PANORAMA DELLA FILOSOFIA DEL RINASCIMENTO
A) Questioni storiografiche
L’età umanistico – rinascimentale segna una tappa decisiva nella storia dell’uomo,
contrassegnata da una profonda volontà di cambiamento rispetto al passato; un
mutamento di cultura, costumi e mentalità, che non è tuttavia esente da aspetti
contraddittori. Proprio in questa complessità, varietà di temi e relativa contraddittorietà
risiede l’aspetto più affascinante dell’epoca presa in esame. Prima di dedicarci a ciò che
più ci riguarda, ossia l’aspetto specificamente filosofico del periodo, soffermiamoci
brevemente su tre questioni di carattere storiografico:
1. Cosa significano i termini umanesimo e rinascimento?
2. Che rapporto ha quest’epoca con il Medioevo?
3. Quale rapporto sussiste tra l’età umanistico – rinascimentale e l’età moderna?
In primo luogo, il termine Umanesimo è usato per la prima volta nell’800 dal filosofo e
teologo tedesco Niethammer e indica la riscoperta dei classici. Tuttavia, di studia
humanitatis si parla già nel ‘300, con riferimento al concetto ciceroniano di humanitas,
che ricorda e riprende a sua volta la paideia greca: l’educazione e la formazione
dell’uomo nel senso più pieno e completo del termine. In questo contesto le lettere
svolgono un ruolo decisivo (poesia, retorica, filosofia, storia), ma viene a cadere
qualsiasi distinzione tra la formazione letteraria e quella filosofica,
inscindibilmente unite. Uomini come Pico della Mirandola e Marsilio Ficino, solo
per fare due nomi, sono al contempo letterati e filosofi. Nell’età umanistica riscoperta
dei classici significa sviluppo di una scienza fondamentale: la filologia, ossia lo studio
della parola e quindi dei testi antichi collocati nello specifico contesto storico in cui sono
nati. Gli umanisti si propongono dunque di capire che cosa hanno veramente sostenuto
gli antichi greci e latini, in quel tempo e in quei luoghi in cui vissero ed operarono. Il
termine ‘rinascimento’ è coniato anch’esso nell’Ottocento e indica il rinnovamento
spirituale e la rigenerazione morale tipica del periodo. Tradizionalmente, si parlava di
umanesimo per il ‘400 (dove sarebbe prevalsa la filologia) e di rinascimento per il ‘500
(contesto in cui prevale l’indagine filosofica). Oggi si tende piuttosto a considerare
umanesimo e rinascimento come due aspetti dello stesso fenomeno (e dunque
viene a cadere la tesi tradizionale), nel senso che il nuovo spirito rinascimentale si
servì degli studia humanitatis come strumento per progettare e costruire una nuova
idea di uomo. La filologia e lo studio dei classici, in altre parole, non fu fine a se stesso,
ma finalizzato alla visione antropocentrica e alla dignità dell’uomo, indubbiamente
nuova rispetto al passato. Se mai, possiamo sostenere, pur con una certa cautela, che
nel ‘400 prevale l’indagine sull’uomo e nel ‘500 quella sulla natura.
Propongo qui l’esposizione sintetica di due interpretazioni classiche dell’umanesimo,
che riguardano il suo significato filosofico.
1) Kristeller: gli umanisti sono stati sopravvalutati, perché è stata loro attribuita una
funzione di rinnovamento del pensiero che in realtà non ebbero: non furono
filosofi, ma essenzialmente filologi. “Io credo che gli umanisti italiani non siano
stati affatto dei filosofi, né buoni né cattivi. Infatti il movimento umanistico non sorse
nel campo degli studi filosofici o scientifici, ma in quello degli studi grammaticali e
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retorici.” Lo stesso merito principale dell’aristotelismo del ‘500 fu il ritorno alla lettura
dei testi di Aristotele nell’originale greco. Del resto, anche gli artisti non sarebbero
stati tanto geni creativi, quasi avessero avuto capacità sovrumane (quello di genio
è, in effetti, un concetto che nasce solo con il romanticismo), ma ottimi artigiani, in
possesso di un notevole bagaglio di conoscenze tecniche (dall’anatomia alla
prospettiva). Inoltre, astronomia e fisica fecero progressi notevoli non perché
collegate e influenzate dalla filosofia, ma in quanto agganciate strettamente alla
matematica.
2) Garin: la sua tesi è di segno opposto. La filologia è la filosofia dell’umanesimo,
ossia un nuovo metodo di considerare la storia, un nuovo senso della storia, che dà
vita ad una filosofia aperta, pragmatica e problematica. La filosofia non è qui
concepita come sistema, cioè una totalità di conoscenze perfettamente collegate tra
di loro, che presume di spiegare tutta la realtà, bensì un sapere non definitivo, che
pone domande, ma lascia inevitabilmente anche problemi irrisolti e ha una finalità
pratica di trasformare il mondo e mette l’individuo concreto in primo piano: gli
umanisti intraprendono “indagini concrete, definite, precise (…) al di fuori di ogni
vincolo e di ogni auctoritas”. Gli umanisti sono lontani dunque dalla costruzione di
quelle cattedrali di idee tipiche di una filosofia sistematica come la Scolastica.
Tra queste due tesi divenute ormai classiche, la storiografia più recente ritiene che sia
possibile una mediazione: l’umanista si contraddistingue per il modo di leggere i classici,
per cui guarda al passato con un senso storico diverso, ma è anche vero che dal punto di
vista teoretico l’umanesimo non portò grandi e originali novità.
Riguardo al secondo aspetto, il concetto di rinascimento nasce nell’800 grazie a
studiosi come Michelet e Burckhardt e sta ad indicare una frattura, una rottura storico
– culturale rispetto al medioevo: da una concezione teocentrica, in cui l’intera vita
dell’uomo medioevale è vista e progettata in funzione di Dio e dell’aldilà, si passa ad
una concezione antropocentrica, che mette l’essere umano al centro del cosmo.
L’uomo è misura di tutte le cose, un uomo che ha piena fiducia nelle sue capacità e
nella trasformazione del mondo e non guarda più ad esso come viatico verso l’eternità.
L’individuo è artefice del proprio destino (homo faber fortunae suae) e la cultura ha
una connotazione laica: ciò significa che la ragione tenta di rendersi autonoma rispetto
alla religione e alla tradizione (come nel caso della filosofia e della politica). La vita è
vissuta ed assaporata in tutta la sua pienezza, in funzione di una felicità terrena. Ciò
non significa, attenzione, che l’uomo del ‘400-‘500 non pensi più a Dio e che sia ateo:
tutt’altro. Vuol dire semplicemente che in un cosmo pensato molto spesso come
scintilla e manifestazione della divinità (concepita da molti filosofi del tempo in senso
panteistico), l’uomo ha un posto centrale, di primissimo piano. Altri autori, come
Burdach e Gilson, evidenziano invece elementi di sostanziale continuità tra i due
periodi: l’interesse magico – astrologico è fortemente sentito nell’umanesimo
rinascimentale, ed è ritenuto retaggio ereditato dal Medioevo. Inoltre, il rinnovamento
culturale resta, come nell’epoca precedente, fenomeno elitario, sebbene prima fosse
riservato ai chierici ed ora aperto al mondo laico. La storiografia più recente preferisce
parlare di una diversità tra medioevo e rinascimento, che prevede quindi sia elementi
completamente nuovi sia di continuità tra le due stagioni culturali.
Concludendo, fermo restando che umanesimo e rinascimento sono due concetti
storiografici, coniati cioè dagli storici per comprendere un periodo come quello del
‘400 e ‘500, gli studi più recenti tendono a non dividere il fenomeno umanistico e quello
rinascimentale, ma a vederli nella loro complementarietà, da un lato; e dall’altro
inquadrano l’umanesimo rinascimentale nel suo imprescindibile rapporto con il
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Medioevo, evitando di puntualizzare in maniera eccessiva sia gli elementi di rottura che
quelli di continuità, essendo presenti entrambi in un’epoca così complessa ed
affascinante come quella rinascimentale.
Per quanto concerne il terzo problema, gli storici della filosofia si sono chiesti quanto
sia moderno il rinascimento e dunque quando inizi la modernità in senso
filosofico. Anche qui, le risposte sono state diverse. Vi è chi ha sostenuto che
l’umanesimo rinascimentale è già essenzialmente moderno, vista l’ansia di
rinnovamento a cui effettivamente diede vita rispetto al Medioevo. Adducendo la stessa
motivazione, altri studiosi hanno puntato l’attenzione sulla Riforma protestante, non
fosse per il fatto che i temi sviluppati vanno al di là di un ambito elitario, quale fu quello
rinascimentale, per interessare la vita stessa delle masse popolari, con conseguenze
decisive per il futuro dell’Europa. Per quanto ci riguarda, va tuttavia puntualizzato che a
livello filosofico, sia il Rinascimento che la Riforma (pur accomunati da un desiderio di
rinascita, di ritorno alle origini, seppur a vari livelli), presentano influenze che
risentono di un retaggio medioevale (come abbiamo già accennato per l’Umanesimo
rinascimentale; per la riforma basti pensare all’ossessivo senso del peccato di un
Lutero e all’intolleranza che porta alle guerre di religione) e che non sono quindi
esclusivamente o interamente moderni.
La tesi che più ci pare appropriata e generalmente riconosciuta valida dalla storiografia
filosofica fa riferimento al filosofo tedesco Ernst Cassirer (1874-1945), il quale
evidenzia come problema per eccellenza della filosofia moderna quello della
conoscenza, che torna prepotentemente in primo piano, sia in ambito filosofico che
scientifico. In questo contesto, precisa lo studioso, è vero che “la storia del pensiero
moderno non conosce forse scoperta logica altrettanto importante e decisiva quanto la
fondazione della scienza esatta della natura da parte di Galileo”, ma d’altra parte lo
scienziato pisano non elaborò mai, come vedremo, una teoria sistematica della
conoscenza (che possiamo desumere dalle sue varie opere, ma non ve n’è una che
specificamente e organicamente si occupi di gnoseologia ed epistemologia).
Se Galilei elabora un nuovo concetto di natura dominato dalla necessità, il filosofo
deve però porsi il problema dell’origine di questa necessità. E il primo filosofo ad
occuparsi di tali questioni in modo sistematico (e dunque integralmente moderno) è
sicuramente Cartesio.
B) Temi della filosofia rinascimentale
Come sarà noto per lo più a chi abbia una minima conoscenza di quest’epoca,
l’uomo rinascimentale fu estremamente poliedrico: la laicizzazione della cultura, che
tende a farsi autonoma rispetto alla tradizione, il ruolo del soggetto e della ragione,
il nuovo rapporto dell’uomo con Dio, sono aspetti centrali della filosofia
rinascimentale. Si pensi soltanto alla politica, dove, seppur nel tentativo comune di
elaborare una concezione dello stato di stampo laico, noi ci troviamo di fronte a
proposte molto diverse tra di loro: da un lato Machiavelli, che nel dare consigli al
suo Principe concentra la sua attenzione sulla Verità effettuale, ossia sull’analisi
attenta e rigorosa della realtà così come essa si presenta all’osservazione dello
studioso, per costruire uno Stato autonomo sia dalla religione che dalla morale (ciò
che si chiama realismo politico); dall’altro, l’edificazione di uno stato ideale (e il
tema della città ideale coinvolge il mondo dell’arte, specie sul piano architettonico e
urbanistico) come modello normativo astratto dal cui ambito noi possiamo criticare
la realtà presente e i suoi mali, che ritroviamo nell’Utopia di Thomas More del 1516
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(l’isola che non c’è, perché è in nessun luogo appunto) e La città del sole di
Tommaso Campanella del 1602. Queste città vivono nella pace, nella fratellanza,
nella giustizia sociale e prive di una religione di stato, convenendo sulla fede in una
divinità creatrice in rapporto armonico con la natura. La tolleranza, manco a dirlo, la
fa da padrona. Guarda caso, l’esatto opposto della società inglese del tempo (come
anche dell’Italia meridionale dominata, ai tempi di Campanella, dall’Inquisizione e
dagli Spagnoli). Ci sono poi autori, fondamentali nel contesto dell’Umanesimo
europeo, come Erasmo da Rotterdam e Michel de Montaigne, che mettono
l’uomo al centro della propria indagine con una critica corrosiva alla società del loro
tempo (come abbiamo constatato l’anno scorso a storia); noi ci soffermeremo più
da vicino sul platonismo e l’aristotelismo del ‘400 – ‘500, con inevitabile
riferimento all’ermetismo e alla magia.
B1) Neoplatonismo, ermetismo, neoaristotelismo, filosofia della natura
Nell’ambito del rinascimento si assiste al ritorno del platonismo e dell’aristotelismo, ma in
un contesto radicalmente mutato rispetto al medioevo. Iniziamo dal platonismo. La sua
fortuna è legata all’Accademia fiorentina di Marsilio Ficino, che rientra in quella grande
stagione di promozione culturale e artistica che va sotto il nome di mecenatismo: il nome
fondamentale è, ovviamente, quello di Lorenzo il Magnifico. La rinascita di Platone rientra
proprio nel contesto di una forte polemica con la Scolastica e dunque con Aristotele.
Tuttavia, prima di questa straordinaria stagione culturale va detto che l’interesse per il
platonismo viene anticipato dal filosofo e matematico tedesco Nikolaus Krebs, meglio
conosciuto con il nome latinizzato di Cusano. Egli introduce due concetti fondamentali,
che influenzeranno la filosofia successiva, in particolare di Giordano Bruno: quelli di dotta
ignoranza e di coincidentia oppositorum. Riguardo al primo, l’essenza di Dio non si
rivela mai interamente, rimanendo egli un Deus absconditus, di cui l’uomo può intendere
solo le opere con cui egli si manifesta nel cosmo. Questo Dio che si rivela e in buona parte
si ritrae, celando la sua intima sostanza, è concetto tipico di tanta parte del misticismo
cristiano e di quella teologia negativa, non a caso anticipata da Plotino nella storia del
pensiero. Stando così le cose, l’atteggiamento corretto da parte dell’uomo sarà quello di
assumere in sé l’umile consapevolezza di non poter cogliere Dio in tutta la sua
magnificenza e tuttavia questa ignoranza, di chiara marca socratica, è dotta proprio in
quanto cosciente di sé. E’ proprio da essa che l’uomo può progredire nella sua
conoscenza, avvicinandosi indefinitamente alla verità assoluta, senza riuscire mai a
coglierla interamente, allo stesso modo di un poligono iscritto in una circonferenza:
moltiplicando i suoi lati, il poligono potrà avvicinarsi in modo illimitato alla circonferenza,
senza mai poter coincidere con essa.
Per quanto concerne la coincidenza degli opposti, Cusano nota che la ragione umana
progredisce comparando tra di loro le cose finite, sulla base del principio di non
contraddizione, ossia definendo un ente attraverso l’esclusione del suo opposto. Dio, però,
in quanto infinito e assoluto va al di là del principio di non contraddizione, poiché anzi Egli
accoglie in sé ogni aspetto della realtà e ogni opposizione (di qui la dotta ignoranza di cui
parlavamo prima, ossia il poter cogliere Dio solo per via indiretta e negativa). Per fare un
esempio, una circonferenza è opposta al suo centro, nel quale esso è iscritto, ma se
consideriamo una circonferenza infinita (come Dio deve essere), il centro perde la sua
posizione specifica e determinata e arriva a coincidere con la circonferenza: come lo
stesso Dio, è ovunque e in nessun luogo. L’opposizione tra centro e circonferenza, grande
e piccolo, curva e retta, così come tutte le altre contraddizioni, sono valide solo nell’ambito
delle quantità finite, in un contesto di carattere relativo. Dio è viceversa coincidentia
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oppositorum, nel senso che è unità e conciliazione di ogni opposizione, essendo
dappertutto e in nessun luogo, perché infinito.
Tornando alla riscoperta di Platone, si assiste, dalla metà del ‘400 in poi, al recupero dei
testi platonici e alla loro lettura nell’originale greco: essi sono portati in Italia dai dotti
bizantini, fuggiti da Costantinopoli in seguito alla conquista turca nel 1453. Fino ad allora,
in Occidente i soli testi conosciuti di Platone erano il Timeo, il Fedone e il Menone. Inoltre,
la filosofia platonica appare agli studiosi rinascimentali più aperta, votata com’è la dialogo,
rispetto a quella aristotelica e quindi più adatta ad esprimere la voglia di rinnovamento e di
discussione critica dell’uomo in questa fase storica. Con la sua idea di una costante
tendenza all’ascesi verso il divino, da cui tutto il mondo deriva e verso cui deve tornare, il
platonismo del ‘400-‘500 guarda più al neoplatonismo che a Platone stesso. Marsilio
Ficino tradusse, oltre alle opere del grande filosofo ateniese, anche le Enneadi di Plotino.
Il fatto che Marsilio sia al tempo stesso traduttore, filosofo e mago ci fa ben comprendere
la complessità della figura dell’intellettuale in questo tempo. Idea tipica del neoplatonismo
rinascimentale e soprattutto di autori come Cusano, Pico della Mirandola e Marsilio
Ficino, è quella di un’unica rivelazione eterna, rispetto alla quale le singole religioni e
filosofie rappresentano solo visioni parziali: tale rivelazione della divinità partirebbe da
Mosè, passerebbe per Zoroastro e gli Scritti ermetici (di cui tra breve ci occuperemo),
Platone e Plotino, per poi giungere al Cristianesimo che completerebbe il percorso.
Un’idea nuova rispetto al Medioevo, che punta ad una conciliazione tra paganesimo e
cristianesimo, in nome di un vero e proprio sincretismo filosofico che tende ad integrare
concezioni molto diverse tra di loro. Il neoplatonismo dell’Accademia fiorentina vede
nell’anima umana una copula mundi, ossia anello di congiunzione tra umano e divino, tra
sensibilità e spiritualità: l’anima è autentica immagine di Dio, e la contemplazione e la
bellezza sono canali privilegiati attraverso cui l’anima stessa ascende a Dio. L’uomo
è perciò un microcosmo in grado di rispecchiare nel suo piccolo i caratteri più significativi
della divinità.
Ritorniamo un attimo ai cosiddetti scritti ermetici. A testimonianza di quanto sia complesso
e contraddittorio il Rinascimento, si tenga presente che gli umanisti, Ficino in primis, da un
lato hanno scoperto la critica filologica del testo, ma dall’altro caddero in un clamoroso
errore di valutazione, prendendo per autentici gli scritti ermetici. Questi furono
attribuiti ad Ermete Trismegisto (tre volte grandissimo), profeta pagano ritenuto
all’incirca contemporaneo di Mosè (XIII secolo a. C), che oggi sappiamo coincidere con
una figura mitica in realtà mai esistita, che avrebbe condensato in sé i caratteri sia del Dio
egizio Theut, lo scriba degli dei di cui Platone ci parla nel Fedro e rivelatore del logos
divino, sia del Dio greco Hermes (o Mercurio per i Romani, che è infatti il messaggero
degli dei). Proprio a questa figura mitica vengono attribuiti tali scritti, aventi sia aspetti
magico-astrologici, molto sentiti nel rinascimento, che gnostici, nel quadro di un chiaro
sincretismo pagano- neoplatonico e cristiano. Proprio Ermete è la fonte primaria di quella
sapienza antichissima e nascosta (dunque di carattere esoterico) che da Mosè giunge fino
a noi e profeta pagano di primaria importanza. Ficino traduce il Corpus Hermeticum, testo
basilare del rinascimento e solo nel ‘600 verrà svelato che tali scritti sono in realtà una
falsificazione di età imperiale (II-III secolo d. C), frutto della collaborazione di vari autori e
inquadrabile nel contesto di una riscossa pagana contro il cristianesimo (tra l’altro gli
elementi egizi sarebbero abbastanza minoritari).
Ciò che colpì gli uomini del rinascimento fu la presenza in questi scritti di accenni al ‘Figlio
di Dio’, al Logos divino, che richiama il Vangelo di Giovanni e perfino una sorta di
‘Discorso della Montagna’, secondo cui la rigenerazione dell’uomo è dovuta appunto
all’intervento del figlio di Dio.
L’altro aspetto che lega il neoplatonismo quattro-cinquecentesco al passato è senz’altro la
concezione magico-astrologica: la natura come totalità organica è influenzata da forze
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occulte, che fanno capo a Dio e agli astri e possono condizionare anche le scelte umane.
Di qui la convinzione dei maghi di poter controllare e assoggettare le forze della natura. E
il Corpus Hermeticum è una visione sincretistica che mescola platonismo, cristianesimo e
magia: di qui la sua imprescindibilità per poter capire il Rinascimento. Tali scritti hanno una
chiara impronta di gnosi ermetica: solo pochi possono essere in grado di decifrare la
verità derivante dalla rivelazione divina. Un altro documento che presenta molte analogie
con gli scritti ermetici è rappresentato dagli Oracoli caldaici: anzi, qui l’elemento magico
predomina ancora di più rispetto al Corpus Hermeticum, ma a differenza di questi ultimi,
riconducibili alla sapienza egizia, essi si collegano alla sapienza babilonese: i Caldei
adoravano infatti il fuoco e il sole. Vero autore di quest’opera in esametri, di cui ci sono
giunti diversi frammenti, è Giuliano, vissuto nel II secolo d.C., denominato il Teurgo: la
teurgia è la sapienza e l’arte della magia utilizzata per finalità mistico – religiose, come la
liberazione dell’anima dal corpo e il ricongiungimento di essa con il divino, a differenza
della comune magia, utilizzata per scopi profani. I Rinascimentali presero anche qui un
abbaglio clamoroso: furono indotti a credere che l’autore di questi oracoli fosse Zoroastro,
presentato addirittura anteriore ad Ermete, mentre come sappiamo egli visse nel VII – VI
secolo a.C e fu un riformatore religioso iranico, che con gli oracoli caldaici non ha nulla a
che vedere. Gli intellettuali del ‘400 – ‘500 furono indotti in tale errore da un autorevole
dotto bizantino, Giorgio Gemisto, che si fece chiamare Pletone, per assonanza con il
grande filosofo greco Platone. Fu lui a ritenere Zoroastro autore degli oracoli caldaici,
manifestando la sua tesi quando venne in Italia nel 1438, in occasione del Concilio di
Firenze al seguito dell’Imperatore bizantino Giovanni VIII Paleologo, per la riunificazione
delle Chiese di Roma e di Costantinopoli, poi fallita. Infine, gli Inni Orfici: se l’orfismo è
una corrente religiosa misterica dell’antica Grecia, che prende il nome dall’antico cantore
tracio Orfeo, ed ebbe una notevole influenza sul pitagorismo e sulla stessa filosofia
platonica, questo documento è in gran parte frutto di falsificazioni di età ellenistico –
imperiale. Accanto a dottrine risalenti all’orfismo originario, essi contengono infiltrazioni
stoiche e di ambiente teologico alessandrino, che nulla hanno a che vedere con l’orfismo
vero e proprio. I rinascimentali li ritennero autentici, tanto che Ficino cantava questi inni
per procacciarsi l’influsso benefico delle stelle. Ermete, Zoroastro, Orfeo e Platone
vennero legati in un nesso che è alla base del platonismo dell’Accademia fiorentina.
Proprio su tale impianto si fondava la magia naturale di Ficino: esiste una universale
animazione delle cose, dovuta in particolare allo ‘spirito’, sostanza materiale sottilissima
che pervade i corpi e costituisce il mezzo mediante cui anima e corpi interagiscono. La
magia naturale doveva servire a predisporre lo spirito che è nell’uomo a ricevere il più
possibile lo spirito del mondo assorbendone la vitalità: a tale scopo, ruolo importante
poteva essere svolto da pietre, metalli, erbe, talismani, oppure dal canto degli Inni orfici,
con accompagnamento musicale volto ad assecondare l’armonia degli influssi astrali. La
stessa medicina si collegava strettamente a tali pratiche. Sebbene a noi queste pratiche
paiano piuttosto eccentriche e bizzarre, risultano in realtà comuni a molti uomini del
Rinascimento, configurandosi come un fenomeno che caratterizzò quest’epoca, fino ad
influenzare fortemente lo stesso Giordano Bruno.
A questo punto, una domanda appare legittima: come mai gli umanisti, che hanno
scoperto la critica filologica del testo e sono giunti a scoprire clamorose falsificazioni,
come quella di Costantino, smascherata da Valla, presero un abbaglio così clamoroso
riguardo alle opere sopra citate, attribuite a profeti come Ermete, Zoroastro e Orfeo? I
motivi sono di varia natura. In primo luogo, la ricerca e la critica filologica concernente i
testi latini si è consolidata prima che gli umanisti entrassero in contatto con i testi
greci: ciò significa che essi avevano una sensibilità e un’affinità con i testi latini
decisamente maggiore che con i testi greci; in secondo luogo, furono gli stessi dotti greci
venuti in Italia da Bisanzio che portarono fuori strada gli umanisti dall’alto della loro
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autorità. Inoltre, gli umanisti che si accostarono ai testi latini ebbero una formazione
diversa e interessi intellettuali più concreti, indirizzati alla letteratura e alla storia, mentre
quelli che si interessarono ai testi greci ebbero esigenze più astratte, di natura teologica e
metafisica, e più propensi, dunque, ad essere suggestionati in tal senso. Infine, gli
umanisti che si occuparono dei testi latini furono più fortunati nel trovare fonti molto più
limpide e vicine all’originale di quanto non fossero quelle greche, notevolmente cariche di
incrostazioni e contaminazioni plurisecolari di diverso tipo.
Questo aspetto, in definitiva, oltre a darci un punto di riferimento chiave per capire il
platonismo rinascimentale, ci fa anche capire quanto l’umanesimo resti ancora influenzato,
volente o nolente, dal Medioevo e dalle sue tendenze tradizionali. Ciò nulla toglie,
naturalmente, all’originalità e allo spessore culturale dell’Accademia fiorentina e di autori
come Ficino e Pico della Mirandola, che vedono l’uomo al centro di ogni cosa.
L’altra grande corrente del pensiero rinascimentale è l’Aristotelismo, diffuso soprattutto
nelle università, come Bologna, Parigi e Padova. Proprio qui ebbe una tradizione di rilievo
e l’autore principale è sicuramente Pomponazzi. L’interesse dell’aristotelismo
rinascimentale non va tanto alla Metafisica, quanto alla Fisica e alle opere di logica.
Aristotele è interpretato in un’ottica completamente diversa da quella tomistica e molto
vicina ad Averroè, per cui si giunge alla tesi inerente alla mortalità dell’anima individuale e
all’eternità del mondo. L’indimostrabilità dell’immortalità dell’anima porta ad affermare che
essa può essere solo creduta come dogma sulla base della rivelazione divina. Il rinnovato
interesse per la natura, poi, non va visto nella prospettiva sperimentale, ma nell’ambito
dello studio delle opere aristoteliche su questo tema (qui si concentrerà la polemica di
Galileo) e quindi in una prospettiva puramente filosofica.
L’importanza storica dell’aristotelismo è duplice: da un lato contribuisce a concentrare la
ricerca filosofica sul problema della natura, aspetto tipico della mentalità rinascimentale e
dall’altro difende i diritti della ragione, concentrandosi sull’osservazione dei fatti a livello
empirico. Paradossalmente, tuttavia, esso mostra i suoi limiti proprio riguardo a quei punti
che ne sanciscono l’importanza storica: infatti gli aristotelici del ‘500-‘600 si ostineranno a
voler conoscere la natura sulla base della Fisica aristotelica e dunque in relazione a
nozioni di stampo metafisico (come, ad esempio, le cause finali) e ad una concezione
qualitativa e sostanzialistica del cosmo (volta cioè a coglierne l’essenza), che risulterà
tenace avversaria della Rivoluzione scientifica, in una singolare alleanza con la Chiesa
cattolica. Infine, l’appello alla ragione e all’osservazione scientifica fu vanificato dal ritenere
Aristotele l’ipse dixit, fondando le sue risposte ai critici sulla base del mero principio di
autorità. Ecco spiegato perché l’aristotelismo svolse in definitiva una funzione
conservatrice nel contesto della cultura moderna, che vedeva la lenta affermazione della
rivoluzione scientifica.
Altro grande filone del pensiero rinascimentale è la filosofia della natura del ‘500: essa
parte da una critica radicale nei confronti dell’aristotelismo, che ha il torto di spiegare la
natura sulla base di concetti puramente metafisici, come forma, potenza, ecc., mentre la
stessa va compresa, come sostiene Telesio, iuxta propria principia, ossia facendo
esclusivo ricorso a forze naturali e materiali ( che per Telesio sono per esempio il caldo e il
freddo, oltre la massa corporea che subisce la loro azione). Ciò non vuol dire negare Dio:
in realtà, la filosofia non se ne occupa (come vedremo a proposito di Bruno). Di qui la
critica al finalismo e l’affermazione di una materia che si muove da sola, senza riferimento
a principi metafisici. La filosofia della natura tenta di sganciarsi anche dalla tradizione
magico-ermetica del platonismo e si interessa ai filosofi presocratici: in realtà, l’aspetto
magico continuerà ad occupare un ruolo importante anche in filosofi come Bruno e
Campanella.
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