SEMINARIO DI FILOSOFIA IL SENTIMENTO DELLA FILOSOFIA LICEO SCIENTIFICO “E. MAJORANA” SCORDIA-ANNO SC. 2006-2007 Introduzione Convinti che la buona, e per certi versi sorprendente, risposta avuta lo scorso anno non fosse stata casuale e disposti a scommetterci verificando sul campo la natura del discreto successo di allora, anche quest’ anno si è voluto riproporre un lavoro di seminario su temi filosofici scelti stavolta dai docenti coinvolti. Le adesioni registrate e la partecipazione sentita e goduta ci permettono di dire, a meno che le nostre impressioni non siano state del tutto esageratamente infondate, che il discreto successo che ha accompagnato la nostra prima esperienza non era da addebitare alla buona sorte ed a circostanze quanto mai benevoli ma ad un reale interesse, se si vuole ad una intelligente curiosità, che allora avevamo connotato, commentando tra di noi, come un insperato bisogno di filosofia. Anche quest’ anno gli incontri, tre per ogni docente, ognuno della durata di due ore, si sono svolti di pomeriggio e l’attività, iniziata a dicembre, si è conclusa nel mese di marzo. Tema del seminario è stato “Il sentimento della filosofia”, modulato e scandito in tre fasi durante le quali i docenti hanno curato gli argomenti da loro stessi proposti e che di seguito si elencano secondo l’ ordine cronologico del loro svolgimento: 1. L’ amore, il desiderio, il corpo. Testi tratti da J.P.Sartre, L’ essere e il nulla. (Prof. V.Cataldo) 2. Il desiderio e la noia. Testi tratti da S.Kierkegaard, Aut Aut. (Prof.ssa S.Giurato) 3. Esistenza e angoscia. Testi tratti da M.Heidegger, Essere e tempo. (Prof. B.Interi) Ringraziamo gli studenti che hanno reso possibile questa esperienza e che, con la loro presenza, nonostante gli impegni ed i momenti topici in cui alcuni incontri sono caduti, sembrano suggerirci la possibilità che l’ attività di seminario, quale l’ abbiamo pensata, possa e debba continuare ancora in futuro. Cogliamo l’ auspicio e con il presente testo, curato da alcuni studenti che hanno partecipato al seminario, passiamo ai nostri ragazzi il frutto del loro e del nostro lavoro. I docenti L’amore come impresa e conflitto “Ciò che vale per me vale per gli altri” (J.P.Sartre, L’ essere e il nulla; parte terza, le relazioni concrete con gli altri). Questo è il principio di ogni relazione mobile, secondo J.P.Sartre. Per il filosofo francese ogni nostro atteggiamento nei confronti dell’ altro è guidato dal tentativo di liberarsi dall’influenza d’ altri così come, allo stesso modo, altri cerca di liberarsi dalla mia influenza. Tra noi e l’altro , infatti, poniamo solo le nostre aspettative, la nostra volontà, la nostra soggettività, non considerando che anche l’ altro nel suo relazionarsi con me è portato inevitabilmente a porre in primo piano la sua propria soggettività. Ognuno di noi dunque vive come se l’unico scopo in ogni relazione mobile fosse il “liberarsi dall’influenza d’altri” (ibidem) . In tal senso il rapportarsi ad altri genera un conflitto che quindi viene a configurarsi come il senso originario dell’ essere per altri e dunque si riduce al tentativo da parte della nostra autocoscienza di sottomettere la volontà e la soggettività dell’altro. Ma la coscienza che l’essere umano ha di sé ( l’autocoscienza umana) necessita del riconoscimento dell’altro nel cui sguardo egli coglie la propria immagine. Ed è dunque attraverso lo sguardo dell’altro che mi scruta e mi giudica , che io acquisisco consapevolezza dell’altro. Quindi la mia esperienza dell’altro nasce dal mio considerare l’altro come soggetto e quindi dal mio essere oggetto per lui, essere visto da lui. In tal senso l’esperienza dell’altro è esperienza di uno sguardo. Dal momento che tutto ciò che vale per me vale per l’altro, lo sguardo è la rivelazione di un’ altra coscienza, di un’altra autocoscienza che come me trova il suo essere per altri nel mio riconoscimento. La rivelazione d’altri attraverso lo sguardo viene a configurarsi come una sorta di possesso, dal momento che tale sguardo mi fa essere e mi definisce , collocandomi nel mondo e vedendomi come io non mi vedrò mai. L’ ideale dell’ amore Per Sartre l’amore come relazione mobile primitiva con l’altro assume i caratteri di un’ impresa, in quanto altri per me non è che il tentativo di realizzare l’amore stesso. L’amore però inevitabilmente, allo stesso tempo, genera conflitto in quanto è relazione fra due coscienze libere. Infatti, secondo quanto detto prima, l’altro , come libertà e coscienza, riconoscendomi è fondamento del mio essere che così, consegnato all’ altro e determinato dalla libertà d’altri perde consistenza per sé e diventa per me la percezione di un alcunché estremamente precario. Il sentire precario il mio essere mi porta al tentativo di riprendere il mio essere. Ma non potrò realizzare tale progetto se non mi impadronisco di questa libertà e non la riduco ad essere libertà sottomessa alla mia libertà. Per cui il progetto del soggetto di unirsi all’altro diventa desiderio dell’amante di possedere l’amato conservandolo e rispettandolo nella sua libertà. Quindi la prima contraddizione che genera il conflitto d’amore è data dal fatto che l’amante, che in un primo momento voleva amare il partner come soggetto, manifesta subito dopo l’esigenza di essere amato in modo assoluto. Inoltre anche l’amato come soggetto libero vorrà essere amato sopra ogni cosa. L’unità con l’altro è ciò a cui l’amore tende, ma dal momento che tale unità pretende la totalità, l’amante aspira a possedere l’altro non come puro oggetto, bensì come libera soggettività. Quindi ciò che l’amante tende a compiere è il possesso della libertà altrui, pur mantenendola come libertà: “l’amore vuole imprigionare la coscienza” (ibidem). Questo è ciò che, per esempio, accade all’eroe di Proust, “il quale fa abitare con sé la sua amante e può vederla e possederla in ogni momento. Inoltre nonostante egli l’abbia posta in una totale dipendenza materiale è continuamente roso dalla preoccupazione. E’ infatti con la sua coscienza che Albertine sfugge a Marcel ed è per questo che egli non ha tregua se non quando la contempla nel sonno” (ibidem). Per cui chi vuole essere amato non vuole l’asservimento dell’essere amato, non desidera un amore che sia un determinismo psicologico, ma pretende di “possedere una libertà come libertà” (ibidem). D’altra parte l’amante vuole che la libertà che cerca di possedere come libertà non sia più libera. L’amante pretende insieme che la libertà altrui tenda liberamente ad essere amore e contemporaneamente, pretende che tale libertà si imprigioni da sé, quindi che l’amato rinunci da sé alla sua libertà. L’amante però non vuole essere ciò che “determina” la modificazione della libertà altrui, ma esserne occasione unica. L’amante, infatti, pretende di essere per l’altro il mondo entro cui si muove l’amato e non uno dei tanti oggetti del mondo. Quindi ciò che l’amante esige dall’amato è esistere come limite oggettivo della libertà dell’amato, limite che nasce contemporaneamente alla liberà di cui è limite e non sia una semplice causa della limitazione di tale libertà. L’amante pretende di essere delocalizzato, di essere posto al di fuori del mondo come qualcosa di “eccezionale”. Ciò che l’amante esige, infatti, è di non essere visto come un “questo” fra infiniti “questi” posti nel mondo, bensì come condizione dell’esistenza del mondo; “l’amante vuole essere il valore che dà valore al mondo” (ibidem). Ovvero l’amante vuole essere per l’amato il riferimento soltanto in relazione al quale ogni cosa assume significato, limite di paragone attraverso cui la totalità degli altri enti assume significato. L’amante esige poi che l’amato sia libero, ovvero che il suo amore sfugga ad ogni contingenza e relatività. Io devo essere scelto liberamente come amato e voglio che tale scelta non avvenga fra altre possibili scelte. Io come amato pretendo che tale amore sia a priori e che quindi esista da sempre e non sia determinato da particolari condizioni; esigo che la scelta dell’amante abbia la caratteristica della necessità e non sia qualcosa la cui esistenza sia determinata dalla contingenza degli eventi, amore che presuppone il mondo e a sua volta può esistere per gli altri. L’amante, rifiutando qualsiasi contingenza, vuole che l’amato abbia fatto di lui una scelta assoluta e quindi che l’esistenza dell’amato abbia come unico e necessario motivo il suo amore per l’amante. Per l’amato dunque l’amante deve esistere perché fondamento della sua esistenza e dal momento che è l’altro che mi fa essere, la mia esistenza è “chiamata”. Inoltre essendo l’altro che mi dà l’essere, la mia esistenza diverrà pura generosità, ovvero avrà come fine l’amato stesso. Ogni mio gesto, ogni mio pensiero e ogni minima parte del mio corpo, avendo ricevuto dall’altro l’essere e la ragion d’essere, saranno incessantemente dei doni che io faccio all’altro. Ed è qui che si trova la gioia d’amore: il sentire la mia esistenza giustificata da una libertà assoluta che essa condiziona allo stesso tempo. Quindi, in definitiva, amare altri non è che “il progetto di farsi amare” (ibidem). Da qui nasce l’ennesima contraddizione perché l’amante vuole che l’amato l’ami sopra ogni cosa, ma contemporaneamente esige che l’altro non vivi il desiderio di farsi amare. L’amante esige che l’amato riconosca in lui il limite della sua libertà, vuole che lo senta come la base su cui poggia la sua esistenza. E quindi un amore del genere si riduce ad una pura esigenza dell’amante, esigenza che imprigiona l’amante stesso. Da qui l’alienazione della libertà dell’amante. Infatti l’essere dell’amante è alienato in quanto egli cerca nell’amato il senso della sua esistenza: nell’altro egli cerca se stesso, nella soggettività dell’altro egli cerca il fondamento della sua oggettività. ”Così nella coppia di amanti , ciascuno vuole essere l’oggetto per il quale la libertà dell’altro si aliena ; così ciascuno è alienato solo in quanto esige l’alienazione dell’altro” (ibidem). Il desiderio e il corpo Il bisogno di riconoscimento dell’altro mi porta al tentativo di impossessarmi della sua soggettività attraverso l’oggettività della sua coscienza, ovvero facendolo diventare oggetto. Tale è il desiderio sessuale ovvero il progetto di incarnazione del corpo dell’altro e anche del mio. Nel desiderio l’amante si fa carne per “appropriarsi della carne d’altri” (ibidem). Ma a sua volta la carne dell’altro permette l’incarnazione dell’amante, ovvero lo fa sentire in quanto carne; permette la rivelazione ( a se stesso) del suo corpo in quanto carne. Quindi l’amante vuole impadronirsi del corpo dell’altro, ma tale corpo è voluto come carne. Infatti il corpo d’altri non può mai essere percepito come oggetto isolato da relazioni esterne; il corpo è sempre inserito in una molteplicità di situazioni e circostanze. La carne, invece, rivela la presenza del corpo in quanto è pura contingenza. Proprio in conseguenza di ciò il desiderio sessuale si configura come “un tentativo di svestire il corpo d’altri e di farlo esistere come pura carne” (ibidem). Questo progetto di incarnazione inizia la sua realizzazione con la carezza. La carezza, infatti, non è semplicemente ”sfiorare”, in quanto essa ha invece la funzione di foggiare l’altro. Infatti finché io non tocco l’altro, l’altro è per me corpo in situazione. Ma nel momento in cui lo tocco, egli nasce con la mia carezza come carne. La carezza, dunque, isola il corpo dell’altro, lo spoglia della sua azione e lo rivela come carne per me e per lui. Così carezza e desiderio diventano indistinguibili: “il desiderio si esprime con la carezza come il pensiero con il linguaggio” (ibidem). Ma nella carezza la rivelazione della carne d’altri avviene in modo assai particolare. Infatti in essa l’amante non è corpo in situazione che fa nascere la carne d’altri, bensì corpo come carne; per cui la rivelazione della carne d’altri si realizza attraverso la mia carne. Nella carezza io realizzo un’azione sul corpo d’altri con la mia carne. Le mie carezze, dunque, rivelano la mia carne in quanto essa è per l’altro carne che permette la sua incarnazione. Ne segue, allora, che “il possesso” d’ altri non è che “un farsi carne reciprocamente” (ibidem). In definitiva nel desiderio vi è il tentativo di “un invischiarsi della coscienza per realizzare l’incarnazione d’altri” (ibidem). Ma d’altra parte il desiderio è l’origine della sconfitta che conclude il progetto di incarnazione, in quanto il desiderio è desiderio di incarnazione. Non è sufficiente, infatti, che io abbia realizzato attraverso la carezza l’incarnazione dell’altro; il desiderio è volontà di impadronirsi della coscienza fatta carne. Per cui dalle carezze si passa ad atti di possesso, di penetrazione, di appropriazione. “Il mio corpo cessa di essere carne, ridiventa lo strumento sintetico che io sono” (ibidem) attraverso cui io cerco invano e disperatamente di realizzare questo possesso, questa penetrazione, questa appropriazione. In altre parole di affermare la mia signoria sulla coscienza fatta oggetto e incarnata dell’ altro che intanto ridiventa corpo. Così il desiderio sessuale che si fa rapporto sessuale disincarna: io cesso di essere carne e l’altro cessa di essere incarnazione e non è altro che un oggetto. Ciò porta al dissolvimento di quello che era il fine del desiderio: il farsi reciprocamente carne. Così io torno ad essere corpo in situazione di fronte ad una carne che non sento più attraverso la mia carne, ma che è diventata pura proprietà di un oggetto. Da qui la sconfitta, la frustrazione del desiderio, in quanto non avrò mai la certezza di aver realizzato un’ appropriazione . Per cui mi ritrovo nell’atto di prendere qualcosa di diverso da ciò che originariamente desideravo prendere e da ciò la mia sofferenza generata dalla mia incapacità di esprimere ciò che volevo prendere. L’amore passionale, coniugale e religioso:scelte di vita e stadi dell’esistenza Considerato da molti il padre dell'Esistenzialismo, Kierkegaard rivaluta nel suo percorso filosofico l'esistenza del singolo rispetto all’umanità. Il punto decisivo di dissenso con l’hegelismo, infatti, si ritrova nel fatto che per il danese “un sistema logico è possibile, ma non è possibile un sistema dell'esistenza”. L'essere, dunque, non può venire dedotto dal pensiero. Nella vita di ciascun uomo il rapporto con l’altro è un cruciale momento di crescita personale e di riconoscimento del sé, per questo, pur essendo Kierkegaard uno scrittore essenzialmente religioso, una buona parte della sua opera è dedicata allo studio dell’amore ed alle diverse forme nelle quali esso può presentarsi: effimero e fugace stordimento dei sensi, turbinoso emergere della passione e dell’affinità elettiva, stabile legame matrimoniale reso ufficiale dal sacramento o ancora salto nel buio e amore per Dio. Lo stesso Kierkegaard, d’altronde, prima di operare la scelta decisiva e consacrare la sua vita a Dio aveva sperimentato con intensità almeno le prime due tappe di questo percorso durante il suo tormentato rapporto con Regina Olsen (le vicende di questo travagliato fidanzamento offriranno al pensatore numerosi spunti di riflessione per il suo percorso filosofico). Nella raccolta di scritti dal titolo “Enten-eller” (“Aut-aut”), pubblicata a Copenaghen nel 1843 troviamo due gruppi di carte: le carte di tipo A, testi di natura prevalentemente estetica, e le carte di tipo B, di argomento etico. Per Kierkegaard dunque l'esistenza umana è qualcosa che va al di là della sfera del pensiero e della razionalità, essa ha una dimensione essenzialmente pratica, si fonda su un impegno esistenziale dell'individuo e su una continua proiezione di sé verso le alternative che si propongono. In “ Enten-Eller” egli descrive quest'impegno come possibilità di scelta tra diverse dimensioni dell'esistenza. Quando Kierkegaard parla di stadio estetico, tuttavia, non vuole affatto indicarci qualche particolare fenomeno artistico ma presentare uomini che hanno cercato di fare della loro vita un'opera d'arte. Essi vivono solo ed esclusivamente per il piacere. All'interno di questo stadio o tipologia dell’esistenza egli individua due figure di riferimento: il seduttore immediato erotico e il seduttore psichico. La figura del seduttore immediato erotico è rappresentata magistralmente dal personaggio del Don Giovanni di Mozart, mentre per ciò che riguarda la seconda tipologia di seduttore, quello psichico, l'esempio rappresentativo è quello di Giovanni del “Diario del seduttore”. Mozart ha un ruolo fondamentale nella vita di Kierkegaard, tanto che egli presenziò più volte a rappresentazioni delle sue opere. “Ti devo il non aver trascorso la vita senza che qualcosa fosse in condizione di scuotermi. Ti ringrazio perchè non morirò senza aver amato”. Con queste intense parole il filosofo descrive il suo rapporto con il compositore e sottolinea l’importanza che ha avuto nella sua vita. Il Don Giovanni presenta la figura di un uomo che seduce indistintamente più di una donna, nella speranza di trovarne una che incarni in modo perfetto il suo ideale. Si tratta di un tipo di seduzione non calcolato ma spinto solo dal puro desiderio. Poiché ci troviamo fuori dalla sfera etica, non ci si chiede se le azioni del Don Giovanni possano ritenersi giuste o sbagliate. Essendo un seduttore immediato, questa sua spontaneità si può comprendere meglio attraverso la musica. Infatti questa è un fluire di sensazioni che permette di cogliere in pieno la sensualità erotica. Nel Don Giovanni i concetti di sensualità e di cristianesimo sono strettamente correlati, nel senso che la categoria della sensualità nasce con il cristianesimo. Quest'ultimo, escludendo gli aspetti dell'erotico e della sensualità dalla sfera etica, crea delle categorie a sé stanti. All'interno di queste categorie individuiamo tre particolari momenti del desiderio: − il primo momento corrisponde allo stadio sognante, in cui il desiderio non si è ancora separato dal soggetto (ne è esempio la figura del paggio ne “Le nozze di Figaro”). − il secondo momento corrisponde allo stadio cercante, in cui desiderante e desiderato sono divisi, ma il desiderante è inconsapevole di cercare il desiderato (“Flauto magico”, l'uccellatore Papageno). − il terzo momento, o stadio desiderante, rappresenta la fase in cui il desiderante, già separato dal desiderato, è cosciente di cercare l'oggetto desiderato (“Don Giovanni”). Egli gode della soddisfazione del desiderio. Al contrario del seduttore immediato, che agisce spontaneamente, quello psicologico tende a progettare dei piani, al fine di conquistare le donne, spinto solo ed esclusivamente dal proprio narcisismo e dalla sua volontà di dominio. Egli pianifica la tattica di conquista che si ripete indistintamente con ogni “vittima”. Nel “Diario del seduttore” il protagonista Giovanni cerca di conquistare una giovane diciassettenne di nome Cordelia Wahl. All’inizio Giovanni non conosce ancora la fanciulla, intravista per strada mentre si accinge a scendere da una carrozza, ma in breve tempo riesce ad infiltrarsi nella sua vita e ad instaurare rapporti non solo con lei ma anche con gli altri membri della sua famiglia. Cordelia ammaliata dall’abilità dialettica di Giovanni accetta di fidanzarsi con lui, ma giorno dopo giorno con le sue lettere il seduttore la plagia. Affermando che l'amore non ha bisogno di istituzioni o regole, come il fidanzamento, il giovane convincerà Cordelia a rompere il fidanzamento di sua volontà e a concedersi a lui al di fuori delle regole dell’etica e della morale corrente. Questa tipologia di seduzione ed il piacere che ne deriva sono però completamente diversi dal caso esaminato in precedenza: qui quello che viene messo in atto è un gioco di potere e il piacere deriva non tanto dal possesso fisico, quanto dalla capacità di impadronirsi dell’anima della donna desiderata. All'interno di questo stadio, sia che si parli di seduzione immediata sia che si insceni una seduzione psichica, vi è però una contraddizione ineliminabile che è rappresentata dalla noia. Essa entra in gioco poiché il seduttore, nell'atto di conquistare, utilizza metodi che si ripetono continuamente e che alla fine riportano continuamente il protagonista al proprio vuoto interiore ed al proprio tedium vitae. Per introdurre l'apologia del matrimonio Kierkegaard si serve invece della storia di un gruppo di ragazzi che una sera s'incontrano, bevono, discutono e prima di rientrare in casa, incontrano una coppia di sposi che prendono il tè (gli argomenti sono trattati nei testi di “In vino veritas” e in “Apologia del matrimonio. In risposta alle obiezioni di un marito”, entrambi contenuti nell’opera “Stadi sul cammino della vita”). Uno dei giovani (Victor Eremita, pseudonimo sotto il quale si cela lo stesso autore) ruba un fascio di fogli all'uomo, il giudice Guglielmo. Già da una prima lettura risulta chiaramente di cosa si tratta: è una vera e propria l'apologia del matrimonio e per Kierkegaard anche la risposta del giudice Guglielmo alla figura del seduttore. Per il giudice il matrimonio è e sarà sempre il più importante viaggio di scoperta che un uomo possa intraprendere. Qualsiasi altra forma di conoscenza della vita è superficiale se rapportata a quella di un marito, poiché egli è l'unico ad aver conosciuto la vita nel modo più giusto e profondo. Il carattere divino del matrimonio trasforma, miracolosamente, le piccole cose in importanti. Infatti la vita matrimoniale, seguendo il suo corso, da più significato a ciò che era privo di senso per chi affronta i rapporti in modo superficiale. Credere è necessario poiché un marito che non crede è il più noioso dei compagni; la fede è l'unico requisito e la sola cosa che compensa di tutto. C'è una sola qualità che rende il marito amabile ed è la fede, la fede assoluta nel matrimonio. Inoltre, all'interno dell'innamoramento il giudice individua due tappe: la seduzione ed il matrimonio. La sostanziale differenza sta nel fatto che il seduttore viene individuato solo in un secondo momento mentre, la scelta del matrimonio, riguarda una decisione immediata. In ultima analisi la donna è vista come una benedizione per la persona a cui appartiene e col passare del tempo la sua bellezza viene esaltata soprattutto dalla maternità. Tuttavia anche lo stadio etico ha in sé una insanabile contraddizione: il marito fedele sa di non poter aderire in modo perfetto all’ideale etico ed avverte continuamente dentro di sé una insuperabile tendenza al peccato. Anche lo stadio etico, dunque risulta essere una scelta di vita insoddisfacente ed inadatta a risolvere la noia e l’inadeguatezza. L’ultima tipologia di esistenza esaminata da Kierkegaard è quella che, superando lo stadio etico, passa allo stadio religioso e offre così una nuova e radicale alternativa ai due modi di vivere esaminati in precedenza. Si tratta ancora una volta di una scelta aspra e tormentata. E’ un dramma ed una ricerca ansiosa di Dio attraverso una disperazione radicale. In “Timore e Tremore” Kierkegaard parla di questo terzo stadio, facendo un paragone tra paradosso e scandalo. Si tratta di compiere una scelta, quella decisiva: rifiutare Dio e gridare allo scandalo, oppure compiere il “salto” rinunciando alla propria razionalità in quanto il cristianesimo, per l’autore, è una religione irrazionale ed inspiegabile (qui sta proprio il paradosso poiché un uomo razionale deve rinunciare alla sua razionalità). L’uomo ha quindi la possibilità di scegliere: compiere o meno questo salto; chi decide di non compiere il salto, e quindi di negare Dio, per Kierkegaard, è il peggiore dei peccatori. Secondo il filosofo, l’uomo disperato che comprende il suo essere finito e, pur essendo consapevole di esserlo, sceglie di non annullarsi nelle mani di Dio e di non rinunciare alla propria ragione, compie indubbiamente il peccato più grave. Emblema di questo terzo stadio è Abramo il quale compie il salto fidandosi di Dio e rinunciando alla propria razionalità. Egli infatti, per volere di Dio, decide di sacrificare suo figlio Isacco ma, alla fine, Dio lo grazia proprio per la fiducia che Abramo aveva riposto in Lui E questa è per il filosofo danese la più elevata e significativa forma dell’ amore, quella che ci porta ad annullarci nelle mani di Dio e a dare un significato autentico alla nostra esistenza. Ogni uomo, dunque, per Kierkegaard deve decidere come vuole vivere la sua vita, invece di andare passivamente alla deriva lasciandosi semplicemente scivolare lungo il “fiume dell’esistenza”. Nell'opera “Il concetto dell’angoscia”, Kierkegaard parla dell'angoscia come sentimento connesso alla possibilità, in quanto aprendo le porte a tale sentimento l’uomo si rende conto del suo essere finito. Questo perché egli definisce l’ angoscia come il sentimento che nasce quando ci poniamo nei confronti del mondo e lo considera il sentimento fondamentale che spinge l’uomo a compiere il salto. Solo quando sveliamo tale sentimento, ha inizio il nostro rapporto con l’ infinito. Anche la disperazione è per il danese un sentimento “utile” a comprendere la nostra finitudine e l’esigenza di scegliere Dio. Nell’introduzione all'opera omonima egli parla della “malattia mortale ” attraverso l’esempio biblico di Lazzaro, dicendo che per il cristiano la vera malattia mortale non è quella che porta alla morte: perché mai Cristo avrebbe resuscitato Lazzaro se alla fine, egli sarebbe dovuto morire nuovamente? La morte fisica non è la fine di tutto, è solo la morte della parte corporea dell’essere umano; essa, intesa dal punto di vista cristiano, è come “un nulla compreso nell’eterno”. Per questo la morte non è considerata la malattia mortale, e non lo sono neppure le sofferenze terrene come ad esempio la povertà, la miseria, i tormenti o i lutti; e anche se una pena inflitta sulla terra fosse talmente grave da farci pensare che sia peggio della morte essa, cristianamente parlando, non sarebbe una malattia mortale. Il cristiano ha scoperto una ricchezza cui l’uomo ignorava l’ esistenza, tale ricchezza è proprio la consapevolezza della vera malattia mortale. Ma se la malattia mortale non è la morte e non porta alla morte, cos'è per Kierkegaard la vera malattia mortale? Letteralmente la malattia mortale è una malattia il cui esito è la morte, ma ciò di cui parla l’ autore non può essere definito tale. La disperazione in teoria non si potrebbe definire vera e propria malattia mortale perché essa non porta alla morte, ma per Kierkegaard questa è la malattia mortale in quanto il disperato porta sempre con se il tormento della disperazione. Il filosofo scriveva: “ …il tormento della disperazione è proprio non poter morire…quando il pericolo è così grande che la morte è diventata la speranza, la disperazione è l’assenza della speranza di poter morire.” Con quest'ultimo passaggio si comprende il perché la disperazione venga definita malattia mortale. La disperazione è anche autodistruzione ma un’ autodistruzione impotente in quanto l’ Io è incapace di fare ciò che esso stesso vuole, cioè distruggersi. Infatti “…chi si dispera si dispera per qualche cosa. Così sembra per un momento; ma è soltanto per un momento, perché nel momento stesso si mostra la vera disperazione o la disperazione nella sua verità. Disperandosi per qualcosa, egli, in fondo, si dispera per se stesso e ora vuole liberarsi da se stesso.” Inizialmente ci disperiamo apparentemente per qualcosa ma in realtà ci disperiamo per noi stessi, infatti la disperazione è proprio il rapporto che ha l’Io con se stesso. La disperazione è, dunque, un conflitto dell'Io: alienazione totale da se stesso da un lato, l’impossibilità di diventare totalmente se stesso dall'altro. La vita di ogni uomo è quindi imperfetta e finita ed il singolo si strugge nell'incessante ricerca della perfezione non comprendendo che sono proprio le imperfezioni e le assurdità della nostra vita che ci mettono in condizioni tali da compiere quel “salto” che, solo, ci consentirà di raggiungere una dimensione autentica dell’esistenza. Le sofisticate analisi che Kierkegaard ci propone sui diversi stadi della vita e sulle diverse tipologie di “amore” che l’uomo può sperimentare, le riflessioni sull'esistenza umana, che oscilla spesso tra angoscia e disperazione, hanno indubbiamente avuto importanti e forti ripercussioni sulla filosofia, ma anche sulla letteratura, sulle arti e nella società del ‘900. L’essere e il sentimento dell’esser-ci L’Esistenzialismo è una corrente di pensiero che accentua i temi dell’esistenza concreta rompendo gli schemi tradizionali. Ad emergere sono gli aspetti drammatici dell’esistenza, nascenti soprattutto dalla crisi che caratterizzò il periodo compreso fra la fine della prima guerra mondiale e la seconda. Infatti l’esistenzialismo prende la connotazione di “filosofia della crisi” o di una sorta di filosofia anti-progressista che scaturisce appunto dal tramonto degli ideali positivistici. Il disorientamento che pervase il mondo occidentale a partire dagli anni ’20 aveva creato un ambiente favorevole allo sviluppo dei temi che sono stati tipici della filosofia esistenzialista, aspetti negativi connessi con la condizione umana come la morte, l’angoscia e la paura. Fra tutti i pensatori contemporanei colui che riuscì meglio a mettere in risalto la tragicità dell’esistenza fu Martin Heidegger, ritenuto padre dell’esistenzialismo da tutti tranne che da se stesso che anzi cercava di distanziarsene. I disordini causati dal totalitarismo, ideologia che si affermò in primo luogo in Germania, paese natale di Heidegger (1889-1976), influenzarono profondamente il suo pensiero. Ciò si evince nel momento in cui Heidegger, nominato nel 1933 rettore dell’Università di Friburgo dove aveva studiato, pronunciò il suo discorso ufficiale esprimendosi favorevole al partito nazionalista fondato da Adolf Hitler, salito al potere l’anno precedente. Heidegger nell’ideologia nazista vedeva le basi di una rigenerazione culturale, motivo per cui invece perse la stima dei suoi amici intellettuali che lo etichettarono e allontanarono. L’opera che più fa propri i temi dell’esistenzialismo heideggeriano è Essere e Tempo risalente al 1927 e non terminata per l’inadeguatezza del titolo alle tematiche sviluppate dal filosofo. Quest’opera doveva costituire la prima parte di un’ontologia che evitasse l’errore attribuito da Heidegger alla metafisica di origina platonica di trattare l’essere come una sorta di cosa. Infatti da Platone in poi si sarebbe commesso un arbitrio nella ricerca del senso dell’essere, fulcro della filosofia di Heidegger: il problema dell’essere è stato camuffato, manipolato, l’uomo si è sostituito alla ricerca del senso dell’essere. Per i presocratici l’essere si identificava con la verità, dal greco A-LETHEIA letteralmente NONNASCONDIMENTO; Platone sovverte tale concezione individuando l’essere nell’EIDOS, nell’IDEA. L’uomo non è più verità che si manifesta ma è colui che presenta la verità che più gli conviene, errore che Heidegger individua nell’epoca moderna, in cui domina il pensiero di una tecnica che manipola le cose, il pensiero calcolante, che non è più in grado di trovare o conferire senso a queste cose. Per Heidegger trovare senso significa dunque aprirsi di nuovo all’essere, alla “ricerca del senso dell’essere perduto”, disporsi in ascolto dell’essere. Bisogna dare spazio a un pensiero rammemorante, non razionale, un pensiero disposto a cercare, a ritornare alle origini, alla verità. Tutto il periodo della metafisica, della modernità, è dunque il lungo periodo dell’oblìo dell’essere. Heidegger invece con Essere e Tempo vuole riappropriarsi del senso dell’essere, ma per far ciò bisogna liberare la mente dai pregiudizi, primo fra tutti quello di ritenere l’essere “ovvio”, evitando di renderlo il più universale e vuoto dei concetti. Heidegger mette in risalto come ogni cercare riceva la sua direzione preliminare dal cercato. Il cercare, in quanto essere, mira intenzionalmente al senso dell’essere, oggetto della sua ricerca. In tal modo la sua ricerca non è altro che cercare presso qualcuno. Al cercare appartiene quindi, oltre il cercato, l’interrogato, che è l’ente (qualunque cosa esista) inquisito intorno al suo essere. “Ma presso quale ente deve essere carpito il senso dell’essere? Il punto di partenza è indifferente oppure esiste un determinato ente che può vantare al proposito un primato?” La risposta è da individuare in quelli che sono i momenti costituitivi del cercare e nello stesso tempo modi di essere di un determinato ente, quali la penetrazione nell’essere, la comprensione e il possesso concettuale del suo senso, la possibilità di una retta scelta dell’ente e l’indicazione della via d’accesso a questo ente. Questo ente che fra le altre possibilità ha quella del cercare siamo noi stessi e Heidegger lo indica col termine Esser-ci (DA-SEIN). L’analisi del senso dell’essere diviene perciò, preliminarmente, analisi di colui che lo cerca. La comprensione dell’essere, è, nel contempo, una determinazione dell’essere dell’Esser-ci. Questo a sua volta ha il suo modo di essere nell’esistenza. Il sentimento dell’essere-con-gli-altri tra esistenza autentica e inautentica L’elemento caratterizzante dell’esistenza umana è l’essere-nel-mondo, l’essere in rapporto con gli altri esseri, uomini e cose. Tale rapporto è anzitutto apertura verso il mondo degli oggetti che per l’individuo si identifica con l’utilizzabilità degli stessi oggetti; in secondo luogo è apertura verso gli uomini in quanto come uomini siamo anche essere-con-altri allo stesso modo in cui siamo essere-nel-mondo: la costituzione dell’individuo dunque non è solo il Da-sein (Esser-ci), ma è anche il Mit-sein (Essere-con). È l’essere-nel-mondo non come pura collocazione spaziale ma come esistente, aperto al mondo nella situazione emotiva di chi è “gettato”. Gettato in quanto progetto mandato al mondo per scelta di altri, un essere progettato e progettante, perché una volta giunto al mondo diviene atto a progettare la sua esistenza. Il progettare non ha nulla a che vedere con l’escogitazione di un piano mentale in conformità al quale l’Esser-ci edificherebbe il proprio essere, ma è una struttura insita nella comprensione, che a sua volta è il voler comprendere da parte dell’Esser-ci il suo stesso progetto. L’uomo comunque è possibilità di scegliere ciò che è più consono al suo futuro. La scelta più importante che è chiamato a compiere riguarda la sua esistenza: sta a lui decidere se vivere in maniera inautentica o autentica. Un’esistenza autentica è vissuta in modo proprio, caratteristico, diversamente da quella inautentica, esistenza che invece non appartiene all’uomo. Quest’ultima infatti porta l’uomo a rapportarsi con gli Altri considerandoli come strumenti utilizzabili al fine di paragonarsi a loro. Dunque in tale rapporto l’Esser-ci non è se stesso, il suo metro di misura sono gli Altri, lui si modella su loro pur non avvertendo questo senso di contrapposizione commisurante che lo fa muovere nella soggezione agli Altri, nello sforzo di portare il proprio Esser-ci al livello o al di sopra degli Altri, dominato dalla preoccupazione di distinguersi. Ma ciò non significa che gli Altri siano dei determinati Esser-ci, al contrario essi sono anonimi, interscambiabili. In questa irrilevanza e impersonalità gli Altri si identificano con un “Chi” neutro, il “Si” che esercita la sua autentica dittatura sull’Esser-ci. Il Si prescrive il modo di essere della quotidianità perché ha già sempre anticipato ogni giudizio e ogni decisione sottraendo ai singoli Esser-ci la propria responsabilità. In tal modo l’uomo vede e giudica come Si vede e Si giudica.. Ma Chi vede e giudica? Il Si è sempre stato e tuttavia non è mai stato nessuno, o meglio, è il nessuno a cui ogni Esser-ci si abbandona nell’indifferenza del suo essere-assieme. “Ognuno è gli Altri e nessuno è se stesso”. Proiettato e preso nelle trame del mondo l’Esser-ci vive condannato al circolo dell’inautenticità per essere accettato dagli Altri, irretito dalla “chiacchiera”, dal parlottare confuso ed anonimo in cui si svolge la vita collettiva, fino a quando compie una scelta sottraendosi al Si, alla sua spersonalizzazione, riassumendosi delle responsabilità. Morte, angoscia e attesa: sentimento autentico dell’esserci Tutto conduce l’uomo all’inautenticità del vivere, anche la vita morale. Tutto, tranne il morire. Per Heidegger infatti vive in modo autentico solo colui che sceglie di vivere il suo carattere di ente cosciente che progetta e pensa al futuro, consapevole della possibilità di Essere-per-lamorte. La morte sovrasta l’Esser-ci, essa è una possibilità di essere che l’Esser-ci stesso deve sempre assumersi da sé in quanto è la possibilità di non-poter-più-esserci, ovvero la “possibilità dell’impossibilità delle possibilità”. Perchè il morire, la possibilità e l’inevitabilità del morire, sono gli unici aspetti dell’esistenza che staccano l’individuo da quella trama di relazioni che lo “svuotano”. Il morire pone, cioè, l’uomo di fronte al nulla, lo mette in discussione come esistente. Lo stesso termine esistere, da EX-SISTERE indica il “venir fuori da”, questo emergere dal nulla, in cui l’esistenza si trova sempre sospesa. Così la morte si rivela come la possibilità più propria, incondizionata e insuperabile dell’Esser-ci. Se l’Esser-ci esiste è anche già “gettato” in questa possibilità. Ma dal momento che l’uomo comprende la morte come sua più propria possibilità si angoscia. L’angoscia arresta ogni altra possibilità ed è la situazione emotiva che fa cogliere all’uomo l’essenza dell’Esser-ci. L’angoscia però non deve essere confusa con la paura davanti al decesso, in quanto la paura è l’angoscia del Si, banalizzata, ridotta ad un fatto di comune accadimento. Un essere-per-la-morte è l’accettazione della sua finitezza e l’anticipazione del suo non-poter-piùessere. Nella scoperta anticipante di questo poter essere, l’Esser-ci si apre a se stesso nei confronti della sua possibilità estrema. Un modo con cui l’Esser-ci si rapporta al possibile nella sua possibilità è l’attesa. Ogni attesa comprende il suo possibile a partire dal “se” dal “quando” e dal “come” esso sarà realmente presente. L’attendere non è soltanto attesa della realizzazione del possibile ma è essenzialmente un essere attento ad essa. Questo modo di essere per la possibilità costituisce l’anticipazione, e quando l’uomo riesce a scegliere la possibilità della morte in maniera anticipata si salva. “L’ a n t i c i p a z i o n e s v e l a a l l ‘ E s s e r – c i l a d i s p e r s i o n e n e l S i s t e s s o e…l o p o n e i n n a n z i a l l a p o s s i b i l i t à d i e s s e r e s e s t e s s o, i n u n a l i b e r t à a p p a s s i o n a t a, a f f r a n c a t a d a l l e i l l u s i o n i d e l S i, e f f e t t i v a, c e r t a d i s e s t e s s a, p i e n a d i a n g o s c i a : LA LIBERTA’ PER LA MORTE!” Il momento della decisione anticipatrice è quello in cui di fronte alla dispersione della personalità nel mero presente l’individuo prende coscienza della dimensione costituitiva della temporalità che caratterizza l’esistenza umana. Temporalità come orizzonte dell’essere, che analogamente all’esistenza può essere vissuta in modo inautentico e in modo autentico. Il tempo inautentico è pervaso dalla continua paura nell’attesa del momento esatto della morte mentre quello autentico è sempre un’attesa, ma esattamente una consapevole anticipazione dell’estrema possibilità, pervasa dunque dall’angoscia. Linguaggio,poesia e sentimento: il destino dell’esserci L’interrogativo con cui si apre essere e Tempo, quello relativo all’essere e al senso dell’essere, resta, comunque, senza risposta. Lo stesso Esser-ci si conferma incapace di manifestare l’essere, di dire quale sia il suo senso. Di qui, si ha una svolta nella riflessione di Heidegger, il quale interrompe l’opera in quanto riconosce una sconfitta da parte del linguaggio che non è in grado di esprimere l’essere. La svolta (Kehre) di Heidegger consiste nell'instaurare un rapporto diverso tra pensiero ed essere. L'essere allora non potrà più essere pensato metafisicamente come presenza, ma viene inteso come luce, come illuminazione, nel senso che è proprio della luce lasciar apparire le cose proprio perché essa non appare direttamente. Così è dell'essere: fa apparire gli enti, lascia sussistere la storia, solo in quanto a sua volta si cela, si nasconde. Se l'essere può rivelarsi attraverso le cose e gli eventi, l'uomo può coglierlo solo se si abbandona al dis-velamento dell'essere come tale. Ma il dis-velamento dell'essere non può mai essere totale o diretto. L'esistenza è allora stare alla luce dell'essere, per cui l'uomo diventa il pastore dell'essere e la sua dignità consiste "nell'essere chiamato dall'essere stesso a far la guardia alla sua verità". L'uomo deve mettersi in ascolto del linguaggio dell'essere e affidarsi ad esso. L'essere parla all'uomo attraverso il linguaggio o, meglio ancora, attraverso la sua forma più autentica, che è la poesia. La poesia è intesa da Heidegger come annuncio, appello, ed usa l'uomo come suo messaggero. L'uomo deve ascoltare il linguaggio nella sua originaria poeticità, cioè nella sua forza fondante e creativa. Il linguaggio diventa “templum”, casa, dimora dell’essere. In quanto è ascolto del linguaggio, il pensiero è ermeneutica. Ermeneutica, cioè interpretazione, incontro con il linguaggio, è allora la stessa esistenza nella sua dimensione più autentica. L'ermeneutica a cui pensa Heidegger è quella che è capace di interpretare la parola senza consumarla o esaurirla, rispettandola nella sua natura. In questo senso va anche intesa l'insistenza di Heidegger su nozioni come quella di silenzio e di ascolto del silenzio. Il che non è da vedere come misticismo, ma corrisponde al riconoscimento che l'appello a cui rispondiamo deve essere lasciato valere come appello: il pensiero ermeneutico intende proprio lasciar essere altro l'altro. “Il cantare e il pensare sono ceppi ravvicinati della poesia” “La via e il pensare sospeso il pensiero e la parola autentica s’incontrano in un cammino. Va, errore e domanda sopporta lungo il tuo unico andare” “La natura poetica del pensiero è ancora avvolta nell’ombra. Ora essa si manifesta, assomiglia per lungo tempo all’utopia di un intelletto semipoetico. Ma il poetare pensante è, in verità, la topologia dell’essere Esso indica il luogo ove dimora la sua essenza.” “La parola del pensiero dimorerebbe tranquilla nella sua essenza soltanto se divenisse incapace di dire ciò che deve rimanere non detto. Che mai ci sia, da sempre e all’improvviso, un pensiero nel cui stupore potremmo misurare il profondo?” Il brano di seguito riportato sembra riassumere interamente l’inquietudine e, insieme, la misteriosità del pensiero dell’ultimo Heidegger: “…e a che i poeti in tempo indigente?”, domanda l’elegia di Hölderlin Pane e vino. Noi oggi a mala pena comprendiamo la domanda. Come vogliamo capire la risposta che dà Hölderlin? “…e a che i poeti in tempo indigente?” La parola “tempo” si riferisce all’evo del mondo a cui noi stessi ancora apparteniamo. Con l’apparizione di Cristo e il sacrificio della sua vita è cominciata, secondo l’esperienza storica di Hölderlin, la fine del giorno degli dei. E’ infine venuta sera. Da quando i “tre in uno” - Ercole, Dioniso e Cristo – hanno abbandonato il mondo, la sera del tempo del mondo declina verso la sua notte. La notte dl mondo propaga le sue tenebre. L’evo del mondo è determinato dall’assenza del Dio, dalla “mancanza di Dio”. La mancanza di Dio esperita da Hölderlin, tuttavia, non nega che nei singoli e nelle chiese continui a sussistere un rapporto di tipo cristiano a Dio, né tantomeno giudica in modo sprezzante questo rapporto a Dio. La mancanza di Dio significa che nessun Dio raccoglie più a sé, visibilmente, segnatamente e univocamente, gli uomini e le cose, né compagina più, in base a un tale raccoglimento, la storia del mondo e il dimorare umano in essa. Ma nella mancanza di Dio si annuncia qualcosa di ancora peggiore. Non soltanto sono fuggiti gli dèi e il Dio, ma si è spento o splendore della Divinità nella storia del mondo. Il tempo della notte del mondo è il tempo dell’indigenza perché diviene sempre più indigente. E’ già divenuto così indigente da non essere più in grado di notare la mancanza di Dio come mancanza. Con questa mancanza il mondo sprofonda, gli manca il fondo, in quanto fondamento fondante. “Sprofondamento” significa originariamente l’abisso come il suolo e fondo più profondo verso cui qualcosa è sospeso giù lungo il pendio. Nelle pagine seguenti, tuttavia, lo sprofondamento abissale sarà pensato come la totale assenza di fondo. Il fondo è il terreno per radicarsi e stanziare. L’evo del mondo a cui manca il fondo, e il cui fondamento rimane perciò assente, è sospeso sull’abisso senza fondo. Ammesso che a questo tempo indigente sia ancora in generale riservata una svolta, essa può avvenire unicamente e soltanto se il mondo si volge da capo a fondo, - e ciò ora significa, univocamente: se si capovolge a partire dall’abisso senza fondo. Nell’evo della notte del mondo, l’abisso del mondo deve essere esperito e patito. Ma per questo è necessario ci siano alcuni che giungono nell’abisso”. (A che poeti?, 269-270 in Holzwege) Quanto dice Heidegger si può solo ascoltare come si ascolta una musica, altrimenti non cogliamo il senso della notte. Alcuni filosofi bisogna ascoltarli, in taluni momenti, come si ascolta una poesia o Mozart, in silenzio. Bisogna riconoscere che il tempo in cui siamo è indigente. Forse quelli che giungono all’abisso sono gli artisti, i poeti? Forse il Dio di cui parla Heidegger non è il Dio di una religione positiva, ma è “lo spazio di Dio”, l’angoscia (=la serietà di una risposta ad una domanda fondante), la ricerca del senso nel mistero del nulla. “La nebbia del mondo non raggiunge la luce dell’essere. Noi sopraggiungiamo troppo tardi per gli dei e troppo presto per l’essere. Per questo l’uomo è poesia già cominciata. L’andare verso una stella, soltanto questo. Pensare è trovarsi limitati ad un solo pensiero che un giorno si arresta nel cielo del mondo, come una stella”. Quello che Heidegger dice qui, alla fine, è quello che Van Gogh ha “detto” con questo suo quadro?