INDICE INTRODUZIONE 3 PARTE GENERALE 4 FISIOLOGIA E PATOLOGIA DEL RICAMBIO DI FERRO 4 Assorbimento e perdite 4 Scambi di ferro nell’organismo 9 Ferro di deposito 10 Carenza di ferro 11 Sovraccarico di ferro 11 EMOCROMATOSI PRIMITIVA 13 Emocromatosi HFE 15 Emocromatosi non - HFE 20 Diagnosi 26 Terapia 27 PARTE SPERIMENTALE 28 SCOPO DELLA TESI 28 MATERIALI E METODI 28 Pazienti e controlli 28 Estrazione di DNA genomico 29 Amplificazione in vitro mediante PCR 30 Elettroforesi su gel di agarosio 33 Digestione con enzimi di restrizione 34 Database relazionale 37 Test Chi Quadrato 39 RISULTATI 40 DISCUSSIONE 52 CONCLUSIONI 56 BIBLIOGRAFIA 57 INTRODUZIONE Il ferro è un elemento essenziale per numerose funzioni biologiche in quanto partecipa al trasporto dell’ossigeno (emoglobina e mioglobina) e degli elettroni, inoltre è parte integrante della molecola di molti enzimi. Data la sua importanza sia una carenza sia un eccesso di ferro nell’organismo producono danni rilevanti da un punto di vista clinico. La manifestazione clinica più nota associata alla carenza di ferro è l’anemia mentre la condizione opposta, ossia un sovraccarico di ferro, provoca ossidazione, morte cellulare e fibrosi dovuti all’effetto tossico che questo metallo, in forma libera, esercita. Una patologia, determinata geneticamente e caratterizzata da un progressivo accumulo di ferro nell’organismo, è l’emocromatosi ereditaria o primitiva che causa danni ad alcuni organi importanti, come il fegato, il pancreas ed il cuore. Ad oggi sono note cinque forme geneticamente distinte di emocromatosi, quattro a trasmissione autosomica recessiva e una dominante. La forma più comune detta di tipo 1, è dovuta a mutazioni del gene HFE. Le altre quattro forme, dette anche non - HFE, sono rare: l’emocromatosi giovanile dovuta a mutazioni del gene HJV codificante l’emojuvelina, detta di tipo 2a; mutazioni del gene HAMP codificante l’epcidina (HEPC), detta di tipo 2b; una forma di emocromatosi dell’adulto, detta di tipo 3, determinata da mutazioni del gene TFR2 codificante il recettore 2 della transferrina (TfR2); infine, una forma dominante detta di tipo 4, dovuta a mutazioni del gene denominato SLC11A3 (IREG1 o MTP1) codificante la ferroportina1 (FPN1). Non è da escludere che esistano altre forme ereditarie di emocromatosi distinte da queste ancora da identificare o dovute a possibili interazioni tra le forme già note. Le mutazioni più frequentemente coinvolte nella patogenesi dell’emocromatosi ereditaria e comunemente testate nella diagnostica molecolare di questa malattia sono tre e interessano il gene HFE; la principale è la C282Y inoltre abbiamo la H63D e la S65C. 3 PARTE GENERALE FISIOLOGIA E PATOLOGIA DEL RICAMBIO DI FERRO Assorbimento e perdite Il ferro è contenuto negli alimenti in due forme diverse: il ferro emico, legato al gruppo eme dell’emoglobina, che costituisce il 40% del ferro contenuto nei cibi carnei e il ferro non emico presente nei cibi vegetali e nel 60% dei cibi carnei. Una tipica dieta occidentale contiene 10-20 mg di ferro, ma in condizioni normali solo 1-2 mg (circa il 10%) è assorbito. Un individuo adulto normalmente presenta 4-5 grammi di ferro corporeo totale, approssimativamente distribuito per il 70% nei globuli rossi legato all’emoglobina, il 10% nella mioglobina, 1% nei siti d’immagazzinamento del sistema reticolo endoteliale epatico, il 15% nella ferritina. Solo lo 0,2% de ferro è trasportato in circolo veicolato dalla transferrina, mentre il restante si trova in molti enzimi, tra cui i citocromi che permettono la respirazione cellulare e il trasporto degli elettroni (Andrews, 1999). Il metabolismo del ferro si articola in una serie di passaggi tra vari comparti corporei, in un circuito chiuso dove gli scambi con l’esterno sono scarsi (1mg al giorno) e gran parte del ferro è riciclato ad opera dei macrofagi. I macrofagi sono cellule del sistema reticolo endoteliale presenti in tutti i tessuti, ma particolarmente abbondanti nella milza; il loro compito è quello di inglobare e distruggere i globuli rossi senescenti, recuperare da essi il ferro, distaccandolo dall’emoglobina, e renderlo disponibile nel sangue, dove è trasportato al midollo osseo e impiegato per l’eritropoiesi (Bothwell et al.,1980). Le perdite di ferro avvengono attraverso il passaggio fisiologico di piccole quantità di eritrociti nelle feci e nell’urina e per desquamazione di cellule della mucosa e dell’epidermide; nella donna si aggiunge il ferro perso con le perdite mestruali e le gravidanze. Dato che non esiste un sistema efficiente d’eliminazione del ferro né la possibilità di esercitare su di esso un controllo, il mantenimento dell’equilibrio corporeo della quantità di ferro dipende dalla regolazione dell’assorbimento, che avviene 4 principalmente nel primo tratto dell’intestino, a livello del duodeno (Figura 1). Figura 1 – Mucosa intestinale A livello degli enterociti dei villi duodenali è presente un complesso apicale costituito da, una specifica reduttasi DCTYB, che riduce il ferro della dieta da stato ferrico (Fe3+insolubile in condizioni aerobiche e pH fisiologico) a stato ferroso (Fe2+- solubile) e da un trasportatore il DMT1 (Divalent Metal Transporter 1), che lo introduce nell’enterocito. Qui può essere incluso nei depositi di ferritina, oppure trasportato in circolo attraverso la membrana basolaterale. A livello di questa membrana è presente un altro trasportatore, la ferroportina, e un enzima ferrossidasico, l’efestina, che riossida il ferro per metterlo in circolo (Figura 2) (Richardson et al., 1997). 5 DCYTB FERROPORTINA Figura 2 – Enterocito intestinale La quantità di ferro ceduta al sangue è regolata da meccanismi solo in parte chiariti; essa è proporzionale all’attività del midollo eritroide e inversamente proporzionale al contenuto di ferro nell’organismo. In altre parole, se le necessità del midollo sono maggiori o se i depositi di ferro sono scarsi, la quota di ferro che passa al sangue aumenta e viceversa (Frazer et al., 2003). Un importante meccanismo di controllo dell’omeostasi intracellulare del ferro è a livello post-trascrizionale. Infatti, le proteine chiave del metabolismo del ferro hanno al 5’ UTR o 3’ UTR del loro RNA messaggero (mRNA) delle particolari strutture a stem loops, dette IRE (Iron Responsive Element), che interagiscono con specifiche proteine dette IRP (Iron Regualtory Protein) (Figura 3) (Philpott et al., 2002). 6 Figura 3 – Legame tra IRP e sito IRE al 5’ mRNA della ferritina Le proteine IRP sono "ferro dipendenti" e in grado di modificare la stabilità del mRNA e quindi in definitiva di modulare l’espressione delle proteine implicate nell’assorbimento del ferro, in maniera diversa per condizioni di sovraccarico (Figura 4) o di carenza di ferro (Figura 5) (Martini et al., 2002). 7 Figura 4 – Modulazione in caso di sovraccarico di ferro Figura 5 – Modulazione in caso di carenza di ferro 8 Scambi di ferro nell’organismo Il ferro è veicolato in circolo da una molecola detta transferrina (Tf), una glicoproteina che, nella forma priva di legami con il ferro, è detta apotransferrina. Essa, prodotta principalmente dal fegato, possiede due domini omologhi leganti ognuno un atomo di ferro allo stato trivalente (Fe3+). Si definisce TIBC (capacità plasmatica totale di legare il ferro) la quota di ferro che la Tf trasporta; normalmente essa è saturata per il 20 – 45%, che corrisponde ad una sideremia di 100 – 250 µg/L. Fondamentale per la cessione del ferro alle cellule è il recettore della transferrina (TfR), presente sulla membrana cellulare. TfR è una glicoproteina costituita da due monomeri identici collegati da un ponte disolfuro (Seligman, 1983); ogni monomero lega una molecola di transferrina, quindi il recettore completo lega due molecole. Avendo due siti leganti il ferro, la transferrina si può trovare in forma di-ferrica (legante due atomi di ferro) o mono-ferrica (legante un solo atomo di ferro). Mentre non esiste nessuna differenza funzionale tra i due siti leganti il ferro, c’è un’importante differenza tra transferrina diferrica e mono-ferrica nella capacità di legarsi al recettore cellulare; la forma di-ferrica possiede un’affinità quattro volte maggiore della forma mono-ferrica (Huebers et al.,1983). La transferrina si lega al recettore e va a formare un complesso che è internalizzato in una vescicola chiamata endosoma, dove il ferro è recuperato e trasportato verso i compartimenti cellulari ancora dal trasportatore DMT1, mentre il ferro in eccesso è catturato dalla ferritina. L’apotransferrina ancora legata al recettore è riportata sulla superficie cellulare, per essere esternalizzata e al pH neutro del sangue si stacca dal recettore (Figura 6). La cessione del ferro alla cellula segue la legge del “tutto o nulla”, perciò la forma diferrica della transferrina cede due atomi di ferro e la mono-ferrica uno solo. Questo spiega perché all’aumentare della saturazione della transferrina e quindi della forma di-ferrica, il turnover plasmatico e l’uptake tessutale aumentano, indipendentemente dal fabbisogno di ferro dei tessuti corporei (Cazzola et al., 1985). 9 apotransferrina Fe3+ Transferrina (Tf) recettore Transferrina - TfR DMT1 ferritina Figura 6 - Turn-over del recettore della transferrina (TfR) Ferro di deposito La principale proteina di deposito del ferro è la ferritina, presente in tutte le cellule. Esiste poi una seconda proteina di deposito detta emosiderina; in realtà si tratta di un catabolita della ferritina, una miscela degradata di lipidi, proteine e ferro. A differenza della ferritina, il cui legame con il ferro è controllato metabolicamente, in funzione delle esigenze dell’organismo, la mobilità dei legami emosiderinici è ridotta e non controllata. Il principale sito di deposito marziale è il fegato, all’interno del quale il metallo si trova sia a livello parenchimale negli epatociti, che mesenchimale nelle cellule di Kupffer. La ferritina tessutale (intracellulare o citoplasmatica) è sintetizzata dal reticolo endoplasmatico liscio ed inizialmente libera nel citoplasma viene poi a compattarsi in forma semicristallina. Essa è composta di 24 subunità disposte in modo tale da conferirle la forma di un guscio vuoto che può contenere fino a 4500 atomi di ferro, ma generalmente è saturata solo parzialmente (2-300 atomi di ferro) (Drysdale et al., 1977). 10 Una piccola quota di ferritina è presente anche nel sangue, denominata ferritina sierica, e si distingue da quella tessutale in quanto glicosilata. La ferritina sierica è sintetizzata dal reticolo endoplasmatico rugoso e glicosilata nell’apparato del Golgi, prima di essere esportata dalle cellule. Il fegato, oltre ad essere il principale sito di deposito marziale, è responsabile sia della produzione sia della clearance della ferritina sierica. I tassi della ferritina sierica sono strettamente correlati con l’entità dei depositi marziali, tanto che essa è utilizzata come valido parametro per valutare i depositi marziali, assumendo che a 1 µg/L di ferritina corrispondono a 8-10 mg di ferro. Un iperferritinemia non sempre significa incremento dei depositi marziali, potendosi essa verificare anche in corso di patologie flogistiche, neoplasie ed epatopatie. In caso di epatopatie la ferritina aumenta per effetto di una citolisi, che comporta il passaggio nel sangue di ferritina intracellulare; nel contempo la funzionalità epatocitaria compromessa ne riduce la clearance (Cazzola et al., 1982). Carenza di ferro La carenza di ferro è una condizione di bilancio negativo, dove le perdite corporee del metallo sono superiori all’assorbimento intestinale e il ferro è insufficiente sia per la sintesi emoglobinica, che per le varie funzioni metaboliche cellulari. La manifestazione clinica più importante è l’anemia, che riduce il consumo massimo d’ossigeno e la capacità massima di lavoro. Altri sintomi, non legati all’anemia, che si possono osservare sono compromissione della crescita e dello sviluppo corporeo, capacità muscolari ridotte e un alterata termoregolazione (Andrews, 1999). Sovraccarico di ferro Parliamo di sovraccarico di ferro, quando si verifica un eccesso di ferro corporeo derivante da un apporto che supera la richiesta, indipendentemente dalla presenza o meno di un danno tessutale (Brittenham et al., 1994). La variabilità fisiologica dei depositi di ferro, e quindi il limite che separa la normalità dal 11 sovraccarico, nell’adulto normale è compresa tra 200 a 1200 mg, pari a circa 13 mg per Kg di peso corporeo nell’uomo e 5mg per Kg di peso corporeo nella donna. In generale il sovraccarico di ferro si può classificare come: 9 primitivo, dovuto a difetti genetici della regolazione dell’omeostasi del ferro 9 secondario, conseguente ad altre patologie come anemie emolitiche, trasfusioni croniche, terapia parenterale con ferro, porfiria cutanea tarda, malattie epatiche croniche, sindrome polimetabolica. Per il sovraccarico marziale sono, generalmente, utilizzati i termini d’emocromatosi ed emosiderosi a seconda che ci sia, rispettivamente, un conseguente danno tessutale o meno. Il ferro libero è molto tossico essendo un potente catalizzatore dei processi ossidativi e in quantità superiori a 5g provoca danni irreversibili ad importanti organi. Nell’emocromatosi il ferro si può accumulare nei tessuti corporei, in forma localizzata o generalizzata (Andrews, 1999). Nelle forme localizzate gli organi danneggiati sono polmoni e reni, e possiamo distinguere: 9 l’emocromatosi polmonare dovuta ad emorragie ripetute (sindrome di Goodpasture e stenosi mitralica) 9 l’emocromatosi renale dovuta ad estesa emolisi (traumi da protesi valvolare aortica ed emoglobinuria parossistica notturna). Nelle forme generalizzate gli organi danneggiati sono fegato (cirrosi epatica), pancreas (diabete mellito), cuore (cardiomiopatia), articolazioni ed ipofisi (insufficienza ipofisaria) e possiamo distinguere: 9 emocromatosi primitiva o idiopatica su base genetica, con accumulo di ferro principalmente a livello epatocellulare; 9 emocromatosi secondaria o acquisita conseguente ad altre patologie con accumulo di ferro principalmente a livello dei macrofagi. 12 EMOCROMATOSI PRIMITIVA Il termine emocromatosi (EC) fu utilizzato per la prima volta nel 1889 per descrivere l’autopsia di un uomo che mostrava cirrosi associata ad un massiccio accumulo di ferro negli epatociti (Von Recklinghausen, 1889). La natura ereditaria di questa malattia fu ipotizzata nel 1935 (Sheldon, 1935), ma confermata solo nel 1975 da Marcel Simon che osservò una stretta associazione tra la malattia e la regione d’istocompatibilità HLA e ipotizzò che il gene responsabile fosse localizzato sul braccio corto del cromosoma 6 in prossimità del locus HLA-A (Simon et al., 1975). Solo nel 1996 e stato scoperto il gene HFE e individuata la mutazione principale C282Y associata al quadro clinico dell’emocromatosi (Feder et al., 1996). L’EC è una malattia autosomica recessiva (Simon et al.,1977), pertanto solo i soggetti omozigoti per il gene mutato, ereditato da entrambi i genitori, manifestano la malattia, mentre i soggetti eterozigoti per il gene mutato, ereditato da uno solo dei genitori, sono portatori sani. L’alterazione genetica determina un eccessivo assorbimento di ferro a livello intestinale, con conseguente accumulo del metallo in vari organi; la malattia si manifesta clinicamente, tranne rari casi, in età adulta (dopo i 40 anni), quando l’accumulo marziale ha già determinato danni organici irreversibili. Il quadro clinico classico, descritto già nel 1865, è caratterizzato da: cirrosi epatica, diabete mellito e iperpigmentazione, da cui il nome diabete bronzino dato a questa patologia (Trousseau, 1865). L’emocromatosi primitiva, un tempo considerata rara, oggi rappresenta la malattia genetica più comune nell’occidente. Colpisce in maniera uguale sia i maschi sia le femmine, ma queste ultime manifestano i sintomi in maniera meno frequente e con minore gravità dei maschi, a causa delle perdite di sangue con le mestruazioni e le gravidanze, che riducono la quantità di ferro nell’organismo. L’emocromatosi ereditaria è una malattia genetica a trasmissione mendeliana, eterogenea sia nell’espressione fenotipica sia genotipica. Secondo recenti studi la comparsa della mutazione originale (ancestrale) risalirebbe a 200-250 generazioni fa corrispondenti a circa 4000 anni avanti cristo (Merryweather-Clarke et al.,2000). 13 Ad oggi il database online delle malattie mendeliane (OMIM, 2006) indica 5 tipi d’emocromatosi primitive, dovute a mutazioni d’altrettanti geni coinvolti nella regolazione del metabolismo del ferro. L’EC di tipo 1 è la forma più comune ed è causata da mutazioni del gene HFE; le altre forme, definite emocromatosi non – HFE, sono dovute a mutazioni più rare in altri geni che codificano per diverse proteine come l’emojuvelina (HJV) (tipo 2a), l’epcidina (HEPC) (tipo 2b), il recettore 2 della transferrina (TFR2) (tipo 3) e la ferroportina 1 (FPN1) (tipo 4) (Figura 7). Tipo 1 Crom 6 Tipo 2A Tipo 3 Crom 1 Crom 7 Tipo 4 Crom 2 Tipo 2B Crom 19 HFE HEPC TFR2 HJV FPN1 1996 1999/2004 2000 2001 2002 Figura 7 – Mappa dei geni associati ad emocromatosi in ordine cronologico Oltre a queste forme d’emocromatosi n’esistono altre dovute a cause genetiche molto più rare come l’assenza di ceruplasmina, l’assenza di transferrina, mutazioni del trasportatore DMT1, l’emocromatosi neonatale e l’emosiderosi africana. Oltre ai caratteri genetici, fattori acquisiti quali un elevato introito alcolico, cirrosi epatica, epatiti virali croniche e insulino-resistenza possono costituire cofattori nella patogenesi dell’emocromatosi. 14 Emocromatosi HFE L’emocromatosi primitiva classica più diffusa (tipo I) è causata da mutazioni del gene denominato prima HLA classe I-simile, poi HLA-H ed infine HFE, localizzato nella regione 6p21.3 vicino ai loci del complesso maggiore d’istocompatibilità (MHC) (Feder et al., 1996). In precedenza l’emocromatosi era spesso associata all’allele HLA-A3 e ciò è stato spiegato con la presenza di un aplotipo ancestrale di 6 Mb, che presenta stretto linkage disequilibrium tra l’allele A3 e la mutazione HFE più comune C282Y. Per linkage disequilibrium s’intende la tendenza di geni appartenenti a due o più loci adiacenti a segregare insieme sullo stesso cromosoma (Figura 8). Figura 8 – Aplotipo ancestrale che include il gene HFE Il lavoro di Feder nel 1996 portò all’identificazione di due mutazioni puntiformi (di una singola base) missenso del gene HFE. La principale, detta C282Y (Cys282Tyr), che consiste nella sostituzione in posizione 845 di G → A, provoca la sostituzione dell’aminoacido cisteina con tirosina in posizione 282 della proteina HFE. La mutazione minore, detta H63D (His63Asp), che consiste nella sostituzione in posizione 187 di C → G, provoca la sostituzione dell’aminoacido istidina con acido aspartico in posizione 63 della catena proteica di HFE. Nel lavoro di Feder il 90% dei soggetti con emocromatosi presentava la mutazione C282Y 15 in forma omozigote, mentre il restante 10% risultava eterozigote composto per la mutazione C282Y e per mutazioni minori come l’H63D (su un gene era presente la mutazione C282Y e sull’altro la mutazione minore H63D). Dal 1996 ad oggi sono state individuate molte altre mutazioni minori, tra cui la più importante è la S65C (Figura 9). Sono mutazioni essenzialmente private, riportate solo in 1 o poche famiglie (Pointon et al., 2000). H63D S65C C282Y ATG 5 ’UTR V53M 369-390del Q127H V59M P160∆ C V68∆T E168X R74X I105T G93R E168Q V272L TGA 3 ’UTR 3 ’UTR IVS5 +1 G→ A R330M E277K IVS3 +1 G→ T W169X A176V Mutazione principale: C282Y Altre mutazioni: H63D e S65C Diverse mutazioni private Eterozigosi con C282Y Figura 9 – Mappa delle mutazioni del gene HFE Successivi studi hanno confermato le ipotesi iniziali sull’origine ancestrale della mutazione C282Y e dimostrato che la percentuale dei soggetti omozigoti per la mutazione C282Y scende progressivamente dal nord al sud europeo, fino ad arrivare mediamente al 65% in Italia (Candore et al., 2002) e ancora meno in Grecia (Merryweather-Clarke et al., 2000). La distribuzione è sovrapponibile con le migrazioni dei Celti e porta a pensare che la mutazione ancestrale sia avvenuta in un fondatore celtico. L’emocromatosi è senza dubbio determinata più comunemente dalla mutazione principale C282Y in forma omozigote, ma è anche vero che non tutti i soggetti omozigoti per la mutazione C282Y sviluppano 16 l’emocromatosi; la sua penetranza, infatti, è incompleta in relazione ad età, sesso, donazioni di sangue, consumo di alcool o malattie con perdite ematiche (Olynyk et al., 1999). Per quanto riguarda la mutazione minore H63D, è stato dimostrato che il 22% della popolazione europea è eterozigote per questa mutazione, il 2% omozigote e il 2% doppio eterozigote in combinazione con la C282Y (Hanson et al., 2001). Solo gli eterozigoti composti o gli omozigoti possono presentare sovraccarico di ferro, in genere di lieve entità; gli eterozigoti con una sola copia di H63D non presentano mai sovraccarico (Risch, 1997). L’altra mutazione minore S65C può provocare la malattia solo, quando si presenta in combinazione con C282Y e soprattutto se esiste nel contempo un abuso alcolico o altro fattore che favorisca un sovraccarico di ferro (Wallace et al., 2002) . La proteina HFE appartiene alla famiglia delle molecole d’istocompatibilità di classe I HLA, e come queste è una glicoproteina di 343 aminoacidi presente sulla membrana plasmatica d’alcune cellule. Essa è formata da tre domini extracellulari α 1 - α 2 -α 3, una porzione transmembrana e una corta porzione intracitoplasmatica (Solis Herruzo et al., 2005). I domini α 1 – α 2 interagiscono con il recettore della transferrina, mentre quello α 3, che si forma grazie alla presenza di un ponte disolfuro tra due molecole di cisteina, è fondamentale per il legame alla proteina β2 – microglobulina (β2 MG) (Figura 10) (Bennet et al., 2000). 17 Figura 10 – Struttura della proteina HFE Il ruolo svolto dalla proteina HFE nel metabolismo del ferro è senza dubbio importante, ma rimane sconosciuto il meccanismo esatto attraverso cui si attua. Di certo sappiamo che la normale espressione dell’HFE sulla superficie delle cellule dipende fortemente dal suo legame con la β2 – microglobulina, che agirebbe da fattore stabilizzante. È dimostrato che la proteina HFE si comporta come un regolatore negativo della funzione del recettore della transferrina (TfR) e come bloccante del passaggio di ferro nelle cellule (Ehrlich et al., 2000). In passato le teorie formulate sul ruolo dell’HFE nel metabolismo del ferro partivano dal presupposto che la proteina agiva direttamente e svolgeva il suo ruolo primario negli enterociti dei villi e/o nelle cellule delle cripte duodenali. Oggi si fa sempre più strada la teoria di un ruolo indiretto dell’HFE sull’omeostasi del ferro. Secondo questa recente ipotesi l’HFE modula l’espressione dell’epcidina e svolge il suo ruolo primario negli epatociti e/o nelle cellule di Kupffer del fegato (Pietrangelo, 2004). L’epcidina (Hepc) è un ormone peptidico d’origine epatica, prodotto del gene HAMP; la sua espressione aumenta nelle infezioni, nelle infiammazioni acute e croniche e nel sovraccarico di ferro; diminuisce nelle anemie, negli stati d’ipossia e nella carenza di ferro. In caso di sovraccarico di ferro, l’epcidina interagisce con la ferroportina (l’epcidina è il ligando e la ferroportina il suo recettore), impedendole di espletare il suo ruolo di 18 trasportatore in circolo del ferro assorbito dagli enterociti intestinali e di quello proveniente dal catabolismo degli eritrociti nei macrofagi, con conseguente abbassamento del ferro circolante (Rivera et al., 2005). In corso d’emocromatosi primitiva il comportamento dell’epcidina è anomalo: a dispetto di un sovraccarico marziale e di una concentrazione di ferro circolante elevatissima, l’epcidina è quasi assente e la sua espressione non è stimolata dallo stato di sovraccarico marziale. La mutazione principale C282Y del gene HFE determina una grave distorsione strutturale della proteina HFE: la perdita della cisteina per sostituzione con la tirosina impedisce la formazione del dominio α 3, il sito di legame con la β2 – microglobulina, compromettendo l’espressione di HFE sulla membrana cellulare e rendendola instabile e facilmente degradabile. In assenza di HFE il trasporto del ferro nel citoplasma procede senza regolazione negativa e inoltre, anche se non sappiamo bene come, all’epcidina non arriva più il segnale giusto d’iperespressione (come dovrebbe avvenire in caso d’aumento dei depositi), ma l’espressione d’epcidina rimane bassissima, come se l’organismo fosse in carenza di ferro. Così la ferroportina non è bloccata, il ferro è assorbito ed esportato con accumulo progressivo (Papanikolaou et al., 2005). La mutazione minore H63D non ha alcun effetto sul legame tra β2 – microglobulina e proteina HFE, che risulta normalmente espressa sulla membrana cellulare, né influisce sulla capacità di HFE di legarsi al recettore della transferrina. La proteina mutata, tuttavia, possiede una minore capacità di inibire la liberazione endosomiale di ferro con conseguente aumento del metallo nel citoplasma, anche se in misura minore rispetto a quanto succede per la mutazione principale. Le altre mutazioni minori del gene HFE determinano sovraccarichi marziali di scarsa entità e la loro trattazione non è presa in considerazione in questa tesi. È stata ormai accertato il ruolo centrale del fegato e dell’epcidina in tutte le forme d’emocromatosi primitiva, non solo quella HFE correlata (Hunter et al., 2002). 19 Emocromatosi non - HFE Le emocromatosi non–HFE sono quelle determinate da mutazioni in geni diversi da HFE: Emocromatosi di tipo II L’emocromatosi di tipo II detta anche giovanile (HJ) è rara, si manifesta tra 20 e 30 anni in entrambi i sessi, determina un accumulo di ferro progressivo e a rischio di mortalità; le manifestazioni cliniche sono ipogonadismo, cirrosi epatica, insufficienza cardiaca e diabete. Attualmente è noto che dietro questa forma d’emocromatosi si nascondono due tipi di difetti genetici e si distingue un emocromatosi giovanile di tipo IIa e di tipo IIb, identiche da un punto di vista fenotipico (Figura 11). Cr 1 Cr 19 HAMP HJV Tipo IIb - 2003 Tipo IIa - 1999/2004 Figura 11 – Mappa dei due geni dell’ emocromatosi giovanile Il primo gene mutato HAMP (hepcidin antimicrobial peptide) localizzato nella regione 19q13.1 determina la forma di tipo IIb, che rappresenta il 10% dei casi d'emocromatosi giovanile (Roetto et al., 2003). Il gene, costituito da tre esoni e due introni, codifica per un precursore dell’epcidina, un polipeptide di 83 aminoacidi. L’ormone epcidina si forma per distacco di 25 aminoacidi dall’estremità carbossilica del suo precursore; esso possiede 8 cisteine, che formano 4 ponti disolfuro e conferiscono alla proteina la particolare struttura a forcina. La sua produzione in condizioni normali è regolata dalla concentrazione del 20 ferro circolante e dalle necessità eritropoietiche. Sono state identificate tre principali mutazioni missenso del gene HAMP: C70R, C78T e C82Y, che determinano alterazioni funzionali a carico delle cisteine (Figura 12) (Roetto et al., 2004). C70R C78T C82Y Figura 12 – Epcidina e mutazioni missenso del gene HAMP Le altre mutazioni del gene HAMP sono rare e private (Matthes et al., 2004). Tutte le mutazioni del gene HAMP determinano un livello d'epcidina bassa, di conseguenza viene meno la funzione inibitoria sulla ferroportina e il ferro è rilasciato in circolo senza controllo, determinando un sovraccarico (Rivera et al., 2005). Il secondo gene mutato HJV o emojuvelina (inizialmente chiamato HFE2 o RgmC) localizzato nella regione 1q21 determina la forma di tipo IIa che rappresenta il 90% dei casi d'emocromatosi giovanile (Papanikolaou et al., 2004). La principale mutazione del gene HJV è la G320V (Gly320Val), che consiste nella sostituzione in posizione 959 di G → T, provoca la sostituzione dell’aminoacido glicina con valina in posizione 320 della proteina emojuvelina. Le altre mutazioni sono rare e private (Figura 13) (Lanzara et al., 2004). 21 Figura 13 – Mappa delle mutazioni del gene HJV Il ruolo dell’emojuvelina è sconosciuto; recenti studi indicano che l’EJV sia un regolatore trascrizionale positivo dell’espressione del mRNA dell’epcidina; se diminuisce l’EJV diminuisce anche l’epcidina con conseguente sovraccarico di ferro (Lin et al., 2005). Emocromatosi di tipo III L’emocromatosi di tipo III è causata da mutazioni del gene TFR2 (transferrin receptor 2) localizzato nella regione 7q22 (Camaschella et al., 2000). La malattia è molto rara e simile fenotipicamente all’emocromatosi classica da HFE in rarissimi casi si può manifestare, come quella giovanile, intorno ai 30 anni ma con decorso meno grave. Il gene TFR2 codifica per una proteina omonima il recettore 2 della transferrina (TfR2), una glicoproteina transmembrana con una larga porzione extracellulare simile al recettore 1 della transferrina (TfR1). Anche se simili strutturalmente le proteine TfR2 e TfR1 hanno peculiarità funzionali diverse: 9 TfR2 non lega HFE come il TfR1 9 TfR2 è espresso solo nel fegato il TfR1 è ubiquitario 9 TfR2 ha un’affinità per la transferrina 20-30 volte più bassa di TfR1 9 TfR2 inattivato provoca sovraccarico di ferro e non deficit come il TfR1 9 l’espressione del TfR2 non è regolata a livello post-trascrizionale dalla concentrazione del ferro circolante, infatti al 3’ del mRNA manca l’elemento IRE (iron responsive element) (Kawabata et al., 2001). 22 Le mutazioni rare e private sono state descritte in una ventina di famiglie, in popolazioni diverse: giapponesi, siciliane, francesi e inglesi (Figura 14) (Roetto et al., 2001) (Le Gac et al., 2004). Figura 14 – Mappa delle mutazioni del gene TFR2 La proteina TfR2 non interviene direttamente nella captazione del ferro, ma agisce da modulatore positivo dell’espressione dell’epcidina e le sue mutazioni provocano un’alterazione della via di segnalazione tra fegato e duodeno (Pietrangelo et al., 2005). Il recettore 2 della transferrina (TFR2), l'HFE e l'emojuvelina (HJV) sono considerati modulatori indipendenti, ma complementari della sintesi epatica d’epcidina (Figura 15). 23 Figura 15 – Epcidina e regolazione del metabolismo del ferro Emocromatosi di tipo IV L’emocromatosi di tipo IV è causata da mutazione del gene SLC11A3 (IREG1 o MTP1) localizzato nella regione 2q32 (Eason et al., 1990) (Pietrangelo et al., 1999). Questa forma d’emocromatosi è atipica rispetto alle altre per varie ragioni: 9 si trasmette in maniera dominante e non recessiva 9 la ferritina sierica aumenta prima della saturazione della transferrina 9 il sovraccarico è soprattutto nei macrofagi e non parenchimale 9 clinicamente si manifesta con fibrosi epatica, diabete e aritmie cardiache, è assente la cirrosi. Il gene codifica per la proteina ferroportina 1 (FPN1), un trasportatore di ferro che attraversa le membrane cellulari in 9 siti diversi (Figura 17) (Devalia et al., 2002). Tutte le mutazioni umane individuate a carico del gene SLC11A3 sono di tipo missenso (Figura 16). 24 Figura 16 – Mutazioni del gene SLC11A3 La maggior parte di esse provocano alterazioni strutturali della FPN1 a livello della porzione extracellulare dei domini da 1 a 3, dove essa stabilisce legami con l’apotransferrina e l’efestina (Figura 17) (Vulpe et al., 1999). Y64 Figura 17 – Siti della ferroportina 1 La FPN1 è un trasportatore di ferro dagli enterociti intestinali al sangue, ma è fondamentale per la riutilizzazione del ferro riciclato dai macrofagi del sistema reticolo endoteliale, necessario per l’eritropoiesi (Cazzola, 2003). La sua espressione è regolata a livello trascrizionale: al 5’ UTR del suo mRNA è presente un IRE che si lega ad IRP. In condizioni di sovraccarico di ferro tutte le proteine che possiedono IRE al 5’ aumentano la loro espressione (esempio la ferritina) e viceversa la diminuiscono in condizioni di deficit (La Vaute et al., 2001); nel caso della FPN1 avviene esattamente il contrario, la sua espressione diminuisce in caso di sovraccarico e aumenta in caso di deficit di ferro (Enns, 2001); il motivo di questo comportamento difforme del suo mRNA è sconosciuto. 25 Nei casi geneticamente definiti la biopsia serve solo a scopo prognostico per stabilire l’esistenza di una fibrosi o cirrosi epatica (www.emocromatosi.it). Terapia In caso di emocromatosi la terapia d’elezione è il salasso che consiste nel rimuovere il ferro in eccesso fino a raggiungere la normalizzazione dei depositi. La salasso terapia deve essere iniziata, quando la ferritina è superiore a 200 µg/L (uomo) e 300 µg/L (donna) e prevede una fase iniziale in cui è rimossa un’unità di sangue la settimana (400mL per l’uomo e 350mL nella donna); 1 mL di sangue corrisponde a 0,5 mg di ferro rimosso. Durante la terapia devono essere tenuti sotto controllo il livello di ferritina e la percentuale di saturazione della transferrina per orientarsi sul numero e la frequenza dei salassi da effettuare ed evitare fenomeni d’anemizzazione. La ferrodeplezione è raggiunta, quando i valori di ferritina sono inferiori a 50 µg/L e la percentuale di saturazione della transferrina è inferiore a 45-50%. Al raggiungimento della ferrodeplezione si passa alla fase di mantenimento che prevede un salasso con frequenza variabile in ciascuno individuo, mediamente ogni 2-3 mesi. Una terapia alternativa al salasso è l’uso di farmaci ferrochelanti come la desferrioxamina; la terapia ferrochelante è più complessa e meno efficace ed è quindi consigliabile solo in situazioni in cui la salasso terapia è controindicata come nell’anemia associata ad emocromatosi, cardiopatie e cirrosi di grado avanzato (www.emocromatosi.it). 27