La formazione in ambito etico. Una proposta: lo studio dei casi clinici

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La formazione in ambito etico.
Una proposta: lo studio dei casi clinici
Paola Gobbi, Consigliere
L’
etica, ma più in generale la disciplina della
bioetica, intesa come “studio sistematico del
comportamento umano nell’ambito delle
scienze della vita e della cura della salute, in
quanto tale comportamento è esaminato alla
luce dei valori e dei principi morali” (R. Van
Potter, 1970) si propone di fornire un metodo
per trovare delle risposte a problemi inediti,
che
scaturiscono
dalla
relazione
operatore/paziente in un contesto sanitario
diventato troppo complesso per poter continuare ad essere governato dall’autoreferenzialità professionale; si fonda invece sulla difesa e
promozione dei diritti umani di tutti soggetti
coinvolti, in primis degli assistiti.
La pratica quotidiana delle cure sanitarie e dell’assistenza ai malati è carica di perplessità ed
obbliga infermieri e medici a scelte/prese di
decisioni in cui entrano in gioco importanti
valori morali. Un’ulteriore criticità è rappresentata dai tempi entro i quali tali decisioni devono essere prese: spesso l’infermiere non ha il
tempo di consultare il collega esperto, o il
comitato etico aziendale, o il proprio collegio
professionale quando un dilemma etico si presenta durante l’attività assistenziale. L’etica clinica non fornisce ai professionisti sanitari delle
soluzioni preconfezionate, ma propone un
metodo per imparare ad elaborare le proprie
analisi e giungere, di fronte ad una situazione
problematica, a conclusioni argomentate.
Come trasmettere, quindi, metodi e strumenti
per allenare l’infermiere o lo studente alla
presa di decisioni? E su quali contenuti/argomenti di maggior rilevanza per la professione
infermieristica è utile investire?
In questo articolo vengono presentati due casi
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clinici descritti e analizzati nel corso di etica
infermieristica del Master di 1° livello in management infermieristico per le funzioni di coordinamento presso l’Università Vita-Salute San
Raffaele di Milano, nell’anno accademico
2004/2005.
Il corso prevedeva come valutazione finale la
descrizione, da parte degli studenti, di un caso
clinico a valenza etica tratto dalla propria esperienza professionale e la successiva analisi
mediante l’applicazione della “Griglia per l’analisi delle situazioni cliniche”, metodo descritto da Sandro Spinsanti nel testo “Bioetica e
nursing. Pensare, riflettere, agire” (Mc GrawHill, 2001).
La griglia non propone soluzioni preconfezionate ai dilemmi etici, ma è finalizzata all’apprendimento di un metodo di elaborazione
delle proprie osservazioni al fine di valutare e
prendere decisioni . La griglia assicura inoltre
che non vengano trascurate delle dimensioni
essenziali nell’analisi del caso clinico. A differenza di altri metodi proposti in ambito formativo, la griglia ha come specificità la preoccupazione di inserire organicamente la giustificazione etica del comportamento in ambito sanitario in un contesto più ampio, che include i
vincoli legali e deontologici (“il comportamento obbligato”, con riferimento sia alla normativa che regolamenta l’esercizio professionale, sia agli specifici codici deontologici dei
professionisti sanitari) e la ricerca di una sanità che non soltanto sia buona (“il comportamento eticamente giustificabile”: dalla difesa
del minimo morale – il rispetto dei princìpi di
non maleficità e giustizia - alla promozione del
massimo morale – il rispetto dei princìpi di
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beneficità ed autonomia), ma lo appaia anche
agli occhi dell’assistito (“il comportamento
eccellente” o qualità percepita dall’utente delle
prestazioni ricevute).
Primo caso: “Paziente sostituita nelle cure igieniche al letto”
Caso descritto ed analizzato da Edoardo Angelo
La signora Rossi ha 83 anni ed è ricoverata in
medicina con una diagnosi di scompenso cardiocircolatorio in paziente diabetica; ha degli
edemi declivi ed un grado di dipendenza elevato da un punto di vista assistenziale. E’ allettata e non è in grado di cambiare decubito
autonomamente; non ha parenti o care giver
che siano in grado di aiutarla durante la
degenza.
Una mattina, verso le dieci, la signora Rossi
dichiara agli infermieri di non essere intenzionata a ricevere le cure igieniche perché, a casa
sua, è abituata a lavarsi alle sei del mattino, e
di aver già chiesto agli infermieri del turno notturno che le fossero praticate possibilmente
nell’orario che lei considera quello idoneo.
Gli infermieri in questione sminuiscono il problema proposto dalla signora Rossi, affermando che l’organizzazione del reparto per compiti prevede che le cure igieniche vengano
eseguite dalle otto alle undici del mattino, e
nonostante le sue vivaci e colorite proteste,
allestiscono il carrello con il materiale occorrente e le praticano le spugnature del caso al
fine di praticarle un bagno al letto. Per raggiungere il loro scopo gli infermieri si vedono
costretti a chiamare una terza persona, un operatore di supporto, per essere aiutati fisicamente nella mobilizzazione passiva della
paziente nel letto, resasi difficoltosa perché
decisamente non acconsente all’esecuzione
dell’intervento assistenziale, e si dimena e contrae in ogni modo per opporre resistenza a
quanto le viene imposto.
Nella cartella infermieristica si legge “…sostituita nelle cure igieniche totali al letto, la
paziente presenta agitazione psicomotoria…”.
Analisi del caso
Da un punto di vista del comportamento
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obbligato (ovvero: “cosa siamo tenuti a fare
per legge, per deontologia professionale, per
regolamenti aziendali?), il D.M. 14 sett. 1994, n.
739 concernente l’individuazione della figura e
del relativo profilo professionale dell’infermiere indica che esso è l’operatore sanitario
responsabile dell’assistenza infermieristica
generale, definita “(…) di natura tecnica, relazionale, educativa (…)”. Gli infermieri protagonisti del caso hanno sicuramente trascurato
l’aspetto relazionale del loro intervento, mentre erano tenuti per legge a considerarlo come
parte integrante della loro professionalità.
Se poi consideriamo le cure igieniche della
signora Rossi come una prestazione finalizzata
alla tutela della sua salute si può citare l’articolo 32 della Costituzione in cui si afferma: “La
Repubblica tutela la salute come fondamentale
diritto dell’individuo e interesse della comunità (…)”. L’art. 32 non definisce il concetto di
salute; è comunque agevolmente identificabile
con quello riportato nell’Atto di costituzione
dell’OMS stipulato a New York il 22 luglio 1946
e recepito nel nostro ordinamento legislativo
con D.Lgs C.P.S. 4 marzo 1947, n. 1068: la salute non consiste solamente in assenza di malattia o infermità, ma è lo stato di completo
benessere sia fisico, sia mentale che sociale.
Gli infermieri del caso in analisi hanno trascurato la presa in carico sia dell’aspetto psichico,
sia di quello sociale del benessere della
paziente.
Da un punto di vista di responsabilità professionale, si può ipotizzare che gli infermieri
abbiano commesso il reato di violenza privata (intervento contro la volontà dell’assistito),
ai sensi dell’articolo 610 del codice penale.
Nel codice deontologico al comma 4.2 si afferma che “L’infermiere ascolta, informa, coinvolge la persona e valuta con la stessa i bisogni
assistenziali, anche al fine di esplicitare il livello di assistenza garantito e consentire all’assistito di esprimere le proprie scelte”. Gli infermieri hanno omesso di ascoltare e coinvolgere
la signora Rossi nella scelta e presa di decisioni della pratica delle cure igieniche.
Infine non c’è alcun regolamento aziendale
che preveda che un degente possa essere
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costretto a subire un intervento assistenziale
contro la propria volontà, se non nei casi limitati ai trattamenti sanitari obbligatori (TSO).
L’analisi del comportamento eticamente giustificabile inizia con la difesa del minimo morale:
nell’ambito dell’esercizio professionale il
rispetto del principio etico di non maleficità
impone agli operatori di evitare ciò che nuoce
o danneggia il paziente. La signora Rossi non
solo rischia delle lesioni causate dall’intervento forzoso attuato dagli infermieri e dall’OSS,
ma anche danni a carico della sfera psichica
(trauma psichico, ansia, depressione).
Il principio di giustizia, che prevede che gli
operatori si oppongano a discriminazioni o
ingiustizie nell’erogazione delle cure sembra
essere rispettato: l’intervento violento degli
infermieri nei confronti della signora Rossi prescinde da ogni discriminazione ideologica,
sociale, razziale o economica. Inoltre non esistono considerazioni di tipo aziendale che portano ad offrire al paziente un livello di assistenza medica/infermieristica inferiore a quanto clinicamente appropriato: l’organizzazione
aziendale non impedisce agli infermieri di concordare con la paziente l’orario delle cure igieniche.
La promozione del massimo morale spinge gli
infermieri ad orientare la propria azione verso
il bene del paziente (rispetto del principio di
beneficità). In questo caso gli infermieri, sulla
base dell’analisi dei bisogni di assistenza infermieristica della paziente, hanno sicuramente
proposto interventi assistenziali corretti da un
punto di vista scientifico, almeno nell’aspetto
essenzialmente tecnico della prestazione; risultano non eticamente corrette le dimensioni
relazionali ed educative di tale prestazione.
La pratica delle cure igieniche al letto è un
intervento diretto al bene della paziente ma
non se attuata in modo violento e contro la
volontà della persona.
Esistevano alternative assistenziali che potevano essere proposte?
Ci si poteva scusare con la signora del disagio
arrecatole a causa dello sconvolgimento dei
propri orari e si poteva convincerla a colla44
borare ugualmente alle dieci del mattino, promettendole che l’indomani si sarebbe andati
incontro alle sue esigenze (nessuna legge o
regolamento interno impedisce agli infermieri del turno di notte di praticare le cure igieniche a una paziente).
Il rispetto del principio di autonomia, che
obbliga gli operatori al rispetto della volontà
dell’assistito nelle decisioni che lo riguardano,
è stato palesemente violato nella situazione
descritta. Non solo non si è tenuto conto del
sistema di valori della paziente, ma non si è
chiesto nemmeno il consenso alla prestazione
infermieristica e non si sono discusse alternative assistenziali.
Non si può parlare di comportamento eccellente in questo caso: la paziente è insoddisfatta delle cure ricevute; gli infermieri sono ingiustamente soddisfatti (hanno erogato la prestazione violando i principi etici che guidano la
professione).
Secondo caso: “Il consenso informato … una
questione di attributi!”
Caso descritto ed analizzato da Cristina
Mercanti
È una mattina come tante e dal prospetto turni
risulto essere all’accettazione dei pazienti che
dai reparti giungono in sala operatoria per
essere sottoposti ad un intervento programmato di chirurgia o di ortopedia.
A metà mattina la mia attenzione viene attirata da una conversazione, inizialmente tranquilla poi sempre più turbolenta, tra un anestesista ed un paziente. Mi avvicino cercando
di capire il motivo della discussione e vengo
a sapere che ciò che ha provocato scompiglio
tra i due è il tipo di anestesia da effettuare.
Il paziente, un ragazzo di circa vent’anni,
rifiuta l’anestesia spinale che l’anestesista si
sta preparando ad eseguire, affermando di
preferire una generale e di essere disposto a
rinunciare all’intervento qualora questa sua
decisione non venga rispettata. Il medico,
alzando il tono della voce, cerca di convincerlo a girarsi in decubito laterale indifferente alle sue lamentele ed al suo rifiuto.
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Guardando la scheda anestesiologica mi
accorgo che il paziente ha dato il proprio
consenso scritto per questo tipo di anestesia.
Alla mia richiesta di spiegazioni il ragazzo
risponde di non essere stato adeguatamente
informato ma solo invitato ad apporre la
firma in un punto della scheda indicato dall’anestesista.
Il giovane paziente riferisce di avere un rifiuto
psicologico legato a tale procedura per un
grave incidente accorso ad una sua cugina.
rimasta paraplegica per un errore nell’esecuzione di questo tipo di anestesia.
Cerco di tranquillizzarlo spiegandogli che nessuno può obbligarlo a fare ciò che non vuole
e mi rivolgo all anestesista sottolineando il
fatto che il ragazzo è maggiorenne e che forse
le circostanze richiedono per tutti un attimo di
pausa e di rivalutazione della situazione.
Intanto una decina di pazienti assistono alla
scena e da tutte le sale operatorie colleghi
infermieri e chirurghi mettono fuori la testa
chiedendo spiegazioni per il trambusto.
Il medico, intanto, sempre più seccato e con
un tono di voce molto alto, accusa il ragazzo
di essere un “fifone” e lo provoca dicendogli:
“Tira fuori gli attributi e dimostra di essere un
vero uomo!”. Alla fine il paziente, sopraffatto
dalla situazione, cede e seppur ancora molto
spaventato e contrariato, si posiziona in
decubito laterale e lascia che l’anestesista
intervenga.
L’anestesia come pure l’intervento sono proceduti senza problemi.
Ogni mio tentativo di ridiscutere con il medico
l’accaduto è risultato vano.
Analisi del caso
Sul comportamento obbligato.
È evidente, a mio avviso, una grave mancanza
da parte del medico per quel che riguarda l’ottenimento del consenso informato.
Sicuramente non sono state fornite informazioni al giovane paziente sulle tecniche anestesiologiche, specificatamente sul tipo di anestesia che era preferibile adottare con lui e le
motivazioni di questa scelta. Non ricorrendo il
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presupposto dello stato di necessità (art 54 del
codice penale) il medico ha violato l’art.32
(“Nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun
caso violare i limiti imposti dal rispetto della
persona umana”) e l’art. 13 della Costituzione
(“La libertà personale è inviolabile”). Inoltre la
legge 833/1978 cita che: “…si esclude la possibilità di accertamenti e di trattamenti sanitari
contro la volontà del paziente (…) se non
ricorrono i presupposti dello stato di necessità”. In questo caso verrebbe riconosciuto il
reato di “Violenza privata” (art. 610 C.P.).
La legge stessa definisce il consenso come
esplicito (deve essere prevista la possibilità di
dissenso e questo deve essere espresso in
modo manifesto), valido (il paziente deve
avere capacità di intendere e di volere), informato (il livello di informazione deve essere
rapportato alle capacità ed alla cultura di chi lo
deve recepire).
Prendendo in considerazione la Convenzione
sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina
(Dichiarazione di Oviedo del 4 aprile 1997) e
successiva ratifica con la Legge 145/2001,
all’art.5 si afferma: “Qualsiasi intervento in
campo sanitario non può essere effettuato se
non dopo che la persona interessata abbia
dato il proprio consenso libero e informato.
Questa persona riceve preventivamente una
informazione adeguata in merito allo scopo e
alla natura dell’intervento nonché alle sue conseguenze e ai suoi rischi. La persona interessata può ritirare liberamente il proprio consenso
in qualsiasi momento”.
Inoltre il fatto che della situazione clinica del
paziente siano venuti a conoscenza anche tutti
gli altri pazienti in attesa di intervento può far
configurare una violazione del segreto professionale, punibile secondo l’art.622 del c.p.
Per quel che riguarda le norme di deontologia
professionale a cui le due figure (medico ed
infermiere) avrebbero dovuto attenersi, vi
sono molti spunti di riflessione all’interno dei
rispettivi codici deontologici.
Per il medico: rispetto della libertà e dignità
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della persona art.3 (Doveri del medico) e art.5
(Esercizio dell’attività professionale). L’art.12
cita: “… al medico viene riconosciuta autonomia nella scelta e nella applicazione di ogni
presidio diagnostico e terapeutico, fatta salva
la libertà del paziente di rifiutarle e di assumersi la responsabilità del rifiuto stesso”.
L’art.30 cita espressamente il consenso informato: “Il medico deve fornire la più idonea
informazione sulla diagnosi… e le eventuali
alternative diagnostiche – terapeutiche e sulle
prevedibili scelte operate; il medico nell’informare il paziente dovrà tenere conto delle sue
capacità di comprensione al fine di promuoverne la massima adesione alle proposte diagnostico – terapeutiche …”.
L’art.32: “Il medico non deve intraprendere
attività diagnostiche e/o terapeutiche senza
l’acquisizione del consenso informato del
paziente… In ogni caso, in presenza di un
documentato rifiuto di persone capaci di intendere e volere, il medico deve desistere dai
conseguenti atti, non essendo consentito alcun
trattamento medico contro la volontà della
persona”.
All’art. 9 si parla specificatamente del segreto
professionale e precisamente: “Il medico deve
mantenere il segreto su tutto ciò che gli è confidato o che può conoscere in ragione della
sua professione; deve altresì conservare il massimo riservo sulle prestazioni professionali
effettuate e programmate …”.
Per quel che riguarda il codice deontologico
dell’infermiere, all’art.1 si afferma: “La responsabilità dell’infermiere consiste nel curare e
prendersi cura della persona, nel rispetto della
vita, della salute, della libertà e dignità dell’individuo”. All’art.4 il nostro codice specifica
inoltre che: “…è compito dell’infermiere sostenere la persona nelle scelte terapeutiche,
garantendo informazioni relative alla assistenza globale. Garantisce inoltre la tutela e la
riservatezza della informazioni relative alla
persona”. All’art.3 viene inoltre detto che l’infermiere deve attivarsi per l’analisi dei dilemmi
etici vissuti nella operatività quotidiana, contribuendo così al continuo divenire della rifles46
sione etica.
Non esistono regolamenti o normative aziendali che regolino comportamenti diversi da ciò
che è già previsto dalla legge o da norme
deontologiche.
Risultano esserci, alla luce di tutto ciò, sia
implicazioni medico-legali che deontologiche
per il comportamento sopra descritto.
Sul comportamento eticamente giustificabile
Da un punto di vista fisico l’intervento del
medico non ha provocato danni.
Considerando invece l’aspetto psicologico
forse il giovane paziente può essersi sentito in
qualche modo danneggiato. Il principio di giustizia è stato rispettato, così pure quello di
beneficità, proponendo al paziente il tipo di
intervento più appropriato. Si è invece violato
il principio di autonomia del paziente non
mettendolo in grado di decidere con una
informazione corretta e comprensibile; all’anestesista non erano noti i suoi timori nei confronti di questa pratica; il paziente non era
stato messo a conoscenza delle possibili alternative (per esempio abbinare l’anestesia spinale con una leggera sedazione).
Svolgimento del caso come storia di buona sanità
Parto dal presupposto che se il consenso informato fosse stato realmente esplicito, valido e
informato, tutto ciò che è stato descritto non
sarebbe successo.
A danno fatto posso dire che la soluzione
migliore, a mio avviso, sarebbe stata quella di
sospendere momentaneamente l’intervento
lasciando il paziente come ultimo nella programmazione giornaliera e prendendo il
tempo necessario per dare al ragazzo tutti i
chiarimenti di cui aveva bisogno, possibilmente in sede appartata. Considerando che i
genitori avevano sempre sostenuto il figlio
nelle sue decisioni, si poteva anche prendere
in considerazione l’eventualità di coinvolgerli
(con l’assenso del paziente) in questo
momento di difficoltà. Da considerare poi la
necessità di discutere il caso con tutti gli operatori coinvolti, in un secondo momento.
IO INFERMIERE - N.4 /2005