Convegno AIS-ELO Cagliari 25-26 ottobre 2002 CONFINI E TRASGRESSIONI DI CONFINI NELLA SOCIOLOGIA ECONOMICA, DEL LAVORO E DELL’ORGANIZZAZIONE Antonio Strati In vece del mainstream: estetica, tecnologia e ‘workplace studies’ Con questo scritto si intende sottoporre all’attenzione dei colleghi dell’AIS-ELO alcuni sviluppi occorsi nel dibattito internazionale contemporaneo in relazione alla definizione del soggetto dell’agire organizzativo, delle tecnologie in uso e delle pratiche lavorative. A questo fine verranno riprese e discusse le questioni sollevate in merito allo studio delle pratiche organizzative e della vita lavorativa quotidiana nei contesti organizzativi dagli studi relativi a) alla conoscenza estetica e alla corporeità dell’agire umano nelle organizzazioni; b) alla definizione delle tecnologie in quanto masse di elementi non-umani che sono parte attiva ed essenziale dei processi e delle dinamiche organizzative; c) alla riconcettualizzazione del lavorare nelle organizzazioni in quanto pratiche lavorative situate e complesse. Si tratta di tematiche di confine che si sono sviluppate in particolare negli ultimi decenni del secolo che si è appena concluso. Esse hanno radici in diverse discipline di studio, quali l’antropologia culturale, la sociologia della scienza, l’estetica filosofica, le teorie dell’organizzazione e altre scienze sociali ancora. Si tratta di tradizioni di studio che hanno impianti teorici di fondo differenti tra di loro, ma che hanno prospettato tematiche nuove o riconcettualizzazioni di temi abituali proprio nel dibattito multidisciplinare che ha alla sua base, tra le altre cose, la trasgressione di confini disciplinari, il tradire senso e contenuto di concetti che vengono traslati da una disciplina all’altra e - non di rado - il distacco e la distanza da main stream disciplinari. Il senso di questo lavoro è quello di illustrare e discutere, sia pure nell’economia di un breve scritto, alcune tematiche che mi stanno a cuore e che non fanno parte dei filoni di ricerca che hanno maggiore peso e rilevanza nello studio dei lavori, delle tecnologie e delle organizzazioni. Il titolo stesso che ho dato a questo contributo – In vece del main stream – è inteso ad evocare che l’ambito di studi cui mi riferisco non è certo predominante nella sociologia economica, del lavoro e delle organizzazioni; la precisazione che quest’ambito è composto da estetica, tecnologia e ‘workplace studies’ dovrebbe richiamare il complesso, difforme e disomogeneo che sto cercando 2 di circoscrivere come fosse un tutt’uno, ma che tale, sia ribadito subito per chiarezza, di fatto non è. Innanzitutto, gli studi sulla tecnologia hanno acquisito nel loro insieme uno statuto teorico tale che pone questo contesto di analisi tra i “main stream” delle teorizzazioni su economia, lavoro e organizzazione. Sin dagli studi della cosiddetta Scuola Classica e dell’Organizzazione Scientifica del Lavoro si studia la tecnologia di cui si avvale il lavoro nelle organizzazioni (Accornero, 1994; Bonazzi, 1995), mentre solo di recente estetica e “workplace studies” sono state oggetto di dibattito internazionale attraverso convegni, seminari e pubblicazioni scientifiche (Biggiero, 1997; Carmagnola, 1997; De Masi, 1989; Gagliardi, 1990, 1996; Gherardi, 2000a; Heath e Button, 2002; Heath, Knoblauch e Luff, 2000; Linstead e Höpfl, 2000; Law e Hassard, 1999; Nicolini, Gherardi e Yanow, 2002; Ottensmeyer 1996; Suchman, 1994; Suchman et al., 1999; Strati, 1992, 1999; Strati e Guillet de Montoux, 2002). Perché mai, allora, accomunare in questa riflessione tanto una tematica che è stata oggetto di un dibattito ormai secolare – quella sulle tecnologie – quanto temi di studio che solo negli ultimi anni del secolo scorso sono stati messi a fuoco e costruiti socialmente dalla comunità scientifica internazionale? Perché mi pare di poter notare come da questi diversi contesti della ricerca possa emergere: a) una cautela nella definizione antropocentrica della soggettività nelle pratiche lavorative e organizzative e, al tempo stesso, paradossalmente, una maggiore attenzione alla specifica soggettività di ciascun individuo, alle istanze individuali e particolari, alle differenze che rendono una persona diversa dall’altra a seconda delle simbologie e dei valori collettivamente e socialmente costruiti; b) la valorizzazione del concetto di pratica come nozione da privilegiare nello studio del lavoro e delle organizzazioni e che mette in risalto, tra le altre cose, l’influenza che su di essa hanno le culture materiali, le forme sensoriali-estetiche ed emozionali di conoscenza umana, i linguaggi ed i codici normativi; c) la commistione e l’ibridazione dello studio sociologico con discipline diverse che vanno dall’antropologia culturale alla psicologia sociale, alla filosofia, alla semiotica e ad altre ancora. Ciò non costituisce un fenomeno nuovo nelle scienze sociali, dove la suddivisione per discipline crea talora più difficoltà che soluzioni ma ripropone utilmente la questione dei termini in cui ripensare i confini disciplinari e che è l’oggetto principe di questo Convegno. 3 Il fuoco di quanto seguirà in questo scritto verte perciò sul fatto che in alcuni dibattiti internazionali sul lavoro e l’organizzazione – ed entro alcune comunità di studiosi – emerge la ripresa della “pratica” come categoria conoscitiva utile alla comprensione del lavorare nelle organizzazioni. Ciò, da un lato, rimanda a grandi tradizioni teoriche quali la fenomenologia, il marxismo, la sociologia della vita quotidiana, l’interazionismo simbolico; dall’altro, ricorda l’influenza di approcci di studio che si sono affermati più recentemente negli studi e nelle ricerche sul lavorare nelle organizzazioni – quali il cognitivismo, l’apprendimento organizzativo, il simbolismo, il neoistituzionalismo e altri ancora – e che hanno valorizzato la creazione di senso, la formazione di culture, la costruzione simbolica, l’intessere forme comunitarie e l’attivazione della conoscenza personale per lavorare nelle organizzazioni intese come contesti sociali (Strati, 2000). Ho cercato in questa premessa di indicare l’ambito circoscritto ed il significato principale di questo mio contributo. Passo ora a trattare di estetica, tenendo come filo conduttore principale le commistioni tra filosofia, semiotica e storia dell’arte, da un lato, e lo studio delle pratiche lavorative e organizzative, dall’altro. Conoscenza plurale in azione nelle organizzazioni Cosa mette in luce l’estetica al riguardo del lavoro e della vita quotidiana che le persone passano in contesti organizzativi? Essa fa vertere l’attenzione dello studioso sulle forme di conoscenza sensibile delle persone che lavorano nelle organizzazioni, sui loro gusti, sulle loro abilità ed i loro talenti. Lo fa sottolineando la capacità ed il potere delle persone che operano nelle organizzazioni e/o in nome di esse, valorizzandone, cioè, la volitività, la soggettività interpretativa, l’agire. Ciò non sta a significare, ovviamente, che le persone siano sempre soggetti protagonisti che liberamente creano e ricreano la quotidianità lavorativa ed organizzativa, ma che potere, libertà e discrezionalità di azione da parte di chi lavora nelle organizzazioni costituiscono tematiche centrali della riflessione sociologica lavorista e organizzativista, soprattutto in Europa (Crozier e Friedberg, 1977). E’ questo il piano su cui, infatti, l’estetica ha assunto valore nello studio delle pratiche organizzative. Quello che, infatti, l’estetica mette al centro della riflessione del 4 sociologo economico, del lavoro e dell’organizzazione è che le persone si avvalgono di una pluralità di forme conoscitive e che sono in grado di attivarle nelle loro pratiche lavorative e organizzative. Esse sono costituite dalla conoscenza sensoriale dovuta alle facoltà percettive della vista, dell’udito, del tatto, dell’odorato e del gusto e dal giudizio sensitivo-estetico a questi cinque sensi connesso. Esse si abbinano e si combinano con la facoltà di raziocinio, con la consapevolezza intellettuale, con le forme conoscitive basate sul pensare, dando luogo, tra l’altro, anche a paradossi e contraddizioni. Lo si è visto nella ricerca empirica e questo mi pare un nodo essenziale: si è osservato nella pratica la dimensione estetica che contraddistingue un lavorare o un agire organizzativo da un altro. Ma vediamo, prima di tutto, con qualche esempio tratto dalla ricerca empirica come “l’estetica” abbia a che fare con le pratiche lavorative e organizzative. Con le mani Il tatto, uno dei cinque sensi, è fondamentale per muoversi nell’ambiente di lavoro e per lavorare in esso. Se prendiamo il lavoro di medico, notiamo immediatamente il valore dell’estetica nelle organizzazioni. Con le mani, il medico ‘sente’, ‘conosce’, ‘opera’, svolgendo atti talora fondamentali per il suo lavoro. Se ci spostiamo dalla sala medica alla camera oscura del fotografo possiamo osservare che questi si sposta magari a tentoni in essa e che si trova ad avvalersi della facoltà percettiva del tatto per orientarsi e per ‘vedere’. Se ci muoviamo verso altri contesti di lavoro, possiamo valutare quanto essenziale sia il tatto: con le mani si prendono appunti in una riunione, si serve nei ristoranti, si mette a punto il motore di un’automobile, si riceve e si saluta una persona. E’ più difficile dire invece quando, per poter svolgere il proprio lavoro nella quotidianità della vita organizzativa, le persone non usino le mani e non muovano il proprio corpo per “toccare” qualcosa, per “usare” qualcosa, per “fare” qualcosa. Il tatto è, dunque, una facoltà umana fondamentale tuttora, nonostante la rivoluzione tecnologica dei sistemi informativi, per conoscere, apprendere e agire nelle organizzazioni. 5 Questa osservazione può suonare banale per la sua disarmante evidenza. Mi permette, però, di mettere bene in risalto un aspetto della vita lavorativa che si tende a non valorizzare appieno e che, tante volte, viene solo dato per scontato anche negli studi qualitativi del lavoro e nelle etnografie organizzative che meglio si prestano all’analisi sociologica dei processi e delle dinamiche sociali che danno luogo alla quotidianità organizzativa. Per questo farò un esempio riandando ad una ricerca ergonomica condotta diversi anni fa nelle industrie di prima segagione del legno dell’arco alpino Nord-Orientale. Durante quella ricerca avevo potuto osservare che in talune segherie coloro che smistavano le tavole segate nel piazzale esterno dell’azienda non portavano i guanti prescritti a protezione delle loro mani. Lavorando in coppia, gli uomini - erano solo uomini quelli che lavoravano all’esterno, nei piazzali - agguantavano con le mani, l’uno da un capo e l’altro dall’altro, tavole della medesima lunghezza ma di spessore differente e si dicevano un numero: “due e mezzo”; “tre”; “quattro e mezzo”; “tre”; “due e mezzo” e così via. Con andamento ritmico piuttosto veloce, a seconda del numero detto accatastavano la tavola che avevano in mano con quelle da “due e mezzo” o con quelle da “tre” o con quelle di un’altra dimensione. Il numero detto stava a significare la misura in centimetri dello spessore della tavola e la misurazione veniva fatta ‘a mano’ invece che con un metro o altra strumentazione scientifica. Proprio per poter svolgere queste operazioni basate sul giudizio sensoriale del tatto i guanti erano mal sopportati; il timore di ferirsi con qualche scheggia di legno, o di patire troppo freddo nel piazzale per via delle mani nude, non faceva parte della cultura della sicurezza (Gherardi e Nicolini, 2000) di quelle persone. Certo, questa pratica lavorativa non era quella prevalente del lavoro e, per di più, era praticata da lavoratori che avevano un’alta anzianità aziendale. In altre parole, in qualche azienda il personale che operava nei piazzali all’accatastamento delle tavole si avvaleva di una forma di conoscenza e di azione che non era basata sulla comprensione intellettivo-analitica, bensì su quella estetica, e con questa modalità svolgeva il proprio lavoro in azienda. Ed è proprio riflettendo su questi aspetti del lavorare che si può cogliere appieno il senso ed il valore del contributo che filosofia, semiologia e storia dell’arte possono dare alla ricerca qualitativa del sociologo nei contesti organizzativi. 6 Lo studio della sensibilità al lavoro nell’organizzazione La filosofia, innanzitutto, ci dà un contributo significativo sui temi prima indicati. Lo fa realizzando quello che potremmo forse chiamare un “programma di ricerca” (Lakatos, 1978) – lo studio della sensibilità umana in quanto nucleo teorico attorno al quale venne richiamata l’attenzione e attivato il lavoro di alcuni filosofi, i quali divennero in seguito sempre più numerosi – e che, come vedremo, assunse i caratteri di una “rottura paradigmatica” (Kuhn, 1962) al riguardo delle concettualizzazioni circa il soggetto umano, tema di cui stiamo trattando in questo scritto. Questo studio della sensibilità diede corpo all’estetica come “specifica disciplina filosofica” che – ci ricorda Gianni Vattimo (1977: 7) – “nasce solo alla fine del settecento”, ed è perciò “un fenomeno essenzialmente moderno”. L’estetica – lo abbiamo visto a proposito del tatto – rimanda “all’idea del sentire, ma non con il cuore e col ‘sentimento’, bensì con i sensi, con la rete delle percezioni fisiche” (Barilli, 1995: 16). Il termine stesso di estetica deriva etimologicamente dal greco antico, dalla radice aisth e dal verbo aisthánomai, e significa per il filosofo tedesco Alexander Gottlieb Baumgarten (1750-58; trad. it. 1992: 17) che lo coniò teoria delle arti liberali, gnoseologia inferiore, arte del pensare bello, arte dell’analogo della ragione. Baumgarten, che assieme a Giambattista Vico (1725) è ritenuto uno dei padri fondatori dell’estetica filosofica, definisce sin dalle prime note che scrive l’estetica come “la scienza della conoscenza sensitiva” e precisa in proposito che essa non è solo arte, vale a dire che essa non è solamente “non scienza” (1750-58; trad. it. 1992: 18). Quante sono, d’altra parte, si interroga retoricamente Baumgarten, quelle arti che “oggi non sono anche scienze?” Domanda che sottolinea l’importanza del dibattito su arte e scienza e che, se riproposta attualmente, invita a riconsiderare il fenomeno sociale della diffusione delle scienze a tal punto che, come nota con una punta di amarezza Stefano Zecchi (1996: 10), l’educazione estetica “nella nostra civiltà contemporanea, laica, non ha più assolutamente alcuna funzione di guida e di direzione” in quanto “il suo valore formativo è del tutto subalterno a quello della scienza, appartiene all’antiquariato della coscienza” e viene “rispolverato come un elemento decorativo e controllato con diffidenza”. 7 L’estetica non costituisce un elemento decorativo del lavoro e dell’organizzazione, o, meglio, non costituisce solo ed essenzialmente questo, visto che, come abbiamo detto prima, essa ha invece per suo oggetto principe di studio la sensitività o sensorialità delle forme di conoscenza umana e dell’azione umana. In questo modo e in contrapposizione alle forme di conoscenza mentale e spirituale che contraddistinguevano in maniera distintiva, allora, il soggetto umano, le riflessioni filosofiche di Baumgarten e di Vico danno origine all’estetica. Il filosofo napoletano è più netto che non Baumgarten nel porre una cesura con la preminenza del conoscere grazie al pensiero razionale. Ciò non riguarda gran parte della conoscenza umana, ribadisce Giambattista Vico (1725), il quale sostiene la priorità nelle forme di conoscenza umana dell’elemento fantastico e l’importanza per essa del pensare in maniera visuale, per immagini. In questo senso Vico assegna un valore particolare al linguaggio poetico del procedere per metafore della conoscenza umana, alla ‘logica poetica’, dunque, la quale dà senso alle cose insensate e che ha, oltre ad un valore scientifico-conoscitivo, quello di corrispettivo linguistico del mito (Dorfles, 1967-90: 17-18). Il ‘dar senso alle cose insensate’ è l’oggetto principe anche dell’indagine sociologica qualitativa sulle attività lavorative e le pratiche organizzative, perché esso mette in luce la costruzione sociale e collettiva di culture del lavoro e dell’organizzazione, ovvero di quelle sezioni finite dell’infinità “priva di senso del divenire del mondo” alle quali “è attribuito senso e significato dal punto di vista” del soggetto, come sostiene Max Weber (1922; trad. it. 1958: 96), e Clifford Geertz riprende, per affermare che il concetto di cultura “è essenzialmente un concetto semiotico” (1973; trad. it. 1987: 41, corsivo mio). Ritenendo, insieme con Max Weber, che l’uomo è un animale sospeso fra ragnatele di significati che egli stesso ha tessuto, credo che la cultura consista in queste ragnatele e che perciò la loro analisi non sia anzitutto una scienza sperimentale in cerca di leggi, ma una scienza interpretativa in cerca di significato. La ‘logica poetica’, come forma di conoscenza umana che Vico ha teorizzato nella sua filosofia della nuova scienza, non fece, dunque, dell’estetica un “oggetto di indagine autonoma, speciale” – così come farà Baumgarten – ma “quel lato delle ‘scienze umane’ che, attraversando l’analisi delle varie forme artistiche, indaga l’evoluzione, gli stadi antropologici, psicologici, linguistici dell’umanità” (Milani, 1991: 20). Due, allora, sono le fondazioni teoriche dell’estetica che conviene 8 riprendere e considerare per lo studio del lavoro e dell’organizzazione. In netta contrapposizione con il ‘mentale razionale’ quella di Vico; ancora “nell’ambito di una filosofia dominata dal principio teoretico, speculativo, cognitivo” quella di Baumgarten (Barilli, 1995: 26), il quale vi contrappone l’estetica come analogo – ma ancillare – della ragione. Esigenza polemica che è oggi meno sentita in filosofia, semiotica e storia dell’arte, ci fa notare Renato Barilli (1995: 30), perché nel secolo scorso si è riconosciuto ad ogni intervento della persona umana “un carattere fondamentalmente pragmatico”, per cui vivere, agire, muoversi nel mondo vuol dire esercitare una praxis; e se anche è giusto e indispensabile riconoscere e preservare dei momenti di conoscenza, cioè di attività non rivolta a fini immediatamente pratici, pure in questo caso si tratta, a ben vedere, di una prassi differita, temporaneamente sospesa, ma non del tutto abrogata. […] Se un tale carattere più o meno immediatamente pragmatico è sempre insito in ogni nostra operazione […], esso inerisce ancora più palesemente agli atti di natura sensoriale, che evidentemente esigono il pieno intervento del corpo con tutta la sua dotazione fisiologica: sentire, percepire, vuol dire muovere gli organi, tendere nervature, contrarre muscoli, pur con varia gradualità ed evidenza. Ma un nucleo di azione, anche minima e contratta, non potrà mai mancare in qualsivoglia atto sensoriale. L’estetica, perciò, mette bene in risalto la pratica e questo costituisce il senso principale dell’approccio estetico allo studio del lavoro e dell’organizzazione (Strati, 1992). Discutere le fondazioni teoriche dell’estetica filosofica ci permette di rendere più esplicito il significato delle comprensione estetica delle pratiche lavorative e organizzative, cogliendo come quel “progetto di dedicare allo studio della sensibilità una scienza autonoma, l’estetica” abbia rappresentato “una rottura decisiva rispetto al punto di vista classico, non solo della teologia, ma di tutta la filosofia platonica” (Ferry, 1990: 30-31): a) il mondo sensibile viene a cadere nella “sfera del non-razionale”; b) la soggettività umana “non si riduce più alle sole facoltà intellettuali”; c) l’estetica “assume l’aria di una vera e propria sfida lanciata alla logica”; d) “l’umanità cessa di distinguersi dall’animalità in virtù della sola ragione”. L’avvento dell’estetica filosofica, proprio in quanto disciplina che nasce con la modernità, “presuppone un’eclisse del punto di vista divino a vantaggio di quello umano” – puntualizza ancora Luc Ferry (1990: 37-39) – e “questo capovolgimento 9 senza precedenti del discorso platonico”, vale a dire il capovolgimento del primato dell’intelligenza nei confronti della sensibilità, rimescola “anche le carte della storia della soggettività”, se si considera che “la sensibilità è per eccellenza il segno della condizione umana, della conoscenza finita”. Fatte queste considerazioni, le quali mettono in luce l’importanza dell’estetica filosofica – in particolare; ma, più in generale, anche della semiotica e della storia dell’arte – per lo studio delle pratiche lavorative e organizzative, possiamo passare ad approfondire altri aspetti che interessano la ricerca organizzativa e sul lavoro, e che emergono grazie alla rottura paradigmatica che si è prodotta con l’estetica nel concepire il soggetto umano e l’agire sociale. Sempre la stessa musica Nel corso di una ricerca invece più recente (Strati, 1999), ad un certo punto, mi sono trovato nella situazione seguente. Entrando nell’ufficio di segreteria di un dirigente col quale dovevo incontrarmi, mi sfuggì di dire, rivolgendomi in maniera cortese alle due segretarie: “che bello! Avete anche la musica qui” o qualcosa di simile. Ricordo le facce che fecero e la loro reazione piena di rabbia. “Non tocchi questo tasto!” mi disse una di loro e così venni a sapere che erano giorni che cercavano di interessare il “boss” a questo loro problema. Il palazzo in cui mi trovavo era nel centro cittadino, nella zona medievale di una città del Centro-Nord e, nella piazzetta sottostante, un giovane da diversi giorni suonava un motivo con il flauto – il cui volume era un poco amplificato con apposita strumentazione elettrica – e raggranellava in questo modo qualche lira. All’inizio, questo suono dolce era stato piacevole per le orecchie delle due segretarie, così come lo fu per me. Ma il giovane non variava molto il suo repertorio, finendo col riproporre un po’ sempre lo stesso motivo: lo cominciava, lo suonava per qualche minuto, lo interrompeva per qualche momento, lo ricominciava e avanti così. La musica dolce dei primi istanti era finita con il divenire ossessiva con il passare delle ore e delle giornate. Le due segretarie ad un certo punto non ne poterono più ed esplorarono delle soluzioni al problema di quel suono di flauto che le infastidiva. Provarono a chiudere le finestre, ma non servì a molto, mentre faceva soffrire loro il caldo dell’estate. 10 Tentarono poi di coprire quel suono di flauto con musica di loro piacimento che facevano suonare con uno dei due computer della segreteria, ma dovettero smettere quasi subito perchè il ‘capo’ era “saltato sù”, protestando che quella non era una discoteca. Ricorsero allora alle cuffie, ma dovevano toglierle per una telefonata, per una chiamata del dirigente, per la visita di qualche cliente; metterle e non sentire il suono di flauto, toglierle e sentirlo di nuovo, rimetterle, insomma, “fu più che altro uno stress”. Avanzarono, allora, la richiesta che il loro capo si facesse valere con il giovane sottostante e che riuscisse a mandarlo via. Ma il dirigente replicò che non poteva farci nulla, che quel giovane aveva tutto il diritto di stare dove stava e di fare quello che faceva, malgrado che quella situazione non piacesse neanche a lui. Le segretarie conclusero a questo punto che “l’organizzazione non si interessava per nulla dei loro problemi” e che allora “si sarebbero fatte sentire” anche con non meglio precisate forme di lotta. Ora, anche in questo caso, come in quello del tatto, si osserva il formulare un giudizio sensitivo-estetico dalla persona che lavora. Stavolta questo giudizio non misura, come nel caso degli operai del piazzale visto prima; inoltre, non c’è, da parte delle due segretarie, l’attivazione intenzionale della facoltà percettiva dell’udito al fine di potere così ascoltare il suono di flauto, mentre nel caso del giudizio sensitivo-estetico visto prima esso era attivato dagli operai per svolgere il lavoro che dovevano fare. Le due segretarie, come sappiamo, avrebbero voluto invece poter disattivare la facoltà uditiva proprio per non sentire più quel suono di flauto divenuto oramai inascoltabile per le loro orecchie. Ma le orecchie non si possono aprire e chiudere a piacimento, così come si può fare, ad esempio, con gli occhi. Non si può ascoltare il capo e non sentire allo stesso tempo quel suono di flauto; non si può rispondere al telefono e non udire inevitabilmente quel motivo che si ripete; non si può trattare con il visitatore e non percepire quella musica. Il suono di flauto, dunque, oltrepassava i confini dell’organizzazione e divenne fonte dei problemi anzidetti nell’organizzazione. Il punto che qui mi preme sottolineare è che il senso dell’udito delle due segretarie ha giudicato in maniera sensitiva: all’inizio la musica dolce del flauto è gradevole; poi, sostanzialmente la medesima musica dolce non è più gradevole per via della sua reiterata ripetizione. Il motivo sonoro non è cambiato, non è divenuto brutto o sgradevole, ma, per quanto esso continui ad essere un suono dolce di flauto, non è più sopportabile dall’udito. La bellezza iniziale di questo evento che io stesso avevo potuto apprezzare era divenuto un problema per il 11 lavoro, turbando sia le condizioni dell’ambiente di lavoro, che i rapporti tra segretarie e dirigente. Quella grazia che mi aveva sedotto per un momento, quando ero entrato in segreteria, era andata perduta, era solo un ricordo anche per me, soppiantata com’era stata dal sentimento estetico del brutto su cui mi avevano coinvolto le due segretarie con i racconti del loro vissuto organizzativo. Queste mie osservazioni riguardanti il problema originato nell’organizzazione dal suono di flauto che veniva dalla piazzetta sono influenzate dal contributo teorico di filosofia, semiotica e storia dell’arte che ho richiamato prima. Lo sono perché tengono conto a) della corporeità delle modalità di conoscenza e di azione del soggetto delle pratiche lavorative ed organizzative; b) del giudizio di gusto e del ‘senso comune’ che l’oggetto bello suscita e, quindi, della intersoggettività che l’artefatto veicola anche in maniera ambigua e paradossale; c) della capacità che la ‘qualità estetica’ dell’artefatto ha di incominciare un processo sociale nell’organizzazione, originando, per bellezza, per fascino o per bruttezza, delle opportunità di azione per il soggetto. Proprio quest’ultimo punto ci pone di fronte al paradosso e, per certi versi, all’ironìa dell’estetica che anestetizza i sensi delle persone che lavorano nell’organizzazione e/o in nome di essa. L’an-esteticizzazione organizzativa L’estetizzazione delle esperienze lavorative e delle pratiche organizzative può ottundere la nostra sensibilità e nascondere, mascherare, coprire quel che di brutto e sgradevole ci può essere nello svolgimento del proprio lavoro e nel partecipare alla costruzione e ricostruzione della nostra vita quotidiana nell’organizzazione. E’ un fenomeno più diffuso e pervasivo di quanto non si pensi e lo si può osservare in molte pratiche organizzative. E’ inquietante, scrive Odo Marquard (1989; trad. it. 1994: 29), 12 questa estetizzazione della realtà la quale, posta come l’autoredenzione dell’uomo in quanto sua unica opera, prosegue il rivoluzionamento della realtà. Si tratta dell’ultimo stadio di una autorizzazione del dominio dell’illusione, in forza della quale l’estetico – pericolosamente, non già perché diviene troppo irreale, bensì perché diviene troppo reale – conduce, anziché all’ “esperienza estetica” (Hans Robert Jauss [1982]), al congedo anestetico dall’esperienza, vale a dire all’anestetizzazione dell’uomo. E ciò, mi sembra, non è bene. Una denuncia che va colta in tutta la sua drammaticità, perché, per certi versi, ha lo stesso valore della problematizzazione di Weber circa la gabbia di ferro costituita dalla burocrazia. Come si noterà, neppure questa volta, mi riferisco all’estetica intendendola come decorazione, abbellimento o maquillage dei processi lavorativi; mi riferisco, invece, ad essa come forme conoscitive plurali che si intrecciano in maniera complessa tra di loro e che hanno a loro fondamento l’agire, ovvero l’attivare le facoltà percettivosensoriali e la capacità di giudizio estetico. L’an-estetizzazione organizzativa, così come la rimozione collettiva di un evento spiacevole sul lavoro realizzata a livello emozionale, indica quella pratica organizzativa grazie alla quale si nasconde, si omette e, così, si tacciono gli accadimenti sgradevoli e problematici vissuti sul posto di lavoro. In questo modo, quelle dinamiche e quegli eventi che ci possono essere risultati spiacevoli fino al disgusto sono stati eliminati per esteticizzare il processo di lavoro e organizzativo. Quel che di brutto si è esperito scompare a favore di un’immagine del processo che, invece di comprendere anche tutti i suoi vari caratteri controversi, risulti al contrario nitida e pulita con la perfezione – o le imperfezioni desiderate – dell’opera d’arte. Estetizzando le pratiche lavorative e organizzative, noi facciamo qualcosa di simile a quello che fa l’artista quando ripulisce il proprio lavoro artistico da tutte le scorie, le impurità e le imperfezioni che lo hanno contraddistinto lungo il suo farsi (Strati e Guillet de Montoux, 2002: 763). Per cui, l’esteticizzazione di processi lavorativi e di fenomeni organizzativi può perciò non essere sempre “un bene”, come ci indica acutamente Marquard, perché ci ottunde le capacità di conoscenza plurima e complessa di essi. Ciò mette in risalto la ricchezza – fatta anche di paradossi ed ambiguità come questa dell’anesteticizzazione della vita quotidiana nelle organizzazioni – della comprensione estetica del lavoro e dell’organizzazione. Sul lavoro, infatti, si può provare disgusto per quello che è accaduto, fino all’aver voglia di vomitare per questo 13 a dispetto della perfezione che quell’evento ora ‘pretende’ di mostrare (Pelzer, 2002). Ci si può trovare ad apprendere, attraverso corsi di formazione professionale, ad agire il nostro stesso corpo nel rispetto dei canoni estetici dell’organizzazione, i quali, proprio nel renderci eleganti e aggraziati, costituiscono il segno più evidente dello sfruttamento produttivo (Hancock e Tyler, 2000) della corporeità – maschile e femminile (Bruni e Gherardi, 2002) – del nostro agire organizzativo. L’organizzare l’estetica dei corpi stessi delle persone può costituire un’attività importante in tanti lavori (Martin, 2002), a cominciare da quelli assistenziali, educativi o di servizio sociale. In questi casi, ‘organizzare l’estetica’ delle pratiche lavorative e organizzative può significare l’esteticizzazione di esse per anestetizzare, sfruttare, disciplinare – in senso foucaultiano – la persona in esse coinvolta; ma può avere anche valenze emancipatorie, valorizzandone bellezza e sentimento del piacere. In altre parole, anche trattando dell’an-esteticizzazione organizzativa è opportuno tenere nel dovuto conto il fatto che le riflessioni teoriche sull’estetica ci invita a non ‘ripulire’ e rendere univoci fenomeni sociali ‘impuri’, ‘imperfetti’, fatti di controversie a più voci, quali sono quelli del lavoro nelle organizzazioni. Per questo mi pare bello terminare queste mie annotazioni con quanto scrive Georg Simmel a proposito della “prestazione sociologica assolutamente unica” (1908; trad. it. 1989: 550-51) offerta dal guardarsi l’un l’altro. Scrive Simmel che il guardarsi l’un l’altro non consiste solamente del vedere l’altra persona, bensì “significa una relazione”: [L]a prossimità di questa relazione è sorretta dal fatto singolare che lo sguardo rivolto all’altro e che lo percepisce è esso stesso espressivo, e ciò proprio per il modo in cui si guarda all’altro. Nello sguardo che assume in sé l’altro si manifesta se stesso; con il medesimo atto con cui il soggetto cerca di conoscere il suo oggetto, egli si offre qui all’oggetto. Non si può prendere con l’occhio senza dare contemporaneamente: l’occhio svela all’altro l’anima che cerca di svelarlo. Poiché ciò si attua evidentemente con l’immediato guardarsi negli occhi, qui si produce la reciprocità più perfetta in tutto l’ambito delle relazioni umane. […] L’uomo esiste per l’altro non già quando quest’altro lo guarda, ma soltanto quando anch’egli lo guarda. Possiamo chiudere qui, come fosse un cerchio, il tracciato fatto sulla pluralità delle forme conoscitive e operative delle persone al lavoro, nelle organizzazioni. Lo abbiamo cominciato con il lavorare con le mani e l’abbiamo terminato con il relazionarsi sul posto di lavoro guardandosi l’un l’altro. Sono atti semplici e quotidiani nelle organizzazioni, sia quello fondato sulla facoltà percettiva e sensoriale del tatto, che quello basato sul senso della vista. Lungo questo ‘tracciato’ in cui 14 abbiamo messo in luce anche la facoltà dell’udito e l’importanza del giudizio sensitivo-estetico nei posti di lavoro, la cosa principale che ho cercato di mettere in evidenza è stata la centralità della pratica per la comprensione del lavoro e della quotidianità organizzativa. Tema che ora possiamo discutere alla luce del dibattito che ha riguardato sia le tecnologie, che i ‘workplace studies’, per giungere rapidamente alle conclusioni. La centralità della pratica per estetica, tecnologia e ‘workplace studies’ Ho anticipato all’inizio di questo scritto che estetica, tecnologia e ‘workplace studies’ compongono un dibattito teorico che non va considerato come fosse un corpus teorico omogeneo. Lo sottolineo ancora una volta prima di passare, in questa parte, a mettere in risalto – sia pure succintamente – delle convergenze, delle assonanze, delle analogie che mettano in relazione tra di loro tradizioni di ricerca che rimangono distinte e, per tanti aspetti, distanti. Si tratta di un’operazione di ‘traslazione’ (Serres, 1974) che porta con se, inevitabilmente, sempre latente, l’errore di far apparire omogeneo l’insieme complesso di approcci di studio e di ricerca che sono invece diversi fra di loro. L’ambito di questa mia traslazione rimane comunque delimitato entro i confini della ricerca sociale di tipo qualitativo e, tra i diversi impianti teorici che la caratterizzano, fa particolare leva su quelli fenomenologici e costruzionisti. La ricerca costruzionista sulle tecnologie (Bijker e Law, 1992; Bijker et al., 1987) ci fa notare che nel comprendere questi fenomeni sociali è opportuno focalizzare la nostra attenzione sull’essere in uso delle tecnologie, sul loro essere praticate. Ciò valorizza l’analisi del dettaglio di queste pratiche, sulla scia della Scuola Sociotecnica del Tavistock Institute of Human Relations (Trist e Murray, 1993), nell’ambito della quale si è sviluppata la ricerca che non assegnava una valenza deterministica sul lavoro e l’organizzazione alla tecnologia. Particolare attenzione viene assegnata alla volitività dei soggetti che lavorano nelle organizzazioni e, proprio su questo punto, con la ricerca costruzionista sulle tecnologie si intrecciano gli studi che vengono accomunati sotto la denominazione di ‘workplace studies’. Coloro che ‘mettono in uso’ le tecnologie sono, per molti rispetti, al tempo stesso, coloro che le ‘costruiscono’, si sostiene nell’ambito dei ‘workplace studies’ (Heath e 15 Button, 2002), perchè è nelle pratiche lavorative e organizzative che artefatti e tecnologie assumono il loro senso specifico e situato. Se anche gli utenti partecipano alla costruzione sociale delle tecnologie, si deve poter riflettere sulla ‘agenzia diffusa’ nelle pratiche lavorative e organizzative (Suchman, 1994; Suchman et al., 1999). Ciò influenza la progettazione, costruzione e messa a punto delle innovazioni tecnologiche che viene come estesa fino all’impiego di tali tecnologie sul lavoro. In questo modo, fra coloro che progettano l’artefatto tecnologico vi è tanto il progettista, che l’utente, in un processo continuativo che appare più evidente soprattutto nell’ambito dei sistemi informativi e della comunicazione mediata dal computer dove, ad esempio, le comunità virtuali di clienti – o gli stessi hacker – costituiscono un attore del processo di innovazione tecnologica (Paccagnella, 2002). La pratica – l’essere in-uso (Husserl, 1913), se vogliamo – contraddistingue perciò tanto lo studio costruzionista della tecnologia, che i ‘workplace studies’ pur nei diversi approcci che li compongono. Malgrado la loro varietà, infatti, tutti questi approcci si caratterizzano per l’attenzione prevalente alla “tecnologia in azione” e allo studio dei modi in cui strumenti e artefatti si configurano nella realizzazione delle pratiche organizzative (Heath, Knoblauch e Luff, 2000: 308). Il loro fuoco di analisi è tanto sugli artefatti tecnologici, che sul linguaggio e sui codici normativi, ovvero sulla pluralità di forme che il lavoro situato assume nella pratica quotidiana nelle organizzazioni, ivi comprese la creazione di conoscenza nell’organizzazione e le modalità in cui si realizzano forme di apprendimento organizzativo. Anzi, proprio sull’apprendere ed il conoscere in pratica vertono le riflessioni in corso “ormai da diversi anni, in ambiti disciplinari diversi e con assunti ontologici ed epistemologici diversi”, scrive Silvia Gherardi (2000b: 66-67), indicandone alcuni, tra cui: • la tradizione di studio della sociologia qualitativa, appunto, e, più in generale, delle scienze sociali di tipo qualitativo, che mette a fuoco l’agire e il conoscere come attività simbolicamente mediata sotto i vari profili del contesto in esame e alla quale si possono far risalire molti dei contributi dei ‘workplace studies’ (Heath e Button, 2002) a partire da quelli prima menzionati di Suchman; • la corrente di studi e ricerche che va sotto il nome di Situated Learning Theory che si contrappone alla teoria cognitiva tradizionale problematizzando il contesto delle pratiche lavorative e organizzative e valorizzando l’apprendimento basato sulle 16 pratiche specifiche e particolare dell’agire organizzativo (Fox, 1997; Gherardi e Nicolini, 2001; Lave e Wenger, 1991); • le ricerche condotte nell’ambito della Activity Theory, dove i sistemi di regolazione sociale e di divisione sociale del lavoro sono, unitamente agli oggetti e strumenti di lavoro, componente costitutiva delle pratiche lavorative e organizzative (Blakler, 1995; Engeström e Middleton, 1996); • la Actor-Network Theory, che focalizza nelle pratiche della circolazione nel network di relazioni organizzative in esame l’analisi socio-tecnica delle interrelazioni tra i diversi soggetti – umani e non umani – che le pongono in essere, sulla quale ci soffermiamo subito qui di seguito per riprendere il tema del paradosso indicato all’inizio di questo scritto, quello riguardante la soggettività nelle pratiche lavorative e organizzative e che vede, da un lato, attenuarsi l’enfasi antropocentrica e dall’altro, risaltare la differenza – estetica – tra i soggetti. Torniamo dunque alla tecnologia e alla sua costruzione sociale nell’insieme delle specifiche relazioni che la pongono in essere e che vedono coinvolti tanto soggetti umani, che elementi non umani (Latour, 1986) o intermediari (Callon, 1991). Diciamo sin da subito che il senso delle analisi costruzioniste della tecnologia è quello di indagare le grandi questioni sociologiche che riguardano lo svolgimento delle pratiche lavorative e organizzative e che vanno dal potere all’etica, fino, appunto, alla specifica e situata configurazione di agenzia e soggettività in esse. Il potere, ad esempio, di farsi restituire le chiavi dal cliente che lascia l’albergo (Latour, 1992) è analizzato attraverso la catena di relazioni che vedono, assumendo il punto di vista del direttore dell’albergo, il realizzarsi di interrelazioni tra avvisi verbali, cartelli, peso metallico attaccato alla chiave e cliente e direttore. Del loro concatenarsi Bruno Latour coglie principalmente le dinamiche attraverso cui si è prodotto quell’ordine sociale nell’organizzazione, il suo essere frutto di conflitti e negoziazioni tra ‘programmi’ e ‘controprogrammi’, di paradossi e incongruenze e – fenomeno sociale che mi preme sottolineare, anche in relazione a quanto indicato poco prima – di ‘traslazione’. Questa, infatti, mette in luce come il concatenamento delle relazioni tra persone ed elementi non umani sia dovuto anche al ‘tradimento’ del senso originale dell’azione e alla sua ‘traduzione’ in un senso che, nell’analisi, risulta nuovo: i clienti ‘non 17 restituiscono le chiavi’ – senso originario dell’attivazione di questo processo organizzativo – ma ‘si liberano dell’ingombrante peso attaccato ad esse’; quest’ultimo costituisce il senso nuovo dell’agire organizzativo che, invece di negare e contraddire quello originario, lo traduce, tradendolo per certi versi – quali quello del piano etico dell’azione – e trasportandolo per altri, come quello del piano dell’agenzia, ovvero del soggetto della pratica organizzativa in esame. Qualcosa di analogo, volendo fare un altro esempio, si può osservare a proposito del rimettere a posto i carrelli nei supermercati, pur adottando un approccio estetico allo studio dei fenomeni del lavoro e dell’organizzazione (Strati, 2002). Anche in questo caso si può notare il processo di traduzione che lo contraddistingue, a cominciare dal fatto che il problema della direzione – avere i carrelli in ordine – si è poi configurato come quello del cliente di riavere la propria moneta. Questa, necessaria all’inizio della suddetta pratica organizzativa per sganciare il carrello dalla fila degli altri carrelli, può essere riavuta solo riagganciando il carrello preso ad un altro libero e, facendo ciò secondo le indicazioni esplicite ed implicite fornite dall’organizzazione, si partecipa – intenzionalmente o meno – alla costruzione collettiva delle file ordinate di carrelli. La ‘traduzione’ che viene messa in evidenza in queste analisi rimanda innanzitutto alla influenza della semiotica nello studio sociologico del lavoro e dell’organizzazione a cominciare dalla traduzione del problema e del soggetto del problema. Quest’ultima traslazione, in particolare, è quella che più ci interessa: l’agenzia, nell’ambito di queste analisi e di queste riflessioni, non appartiene più esclusivamente alla persona umana, la quale non risulta essere l’unica e principale depositaria della capacità pratica, ossia di attivare e dare luogo alle pratiche lavorative e organizzative. Detto in altre parole, le interrelazioni in cui si sono trovati direzione dell’albergo e cliente o direzione del supermercato e cliente non sono dirette, ma mediate da artefatti tecnologici e dagli elementi non umani in genere. Non le persone, bensì quel soggetto composito e ibrido fatto di umanità e materialità che è l’attante (Latour, 1992) diviene l’attore delle pratiche lavorative e organizzative. Il concetto è semiotico, così come semiotico è il concetto di cultura visto prima con Geertz, e comprende tanto il linguaggio, che gli oggetti e, come l’estetica, mette in risalto la materialità – corporea e oggettuale – del mondo sociale. Cade così la distinzione tra persone e cose, così come era caduta – in maniera paradigmatica – con l’estetica quella tra conoscenza e corpo. Umani e non umani sono entrambi oggetto della traduzione semiotica che rende ‘relazionale’ lo specifico contributo di ciascuno di loro all’agire organizzativo. 18 Ciò influisce anche sulla riflessione teorica che si è sviluppata in merito e che da sociologia della traslazione verrà denominata in seguito Actor-Network Theory (Callon, 1980; Gherardi e Lippi, 2000; Law e Hassard, 1999) o teoria dell’attore reticolare. In tutto questo non deve sfuggire che la ‘traslazione’, così come ha riguardato il soggetto protagonista delle pratiche lavorative e organizzative, interessa anche il progettare e la messa a punto della tecnologia, che – come abbiamo detto prima a proposito dei ‘workplace studies’ – pure in queste analisi non compare come una entità a se stante, bensì nella continua relazione con gli altri elementi – umani e non umani – che costituiscono l’attante. L’innovazione tecnologica – costituita, in un caso, dall’ingombrante peso attaccato alla chiave della stanza dell’albergo e, nell’altro, dal marchingegno con la catenella del carrello del supermecato – viene a configurarsi entro questi processi di circolazione ed è costruita socialmente in essi ed ha il senso di stabilizzare le relazioni instabili tra i vari soggetti umani e non umani che sono coinvolti nel processo di negoziazione dell’ordine organizzativo. Torniamo, ora, per concludere questa parte, all’estetica. Molte sono le assonanze con la costruzione sociale della tecnologia e con i ‘workplace studies’, a cominciare dal valorizzare la pratica, gli artefatti e la cultura materiale, i corpi e gli oggetti che prendono parte alla vita quotidiana nelle organizzazioni. Ma su di una cosa l’estetica suona dissonante: l’enfasi posta sulla ‘differenza’. Abbiamo visto, infatti, che l’estetica ci indica nella pratica della conoscenza sensibile il primo elemento di differenziazione tra i soggetti che lavorano: quel che è in grado di sentire l’uno, non necessariamente lo è anche l’altro, e la ‘realtà’ di questi sentimenti estetici è costruita socialmente nei processi di negoziazione collettiva, ivi compresa quella praticata dal sociologo (Strati, 1999). Ciò fa vertere l’attenzione dello studioso su quel che maggiormente contraddistingue le pratiche lavorative e organizzative, sulla loro specifica diversità a seconda dei differenti contesti in cui esse vengono ad essere messe in uso. Questo induce, per di più, a descrizioni particolarmente vivide dei processi lavorativi e organizzativi, nelle quali le persone sono individualizzate e messe in luce a partire dalla loro corporeità in azione. Al tempo stesso, lo studio estetico del lavoro e dell’organizzazione mette in risalto la mondanità dell’agire organizzativo, il suo essere terreno, il suo essere un artefatto che, come il corpo umano, non ha destini sovrannaturali e teleologici. La marcate 19 differenziazioni tra i soggetti delle pratiche lavorative e organizzative non vanno nella direzione del sovraumano, bensì della finitezza delle pratiche medesime. Conclusioni In questo scritto ho cercato di mostrare come l’estetica si collochi opportunamente tra l’insieme di studi sul lavoro e sull’organizzazione in cui maggiore è l’attenzione rivolta verso la pratica e più acceso è il dibattito su di essa, come avviene negli studi costruzionisti della tecnologia ed anche nei ‘workplace studies’. Non dovrebbe sorprendere, allora, stante il persorso che abbiamo fatto, se in queste conclusioni tornerò all’estetica per ricordare che essa, certamente, viene a formarsi sulla scia di concetti dibattuti in tradizioni filosofiche precedenti – e, più in generale, negli studi di critica e di storia dell’arte –, ma, come osserva Gianni Vattimo, essa, in quanto disciplina moderna, nel contempo si radica in una pratica sociale, quella che istituisce, inquadra, rende possibile e qualifica in maniera determinata l’esperienza sociale dell’arte. Proprio il diverso configurarsi della pratica sociale relativa all’arte è responsabile del fatto che un’estetica come disciplina filosofica specifica nasca solo nel tardo settecento. Senza voler ovviamente suggerire connessioni causali rigide, è abbastanza chiaro che il momento della nascita dell’estetica filosofica è anche quello in cui, nella cultura e nella società, la figura dell’artista risulta definita in maniera stabile e “moderna” come produttore di quel peculiare tipo di oggetti che sono le opere d’arte, e quando questi oggetti vengono concepiti unitariamente sotto la comune categoria della ‘qualità estetica’ (1977: 7, corsivo mio). Questa attenzione alla pratica è ulteriormente messa in evidenza dalle riflessioni filosofiche di Luigi Pareyson (1988: 10) nella prefazione ad un suo lavoro di anni prima sull’estetica come teoria della formatività. Il concetto centrale è quello di formatività, intesa come unione inseparabile di produzione e invenzione: ‘formare’ significa ‘fare’ inventando insieme il ‘modo di fare’, vale a dire ‘realizzare’ solo procedendo per tentativi verso la riuscita e producendo in tal modo opere che sono ‘forme’. Esso studia la formatività in tutta intera l’attività umana, indicando in ogni operazione dell’uomo quel carattere formativo per cui essa è, insieme, produzione e invenzione nel senso chiarito. Queste note di Vattimo e di Pareyson completano il quadro dell’importanza teorica che assume la pratica con l’estetica: si va dall’attivazione pratica delle facoltà 20 percettive e sensoriali e della capacità di giudizio estetico-sensitivo, alla pratica sociale dell’arte nel processo delle sue configurazioni differenti nelle diverse società. Non solo la sociologia, ma anche la filosofia, la critica d’arte e la semiotica sono state importanti per il discorso sull’estetica del lavoro e dell’organizzazione. Rispetto ad esse non possiamo che renderci avvertiti di quanto osserva Jacques Derrida (1990; trad. it. 1992: 112) al riguardo della filosofia: essa – ma non potremmo asserire cose analoghe a proposito delle nostre sociologie – manca tanto di ordine, quanto di chiarezza e precisione, sia nella logica, che nella scrittura e nello stile. Lo stile filosofico tende per la sua natura stessa alla frivolezza. Ma la ragione di ciò è logica, epistemologica, ontologica. Se la scrittura filosofica è frivola è perché il filosofo non può riempire di senso i propri enunciati; egli non sa nulla, non ha nulla da dire e allora complica, rende sottili, raffinati, gli effetti di stile, per mascherare la propria ignoranza. Un’ultima considerazione: le osservazioni filosofiche prima viste non possono che essere di stimolo per interrogarci se ci si sia o meno trovati in una situazione analoga negli ultimi anni del secolo scorso quando, nella sociologia dell’organizzazione, nelle teorie organizzative e negli studi di direzione aziendale si è cominciato a discutere sempre più diffusamente della dimensione estetica della vita quotidiana nelle organizzazioni e, più o meno negli stessi anni, si è cercato di riconsiderare la complessità e multiformità del lavorare nelle organizzazione attraverso un concetto pervasivo contraddistinto da ambiguità, ambivalenza e, anche, da vaghezza, quale quello di ‘pratica’. Riferimenti bibliografici Accornero, Aris (1994) Il mondo della produzione. Bologna: Il Mulino. Barilli, Renato (1995) Corso di estetica. 1ma ed. 1989. Bologna: Il Mulino. 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