marquard (1989; trad. it. 1994: 29),
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questa estetizzazione della realtà la quale, posta come l’autoredenzione dell’uomo in
quanto sua unica opera, prosegue il rivoluzionamento della realtà. Si tratta dell’ultimo
stadio di una autorizzazione del dominio dell’illusione, in forza della quale l’estetico –
pericolosamente, non già perché diviene troppo irreale, bensì perché diviene troppo reale –
conduce, anziché all’ “esperienza estetica” (Hans Robert Jauss [1982]), al congedo
anestetico dall’esperienza, vale a dire all’anestetizzazione dell’uomo. E ciò, mi sembra,
non è bene.
Una denuncia che va colta in tutta la sua drammaticità, perché, per certi versi, ha lo
stesso valore della problematizzazione di Weber circa la gabbia di ferro costituita
dalla burocrazia.
Come si noterà, neppure questa volta, mi riferisco all’estetica intendendola come
decorazione, abbellimento o maquillage dei processi lavorativi; mi riferisco, invece,
ad essa come forme conoscitive plurali che si intrecciano in maniera complessa tra di
loro e che hanno a loro fondamento l’agire, ovvero l’attivare le facoltà percettivosensoriali e la capacità di giudizio estetico. L’an-estetizzazione organizzativa, così
come la rimozione collettiva di un evento spiacevole sul lavoro realizzata a livello
emozionale, indica quella pratica organizzativa grazie alla quale si nasconde, si
omette e, così, si tacciono gli accadimenti sgradevoli e problematici vissuti sul posto
di lavoro. In questo modo, quelle dinamiche e quegli eventi che ci possono essere
risultati spiacevoli fino al disgusto sono stati eliminati per esteticizzare il processo di
lavoro e organizzativo.
Quel che di brutto si è esperito scompare a favore di un’immagine del processo che,
invece di comprendere anche tutti i suoi vari caratteri controversi, risulti al contrario
nitida e pulita con la perfezione – o le imperfezioni desiderate – dell’opera d’arte.
Estetizzando le pratiche lavorative e organizzative, noi facciamo qualcosa di simile a
quello che fa l’artista quando ripulisce il proprio lavoro artistico da tutte le scorie, le
impurità e le imperfezioni che lo hanno contraddistinto lungo il suo farsi (Strati e
Guillet de Montoux, 2002: 763). Per cui, l’esteticizzazione di processi lavorativi e di
fenomeni organizzativi può perciò non essere sempre “un bene”, come ci indica
acutamente Marquard, perché ci ottunde le capacità di conoscenza plurima e
complessa di essi.
Ciò mette in risalto la ricchezza – fatta anche di paradossi ed ambiguità come questa
dell’anesteticizzazione
della
vita
quotidiana
nelle
organizzazioni
–
della
comprensione estetica del lavoro e dell’organizzazione. Sul lavoro, infatti, si può
provare disgusto per quello che è accaduto, fino all’aver voglia di vomitare per questo
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a dispetto della perfezione che quell’evento ora ‘pretende’ di mostrare (Pelzer, 2002).
Ci si può trovare ad apprendere, attraverso corsi di formazione professionale, ad agire
il nostro stesso corpo nel rispetto dei canoni estetici dell’organizzazione, i quali,
proprio nel renderci eleganti e aggraziati, costituiscono il segno più evidente dello
sfruttamento produttivo (Hancock e Tyler, 2000) della corporeità – maschile e
femminile (Bruni e Gherardi, 2002) – del nostro agire organizzativo. L’organizzare
l’estetica dei corpi stessi delle persone può costituire un’attività importante in tanti
lavori (Martin, 2002), a cominciare da quelli assistenziali, educativi o di servizio
sociale. In questi casi, ‘organizzare l’estetica’ delle pratiche lavorative e organizzative
può significare l’esteticizzazione di esse per anestetizzare, sfruttare, disciplinare – in
senso foucaultiano – la persona in esse coinvolta; ma può avere anche valenze
emancipatorie, valorizzandone bellezza e sentimento del piacere.
In altre parole, anche trattando dell’an-esteticizzazione organizzativa è opportuno
tenere nel dovuto conto il fatto che le riflessioni teoriche sull’estetica ci invita a non
‘ripulire’ e rendere univoci fenomeni sociali ‘impuri’, ‘imperfetti’, fatti di
controversie a più voci, quali sono quelli del lavoro nelle organizzazioni. Per questo
mi pare bello terminare queste mie annotazioni con quanto scrive Georg Simmel a
proposito della “prestazione sociologica assolutamente unica” (1908; trad. it. 1989:
550-51) offerta dal guardarsi l’un l’altro. Scrive Simmel che il guardarsi l’un l’altro
non consiste solamente del vedere l’altra persona, bensì “significa una relazione”:
[L]a prossimità di questa relazione è sorretta dal fatto singolare che lo sguardo rivolto
all’altro e che lo percepisce è esso stesso espressivo, e ciò proprio per il modo in cui si
guarda all’altro. Nello sguardo che assume in sé l’altro si manifesta se stesso; con il
medesimo atto con cui il soggetto cerca di conoscere il suo oggetto, egli si offre qui
all’oggetto. Non si può prendere con l’occhio senza dare contemporaneamente: l’occhio
svela all’altro l’anima che cerca di svelarlo. Poiché ciò si attua evidentemente con
l’immediato guardarsi negli occhi, qui si produce la reciprocità più perfetta in tutto
l’ambito delle relazioni umane. […] L’uomo esiste per l’altro non già quando quest’altro
lo guarda, ma soltanto quando anch’egli lo guarda.
Possiamo chiudere qui, come fosse un cerchio, il tracciato fatto sulla pluralità delle
forme conoscitive e operative delle persone al lavoro, nelle organizzazioni. Lo
abbiamo cominciato con il lavorare con le mani e l’abbiamo terminato con il
relazionarsi sul posto di lavoro guardandosi l’un l’altro. Sono atti semplici e
quotidiani nelle organizzazioni, sia quello fondato sulla facoltà percettiva e sensoriale
del tatto, che quello basato sul senso della vista. Lungo questo ‘tracciato’ in cui
14
abbiamo messo in luce anche la facoltà dell’udito e l’importanza del giudizio
sensitivo-estetico nei posti di lavoro, la cosa principale che ho cercato di mettere in
evidenza è stata la centralità della pratica per la comprensione del lavoro e della
quotidianità organizzativa. Tema che ora possiamo discutere alla luce del dibattito che
ha riguardato sia le tecnologie, che i ‘workplace studies’, per giungere rapidamente
alle conclusioni.
La centralità della pratica per estetica, tecnologia e ‘workplace studies’
Ho anticipato all’inizio di questo scritto che estetica, tecnologia e ‘workplace studies’
compongono un dibattito teorico che non va considerato come fosse un corpus teorico
omogeneo. Lo sottolineo ancora una volta prima di passare, in questa parte, a mettere
in risalto – sia pure succintamente – delle convergenze, delle assonanze, delle
analogie che mettano in relazione tra di loro tradizioni di ricerca che rimangono
distinte e, per tanti aspetti, distanti. Si tratta di un’operazione di ‘traslazione’ (Serres,
1974) che porta con se, inevitabilmente, sempre latente, l’errore di far apparire
omogeneo l’insieme complesso di approcci di studio e di ricerca che sono invece
diversi fra di loro. L’ambito di questa mia traslazione rimane comunque delimitato
entro i confini della ricerca sociale di tipo qualitativo e, tra i diversi impianti teorici
che la caratterizzano, fa particolare leva su quelli fenomenologici e costruzionisti.
La ricerca costruzionista sulle tecnologie (Bijker e Law, 1992; Bijker et al., 1987) ci
fa notare che nel comprendere questi fenomeni sociali è opportuno focalizzare la
nostra attenzione sull’essere in uso delle tecnologie, sul loro essere praticate. Ciò
valorizza l’analisi del dettaglio di queste pratiche, sulla scia della Scuola Sociotecnica del Tavistock Institute of Human Relations (Trist e Murray, 1993),
nell’ambito della quale si è sviluppata la ricerca che non assegnava una valenza
deterministica sul lavoro e l’organizzazione alla tecnologia. Particolare attenzione
viene assegnata alla volitività dei soggetti che lavorano nelle organizzazioni e, proprio
su questo punto, con la ricerca costruzionista sulle tecnologie si intrecciano gli studi
che vengono accomunati sotto la denominazione di ‘workplace studies’.
Coloro che ‘mettono in uso’ le tecnologie sono, per molti rispetti, al tempo stesso,
coloro che le ‘costruiscono’, si sostiene nell’ambito dei ‘workplace studies’ (Heath e
15
Button, 2002), perchè è nelle pratiche lavorative e organizzative che artefatti e
tecnologie assumono il loro senso specifico e situato. Se anche gli utenti partecipano
alla costruzione sociale delle tecnologie, si deve poter riflettere sulla ‘agenzia diffusa’
nelle pratiche lavorative e organizzative (Suchman, 1994; Suchman et al., 1999). Ciò
influenza la progettazione, costruzione e messa a punto delle innovazioni tecnologiche
che viene come estesa fino all’impiego di tali tecnologie sul lavoro. In questo modo,
fra coloro che progettano l’artefatto tecnologico vi è tanto il progettista, che l’utente,
in un processo continuativo che appare più evidente soprattutto nell’ambito dei
sistemi informativi e della comunicazione mediata dal computer dove, ad esempio, le
comunità virtuali di clienti – o gli stessi hacker – costituiscono un attore del processo
di innovazione tecnologica (Paccagnella, 2002).
La pratica – l’essere in-uso (Husserl, 1913), se vogliamo – contraddistingue perciò
tanto lo studio costruzionista della tecnologia, che i ‘workplace studies’ pur nei
diversi approcci che li compongono. Malgrado la loro varietà, infatti, tutti questi
approcci si caratterizzano per l’attenzione prevalente alla “tecnologia in azione” e allo
studio dei modi in cui strumenti e artefatti si configurano nella realizzazione delle
pratiche organizzative (Heath, Knoblauch e Luff, 2000: 308). Il loro fuoco di analisi è
tanto sugli artefatti tecnologici, che sul linguaggio e sui codici normativi, ovvero sulla
pluralità di forme che il lavoro situato assume nella pratica quotidiana nelle
organizzazioni, ivi comprese la creazione di conoscenza nell’organizzazione e le
modalità in cui si realizzano forme di apprendimento organizzativo. Anzi, proprio
sull’apprendere ed il conoscere in pratica vertono le riflessioni in corso “ormai da
diversi anni, in ambiti disciplinari diversi e con assunti ontologici ed epistemologici
diversi”, scrive Silvia Gherardi (2000b: 66-67), indicandone alcuni, tra cui:
•
la tradizione di studio della sociologia qualitativa, appunto, e, più in generale,
delle scienze sociali di tipo qualitativo, che mette a fuoco l’agire e il conoscere
come attività simbolicamente mediata sotto i vari profili del contesto in esame e
alla quale si possono far risalire molti dei contributi dei ‘workplace studies’
(Heath e Button, 2002) a partire da quelli prima menzionati di Suchman;
•
la corrente di studi e ricerche che va sotto il nome di Situated Learning Theory che
si contrappone alla teoria cognitiva tradizionale problematizzando il contesto delle
pratiche lavorative e organizzative e valorizzando l’apprendimento basato sulle
16
pratiche specifiche e particolare dell’agire organizzativo (Fox, 1997; Gherardi e
Nicolini, 2001; Lave e Wenger, 1991);
•
le ricerche condotte nell’ambito della Activity Theory, dove i sistemi di
regolazione sociale e di divisione sociale del lavoro sono, unitamente agli oggetti
e strumenti di lavoro, componente costitutiva delle pratiche lavorative e
organizzative (Blakler, 1995; Engeström e Middleton, 1996);
•
la Actor-Network Theory, che focalizza nelle pratiche della circolazione nel
network di relazioni organizzative in esame l’analisi socio-tecnica delle
interrelazioni tra i diversi soggetti – umani e non umani – che le pongono in
essere, sulla quale ci soffermiamo subito qui di seguito per riprendere il tema del
paradosso indicato all’inizio di questo scritto, quello riguardante la soggettività
nelle pratiche lavorative e organizzative e che vede, da un lato, attenuarsi l’enfasi
antropocentrica e dall’altro, risaltare la differenza – estetica – tra i soggetti.
Torniamo dunque alla tecnologia e alla sua costruzione sociale nell’insieme delle
specifiche relazioni che la pongono in essere e che vedono coinvolti tanto soggetti
umani, che elementi non umani (Latour, 1986) o intermediari (Callon, 1991). Diciamo
sin da subito che il senso delle analisi costruzioniste della tecnologia è quello di
indagare le grandi questioni sociologiche che riguardano lo svolgimento delle pratiche
lavorative e organizzative e che vanno dal potere all’etica, fino, appunto, alla specifica
e situata configurazione di agenzia e soggettività in esse.
Il potere, ad esempio, di farsi restituire le chiavi dal cliente che lascia l’albergo
(Latour, 1992) è analizzato attraverso la catena di relazioni che vedono, assumendo il
punto di vista del direttore dell’albergo, il realizzarsi di interrelazioni tra avvisi
verbali, cartelli, peso metallico attaccato alla chiave e cliente e direttore. Del loro
concatenarsi Bruno Latour coglie principalmente le dinamiche attraverso cui si è
prodotto quell’ordine sociale nell’organizzazione, il suo essere frutto di conflitti e
negoziazioni tra ‘programmi’ e ‘controprogrammi’, di paradossi e incongruenze e –
fenomeno sociale che mi preme sottolineare, anche in relazione a quanto indicato
poco prima – di ‘traslazione’.
Questa, infatti, mette in luce come il concatenamento delle relazioni tra persone ed
elementi non umani sia dovuto anche al ‘tradimento’ del senso originale dell’azione e
alla sua ‘traduzione’ in un senso che, nell’analisi, risulta nuovo: i clienti ‘non
17
restituiscono le chiavi’ – senso originario dell’attivazione di questo processo
organizzativo – ma ‘si liberano dell’ingombrante peso attaccato ad esse’; quest’ultimo
costituisce il senso nuovo dell’agire organizzativo che, invece di negare e contraddire
quello originario, lo traduce, tradendolo per certi versi – quali quello del piano etico
dell’azione – e trasportandolo per altri, come quello del piano dell’agenzia, ovvero del
soggetto della pratica organizzativa in esame.
Qualcosa di analogo, volendo fare un altro esempio, si può osservare a proposito del
rimettere a posto i carrelli nei supermercati, pur adottando un approccio estetico allo
studio dei fenomeni del lavoro e dell’organizzazione (Strati, 2002). Anche in questo
caso si può notare il processo di traduzione che lo contraddistingue, a cominciare dal
fatto che il problema della direzione – avere i carrelli in ordine – si è poi configurato
come quello del cliente di riavere la propria moneta. Questa, necessaria all’inizio della
suddetta pratica organizzativa per sganciare il carrello dalla fila degli altri carrelli, può
essere riavuta solo riagganciando il carrello preso ad un altro libero e, facendo ciò
secondo le indicazioni esplicite ed implicite fornite dall’organizzazione, si partecipa –
intenzionalmente o meno – alla costruzione collettiva delle file ordinate di carrelli.
La ‘traduzione’ che viene messa in evidenza in queste analisi rimanda innanzitutto
alla influenza della semiotica nello studio sociologico del lavoro e dell’organizzazione
a cominciare dalla traduzione del problema e del soggetto del problema. Quest’ultima
traslazione, in particolare, è quella che più ci interessa: l’agenzia, nell’ambito di
queste analisi e di queste riflessioni, non appartiene più esclusivamente alla persona
umana, la quale non risulta essere l’unica e principale depositaria della capacità
pratica, ossia di attivare e dare luogo alle pratiche lavorative e organizzative.
Detto in altre parole, le interrelazioni in cui si sono trovati direzione dell’albergo e
cliente o direzione del supermercato e cliente non sono dirette, ma mediate da artefatti
tecnologici e dagli elementi non umani in genere. Non le persone, bensì quel soggetto
composito e ibrido fatto di umanità e materialità che è l’attante (Latour, 1992) diviene
l’attore delle pratiche lavorative e organizzative. Il concetto è semiotico, così come
semiotico è il concetto di cultura visto prima con Geertz, e comprende tanto il
linguaggio, che gli oggetti e, come l’estetica, mette in risalto la materialità – corporea
e oggettuale – del mondo sociale. Cade così la distinzione tra persone e cose, così
come era caduta – in maniera paradigmatica – con l’estetica quella tra conoscenza e
corpo. Umani e non umani sono entrambi oggetto della traduzione semiotica che
rende ‘relazionale’ lo specifico contributo di ciascuno di loro all’agire organizzativo.
18
Ciò influisce anche sulla riflessione teorica che si è sviluppata in merito e che da
sociologia della traslazione verrà denominata in seguito Actor-Network Theory
(Callon, 1980; Gherardi e Lippi, 2000; Law e Hassard, 1999) o teoria dell’attore
reticolare.
In tutto questo non deve sfuggire che la ‘traslazione’, così come ha riguardato il
soggetto protagonista delle pratiche lavorative e organizzative, interessa anche il
progettare e la messa a punto della tecnologia, che – come abbiamo detto prima a
proposito dei ‘workplace studies’ – pure in queste analisi non compare come una
entità a se stante, bensì nella continua relazione con gli altri elementi – umani e non
umani – che costituiscono l’attante. L’innovazione tecnologica – costituita, in un caso,
dall’ingombrante peso attaccato alla chiave della stanza dell’albergo e, nell’altro, dal
marchingegno con la catenella del carrello del supermecato – viene a configurarsi
entro questi processi di circolazione ed è costruita socialmente in essi ed ha il senso di
stabilizzare le relazioni instabili tra i vari soggetti umani e non umani che sono
coinvolti nel processo di negoziazione dell’ordine organizzativo.
Torniamo, ora, per concludere questa parte, all’estetica. Molte sono le assonanze con
la costruzione sociale della tecnologia e con i ‘workplace studies’, a cominciare dal
valorizzare la pratica, gli artefatti e la cultura materiale, i corpi e gli oggetti che
prendono parte alla vita quotidiana nelle organizzazioni. Ma su di una cosa l’estetica
suona dissonante: l’enfasi posta sulla ‘differenza’.
Abbiamo visto, infatti, che l’estetica ci indica nella pratica della conoscenza sensibile
il primo elemento di differenziazione tra i soggetti che lavorano: quel che è in grado
di sentire l’uno, non necessariamente lo è anche l’altro, e la ‘realtà’ di questi
sentimenti estetici è costruita socialmente nei processi di negoziazione collettiva, ivi
compresa quella praticata dal sociologo (Strati, 1999). Ciò fa vertere l’attenzione dello
studioso su quel che maggiormente contraddistingue le pratiche lavorative e
organizzative, sulla loro specifica diversità a seconda dei differenti contesti in cui esse
vengono ad essere messe in uso. Questo induce, per di più, a descrizioni
particolarmente vivide dei processi lavorativi e organizzativi, nelle quali le persone
sono individualizzate e messe in luce a partire dalla loro corporeità in azione.
Al tempo stesso, lo studio estetico del lavoro e dell’organizzazione mette in risalto la
mondanità dell’agire organizzativo, il suo essere terreno, il suo essere un artefatto che,
come il corpo umano, non ha destini sovrannaturali e teleologici. La marcate
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differenziazioni tra i soggetti delle pratiche lavorative e organizzative non vanno nella
direzione del sovraumano, bensì della finitezza delle pratiche medesime.
Conclusioni
In questo scritto ho cercato di mostrare come l’estetica si collochi opportunamente tra
l’insieme di studi sul lavoro e sull’organizzazione in cui maggiore è l’attenzione
rivolta verso la pratica e più acceso è il dibattito su di essa, come avviene negli studi
costruzionisti della tecnologia ed anche nei ‘workplace studies’.
Non dovrebbe sorprendere, allora, stante il persorso che abbiamo fatto, se in queste
conclusioni tornerò all’estetica per ricordare che essa, certamente, viene a formarsi
sulla scia di concetti dibattuti in tradizioni filosofiche precedenti – e, più in generale,
negli studi di critica e di storia dell’arte –, ma, come osserva Gianni Vattimo, essa, in
quanto disciplina moderna, nel contempo
si radica in una pratica sociale, quella che istituisce, inquadra, rende possibile e qualifica in
maniera determinata l’esperienza sociale dell’arte. Proprio il diverso configurarsi della
pratica sociale relativa all’arte è responsabile del fatto che un’estetica come disciplina
filosofica specifica nasca solo nel tardo settecento. Senza voler ovviamente suggerire
connessioni causali rigide, è abbastanza chiaro che il momento della nascita dell’estetica
filosofica è anche quello in cui, nella cultura e nella società, la figura dell’artista risulta
definita in maniera stabile e “moderna” come produttore di quel peculiare tipo di oggetti
che sono le opere d’arte, e quando questi oggetti vengono concepiti unitariamente sotto la
comune categoria della ‘qualità estetica’ (1977: 7, corsivo mio).
Questa attenzione alla pratica è ulteriormente messa in evidenza dalle riflessioni
filosofiche di Luigi Pareyson (1988: 10) nella prefazione ad un suo lavoro di anni
prima sull’estetica come teoria della formatività.
Il concetto centrale è quello di formatività, intesa come unione inseparabile di produzione
e invenzione: ‘formare’ significa ‘fare’ inventando insieme il ‘modo di fare’, vale a dire
‘realizzare’ solo procedendo per tentativi verso la riuscita e producendo in tal modo opere
che sono ‘forme’. Esso studia la formatività in tutta intera l’attività umana, indicando in
ogni operazione dell’uomo quel carattere formativo per cui essa è, insieme, produzione e
invenzione nel senso chiarito.
Queste note di Vattimo e di Pareyson completano il quadro dell’importanza teorica
che assume la pratica con l’estetica: si va dall’attivazione pratica delle facoltà
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percettive e sensoriali e della capacità di giudizio estetico-sensitivo, alla pratica
sociale dell’arte nel processo delle sue configurazioni differenti nelle diverse società.
Non solo la sociologia, ma anche la filosofia, la critica d’arte e la semiotica sono state
importanti per il discorso sull’estetica del lavoro e dell’organizzazione. Rispetto ad
esse non possiamo che renderci avvertiti di quanto osserva Jacques Derrida (1990;
trad. it. 1992: 112) al riguardo della filosofia: essa – ma non potremmo asserire cose
analoghe a proposito delle nostre sociologie – manca tanto di ordine, quanto di
chiarezza e precisione, sia nella logica, che nella scrittura e nello stile.
Lo stile filosofico tende per la sua natura stessa alla frivolezza. Ma la ragione di ciò è
logica, epistemologica, ontologica. Se la scrittura filosofica è frivola è perché il filosofo
non può riempire di senso i propri enunciati; egli non sa nulla, non ha nulla da dire e allora
complica, rende sottili, raffinati, gli effetti di stile, per mascherare la propria ignoranza.
Un’ultima considerazione: le osservazioni filosofiche prima viste non possono che
essere di stimolo per interrogarci se ci si sia o meno trovati in una situazione analoga
negli ultimi anni del secolo scorso quando, nella sociologia dell’organizzazione, nelle
teorie organizzative e negli studi di direzione aziendale si è cominciato a discutere
sempre più diffusamente della dimensione estetica della vita quotidiana nelle
organizzazioni e, più o meno negli stessi anni, si è cercato di riconsiderare la
complessità e multiformità del lavorare nelle organizzazione attraverso un concetto
pervasivo contraddistinto da ambiguità, ambivalenza e, anche, da vaghezza, quale
quello di ‘pratica’.
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