1 Note di metodo al disegno di legge in materia di dichiarazioni

STEFANO AGOSTA
Note di metodo al disegno di legge in materia di dichiarazioni anticipate di trattamento
(tra molteplici conclusioni destruentes ed almeno una proposta construens)
Una libertà che elimina la vita non è una libertà.
Ma una vita che elimina la libertà non è vita.
(Mare dentro, di Alejandro
Amenábar, Spagna 2004)
SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Il testamento biologico tra riscrittura ed interpretazione costituzionale. – 3. Tempi, destinatari ed oggetto del d.d.l. sulle dichiarazioni anticipate di trattamento. – 4. (Segue): sparse notazioni sul drafting
legislativo. – 5. Tra molteplici conclusioni destruentes … – 6. … ed almeno una proposta construens.
1. Premessa
L’esperienza insegna come, almeno alle volte, poco proficuo sia inseguire a tutti costi un testo
legislativo ancora in progress come quello attualmente all’esame della Camera dei Deputati in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento: le
notazioni che si stanno per fare, dunque, attengono solo al metodo (non già al merito) del d.d.l. in
questione – sebbene seducente sarebbe la tentazione di svolgere delle osservazioni anche intorno al
secondo dei due profili – di modo che potrebbero forse rivelarsi di qualche utilità anche
all’indomani della definitiva approvazione.
Venendo quindi al tema in oggetto, è noto che, grazie al prolungamento artificiale della vita di
una persona che ha ormai perduto ogni speranza di vita, la moderna tecnologia è in grado di far sopravvivere malati per i quali solo qualche tempo addietro non ci sarebbe stato nulla da fare. Ciò non
fa che alimentare e rendere sempre più attuale e drammatico il problema dell’interruzione volontaria delle terapie al fine di evitare l’accanimento terapeutico1: così, solo per restare ai casi più noti e
scottanti della recente cronaca, se le attuali terapie di sostegno alle funzioni biologiche (pure quando queste vengano del tutto compromesse dalla patologia) non vi fossero state – o non fossero state
1
Così, l’on. I. Marino (relazione di maggioranza all’originario A.S. n. 10, Disposizioni in materia di consenso informato e di dichiarazioni di volontà anticipate nei trattamenti sanitari al fine di evitare l’accanimento terapeutico,
nonché in materia di cure palliative e di terapia del dolore, del 29 aprile 2008).
Sul punto non si registra, tuttavia, concordanza di vedute, con tale espressione intendendosi, ora, l’«ostinazione in
trattamenti diagnostici e terapeutici da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o
un miglioramento della qualità della vita» (art. 16, cod. deont. med. del 16 dicembre 2006), ora, tutte quelle «iniziative
clinico-assistenziali sproporzionate alla condizione clinica del paziente, attuate su malati terminali da sanitari che in realtà non dispongono più di vere risorse terapeutiche» (così G. PERICO, Eutanasia e accanimento terapeutico in malati
terminali, in Agg. soc., 1985, 6 s.), ora, infine, «un trattamento di documentata inefficacia in relazione all’obiettivo, a
cui si aggiunga la presenza di un rischio elevato e/o una particolare gravosità per il paziente con un’ulteriore sofferenza
in cui l’eccezionalità dei mezzi adoperati risulta chiaramente sproporzionata agli obiettivi della condizione specifica»
(cfr. C. MANNI, Accanimento terapeutico in rianimazione e terapia intensiva, in AA.VV., Bioetica in medicina, a cura
di A. Bompiani, Roma, 1996, 321): in oggetto, v. almeno P. VERSPIEREN, Eutanasia? Dall’accanimento terapeutico
all’accompagnamento dei morenti, Torino, 1985; e, più di recente, D. LAMB, Etica alle frontiere della vita. Eutanasia e
accanimento terapeutico, Bologna, 1998, nonché F. ABEL, Accanimento terapeutico, in Nuovo dizionario di bioetica, a
cura di S. Leone-S. Privitera, Roma, 2004, 123 ss.
1
così avanzate – dolorose vicende come quella di Piergiorgio Welby non avrebbero neppure occupato le pagine dei giornali2.
Il progresso biomedico – specie, ma non solo, nelle situazioni c.d. di fine-vita – si rivela dunque in tutta la sua ineliminabile ambiguità: per un verso, allungando virtualmente sine die
l’esistenza degli ammalati e governando l’avanzamento di svariate patologie; per un altro, però, apparecchiature mediche destinate a sostituire funzioni vitali irrimediabilmente compromesse non
fanno che rendere la persona, in qualche modo, dipendente (per non dire inerme ostaggio) di esse,
specie quando la perdita di capacità emozionali e relazionali sia senza via d’uscita. Dal che, non desta stupore il crescente, diffuso, timore di restare per forza in vita perché a farlo ci obbligano macchine «che respirano per noi, che fanno battere il nostro cuore e spingono più in là il confine della
morte senza però restituirci una vita piena, ma spiccioli, resti, immobilità, fiati su corpi esausti e
pronti alla resa»3.
L’utilizzo, sempre più invasivo e penetrante, di sofisticate biotecnologie non può dunque non
sollevare un grumo di questioni dalla più varia ed eterogenea natura: le quali attingono non solo,
com’è di ogni evidenza, alla problematica definizione del limite terapeutico e della sua proporzione
rispetto al risultato atteso ma, più ampiamente, all’orizzonte della libertà e della ricerca scientifica,
nonché all’equa distribuzione di risorse umane ed economiche sempre più scarse ed al trattamento
delle disabilità particolarmente avanzate4. Gli interrogativi etici più spinosi e pressanti non possono
peraltro che riguardare quanti, pur potendo di fatto sopravvivere collegati ad apparecchiature che
surrogano alcune funzioni biologiche essenziali (come quelle per la respirazione, l’alimentazione e
l’idratazione artificiali) chiedano di rinunciare a questo tipo di interventi per lasciare che la malattia
riprenda il suo naturale decorso – artificialmente interrotto – alla luce della propria, ed insostituibile, visione della dignità e della vita5.
Sull’esigenza che non tutto ciò che è materialmente possibile per la scienza sia anche moralmente lecito non pare difficile raccogliere una, più o meno ampia, convergenza di vedute6: non si fa
mistero, del resto, che «la tecnologia, alimentata da economia e concorrenza, è come travolta dalla
sua stessa potenza, e questa potenza pare diventare il fine supremo. A sua volta, ciò che noi chiamiamo globalizzazione, cioè quella superficie tutta liscia su cui tecnologia ed economia scorrono
senza incontrare ostacoli, ha bisogno di assopimento delle coscienze, di nichilismo e conformismo,
affinché la sola logica del mercato possa affermarsi»7.
2
«E’ un truismo, un’ovvietà, ma il peso dell’ovvio non ci esime, anzi ci obbliga a prendere posizione; e questo
dovrebbe valere innanzi tutto per il legislatore»: così E. MAZZARELLA-P. CORSINI-P. CIRIELLO-S, ZAMPA-D.
MATTESINI-R. ZACCARIA-G. MELIS, Le dichiarazioni anticipate di trattamento: un contributo alla discussione, in
www.forumcostituzionale.it.
3
Così M. Toraldo di Francia, docente di Bioetica alla Facoltà di Lettere dell’Università di Firenze, in L.
MONTANARI, Riscoprire la dignità del malato. ‘La politica è rimasta indietro’, in Repubblica (26 marzo 2008).
4
Cfr. ancora l’on. I. Marino (relazione di maggioranza, cit.).
5
Sull’ambiguo – quando non contraddittorio – atteggiamento tenuto dal legislatore in questi ultimi anni sulla naturalità/artificialità della vita (spec. con riferimento all’esperienza della fecondazione assistita) si v., infra, par. 5.
6
Sul complesso e sfaccettato rapporto tra scienza, bioetica e diritto (da una prospettiva non esclusivamente giuridica) v., ex plurimis, F. D’AGOSTINO, Bioetica e diritto, in Medicina e morale, 1993, 675 ss.; ID., Dalla bioetica alla
biogiuridica, in AA.VV., Nascita e morte dell’uomo, a cura di S. Biolo, Genova, 1993, 137 ss.; ID., Tendenze culturali
della bioetica e diritti dell’uomo, in AA.VV., Bioetica in medicina, cit., 48 ss.; ID., Bioetica nella prospettiva della filosofia del diritto, Torino, 2000, passim; ID., La bioetica come problema giuridico. Breve analisi di carattere sistematico,
in AA.VV., Le radici della bioetica, a cura di E. Sgreccia-V. Mele-G. Miranda, I, Milano, 1998, 203 ss.; G. DALLA
TORRE, Le frontiere della vita. Etica, bioetica, diritto, Roma, 1997; E. SGRECCIA, Bioetica e diritti dell’uomo, in Scritti
in onore di G. Gerin, Padova, 1996, 427 ss.; P. ZATTI, Verso un diritto per la bioetica, in AA.VV., Una norma giuridica
per la bioetica, a cura di A. Mazzoni, Bologna, 1998, 63 ss.; ID., Bioetica e diritto, in Riv. it. med. leg., 1995, 3 ss.; F.
FRENI, Biogiuridica e pluralismo etico-religioso, Milano, 2000; E. SGRECCIA-M. CASINI, Diritti umani e bioetica, in
Medicina e morale, 1999, 17 ss.; F.D. BUSNELLI, Bioetica e diritto privato. Frammenti di un dizionario, Torino, 2001;
V. POCAR, Sul ruolo del diritto in bioetica, in Soc. dir., 1999, 157 ss.; A. COSTANZO, Nuclei del biodiritto, in Bioetica e
cultura, 2002, 51 ss.; J.P. MASSUÉ-G. GERIN, Diritti umani e bioetica, Roma; AA.VV., Bioetica, diritti umani e multietnicità, a cura di F. Compagnoni-F. D’Agostino, Milano, 2002.
7
Così, G. ZAGREBELSKY, Le false risposte del diritto naturale, in Repubblica (4 aprile 2007). Tale, autorevole dottrina non manca peraltro di mettere in guardia dal rischio insito nel ciclico (ed apparentemente salvifico) richiamo al
diritto naturale a motivo della sua, intrinseca, vocazione ambigua laddove evidenzia che «non è la natura, l’ancora di
2
Le nuove, pressanti, domande poste ad ogni piè sospinto dal frenetico evolversi del progresso
della scienza medica reclamano dunque nuove e più urgenti risposte sul piano della disciplina giuridica8 (o, come più coloritamente negli ultimi tempi è invalso dire, dal c.d. biodiritto)9. Il panorama
giuridico oltreconfine appare, sul tema de quo, a conti fatti abbastanza variegato. Mentre recentemente in Italia delle direttive c.d. di fine-vita si è occupata la Commissione Sanità del Senato per
due legislature consecutive – durante le quali hanno visto la luce ben undici disegni di legge, a lungo discussi senza mai rinvenire mediazione in un testo unico e omnicondiviso – in altri paesi a noi
limitrofi la questione del c.d. testamento biologico è già stata affrontata: così, ad esempio, è accaduto in Svizzera, Danimarca, Germania, Olanda, Francia, Belgio, Svezia, Norvegia, Spagna.
Una segnalazione particolare per la posizione d’avanguardia del dibattito pubblico e la maturazione del confronto tra laici e cattolici – nonché per l’insegnamento che avrebbe potuto ricavarne la
classe politica nostrana – merita proprio quest’ultima10; mette conto ricordare difatti che, proprio in
Spagna, tra i primi a proporre l’introduzione normativa del c.d. testamento vital ci fu la Conferenza
episcopale spagnola, appena dieci anni dopo la morte di Franco, la quale in tempi a noi più vicini
ritiene che la volontà della persona debba essere rispettata «come se si trattasse di un testamento» –
così escludendo un possibile rifiuto, od obiezione di coscienza, da parte del medico – e, con chiarezza e risolutezza, evidenzia che «la vita in questo mondo sia un dono e una benedizione di Dio,
ma non è il valore supremo assoluto»: a dimostrazione che lo stesso mondo cattolico, lungi
dall’essere monolitico, si mostra sul tema ancora internamente articolato e diviso e che, forse, bisognerebbe prestare maggiore attenzione a tutti le voci da quel mondo ugualmente provenienti11. In
precedenza, già il XXXVII Congresso del Partito Socialista spagnolo del premier José Louis Zapatero, del resto, era stato inaugurato con la presentazione di un emendamento sulla c.d. morte degna:
in campagna elettorale, invece, sull’argomento era calata una pesante coltre d’indifferenza e di silenzio sebbene in più di una dichiarazione pubblica prima delle elezioni lo stesso Zapatero avesse
salvezza di cui abbiamo bisogno. Essa è una risposta falsa, ingannatrice e aggressiva al tempo stesso, che divide pretestuosamente il campo degli uomini di buona volontà, che avrebbero invece molto da ragionare insieme nella ricerca di
ciò che è buono e giusto. Proprio in questa ricerca, se mai, consiste la natura umana. La legge naturale che ne deriva è
che gli esseri umani non possono sfuggire al dovere di agire nel mondo con responsabilità e secondo la libertà che è loro
propria»; in oggetto, comunque, v. M. GENSABELLA FURNARI, Tra autonomia e responsabilità. Percorsi di bioetica,
Soveria Mannelli, 2000, part. 144 ss.
8
Così, nuovamente, M. GENSABELLA FURNARI, Tra autonomia e responsabilità, cit., spec. 20 ss.; ID., Prefazione,
in AA.VV., Le sfide della genetica. Conoscere, prevenire, curare, modificare, a cura della stessa M. Gensabella Furnari, Soveria Mannelli, 2006, part. 5 s. Sui rapporti tra scienza e diritto, dalla peculiare prospettiva della giurisprudenza
costituzionale, si v. spec. i contributi di AA.VV., Bio-tecnologie e valori costituzionali. Il contributo della giustizia costituzionale, Torino, 2005.
9
Secondo alcuni (v., ad es., M. CUYAS, Responsabilità e biodiritto, in Civ. catt., 1994, 148; M. CASINI, I diritti
dell’uomo, la bioetica e l’embrione umano, in Medicina e morale, 2003, spec. 69) il termine “biodiritto” sarebbe stato
coniato dall’Università Nazionale “Andrés Bello” di Santiago del Cile, per attirare l’attenzione dei partecipanti al Congresso che la stessa Università aveva organizzato sulle conseguenze giuridiche del progresso biotecnologico nell’ottobre
del 1993: che, poi, tale espressione – ormai di moda nella dottrina giuridica – sia anche tecnicamente propria e non piuttosto frutto di un esasperata ricerca del neologismo a tutti i costi appare tutt’altro paio di maniche. A parte, infatti, la
moderna, incontenibile, tendenza a coniare nuove parole ad ogni occasione, tipica più del linguaggio di tipo giornalistico che non di quello tradizionalmente scientifico (anche quando non se ne avverta affatto il bisogno … ma questo porterebbe il discorso, forse, troppo lontano), essa non convince, anzitutto, sul piano linguistico: giacché pare quasi suggerire
l’esistenza di una sorta di “ibrido” non pienamente riconducibile né al “diritto” tout court, né alla “bioetica” tout court
(col rischio, se possibile, di ingenerare più confusione e disorientamento di quanti non affliggano, di per sé, la materia).
Ma, a volere spingersi ancor più in là, non convince nemmeno su quello logico: mentre, infatti, il ricorso al prefisso
“bio” può, al limite, giustificarsi in settori della conoscenza scientifica di norma non espressamente rivolti alla disciplina ed alla razionalizzazione dei rapporti tra esseri umani (si pensi, solo per fare un esempio, alla diversa portata
dell’espressione “ingegneria”, come scienza applicata lato sensu a materiali inorganici, e di “bio-ingegneria”, rivolta
invece alle modificazioni del patrimonio genetico umano) non si capisce quale senso possa avere la medesima particella
accostata alla parola “diritto” il quale, al contrario, nasce – com’è noto – allo scopo precipuo di regolare i rapporti tra i
consociati e, quindi, le stesse dinamiche relazionali tra esseri umani (a meno che non lo si voglia contrapporre ad un
“diritto” non destinato, per ciò stesso, alla “vita”… ma, in tale evenienza, bisognerebbe pure spiegare a cos’altro la prescrizione giuridica possa mai rivolgersi).
10
Cfr., ad esempio, I. MARINO, Libertà di cura senza condizioni, in Il secolo XIX (4 febbraio 2009).
11
Così pure S. RODOTÀ, La via maestra per il testamento biologico, in Repubblica (2 dicembre 2008).
3
affermato che «nessuno, per le sue convinzioni religiose, può opporsi al diritto dei cittadini a vivere
o morire degnamente». L’emendamento, poi approvato dal Congresso insieme a una serie di altri
temi di carattere sociale, affrontava in primo luogo il nodo del testamento biologico ma trattava pure della più ampia possibilità di non accettare alcuni trattamenti medici, nonché del diritto ad un adeguato trattamento del dolore e ad un uso maggiore dei sedativi: nell’ultimo punto di esso si auspicava infine che «nei prossimi anni», quando si fossero consolidate le prassi già descritte, nella società si aprisse «un dibattito sulla possibile legalizzazione del diritto dei pazienti affetti da malattie
terminali o invalidanti a chiedere ai medici un intervento più attivo di quelli già descritti»12.
Sul fronte della interruzione volontaria delle terapie, da apripista hanno fatto comunque i Paesi
Bassi i quali, dal 12 aprile 2001, con la legge per il controllo di interruzione della vita su richiesta e
assistenza al suicidio, rappresentano il primo paese al mondo a dotarsi di una legge che regolamenta
pure l’eutanasia (sebbene, già dal 1994, essa non sia più perseguita penalmente, pur rimanendo
formalmente un reato); a ruota sono seguiti il Belgio – dove, dal 16 maggio 2002, è in vigore una
disciplina sulla sospensione delle cure – ed il Granducato del Lussemburgo, il cui Parlamento ha
molto recentemente approvato (19 febbraio 2008) una proposta di legge che prevede l’eliminazione
delle sanzioni penali contro il medico che metta fine alla vita del malato che espressamente l’abbia
richiesto13.
Più laboriosa e sofferta l’approvazione di una simile disciplina altrove, come per esempio in
Germania – dove, peraltro, la giurisprudenza della Corte suprema federale ha già riconosciuto la legittimità ed il carattere vincolante della Patientenverfügung con una celebre sentenza del 17 marzo
200314 – dove, tuttavia, la Camera Alta del Parlamento, al termine di un infuocato dibattito, non è
riuscita a pronunciarsi subito su una proposta di legge in materia di eutanasia e si è limitata ad approvare una risoluzione15: tredici – sul totale di sedici – Länder rappresentati nella Camera Alta
hanno, tuttavia, optato per una formula che non chiude del tutto le porte alla morte assistita nella
Repubblica federale ma propone, entro un anno, l’approvazione di un testo per punire con la detenzione chiunque crei un’associazione che punti a procurare agli altri l’occasione di suicidarsi. Non
diversamente si sono svolte le cose in Austria (dove una legge permissiva esisteva, prima di essere
definitivamente abrogata nel 1977), in Svezia (l’interruzione delle terapie non è perseguita penalmente) ed in Svizzera, dove il c.d. suicidio assistito viene praticato al di fuori delle istituzioni mediche statali dall’associazione Dignitas, che accetta le richieste indipendentemente dalla nazionalità
del richiedente16.
Meno sfilacciato negli orientamenti, e complessivamente più compatto ed omogeneo nelle soluzioni legislative approntate, appare invece il fronte dei legislatori di common law, storicamente
più sensibili alle tematiche sul tappeto e culturalmente più inclini a valorizzare le scelte individuali
del cittadino: Regno Unito, Stati Uniti, Canada, Australia e, più di recente, Messico, si sono difatti
dotati di una più o meno articolata disciplina dei c.d. living will (letteralmente, volontà del vivente).
In suddetti ordinamenti, interrompere le terapie mediche quando non esista una ragionevole speran12
Su questi profili, C. NADOTTI, Eutanasia, Il Psoe di Zapatero rompe il tabù, in Repubblica (5 luglio 2008). Allo
stato attuale, tuttavia, l’unico testo vigente in materia è la legge n. 41 del 14 novembre 2002, recante Disposizioni di base per la regolamentazione dell’autonomia del paziente nonché dei diritti e degli obblighi in materia di informazione e
documentazione clinica, entrata in vigore il 16 maggio 2003 e relativa, tra l’altro, al diritto all’informazione sanitaria ed
alla privacy in ambito medico, al consenso informato, alle istruzioni preventive (dichiarazioni anticipate di volontà) ed
alla prestazione di servizi medici al degente: per ulteriori ragguagli, v. dossier n. 104 del marzo 2009 del servizio studi
del Senato, La disciplina del testamento biologico in alcuni paesi (Francia, Germania, Paesi Bassi, Regno Unito, Spagna, Stati Uniti), in www.senato.it.
13
Il provvedimento prevede, in particolare, che la richiesta venga autorizzata esclusivamente per i malati terminali
e per coloro che soffrano di malattie incurabili, solo su domanda ripetuta e col consenso di due medici ed una commissione di esperti.
14
Per maggiori dettagli sul punto, v. sempre dossier n. 104 del marzo 2009 del servizio studi del Senato, cit.
15
In quella, specifica, occasione il Bundesrat aveva discusso del tema a ridosso delle polemiche suscitate dalle dichiarazioni di Roger Kusch – ex senatore di Amburgo – il quale aveva pubblicamente ammesso di aver aiutato a morire
una donna di 79 anni.
16
Sul non secondario problema del c.d. turismo eutanasico o eutanasiaco – che la disciplina attualmente al vaglio
del Parlamento italiano rischia insensatamente di alimentare – si tornerà più diffusamente, infra, al par. 5.
4
za di riportare il paziente ad una condizione di vita accettabile – non solo è prassi costante delle
strutture sanitarie ma – è una possibilità prevista da regole precise, rispettate dagli operatori medici
senza suscitare alcun clamore e, quel che più conta, senza arrivare ad integrare ipotesi di vera e propria eutanasia17: nel Regno Unito, ad esempio, l’aiuto al suicidio è perseguito a norma del Suicide
Act del 1961 – pure se, sul piano giurisprudenziale, vi sono aperture consistenti all’eutanasia c.d.
passiva (senza considerare come sia attualmente in discussione alla Camera dei Comuni l’Assisted
Dying for the Terminally Ill Bill che permetterebbe una forma di suicidio assistito simile a quella
prevista dallo statunitense Oregon Death with Dignity Act del 1997) – mentre il testamento biologico è stato espressamente previsto a livello legislativo solo dopo il Mental capacity act approvato il 7
aprile 2005 ed entrato in vigore il 1° ottobre 2007.
Pur con inevitabili sfumature normative da ordinamento ad ordinamento, anche gli Stati Uniti
riconoscono alle c.d. direttive anticipate generale valore legale (come si accennava un momento fa,
nell’Oregon è addirittura consentito al malato di richiedere farmaci letali, sebbene una regolamentazione specifica di tale materia sia attualmente in stand by per opposizione di un giudice sopranazionale): a livello federale, per primi sono stati i Tribunali ad esprimersi su casi del genere18, stimolando poi il Congresso a riconoscere, ormai diversi anni or sono, valore legale al testamento biologico
col Patient self determination act del 1991; così, nelle strutture ospedaliere americane, non appena
il soggetto entri per una patologia grave ed invalidante – ma non solo – gli è richiesta la compilazione di un living will solitamente diviso in due parti: la prima, contenente le indicazioni relative a
quali interventi questi intenda accettare o, viceversa, rifiutare (alimentazione forzata, ventilazione
artificiale, rianimazione cardiaca, ecc.); la seconda recante, invece, una delega con la quale
l’interessato sceglie una persona che possa decidere al suo posto allorché sopraggiungano eventi tali
da non consentirgli di decidere autonomamente19. In Canada, infine, sono gli Stati di Manitoba ed
Ontario ad aver riconosciuto alle direttive anticipate pieno ed integrale valore legale, mentre in Australia esse si sono diffuse a macchia di leopardo (i Territori del Nord, in particolare, giunsero persino a legalizzare la c.d. eutanasia attiva volontaria nel 1996, prima che il Parlamento federale annullasse però tale provvedimento appena due anni dopo).
In maniera incomparabilmente diversa sono andate – com’è noto – le cose in Italia dove, dopo
anni di assordante silenzio (non della società civile e neppure del dibattito pubblico ma) da parte del
legislatore, l’attuale maggioranza parlamentare sembra ora improvvisamente assalita da
un’irresistibile frenesia regolamentare che ha portato in tempi risicatissimi ad approvare le attuali
Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate
di trattamento al momento all’esame della Camera dei Deputati. Le possibili ragioni alla base di tale, ormai trascorso, mutismo normativo – siccome quelle dell’attuale parossismo legislativo – appaiono senz’altro complesse, particolarmente sfaccettate e di non facile lettura unitaria; e, nondimeno, riconducibili ad almeno tre fenomeni tipicamente caratterizzanti la realtà sociale e culturale italiana.
Ragioni culturali, almeno in prima battuta: senza potersi ora diffondere sul punto – non essendo
ovviamente questa la sede più appropriata – può probabilmente riconoscersi come al dibattito politico italiano spesso sia stato culturalmente (prima ancora che giuridicamente) precluso anche solo
discorrere di “rifiuto delle cure”. Nonostante quindi molteplici, ragionevoli, motivazioni militino da
tempo a favore del testamento biologico (consentire, ad esempio, a chiunque di dichiarare in anticipo quali trattamenti medici accettare e quali rifiutare in caso di malattie gravissime o incurabili; ridurre l’accanimento terapeutico; dare a medici e giudici un quadro di certezza del diritto entro cui
muoversi) «le resistenze che quell’istituto incontra nel nostro paese, nelle nostre istituzioni pubbliche, e in quelle sanitarie, sono tali e tante, che deve esservi una ragione più profonda. Ovvero l’idea,
mai esplicitata fino in fondo e mai compiutamente verbalizzata, ma saldamente presente nella co17
Così pure on . I. Marino (relazione di maggioranza, cit.).
Si pensi al celebre caso Cruzan, definitivamente risolto nel senso della legittimità del rifiuto delle terapie mediche dalla Supreme Court federale con sentenza del 25 giugno 1990.
19
Qualcosa di simile insomma a quanto era stato introdotto, qualche tempo addietro, anche in Italia con la c.d. carta di autodeterminazione del paziente (evocativamente ribattezzata biocard).
18
5
scienza collettiva (...) che il bene dell’esistenza umana sia incondizionatamente indisponibile, e pertanto sottratto alle disposizioni e alle volontà dello stesso soggetto che ne è titolare»20.
Una forma di interdizione culturale – sovente dettata da un’ancestrale ansia di rimozione del
carattere finito dell’esistenza umana21 – è parsa impedire, insomma, alla società nostrana di affrontare problematiche (ancora al presente) tabù quali la malattia, col doloroso carico di degenerazione
fisica e psichica che spesso comporta, la sofferenza e, soprattutto, la morte: senza piuttosto accettare
che essa fa parte della vita, che dev’essere chiamata col suo nome anche se fa paura e che, pur di
negarla, si preferisce volgere lo sguardo altrove22. Ciascuno di noi è drammaticamente consapevole,
del resto, che nella quotidianità della vita ospedaliera possono esservi medici che pietatis causa interrompano le terapie in casi disperati, quando ogni cura non è utile se non a prolungare insensatamente le sofferenze: «questi generosi si muovono a loro rischio, agiscono spinti da un sentimento di
misericordia (…) con il loro comportamento sfidano, prima ancora della mancanza di norme certe,
l’ipocrisia che causa quella mancanza. Le cose avvengono, lo sappiamo tutti, ma non si deve sapere.
Importante è che non venga sancito il principio, proprio come accadde nel caso del povero Welby
che avrebbe potuto abbreviare un’esistenza che rifiutava se non avesse voluto trasformare la sua
sofferenza in una lotta e in un simbolo»23. Per non dire, infine, della controversa resistenza ideologica di quanti hanno visto – e tutt’ora vedono – nel testamento biologico l’anticamera dell’eutanasia
o della pugnace opposizione di quei sanitari che rivendicano il loro potere di decidere oppure, al
contrario, hanno paura di decidere e preferiscono affidarsi alle potenzialità di una medicina ipertecnologica24.
Non meno pressanti (e condizionanti) sono state poi le ragioni etico-religiose che hanno, di fatto, sottratto al dibattito pubblico alcune tematiche ritenute, come suole ormai dirsi, “non negoziabili”25: non vi è allora chi non intraveda, in tale stato di cose, anche un rischio strisciante per la stessa
democrazia – non a torto ritenuto il regime più debole che esista ma anche il più prezioso – la quale
di natura non pretende (recte, non può esigerlo) da nessuno la rinunzia alle proprie convinzioni26.
L’atteggiamento di alcune frange cattoliche spesso arroccate su posizioni radicali che unilateralmente formulano giudizi non discutibili – mirabilmente sintetizzati appunto dall’espressione non
possumus – ha pertanto impedito che si ambientasse, anche in Italia, un dibattito libero e democratico su certi temi: «come, ‘non possumus’? Non puoi tu, ma ciò non deve impedire che nell’arena
democratica venga aperto un dibattito. Quando si imbocca la strada del ‘non possumus’, ciascuno,
dalla sua parte, assume una posizione esclusivista e sovrana, toglie o mette nel dibattito pubblico
senza lasciare spazio agli altri. Qui si scontra il clima delle cittadelle assediate»27. Né, in contrario,
varrebbe opporre la tradizionale obiezione della deriva del relativismo etico che altrimenti ne conseguirebbe giacché nell’individuo, per un verso, e nelle istituzioni, per un altro, esso prenderebbe
radicalmente diverse connotazioni: nichilistico se fatto proprio dal primo, il relativismo assumerebbe invece una formidabile carica, per così dire, democratica nelle seconde, poiché solo a condizione
che le istituzioni siano, almeno nel loro complesso, relativiste «è possibile che tutti, come individui,
20
Così A. BORASCHI-L. MANCONI, Il dolore e la politica. Accanimento terapeutico, testamento biologico, libertà
di cura, Genova, 2007, 16.
21
Sul punto, ancora A. BORASCHI-L. MANCONI, 18.
22
In oggetto, v. le suggestive pagine di M. GENSABELLA FURNARI, Introduzione, in AA.VV., Alle frontiere della
vita. Eutanasia ed etica del morire, I, a cura della stessa M. Gensabella Furnari, Soveria Mannelli, 2001, part. 7 e 14 s.
23
Così C. AUGIAS, in risposta a Un augurio nel ricordo di Luca e Piero, lettera aperta di M.A. Coscioni e M.
Welby in Repubblica (3 gennaio 2008).
24
Non deve più di tanto sorprendere, allora, che di testamento biologico non si sia mai seriamente discorso prima
di qualche anno fa, quando la fondazione che porta il nome del noto oncologo Umberto Veronesi pubblicò il primo opuscolo divulgativo e organizzò la prima presentazione in tal senso nella capitale.
25
Sul tema v., ad esempio, A. SPADARO, Può il Presidente della Repubblica rifiutarsi di emanare un decretolegge? Le “ragioni” di Napolitano, in www.forumcostituzionale.it.
26
Cfr. spec. G. ZAGREBELSKY, Pericolosi non possumus, in L’Unità (23 marzo 2007).
27
Così nuovamente G. ZAGREBELSKY, Pericolosi non possumus, cit., a parere del quale «dovremmo tutti quanti
fare uno sforzo per dire non ‘non possumus’ ma per dire ‘possumus’, considerando che questa parola, ‘possumus’, la
diciamo in democrazia. Cioè, in quel regime, in quell’unico regime, che dà spazio e riconosce a tutti la possibilità di potere».
6
come forze sociali, come movimenti, facciano valere la loro verità»28 (in caso contrario prendendo
una posizione e, per ciò solamente, escludendone ogni altra)29.
Senza contare l’ostacolo frapposto alla possibile regolamentazione giuridica dalle immancabili
motivazioni di remunerazione politica, da ultimo. Perché, probabilmente, alle regolarità della politica è ben più utile una regola che non c’è piuttosto che una che c’è: insomma «ai fanatici (e agli
opportunisti) fa più comodo che il problema resti irrisolto, che il contrasto tra valori rimanga senza
mediazione, che i ‘principi’ non scendano ad alcun negoziato, così si può continuare ad alimentare
il clima da crociata»30.
2. Il testamento biologico tra riscrittura ed interpretazione costituzionale
Con suddette premesse – prima ancora che spontanea – una domanda nasce provocatoria: ma
era (ed è) davvero indispensabile una legge del Parlamento sul testamento biologico? La vicenda
Welby – e, soprattutto, i molti altri casi non ugualmente saliti agli onori della cronaca – sta emblematicamente a dimostrare che quando il Parlamento per lungo tempo non pervenga ad alcuna regolamentazione, specie per le questioni che toccano da vicino la vita e la sua qualità, i cittadini si disinteressano della formalizzazione giuridica per servirsi, comunque, di strumenti espressivi della
volontà ed autonomia del malato: è del resto consolidato convincimento, già oggi (e ieri) pur senza
l’apposita legge, che si possa procedere tenendo conto della volontà del malato, ricostruita da quanto aveva detto o scritto e dalla testimonianza delle persone a lui vicine, in particolare dei familiari31.
Non accade, insomma, solo in Italia che quando la politica non presti ascolto ai reali bisogni della
popolazione, quest’ultima faccia a meno di essa: il grande movimento popolare olandese che ha
condotto, come si anticipava supra, alla legislazione più permissiva d’Europa sulle decisioni di fine
vita è nato ormai vent’anni fa quando la cittadinanza ha potuto constatare che la medicina oggi è in
grado di prolungare artificialmente la vita biologica, opponendosi a una fine naturale per giorni, per
mesi o per anni; in Germania, pur in assenza di una legge, a seguito dell’iniziativa popolare, in soli
due anni sono stati depositati sette milioni di testamenti biologici32.
Più che provocatorio, l’interrogativo appena posto sul tappeto appare comunque retorico, considerato lo stato di avanzamento di lavori parlamentari che ben poco lasciano all’immaginazione: e,
cionondimeno, non può che far riflettere la brusca accelerazione con cui tale, cruciale, questione sia
stata affrontata, e disinvoltamente oltrepassata, nel dibattito politico ed in quello pubblico. Almeno
dal punto di vista costituzionale, difatti, la risposta non è poi così scontata, né univoca, come po28
Quindi, «dire a una persona ‘tu sei un relativista’, significa qualcosa di molto simile al dirgli ‘tu sei un nichilista,
tu non credi in nulla’. Ma dire che le istituzioni democratiche devono essere relativiste significa che devono sostanzialmente rispettare una posizione di neutralità tra le posizioni sostanziali che vivono nella società in modo che tutte possano vivere e possano espandersi. Ecco, è una distinzione che va fatta. Il relativismo per le istituzioni è una virtù»: efficacemente, ancora G. ZAGREBELSKY, Pericolosi non possumus, cit. (sul punto, si veda inoltre la densa riflessione di A.
SPADARO, Dai diritti “individuali” ai doveri “globali”. La giustizia distributiva internazionale nell’età della globalizzazione, Soveria Mannelli, 2005, 45 ss.).
29
In tal senso, per esempio, G. DALLA TORRE, Bioetica e diritto. Saggi, Torino, 1993, part. 31.
30
Perché se poi «i giudici, trovandosi costretti loro malgrado ad esercitare la funzione ad essi affidata, cercano di
trovare nel sistema normativo le rationes sulla cui base decidere, si cerca di bloccarli ricorrendo alla Corte»: così R.
BIN, Se non sale in cielo, non sarà forse un raglio d’asino? (a proposito dell’ord. 334/2008), in www.astrid-online.it.
31
Così L. CARLASSARRE, La Costituzione, la libertà, la vita, in www.astrid-online.it, secondo cui superflua sarebbe dunque «una legge apposita, dal momento che, come hanno riconosciuto non solo i giudici ma la stessa Corte costituzionale pronunziandosi sul conflitto d’attribuzione sollevato dal Parlamento (ord. n. 334/2008), il diritto è sicuro (…)
in questo quadro si potrebbe allora sostenere che una esplicita legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento, ovvero
sul testamento biologico, non è strettamente necessaria per poter oggi riconoscere validità a quanto una persona abbia
precedentemente dichiarato per farlo valere nel momento in cui dovesse perdere per sempre la capacità di intendere e
volere (…) La sentenza pronunciata sul caso Englaro ci dimostra che, laddove sia possibile accertare con nettezza le volontà anche non scritte della persona non più capace di esprimerle, occorre rispettarle. A maggior ragione questo varrà
se siffatte volontà sono state lasciate per iscritto in un documento redatto dalla persona non più capace di volere nel
momento in cui era perfettamente capace di farlo».
32
Così U. VERONESI, Anche in Italia sta cadendo il tabù, in Repubblica (8 giugno 2008).
7
trebbe prima facie sembrare: il suo esito passa piuttosto dall’idea di Costituzione che intendiamo
assumere, dall’efficacia prescrittiva che ad essa riteniamo ancora di ricondurre nella materia de qua
ed al non secondario ruolo che giocano, infine, le fonti comunitarie ed internazionali (se meramente
integrativo del parametro costituzionale o, per certi versi, addirittura sostitutivo di esso).
Come da queste sparse notazioni appare sin da subito evidente, dunque, ce n’è abbastanza per
non dare affatto per scontata qualsivoglia risposta alla domanda iniziale (pure se, anche nella vicenda in esame, si è visto come le regolarità della politica hanno per l’ennesima volta preso il sopravvento sulle regole della Costituzione). Molte e parecchio variegate sono le ragioni per ritenere insufficiente l’attuale quadro costituzionale in materia e, per andare a cercarle, non bisogna neppure
guardare troppo lontano giacché frutto di una convergente congiuntura al momento non ancora conclusa: senza avviarsi, adesso, lungo sentieri che rischierebbero di portare questo contributo forse
troppo lontano dal percorso originariamente prefissato, non si può che prender coscienza della progressiva inadeguatezza e, in fin dei conti, della complessiva rigidità che la Costituzione pare esibire
innanzi alla crescente fluidità ed alla mutevolezza degli interessi concretamente coinvolti sul piano
pratico (arretratezza che, paradossalmente, iniziative parlamentari come quella attualmente in esame
non solo non sdrammatizzano ma, al contrario, contribuiscono ad aggravare). Per cui sarebbe forse
utile chiedersi, insomma, se a fronte di tali dibattute questioni etiche siano ancor oggi valide le tradizionali convinzioni circa la sufficiente completezza ed elasticità delle disposizioni costituzionali
oppure se non sia, invece, il momento di cominciare a rimeditarne il significato e la portata effettiva
proprio alla luce delle più recenti innovazioni tecnologiche (e, se del caso, revisionarne il contenuto): poiché se è vero, com’è stato autorevolmente sostenuto in dottrina33, che la Carta fondamentale
non è solo un atto ma è anche e, soprattutto, un processo, è pur vero che una cosa è l’interpretazione
evolutiva delle formule in essa iscritte, ben altra è l’affannoso tentativo di continuare a riempire un
contenitore (il testo costituzionale, appunto) ormai al limite della sua capienza, col rischio di farlo
… esplodere (o implodere, a seconda del punto di vista).
Vi è, poi, un dato ulteriore da non sottovalutare e, anzi, da tenere bene a mente se si voglia correttamente rappresentare il quadro che si sta lentamente componendo: ed è quello dell’accennato
ruolo che il diritto internazionale e quello comunitario si sono via via ritagliati in materia di diritti
fondamentali e, in particolare, nel campo della bioetica. Com’è noto, si sprecano – per restare solo
agli ultimi decenni – gli esempi di trattati, dichiarazioni, convenzioni internazionali e comunitarie
germinate e cresciute all’ombra dei rapporti tra scienza e diritto con la conseguenza che tale complessa e debordante disciplina tende sempre più a rimpiazzare i principi (ormai, almeno in parte,
non sufficientemente espressi) della Costituzione. Se, a siffatto elemento, si aggiunge quello della
sempre più pressante richiesta di regolamentazione interna, ecco che la nostra Carta costituzionale
rischia in definitiva di trovarsi, in un futuro neanche troppo lontano, stretta nell’abbraccio soffocante di due spinte convergenti: una proveniente “dall’alto” (esercitata, cioè, dalla disciplina transnazionale); ed una proveniente “dal basso”, piuttosto prodotta dalla normativa interna. Il pericolo paventato, insomma, pare più serio di quanto non appaia a prima vista: che, in altre parole,
nell’insistita presunzione di potersi sempre astenere, la Costituzione rischi di … restar silenziosa per
sempre a fronte di casi che reclamano, com’è drammaticamente emerso quasi quotidianamente, a
gran voce una risposta al più alto punto ordinamentale.
La verità è che forse quello della illimitata capienza delle previsioni costituzionali sia più un
rassicurante feticcio – che aiuta a dormire sonni meno agitati – che non un dato oggettivo attuale e
che, probabilmente, sia giunto il momento di mettervi mano con ragionevoli aggiornamenti che
contemplino anche questi nuovi casi (sulla falsariga di quanto già verificatosi per Costituzioni più
“giovani” di quella italiana, quali ad esempio quella greca del 9 giugno 1975 o, recentemente, quel-
33
Così part. A. SPADARO, Dalla Costituzione come “atto” (puntuale nel tempo) alla Costituzione come “processo” (storico). Ovvero della continua evoluzione del parametro costituzionale attraverso i giudizi di costituzionalità, in
Quad. cost., 1998, 416 ss.; L. D’ANDREA, Il progetto di riforma tra Costituzione-atto e Costituzione-processo, in
AA.VV., La riforma costituzionale, Padova, 1999, 93 ss.; A. RUGGERI, La Costituzione allo specchio: linguaggio e
“materia” costituzionale nella prospettiva della riforma, Torino, 1999, 31 s.
8
la elvetica34). Né, d’altro canto, a siffatta esigenza potrebbe muoversi l’obiezione della immodificabilità dei principi fondamentali, poiché se è vero che essi sono, nella loro essenza, immodificabili,
non altrettanto può dirsi invece per le formule costituzionali che sarebbero, pur sempre, modificabili
al servizio dei principi stessi35: che il dato non sia solo ipotetico ed eventuale stanno, del resto, a testimoniarlo i numerosi d.d.l. costituzionali, di recente presentati in Parlamento, tesi ad introdurre
proprio nella parte prima della Costituzione consistenti quote di disciplina in tal senso36.
Il problema che, casomai, si pone (e che non è ovviamente possibile approfondire in questa sede) sarebbe piuttosto un altro: e, cioè, quello del rapporto tra la scrittura delle nuove disposizioni
costituzionali e la redazione dei conseguenti testi legislativi – collegamento apprezzabile solo attraverso il “filtro” del sindacato di ragionevolezza37 – giacché l’introduzione di “nuovi diritti”38 non
potrebbe difatti prescindere da una legge di rango costituzionale che dia almeno un pugno di indicazioni essenziali lasciate poi, per gli ulteriori svolgimenti positivi, alla mano della legge comune e,
ove opportuno, di altri atti eventualmente posti al servizio della legge medesima39.
Certo, le difficoltà incontrate nel raccogliere un sufficiente consenso politico intorno al vituperato d.d.l. Calabrò non depongono realisticamente a favore di tale proposta dottrinale e, nondimeno,
come inaccettabile appare il rischio che l’iniziativa costituzionale si risolva in un nulla di fatto –
perdurando sine die l’attuale stato di “sregolazione” normativa – ugualmente inammissibile sarebbe
il fatto che una risicata (ancorché trasversale) maggioranza possa autoritativamente imporre al resto
della comunità, le proprie convinzioni ideologiche: «di contro, fissare in un atto “nobile”, sia per
forma che per sostanza, le indicazioni essenziali circa le condizioni o i limiti entro cui è consentito
disporre di sé pare maggiormente confacente alla posta in gioco e conducente all’esito di una partita
che – alla fin fine – ci vedrà comunque sconfitti, privati di “qualcosa” che sappiamo essere identificante la nostra condizione umana, vita o dignità che sia»40.
Accedere all’opposta ipotesi – come, in tesi, dobbiamo ritenere che abbia fatto il Parlamento
con la scelta di intervenire direttamente con legge ordinaria anziché di livello costituzionale – significa diversamente considerare ancora saldo e tendenzialmente integro l’intero edificio della Costituzione nonostante il dirompente impatto con le questioni c.d. eticamente sensibili: nella moderna società, multi-culturale41 e multi-etnica – e, per ciò solo, multi-etica – nel cui seno vigono (ma non
34
Entrata in vigore il 1° gennaio 2000, la nuova Costituzione Federale elvetica – all’ottava sezione, rubricata Alloggio, lavoro, sicurezza sociale e sanità – reca difatti ben tre disposizioni dedicate a specifiche questioni bioetiche:
l’art. 119 (medicina riproduttiva e ingegneria genetica in ambito umano); l’art. 119a (medicina dei trapianti); e l’art. 120
(ingegneria genetica in ambito umano).
35
Sulla modificabilità dei principi/intangibilità dei valori può vedersi, da ultimo, A. RUGGERI, Valori e principi
costituzionali degli Stati integrati d’Europa, in www.astrid-online.it.
36
Solo per restare all’art. 2 Cost. si vedano, nella penultima legislatura, le proposte di revisione costituzionale
A.C. n. 2083, in materia di tutela dei diritti inviolabili sanciti nelle convenzioni internazionali, A.C. nn. 636 e 770, entrambe in materia di diritti dell’uomo e del fanciullo, A.C. n. 392, di generica modifica dell’articolo 2 della Costituzione, A.S. n. 1110, per la tutela del diritto alla vita, A.C. n. 2201, in materia di riconoscimento e tutela del diritto al benessere, nonché, per l’ultima legislatura, A.S. n. 729, nuovamente in tema di diritto alla vita (inteso sin dal concepimento),
A.C. n. 701, sul c.d. diritto alla ricerca del benessere, A.C. 1776 e A. S. n. 237 (entrambi sul diritto fondamentale
all’accesso all’acqua come bene comune pubblico e fonte di vita insostituibile), A.C. nn. 611 e 1373, relative ai diritti
inviolabili del fanciullo in conformità alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, alla Dichiarazione
dei diritti del fanciullo del 1959 e alla Convenzione sui diritti del fanciullo del 1989 (su tutti questi profili, v. part. A.
RUGGERI, Prospettive di aggiornamento del catalogo costituzionale dei diritti fondamentali, in questo sito).
37
Su cui, per tutti, v. la suggestiva ricostruzione di L. D’ANDREA, Ragionevolezza e legittimazione del sistema,
Milano, 2005, spec. 53 ss.
38
A proposito dei quali, v. almeno P. BARILE, Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, Bologna, 1984; N. BOBBIO,
L’età dei diritti, Torino, 1992; P. CARETTI, I diritti fondamentali. Libertà e diritti sociali, Torino, 2005; ID., voce Diritti
fondamentali, in AA. VV., Dizionario di diritto pubblico, dir. da S. Cassese, III, Milano, 2006, 1881 ss.
39
«Atto costituzionale auspicabilmente varato coi più larghi consensi e, ove così non fosse, eventualmente legittimato dal verdetto popolare»: così part. A. RUGGERI, Prospettive di aggiornamento del catalogo costituzionale, cit.
40
Così ancora A. RUGGERI, Il caso Englaro e il controllo contestato, in www.forumcostituzionale.it.
41
In oggetto, ex plurimis, C. TAYLOR, Multiculturalismo. La politica del riconoscimento, Milano, 1994; AA.VV.,
Multiculturalismo e democrazia, a cura di F. Crespi-R. Segatori, Roma, 1996; F. VIOLA, Identità personale e collettiva
nella politica della differenza, in AA. VV., Pluralità delle culture e universalità dei diritti, a cura di F. D’Agostino, Torino, 1996, 146 ss.; AA. VV., Bioetica, diritti umani e multi etnicità. Immigrazione e sistema sanitario nazionale, a cura
9
convincono) una pluralità di statuti etici in perenne conflitto tra di loro42, la Carta fondamentale preserverebbe dunque ancora intatta la sua ineliminabile essenza di punto di convergenza su una tavola
di valori condivisi a dispetto degli anni passati e della disgregazione etica in corso43. Muovere da
tali premesse vuol dire, in altre parole, spostarsi su un diverso piano della questione in esame che è
(non già di riscrittura ma) di interpretazione costituzionale; perché, lo si dica apertamente, è di ogni
evidenza che a fronteggiarsi siano, qui, due opposti modi di interpretare una Carta le cui lancette
sono inevitabilmente ferme al 1948: da una parte, l’opzione ermeneutica offerta dal supremo giudice di legittimità – con la famigerrima sent. n. 2148/2007 sul caso Englaro – allorché ha ritenuto di
poter evincere dall’attuale quadro costituzionale, e con tutte le cautele del caso, un vero e proprio
diritto dell’ammalato di rifiutare le cure44; e, dall’altra, quella di un Parlamento che, trincerandosi
dietro il fragile paravento di alcune discutibili motivazioni45, si è di fatto opposto a tale diritto vivente per somministrare la propria verità di diritto costituzionale (che è, poi, quella dello sbilanciato favor per l’intangibilità della vita umana).
In ossequio alle circoscritte pretese dichiarate all’inizio del presente scritto – che sono, poi,
quelle di formulare solo qualche notazione di metodo a proposito del d.d.l. sul testamento biologico
– nessuno discute qui del merito di siffatto, pur controverso, orientamento espresso dall’aula di Palazzo Madama, bensì appunto del metodo impiegato: non poco contestabile (quando non addirittura
sleale, almeno se riguardato ex parte societatis) quando si è voluta dissimulare una vera e propria
interpretazione “correttiva” di quella adottata dalla magistratura sotto le mentite spoglie di un intervento urgente e doveroso a definitivo riempimento di un’inaccettabile lacuna legislativa.
Nessuna delle argomentazioni utilizzate a favore di un tempestivo intervento legislativo, a ben
guardare, appare definitivamente convincente: non quella della c.d. invasione di campo ad opera dei
giudici, per iniziare. Non si contano, nelle settimane precedenti all’approvazione del testo unificato
di cui ora si discorre, le voci della politica che, stizzite, si sono variamente levate a rivendicare il diritto/dovere di legiferare su materie tanto delicate o a denunziare come non si potesse più andare
avanti “a colpi di sentenza”46. Similmente, anche nell’aula parlamentare, si è a più riprese discorso
della rilevanza della funzione riservata al medico (che valorizza il ruolo a questi affidato in ragione
della professione esercitata ed in virtù del giuramento d’Ippocrate) nella prospettiva di «offrire un
sicuro quadro giuridico di riferimento ai sempre più numerosi pronunciamenti della magistratura,
molte volte intervenuti in sostituzione del medico, l’unico che disporrebbe delle competenze idonee
per poter assumere una decisione definitiva sulle terapie»47.
Ma cos’altro potrebbe decidere il cittadino innanzi ad istituzioni che – dopo ben quarantanove,
logoranti, sedute sul testamento biologico – non approdano a nulla se non di rivolgersi direttamente
alla magistratura (che, in soli nove passaggi giudiziari, risponde invece ad una domanda di giustizia
di F. Compagnoni-F. D’Agostino, Cinisello Balsamo, 2001; AA. VV., Multiculturalismo. Ideologie e sfide, a cura di G.
Galli, Bologna, 2006; M. RICCA, Oltre Babele. Codici per una democrazia interculturale, Bari, 2008, 44, nonché, da
ultimo, L. D’ANDREA, Diritto costituzionale e processi interculturali, in www.forumcostituzionale.it (e bibl. ivi).
42
Sul punto, v. almeno A. PIZZORUSSO, Minoranze e maggioranze, Torino, 1993; S. MANCINI, Minoranze autoctone e Stato. Tra composizione dei conflitti e secessione, Milano, 1996; V. COTESTA, Sociologia dei conflitti etnici. razzismo, immigrazione e società multiculturale, Roma-Bari, 1999.
43
In tal senso, ad esempio, P. BARRERA, I diritti delle minoranze nel crepuscolo degli stati nazionali, in Dem. e
dir., 1992, 65 ss., nonché G. DALLA TORRE, Bioetica e diritto, cit., 15.
44
Sul punto, v. part. R. ROMBOLI, Il caso Englaro: la Costituzione come fonte immediatamente applicabile dal
giudice, in Quad. cost., 2009, 91 ss.
45
… non ultima quella del vuoto legislativo (su cui si dirà qualcosa tra un attimo).
46
«È una affermazione che non corrisponde alla realtà, che continua a insinuare il sospetto che i giudici, affrontando nell’arco di diciassette anni la vicenda di Eluana, siano responsabili di una forzatura, abbiano creato illegittimamente diritto, invadendo il campo riservato al legislatore. La tesi di una Cassazione che si sostituisce al potere legislativo, e così viola i principi della separazione tra i poteri, era alla base del conflitto sollevato dal Parlamento davanti alla
Corte costituzionale. Ma i giudici costituzionali hanno dichiarato inammissibile il conflitto e hanno detto esplicitamente
che i provvedimenti della magistratura non sono stati usati ‘per esercitare funzioni di produzione normativa o per menomare l’esercizio del potere normativo da parte del Parlamento’ (ordinanza n. 334). I giudici, dunque, hanno agito legittimamente. E questo vuol dire che si sono serviti del diritto vigente, di norme che già esistono nel nostro sistema e
che sono adeguate per risolvere in futuro casi come quelli di Eluana»: così part. S. RODOTÀ, La via maestra, cit.
47
Così, tra i tanti, l’intervento dell’on. U. Di Giacomo, consultabile in rete all’indirizzo www.senato.it.
10
tanto dolorosamente avanzata)? In tali, drammatici, frangenti la Corte di Cassazione ha dunque fatto
l’unica cosa costituzionalmente (e ragionevolmente) consentita ad un giudice in mancanza di regole
(ma non di principi generali): e, cioè, tentare di ovviare a tale assenza mediante l’applicazione diretta di diritti costituzionali e norme di sistema al caso concreto (gli artt. 2, 13 e 32 Cost., la Convenzione per la protezione dei diritti dell’uomo e la dignità dell’essere umano riguardo alle applicazioni
della biologia e della medicina del Consiglio d’Europa del 1997, la Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea, la legge sul Servizio sanitario nazionale del 1978, le disposizioni del Codice
di deontologia medica, nonché la giurisprudenza costituzionale e quella dello stesso giudice di legittimità). Nulla più e nulla meno, insomma, di quanto fisiologicamente è accaduto – e, come visto,
accade – in altre democrazie del mondo, dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna ed alla Germania (tutte
decisioni, peraltro, meticolosamente richiamate dalla Corte di Cassazione)48.
La considerazione appena fatta non può che portare, inevitabilmente, a dubitare anche dell’altro
motivo a più riprese invocato dall’attuale maggioranza e, cioè, quello del vuoto legislativo: che, a
proposito dei dolorosi casi Welby, prima, ed Englaro, dopo, si sia insistentemente sostenuto che le
controverse pronunzie giurisdizionali abbiano evidenziato, sui temi di fine vita, un vuoto legislativo
(già moralmente) insostenibile, e che esso possa indurre una problematica disparità di soluzioni tra
cittadini, non è argomento nuovo né originale49. Ma, proprio un’attenta disamina dell’iter logicoargomentativo seguito dalla Cassazione – il quale, lungi da forzature ermeneutiche di sorta, si è
piuttosto distinto per linearità e chiarezza – starebbe a dimostrare esattamente il contrario: che, in
altre parole, esista in materia un pieno di principi e non certo un vuoto, come da tempo va sbandierando la politica, e che siffatto modo di argomentare pecchi, a tacer d’altro, di un eccesso di formalismo giuridico. «Non c’è infatti questo vuoto tant’è che i giudici, con alcune decisioni, in particolare con la sentenza cardine di tutta questa vicenda, quella della Corte di Cassazione dell’ottobre
2007, hanno potuto ricostruire con molto rigore il sistema giuridico italiano mettendo in evidenza
tutti gli elementi che già oggi, senza bisogno di una legge, consentono di arrivare alla conclusione
che si è delineata, e cioè diritto di rifiutare le cure e di morire con dignità»50: considerazioni, queste,
che nella fattispecie si dipartono dal consenso informato e dal potere della persona di disporre del
proprio corpo, da cui non può che discendere l’illegittimità di qualsiasi intervento medico sordo alla
volontà espressa dall’ammalato.
Lungi dall’apprezzare la chiarezza e completezza delle argomentazioni impiegate, il rigoroso
impianto teorico e l’equilibrio degli esiti ricostruttivi della pronunzia in parola, il Parlamento ha invece ritenuto inaccettabile quel diritto vivente – addirittura eversivo, avendo preteso di invadere le
competenze ad esso spettanti in materia51 – con ciò sconfessando, per ciò stesso, il martellante slogan del far west imperante e tradendo i suoi reali intendimenti.
Quanto appena detto, si badi, non significa quindi che in materia non si avvertisse la necessità
di un intervento regolatore, e chiarificatore, delle Camere (auspicato, anzi, già con ord. n. 334/2008
dalla stessa Corte costituzionale, la quale espressamente riconosce che «il Parlamento può in qualsiasi momento adottare una specifica normativa della materia, fondata su adeguati punti di equilibrio
fra i fondamentali beni costituzionali coinvolti»)52: solo, non con questo animus (di più o meno ve48
Così è ad esempio accaduto – solo per citare un altro drammatico caso, in tempi non lontani, salito agli onori
della cronaca – nella vicenda di Terry Schiavo, la ragazza americana rimasta per sette anni in stato vegetativo permanente, allorquando, dopo una lunga controversia che vide pure esporsi in prima persona l’allora presidente Bush, fu
proprio un giudice ad autorizzare l’interruzione dei trattamenti.
49
Così E. MAZZARELLA-P. CORSINI-P. CIRIELLO-S, ZAMPA-D. MATTESINI-R. ZACCARIA-G. MELIS, op. cit. (ma si
vedano, ex plurimis, le dense riflessioni di C. SALAZAR, Riflessioni sul “caso Englaro”, in www.forumcostituzionale.it,
nonché T. GROPPI, Il Caso Englaro: un viaggio alle origini dello Stato di diritto e ritorno, in www.astrid-online.it).
50
«Quindi io uso con prudenza, e anzi tendo a non accettare l’argomento del vuoto legislativo perche significa che
qualcuno lo ha riempito più o meno legittimamente. Quello che hanno fatto i giudici è assolutamente legittimo, conforme ai principi del nostro sistema e della nostra Costituzione, perché hanno letto tutta una serie di norme, come ci è stato
insegnato dalla stessa Corte Costituzionale, secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata»: così, ancora, S.
RODOTÀ, Caso Eluana, Costituzione violata troppe volte, in Liberazione (4 febbraio 2009).
51
… al punto tale che al Senato, come si ricorderà, si è proposto di sollevare un conflitto davanti alla Corte costituzionale per sanzionare il comportamento della Cassazione.
52
Secondo R. BIN, Se non sale in cielo, cit., più un vero e proprio monito che un semplice invito.
11
lato scontro istituzionale con la magistratura) e nemmeno con suddette motivazioni (sleali e fuorvianti nei confronti, anzitutto, dell’opinione pubblica) bastando più semplicemente riconoscere – in
spirito di leale collaborazione tra i poteri dello Stato53 – la necessità di sgravare l’ordine giudiziario
di un carico di responsabilità divenuto ormai intollerabile54.
Concludendo per l’intanto sul punto, a proposito della convenienza o meno di una normativa in
materia, molto è stato detto (e parecchio altro quasi certamente si dirà): così, a fronte di quanti hanno sostenuto che questa legge è meglio di nessuna legge, vi sono stati altri che hanno – altrettanto
giustamente – replicato che meglio sarebbe stato nessuna legge … piuttosto che questa. Quale che
sia la più convincente opinione in materia (ammesso che possa esservene, in oggetto, una “convincente”) la recente approvazione del testo di legge di cui ora si discorre, a prescindere da qualsivoglia giudizio di merito possa, poi, sul suo effettivo contenuto formularsi, rappresenta senza dubbio
un “salto di qualità” nel dibattito bioetico in Italia per il solo fatto di … esserci. Per lungo tempo,
infatti, la discussione intorno alle più dibattute questioni della fine della vita è stata, nel nostro paese, assolutamente teorica, in assenza cioè di uno specifico appiglio positivo: già per questa sola ragione, l’attuale normativa in tema di dichiarazioni anticipate di trattamento è da accogliere con favore poiché – da virtuale che era – consente all’odierno dibattito di farsi finalmente reale (di attecchire e ramificarsi, cioè, su una legge comunque esistente ed in procinto di vedere la luce)55.
3. Tempi, destinatari ed oggetto del d.d.l. sulle dichiarazioni anticipate di trattamento
Sempre per restare sul piano del metodo legislativo osservato, alcuni dettagli del passaggio
parlamentare appena conclusosi in Senato non possono non destare più d’una perplessità: i “tempi”
del d.d.l. (recte, della politica) per iniziare. Nella seduta a Palazzo Madama del 27 gennaio 2009 già
lo stesso relatore Calabrò, nel presentare una proposta di testo unificato elaborata alla luce del contenuto di tutti i disegni di legge all’esame, pur dichiarandosi consapevole che l’iter delle iniziative
in materia di dichiarazioni anticipate di volontà nei trattamenti sanitari potrebbe rivelarsi non facile
né rapido, «auspica tuttavia che i lavori della Commissione possano condurre all’approvazione di
un testo in tempi relativamente brevi e comunque idonei ad offrire una risposta tempestiva a una
questione che richiede urgente definizione normativa, in ossequio all’impegno assunto dal Senato
con l’approvazione nella seduta del 1 agosto 2008 dell’ordine del giorno G1»56.
La scelta da parte della maggioranza di approvare una disciplina in tempi parlamentari ristretti
e fortemente contingentati, di per sé, non è mai un buon viatico, specie su una materia talmente delicata: negare difatti all’aula la possibilità stessa di discutere meno freneticamente il contenuto del
53
… sebbene i rapporti tra Camere e potere giudiziario non depongano, da tempo, in tal senso: così, ex plurimis,
A. PISANESCHI, Conflitto tra Collegio inquirente e Camera dei Deputati e principio di «leale collaborazione», in Giur.
cost., 1994, 3594; A. MENCARELLI, Conflitto da menomazione, bilanciamento di interessi e principio di leale collaborazione tra autorità giudiziaria e Camere in tema d’insindacabilità parlamentare, in Giur. it., 1996, 440; A. RUGGERI,
Le opinioni insindacabili dei parlamentari davanti alla Corte: connotati e criteri formali-sostanziali di riconoscimento,
al crocevia dei rapporti tra diritto costituzionale e “diritto politico”, in Giur. it., 2000, 1110 ss.; R. BIN, Il principio di
leale cooperazione nei rapporti tra poteri, in Riv. dir. cost., 2001, 6; P. VERONESI, Il «caso Cito»: funzione parlamentare e giurisdizione (ancora) in conflitto, in Giur. cost., 2002, 990 s.; S. BARTOLE, Consiglio superiore della magistratura
e Ministro della giustizia: bilanciamenti legislativi e bilanciamenti giudiziali, in Giur. cost., 2004, 3906; B. PEZZINI,
Leale collaborazione tra ministro della giustizia e C.S.M. alla prova: chi controlla il concerto?, in Giur. cost., 2004,
3914; P. VERONESI, Il “caso Cito”: la Corte, i conflitti e il giudicato, in Dir. e giust., 2004, 12 ss.; A. RUGGERI, La Corte e le sirene della politica (frammenti di uno studio su esperienze e tendenze della normazione e politicità dei giudizi di
costituzionalità), in AA.VV., Corte costituzionale e processi di decisione politica, a cura di V. Tondi della Mura-M.
Carducci-R.G. Rodio, Torino, 2005, spec. 672 ss.
54
Dell’enorme responsabilità, giuridica e morale, addossata sulle spalle dei pratici (e, segnatamente, dei giudici)
discorre, esemplificativamente, A. RUGGERI, Il testamento biologico e la cornice costituzionale (prime notazioni), in
www.forumcostituzionale.it.
55
Questo, almeno, in linea di principio: non altrettanto lusinghiero può dirsi, invece, il giudizio scendendo al piano
delle singole opzioni normative (delle quali però, come anticipato nelle pagine precedenti, non si dirà).
56
Così, l’on. R. Calabrò, relazione di maggioranza al nuovo testo unificato del 27 gennaio 2009 (corsivi non testuali).
12
testo all’esame, significa infliggere un nocumento irreparabile allo stesso valore democratico che,
proprio su tali scottanti questioni, dovrebbe essere esaltato anziché depresso. Tappe forzate, prima,
e minaccia della fiducia, poi, non hanno fatto che negare insomma il c.d. diritto al dissenso dei parlamentari della maggioranza «perché il dissenso non è solo dire un sì o un no, ma la possibilità di
argomentare, di discutere in quel foro democratico che continuiamo a chiamare Parlamento»57.
Abbandonando poi il piano, più conosciuto e certo, del diritto positivo per avventurarsi su quello, molto più sdrucciolevole ed infido, della intentio del legislatore – operazione, questa, pur sempre
rischiosa per il giurista – il solo dato, per così dire, cronologico già parrebbe inevitabilmente prestarsi ad una duplice interpretazione: se, in bonam partem, potrebbe infatti sostenersi di esser di
fronte alla più classica ipotesi di legge “del sangue” – dettata, cioè, dalla reazione emotiva ad un episodio di cronaca particolarmente doloroso e destabilizzante per la coscienza collettiva – in malam
partem potrebbe, viceversa, ritenersi non poco sospetta la fretta del relatore Calabrò e della maggioranza che questi rappresenta. A dirla tutta, anche la prima, benevola, interpretazione, non è che vada
esente da osservazioni critiche giacché – dopo anni di silenzio legislativo – preferibile sarebbe stato
per il legislatore assumere una certa “distanza emotiva” dalla vicenda di cronaca al fine di approvare un testo meglio meditato e ponderato58. Ma è ad ogni modo la seconda opzione – come si accennava un momento fa – a destare i maggiori dubbi (almeno sub specie della strumentalizzazione politica): di aver voluto approfittare, in altri termini, del particolare clamore mediatico, del fremito
emotivo che ha lungamente percorso l’opinione pubblica, per far passare norme particolarmente restrittive che, in un altro momento ed in un’altra congiuntura, ben poche chances avrebbero obiettivamente avuto di esser approvate59.
E questo solo per restare ai “tempi”: perché, ripercorrendo il testo in attesa della definitiva stesura, non si è mai davvero abbandonati dalla poco rassicurante sensazione che esso risulti eccentrico anche rispetto al reale “destinatario” della nominata disciplina; che, sarebbe bene rammentarlo,
non è – quantomeno non doveva esserlo – il singolo protagonista di un caso giudiziario, per quanto
straziante e doloroso, ma piuttosto l’intera comunità dei consociati. Con almeno due, importanti, ricadute al fine di evitare l’approvazione di una sorta di legge-fotografia scattata sul caso Englaro: a)
necessità di varare un testo non ideologicamente schierato ma per tutti (credenti e non); b) votazione non “a colpi di maggioranza” ma con la maggior convergenza possibile alle condizioni storicamente e politicamente date60 (come sempre dovrebbe avvenire, del resto, in punto di diritti fondamentali)61.
“Tempi” e “destinatari” a parte, davvero rivelatori del bilanciamento voluto dal legislatore – ed
illuminanti sulle intenzioni da questo realmente perseguite – rimangono ad ogni modo “oggetto” e
“drafting” del disegno di legge in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento. Quanto all’oggetto dell’attuale disciplina, una nutrita (ed invero confortante) serie di riferimenti avrebbero dovuto confermare con un buon margine di sicurezza la consolidata esistenza di un diritto a rifiutare le cure da parte dell’ammalato, almeno nel suo an:
57
Così, efficacemente, S. RODOTÀ, Lo tsunami costituzionale, in Repubblica (9 febbraio 2009).
«‘Mai più un tribunale emetta sentenze di condanna a morte’. È con questo ossessivo slogan che il centro-destra,
con prepotenza e aggressività, ha voluto approvare la legge sulle dichiarazioni anticipate di volontà. Una legge sbagliata, votata senza ascoltare nessuno, ignorando le obiezioni più ovvie. Era forse inevitabile che nella discussione pesasse
la drammatica vicenda di Eluana Englaro, ma è un errore gravissimo dare al Paese una norma fondata sull’ideologia e
sull’emotività»: così ad esempio I. MARINO, Come si uccide il testamento biologico, in L’Unità (27 marzo 2009).
59
«Non si persegue una legislazione necessaria, si cerca una rivincita. Per questo, per creare un clima di allarme e
così imporre una legge che limiti quel diritto all’autodeterminazione della persona già riconosciuto dalla Costituzione e
da altre norme, si dipingono i giudici come assassini e eversori. È una vecchia tecnica, che produce solo cattive leggi e
inammissibili restrizioni dei diritti» (così S. RODOTÀ, La via maestra, cit.).
60
In tal senso, A. RUGGERI, Il testamento biologico, cit.
61
Della qual cosa, tuttavia, il Parlamento, dopo un iniziale, timido, ravvedimento pare essersi strada facendo dimenticato: «Il relatore Calabrò (PdL), in replica alle considerazioni emerse nel corso della discussione generale congiunta, evidenzia l’ampio apporto offerto da tutte le forze politiche, dei Gruppi di maggioranza e di opposizione, che ha
arricchito il dibattito fornendo utili spunti in campo antropologico, filosofico, medico e tecnico-giuridico, che intende
considerare ai fini dell’elaborazione di una disciplina ampiamente condivisa» (così, ancora, relazione di maggioranza al
nuovo testo unificato, cit.).
58
13
col che, al Parlamento non sarebbe dovuto rimanere che prenderne atto definendone semplicemente
i contorni mediante la regolamentazione del semplice quomodo.
Il dato costituzionale, in primis: già lo stesso impianto di una Carta basata sulla centralità della
persona – che non casualmente si apre con la solenne proclamazione dell’habeas corpus all’art. 13
– starebbe infatti con forza a testimoniare «il valore costituzionale dell’inviolabilità della persona
(…) come libertà nella quale è postulata la sfera di esplicazione del potere della persona di disporre
del proprio corpo»62 e, dunque, come diritto d’impedire illegittime intromissioni altrui63. Né questo
approdo interpretativo potrebbe ragionevolmente escludersi per il diverso caso del malato non più
cosciente giacché «la Costituzione non limita in alcun passaggio la libertà personale, la sua inviolabilità e il diritto a non vedersi somministrare trattamenti sanitari non acconsentiti al momento in cui
si è capaci di intendere e di volere. In sostanza non è ricavabile da nessuna norma, neanche implicita, la regola per cui una volta perduta coscienza si perda anche la libertà di autodeterminazione»64: a
volerla pensare diversamente, del resto, non si farebbe che acconsentire ad un’inaccettabile discriminazione ex art. 3 Cost. tra soggetti ugualmente ammalati per il solo fatto dell’incoscienza.
Ma, a favore dell’an del diritto in discorso, non starebbe solo il solido puntello piantato dall’art.
13 Cost., considerato che alle medesime conclusioni è pervenuto pure il diritto giurisprudenziale
“vivente” – non solo, com’è risaputo, all’indomani del caso Englaro ma, emblematicamente – anche
prima delle note vicende giudiziarie: in tal senso aveva già concluso, ad esempio, la Corte di Cassazione medesima quando, pur ribadendo che «quanto più è elevato il rischio che la malattia degeneri
in un evento grave, tanto più il medico deve prospettare con chiarezza la situazione di pericolo al
paziente ed insistere affinché egli si sottoponga alle cure adeguate», aveva rigettato il ricorso del
pubblico ministero stabilendo che «tale insistenza non può sfociare in una azione impositiva contro
la volontà della persona ammalata»65 (sul punto, richiamare poi per intero il ragionamento successivamente seguito dal giudice di legittimità sul caso Englaro sarebbe sin troppo lungo e, in questa sede, neppure utile)66.
In una così ampia ed articolata cornice di principi a favore del diritto di rifiutare le terapie (anche non costituzionali), dal Parlamento ci si sarebbe insomma aspettato l’intendimento di mettere
mano ad un, più o meno ricco, affresco di regole semplicemente a dettaglio del migliore esercizio
del suddetto diritto. Impellente non era, cioè, creare dal nulla nuovi principi a governo della materia
ma – più pianamente – portare a completa esecuzione-specificazione quelli già espressi in nuce dalla Carta costituzionale67 giacché numerosi e variegati sono gli aspetti operativi ancora in attesa di
62
Così spec. Corte cost., sent. n. 471/1990 (punto 3 cons. dir.).
Sul punto, ad esempio, P. VERONESI, Il corpo e la Costituzione, Milano, 2007, spec. 10 ss.
64
Così L. CARLASSARRE, op. cit.; sul punto, di recente, C. CASONATO, Riflessioni sul fine vita. La tutela multilivello dell’autodeterminazione individuale, in www.astrid-online.it.
65
Per questo riferimento alla pronunzia della IV sez. penale (4 luglio 2005) v. nuovamente L. CARLASSARRE, op.
cit.
66
Sul punto, ex plurimis, v. G. ANZANI, Consenso ai trattamenti medici e “scelte di fine vita”, in Danno e resp.,
2008, 957 ss.; M. AZZALINI, Tutela dell’identità del paziente incapace e rifiuto di cure: appunti sul caso Englaro, in
Nuova giur. civ. comm., II, 2008, 331 ss.; M.C. BARBIERI, Stato vegetativo permanente: una sindrome “in cerca di un
nome” e un caso giudiziario in cerca di una decisione. I profili penalistici della sentenza Cass. 4 ottobre 2007 sez. I civile sul caso di Eluana Englaro, in Riv. it. di dir. e proc. pen., 2008, 389 ss.; F. BONACCORSI, Rifiuto delle cure mediche
e incapacità del paziente: la Cassazione e il caso Englaro, in Danno e resp., 2008, 432 ss.; F.D. BUSNELLI, Il caso Englaro in Cassazione, in Fam., pers. e succ., 2008, 968 ss.; E. CALÒ, Caso Englaro: la decisione della Corte d’appello di
Milano. Corte d’appello di Milano, sez. I, 9 luglio 2008, decr. Tribunale di Modena 13 maggio 2008, in Corr. giur.,
2008, 1281 ss.; C. CASINI-M. CASINI-E. TRAISCI-M.L. DI PIETRO, Il decreto della corte di Appello di Milano sul caso
Englaro e la richiesta di una legge sul c.d. testamento biologico, in Medicina e morale, 2008, 723 ss.; F. M. AGNOLI, La
sentenza Englaro & i limiti della “supplenza legislativa”, in St. cattolici, 2009, 16 ss.; G. CORRADO, La chiesa sul caso
Englaro: un’altra invasione di campo, in Il ponte, 2009, 45 ss.; F. MANTOVANI, Un’esecuzione con tanto di regolamento, in Avvenire (5 febbraio 2009), nonché, più di recente, i contributi di R. ROMBOLI, op. cit., A. STEFANI, Il caso Englaro: le due Corti a confronto, e C. CASONATO, Il caso Englaro: fine vita, il diritto che c’è, tutti in Quad. cost., 2009,
rispettivamente, 91 ss., 95 ss. e 99 ss.
67
Così pure l’on. I. Marino (relazione di maggioranza, cit.) il quale, dopo aver evidenziato come il tema del testamento biologico sia ormai all’attenzione del Parlamento da diversi anni, sottolineava che «il compito cui si trova di
63
14
una più puntuale e (questa, sì) tempestiva regolamentazione: si pensi, sol per fare un esempio, alle
concrete modalità di espressione della volontà del malato la quale i giudici di legittimità del caso
Englaro ritengono di poter ricostruire con testimonianze di parenti o rappresentanti pur in mancanza
di un espresso documento scritto68. Ma non solo: basti porre, solo per un attimo, mente al rovente
dibattito a proposito della più giusta “forma” da dare alla stessa volontà (anche al precipuo scopo di
scongiurare eventuali contrasti coi familiari o col medico) oppure alla, altrettanto scottante, questione della possibilità del minore di redigere il proprio living will per rendersi effettivamente conto del
grumo di questioni irrisolte che ancora si agitano ed aggrovigliano sotto la pelle dell’istituto stesso
del testamento biologico (senza dire di quelle ancora sottese alla durata ed attualità di esso)69. Una
legge “leggera” che si fosse limitata alle sole modalità di esercizio del diritto – senza pure pretendere di prendere partito (di fatto accerchiandolo e mettendolo sotto scacco) per un diritto ormai quesito – meglio avrebbe dunque servito le ragioni di certezza dell’ordinamento nei drammatici casi prospettati dalla vita concreta70.
Ben lungi dall’attuare con legge un diritto già costituzionalmente consolidato pare intravedersi,
in sintesi, un legislatore intenzionato più a sgombrare il terreno da un “pieno” di diritti che desideroso invece d’integrarlo con poche, semplici, norme tecniche a contorno; dal che, non vi è chi non
paventi, in simile scelta legislativa, il non remoto rischio di una vera e propria “restaurazione” sul
campo di diritti sin ora ritenuti al riparo da eventuali colpi di mano: nel senso, cioè, di un regresso
rispetto a ciò che, ad oggi, sia consentito ai cittadini (ovvero, poter rifiutare le cure in diverse forme)71. Revisione costituzionale di fatto, questa, che starebbe progressivamente prendendo corpo in
almeno due operazioni cronologicamente distinte (e distinguibili): per un verso, con la sostanziale
rimozione dei medesimi principi contenuti nella parte prima della Costituzione e, per un altro, mediante la strisciante sostituzione di essi con un’altra tavola di valori, frutto delle sole prescrizioni di
una parte cattolica, imposta autoritativamente e non negoziabile giacché «espressione di verità non
discutibili». Ciò di cui si avvertiva – e si sente tutt’ora – la mancanza rimane, invece, una legge che
si mostri rispettosa di principi e diritti costituzionali, non già «l’ennesima disciplina che, in nome di
“principi non negoziabili” professati da alcuni, pretenda di imporli a tutti, opprimendo la sfera di
autonomia che l’art. 2 della Cost. riconosce ad ognuno»72: un testo, in altri termini, in funzione (non
involutiva ma) evolutiva dei diritti fondamentali della persona umana a mezzo di una ragionevole
fronte il legislatore non è tanto quello di creare nuovi principi, ma di attualizzare quelli consacrati nella Costituzione, a
partire dall’articolo 32 della Costituzione».
68
Sul punto, L. CARLASSARRE, op. cit.
69
Fin quando, cioè, la volontà espressa parecchio prima di un evento infausto può dirsi realmente attuale? Sul punto, L. CARLASSARRE, op. cit., ritiene ad esempio che «nei termini di una più dettagliata regolazione di un diritto già presente nel nostro sistema giuridico al fine di renderlo meglio esercitabile, una legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento appare allora auspicabile». Per altro verso, tuttavia, la tradizionale obiezione dell’attualità del consenso prestato
rischia di provare troppo «perché non consentirebbe in alcun caso di dare rilievo alle DAT, con specifico riguardo al
caso di sopravvenuta perdita della coscienza. Verrebbe, dunque, a realizzarsi un bilanciamento… squilibrato (e, perciò,
un “non-bilanciamento”) tra i valori in campo, tra i quali – non si dimentichi – v’è pur sempre quello di autodeterminazione» (così A. RUGGERI, Il testamento biologico, cit.).
70
Particolarmente delicato, infatti, il modo in cui l’individuo esprima la propria volontà giacché esso dev’essere
tale da poterla effettivamente ricondurre alla persona interessata e da chiarire effettivamente quali siano le volontà nel
caso che si presenta al medico che è chiamato a tenerne conto. «È significativo il questo senso il recente caso della persona testimone di Geova che, coinvolta in un incidente, perde repentinamente coscienza e viene condotta in ospedale,
dove si rende necessaria una trasfusione di sangue. Il paziente in questo caso reca nel portafoglio una tesserina nella
quale è scritto semplicemente “niente sangue”, formula sottoscritta dall’interessato in presenza di due testimoni. In questo caso i giudici (Cass. n. 23676 del 15 settembre 2008) hanno dato ragione ai medici che, vista l’urgenza, hanno comunque effettuato la trasfusione» rilevando «soltanto la inadeguatezza del cartoncino in cui è scritto “niente sangue” a
rappresentare in modo inequivoco la volontà del paziente in un caso come quello che si è verificato»: così ancora L.
CARLASSARRE, op. cit.
71
Così, S. RODOTÀ, La via maestra, cit. secondo cui «Il rischio è evidente. Quella legge può divenire l’occasione
per fare un passo indietro, per restringere diritti che già ci appartengono. I chiarimenti sono benvenuti. Ma, ferma restando la legittimità delle opinioni e delle scelte diverse di ciascuno, nessuno può essere espropriato della sua dignità, e
non può essere imposta una regressione culturale e istituzionale»; ma, nel senso di un testo che vorrebbe rimettere in
gioco diritti “sicuri” (con un, pericoloso e incostituzionale, ritorno indietro), pure L. CARLASSARRE, op. cit.
72
Così part. R. BIN, Se non sale in cielo, cit.
15
mediazione/bilanciamento tra di essi (appunto, tra la vita e la libertà di scelta del malato). Non si
dimentichi, del resto, che a tracciare la rotta del Parlamento debba, sempre e comunque, rimanere la
stella polare della Costituzione (rispetto alla quale, sola, esso deve dimostrare la compatibilità delle
proprie scelte)73.
4. (Segue): sparse notazioni sul drafting legislativo
A ideale completamento di questo, pur stringato e succinto, compendio di notazioni metodologiche non può, da ultimo, mancare qualche sparsa considerazione sul drafting legislativo impiegato
(anch’essa strettamente intrecciata, a doppio filo, con quelle appena svolte in ordine, rispettivamente, a “tempi”, “destinatari” ed “oggetto” della presente disciplina).
Che si sia caparbiamente prediletta la strada dell’hard law – di una disciplina, cioè, minuziosa e
dettagliata, appesantita più da divieti e doveri74 che non connotata da permessi e diritti, ispirata al
formalismo e meccanicismo più esasperati che non all’ampiezza ed elasticità delle procedure – basta la superficiale lettura di qualche articolo per rendersene con immediatezza conto (per non dire
della più generale confezione normativa, in più luoghi lacunosa, incomprensibile … quando non di
scadente qualità e dozzinale fattura): aspetti linguistici e categorie concettuali del testo – ancor prima delle stesse scelte di valore ad esso sottese – lo rendono di fatto inapplicabile, ponendo in evidenza l’impraticabilità del sistema75. Senza diffondersi, ora, più di tanto sul punto – e dire che di
emblematici esempi potrebbero farsene parecchi altri – dal punto di vista precipuamente metodologico (che si è espressamente scelto sin dal principio di assumere) tale contorto e restrittivo linguaggio legislativo non può che tradire una malcelata diffidenza del Parlamento proprio nei confronti di
quelle categorie sulle quali formalmente dichiara di fare maggior affidamento e che, nel trattamento
dei pazienti in fin di vita, si trovano quotidianamente in prima linea.
Nei confronti del medico, anzitutto: al di là dell’insistito richiamo all’alleanza terapeutica con
l’ammalato – tanto sbandierato quanto, sia consentito scriverlo, ipocrita – ci si è, difatti, fidati a tal
punto di questi che si è in primo luogo sentito il bisogno, all’art. 7, comma 2 (Ruolo del medico) di
pre-orientarlo (recte, ingabbiarlo) in un fitto reticolato di criteri-guida oscillanti tra lo scontato ed il
mortificante per la stessa dignità e professionalità dell’intera categoria: scontate, le prescrizioni che
73
«Si possono certo discutere le modalità secondo le quali il rifiuto di cure può essere manifestato in vista di una
incapacità futura. Ma non si può cancellare quel dato considerandolo incompatibile con ‘le radici cristiane della nostra
cultura’. Sarebbe gravissimo se il Parlamento seguisse questa impostazione. L’unica incompatibilità da tener presente,
discutendo una legge, è quella che riguarda norme e principi costituzionali. Guai se alla Costituzione venisse sostituita
qualsiasi tavola di valori ad essa esterna» (così S. RODOTÀ, Sul testamento biologico si segua la Costituzione, in Repubblica, 5 ottobre 2008).
74
… sebbene sia stato, ancora da ultimo, con forza rimarcato come lo stesso art. 2 faccia menzione, oltre che dei
diritti, dei doveri inderogabili di solidarietà: «doveri che – con riguardo ai casi di cui ora discutiamo – gravano su tutti,
pur se con diversità di forme e di effetti» (così A. RUGGERI, Il testamento biologico, cit.). Dal che – prosegue l’autore –
è certo che tra i diritti e i doveri di cui alla disposizione suddetta «non può esservi separazione netta: se vi fosse, verrebbe meno senza riparo la stessa “costituzionalità” della… Costituzione». Più ampiamente sui doveri costituzionali si v.,
almeno, A. SPADARO, Dai diritti “individuali” ai doveri “globali”, cit. e ID., Dall’indisponibilità (tirannia) alla ragionevolezza (bilanciamento) dei diritti fondamentali. Lo sbocco obbligato: l’individuazione di doveri altrettanto fondamentali, in Pol. dir., 2006, 167 ss., nonché i contributi di AA.VV., I doveri costituzionali: la prospettiva del giudice delle leggi, a cura di R. Balduzzi-M. Cavino-E. Grosso-J. Luther, Torino, 2007 (sul rilievo dei doveri nel rapporto medicopaziente, in una prospettiva non strettamente giuridica, cfr., ex multis, M. GENSABELLA FURNARI, Introduzione al Convegno, in AA.VV., Alle frontiere della vita. Eutanasia ed etica del morire, II, a cura della stessa M. Gensabella Furnari,
Soveria Mannelli, 2003, spec. 23).
75
Così, già a proposito dell’originaria versione del d.d.l. Calabrò, «qual è il significato di “prioritaria” assegnato
alla alleanza terapeutica? Cosa significa che tale alleanza acquista “peculiare valore” e “proprio” alla fine della vita? Si
può dire “al prodursi e consentirsi”? Si può scrivere “e/o” nel precetto normativo?»; la medesima «dichiarazione anticipata di trattamento – scritta con caratteri maiuscoli (?) – meriterebbe dettagliate considerazioni di natura lessicale e concettuale, riguardanti i suoi contenuti e i suoi “limiti” (art. 5 ss.)»: in tal senso, cfr. part. G. ALPA, Il disegno di legge sul
testamento biologico: note lessicali, in www.astrid-online.it (con riferimento alla, più generale, oscurità delle leggi nei
tempi in cui viviamo può sempre vedersi, comunque, l’ormai classico M. AINIS, La legge oscura. Come e perché non
funziona, Roma-Bari, 1997).
16
ingiungono al medico di valutare le volontà espresse dalla persona nella sua dichiarazione anticipata
di trattamento «in scienza e coscienza, in applicazione del principio dell’inviolabilità della vita umana e della tutela della salute, secondo i principi di precauzione, proporzionalità e prudenza»
(quasi come se, ordinariamente, l’attività medica non si ispirasse a siffatti, irrinunziabili, principi); a
dir poco mortificanti, invece, quando arrivano addirittura ad imporgli di non «prendere in considerazione indicazioni orientate a cagionare la morte del paziente o comunque in contrasto con le norme giuridiche o la deontologia medica» (instillando il tarlo di una categoria professionale, nella migliore delle ipotesi, ignorante delle norme giuridiche e di deontologia e, nella peggiore, tendenzialmente pre-orientata da una sorta di “cultura della morte”).
Senza considerare come, all’art. 3, comma 3 (Contenuti e limiti della dichiarazione anticipata
di trattamento) si sia ritenuto il medico addirittura capace con disinvolta leggerezza di somministrare cure “sproporzionate” al paziente, al punto da prevedere espressamente che nella dichiarazione
anticipata di trattamento possa solo «essere esplicitata la rinuncia da parte del soggetto ad ogni o ad
alcune forme particolari di trattamenti sanitari in quanto di carattere sproporzionato o sperimentale»
(lasciando, pure in siffatta occasione, passare la perniciosa idea del medico quale redivivo dottor
Frankenstein dei tempi moderni ordinariamente dedito ad inconfessabili sperimentazioni sul corpo
indifeso del morente): l’errore prospettico in cui si è incappati sta, probabilmente, a monte giacché
nessun legislatore – e, dunque, nessuna legge – può autoritativamente pretendere di trasformare i
medici in altrettanti “megafoni” di un’ideologia politica (né tanto meno religiosa) qualunque essa
sia76.
E questo solo per limitarsi alla classe medica: ma non è che il ruolo professionale ed umano del
magistrato sia degno di maggior rispetto, anzi. Lo si è detto d’altro canto, apertis verbis, a Palazzo
Madama lo scorso 26 marzo 2009, nella sessione pomeridiana delle dichiarazioni di voto, allorquando autorevole esponente della maggioranza, dopo aver ammesso che «la maggior parte di noi,
partendo da convincimenti diversi (…) concorda sul fatto che su questo tema non si sarebbe dovuto
legiferare», ebbe, senza mezzi termini, a dire che «a sfidare il legislatore è stata la magistratura, con
interventi che abbiamo giudicato al di fuori dell’ordinamento»77. Come si anticipava supra, una sortita a bruciapelo come quella sferrata dalla politica proprio su un campo talmente delicato come
questo dei trattamenti di fine-vita non può non apparire a dir poco immeritata (se non menzognera):
immeritata, perché non intende riconoscere l’insostituibile ruolo sussidiario di un Parlamento latitante assolta in tutti questi anni dalla magistratura; non sincera e menzognera giacché – piuttosto
che ammettersi innanzi all’elettorato le proprie mancanze – si incolpano i giudici di aver svolto una
funzione che ad essi era comunque imposta dall’ordinamento (amministrare la giustizia nel caso
concretamente sottopostole) e di aver, persino, spogliato le Camere delle proprie attribuzioni78.
Suona tanto, insomma, di stravagante: del paradosso, cioè, del peccatore di omissione che scaglia la
pietra su chi è vittima della sua stessa inazione79.
76
Così, sul diverso campo della riproduzione assistita, S. CECCANTI, Procreazione assistita: i 4 significati della
sentenza della Corte, in La Stampa (2 aprile 2009): ma su somiglianze e divergenze tra le due discipline si tornerà, più
approfonditamente, infra.
77
Così on. G. Quagliariello, Vicepresidente vicario del gruppo PdL.
78
«Che difesa è quella per la quale anziché fare leggi si denunciano i giudici che in assenza di leggi sono comunque chiamati a dare giustizia ai cittadini? E questo proprio da parte di coloro che sin qui si sono risolutamente opposti a
fare una legge in questa materia»: così, ragionevolmente, S. CECCANTI, Il Parlamento dei mille ricorsi, in L’Unità (19
luglio 2008).
79
«Il ragionamento proposto dai promotori dell’iniziativa prescinde purtroppo da quanto Aristotele diceva a suo
tempo sulla natura e che è applicabile perfettamente al diritto. Il grande filosofo faceva rilevare che quando da un luogo
veniva tolta la materia preesistente, lo spazio veniva immediatamente riempito da nuova materia. La nostra Costituzione, ad esempio, vieta all’articolo 32 i trattamenti sanitari obbligatori: il caso in questione rientra o no in questa definizione? Dove troviamo criteri chiari per individuare la volontà di un malato? In Parlamento, nel Paese e quindi anche tra
i giudici si danno risposte diverse: è evidente che se il Parlamento non approva una legge che fa una qualche scelta includendo o escludendo alcune tipologie di cura in quella nozione, chiarendo le modalità con cui dare un consenso, ogni
giudice sarà costretto a scegliere direttamente l’una o l’altra interpretazione. Qualcuno sarà convinto di quanto deciso
dal giudice A, qualcun altro dal giudice B, ma non c’è in nessun caso sconfinamento né una particolare interpretazione
che si possa definire creativa, dato che, in qualsiasi senso il giudice decida, è stato lasciato solo. Si tratta solo di un pro-
17
Eppure, quello delle tendenziale sfiducia nei confronti dell’ordine giudiziario non sarebbe
nemmeno il sentimento più grave che è parso qui e là trapelare nella maggioranza che ha approvato
il d.d.l. (ma solo il più vistoso): v’è infatti un altro convincimento a stento trattenuto, meno visibile
ma decisamente più pericoloso per lo stesso principio di separazione dei poteri complessivamente
inteso giacché i suoi effetti prescindono dalla proposta di legge in esame per ridondare parecchio
più lontano da essa. Per l’ennesima volta, quanti ci governano sembrano tradire un’idea (quantomeno) anacronistica del magistrato, illuministicamente inteso quale mera bouche de la loi dimenticando che una legge – qualunque legge (anche la più restrittiva e proibizionista) – va sempre adeguata
dall’interprete al caso concreto: più accettabile per uno Stato che aspiri a dirsi propriamente costituzionale80, dunque, la proposta di tenersi ragionevolmente a distanza dall’estremo, rispettivamente,
di considerare l’interprete quale mera “cassa di risonanza” di una volontà legislativa in procinto solo
di esser disvelata, per un canto, e di ritenerlo libero “creatore” di un diritto che rinnova se stesso ad
ogni piè sospinto (a seconda dalla personalità di chi lo produce) per un altro81; così, domani – cioè,
anche a legge definitivamente approvata – pure la complessa materia dei trattamenti di fine-vita non
potrà che inevitabilmente risentire del complessivo apporto di legislatore ed interpreti sebbene, questi
ultimi, entro gli interstizi lessicali concessigli dal primo (a seconda, insomma, della struttura nomologica da esso prescelta per confezionare i propri atti)82.
5. Tra molteplici conclusioni destruentes …
Non è affatto semplice – all’esito di queste poche notazioni di metodo sulla disciplina appena
varata in Senato – formulare, nelle poche righe che restano, un giudizio complessivo: volendo sintetizzare con l’immediatezza propria di una battuta, potrebbe dirsi che sulle c.d. questioni eticamente
sensibili si è nuovamente in presenza di una proposta di legge nata bene… e finita male. Anni ed
anni di fiduciose speranze, e logoranti aspettative, non sono evidentemente bastati, difatti, ad evitare
che il legislatore approvasse una normativa – a tacer d’altro – poco sincera, tendenzialmente fuorviante, contraddittoria e discriminatoria nei suoi esiti ultimi.
Non sincera, anzitutto: e non perché frutto dell’approvazione di una maggioranza eterogenea
né di laboriosi compromessi politici – come potrebbe, ictu oculi, ritenersi – quanto, piuttosto, perché espressiva di una maggioranza sleale che dichiara di perseguire certi fini occultandone maliziosamente di ben altra fatta. Così, in primo luogo, si addossano tutte le colpe della contingenza in atto
ad altri per dissimulare maldestramente le proprie (quando non per avallare furbescamente un pericoloso, ed illuministico, ritorno ad uno squilibrato rapporto tra disposizione e norma)83; si afferma,
in seconda battuta, di voler colmare un vuoto di normativa ormai inaccettabilmente protrattosi per
troppi anni per mascherare, in realtà, una vera e propria ritorsione nei confronti di un diritto vivente
evidentemente ritenuto eccessivamente progressista ed avanzato in tale materia (scelta del Parlamento, senza ombra di dubbio, pienamente legittima ma, proprio per ciò, perché non apertamente
dotto del peccato di omissione del legislatore che dovrebbe rimediare con la legge, se ci riesce. In ogni caso non può
rifarsi con un conflitto contro coloro che, a differenza del legislatore, si sono dovuti assumere necessariamente la responsabilità di decidere»: così, ancora, S. CECCANTI, Il Parlamento, cit.
80
… almeno nel senso elaborato, per tutti, da P. HÄBERLE, Lo Stato costituzionale, Roma, 2005 e, in Italia, da G.
ZAGREBELSKY, Il diritto mite. Legge diritti giustizia, Torino, 1992.
81
Così part. A. RUGGERI, Fonti, norme, criteri ordinatori. Lezioni, Torino, 2005, 17 s.
82
In argomento, con specifico riguardo al linguaggio della Costituzione, v. almeno G. SILVESTRI, Linguaggio della Costituzione e linguaggio giuridico: un rapporto complesso, in Quad. cost., 1989, 229 ss.; L. MENGONI, Il diritto costituzionale come diritto per principi, in Ars interpretandi, 1996, 95 ss.; V. ANGIOLINI, op. cit.; A. POGGI, Il sistema
giurisdizionale tra “attuazione” e “adeguamento” della Costituzione, Napoli, 1995, spec. 248 ss.; M. DOGLIANI, Diritto
costituzionale e scrittura, in Ars interpretandi, 1997, 103 ss., nonché, in rapporto alla estensione della “materia” costituzionale ed ai modi della sua disciplina da parte di regole di diritto costituzionale sia scritto che non scritto, A.
RUGGERI, La Costituzione allo specchio, cit.; ID., Scrittura costituzionale e diritto costituzionale non scritto, in Dir.
soc., 2004, 237 ss.
83
Su cui i magistrali insegnamenti di V. CRISAFULLI , nelle voci Atto normativo e Disposizione (e norma), in Enc.
dir., rispettivamente, IV (1959), 238 ss. e XIII (1964), 195 ss.
18
espressa?84); si dichiara, infine, di non voler procedere ad una revisione del consolidato principio
del consenso informato ma, contestualmente, si fa esattamente il contrario licenziando una disciplina il cui eventuale varo definitivo rischia di portare ad esiti assolutamente paradossali (quando, per
esempio, la medesima manifestazione di volontà del malato in ordine alla non attivazione od interruzione delle terapie mediche venga concessa, o negata, dalla proposta di legge a seconda dello stato di coscienza od incoscienza in cui versi il malcapitato paziente). Quanti, a questo punto, accusassero un’inspiegabile sensazione di déjà vu andrebbero senz’altro rassicurati: ciò dipende, verosimilmente, dal fatto che non diversamente andarono le cose solo qualche anno addietro con la legge
n. 40/2004 quando – pur formalmente dichiarando di non voler revisionare la normativa
sull’interruzione volontaria della gravidanza – un Parlamento non meno malizioso ed attrezzato introdusse talune prescrizioni in palese contraddizione con essa (per tutte, quella di cui all’art. 6,
comma 3, il quale vieta la revoca del consenso dopo la fecondazione)85.
Non si tralasci peraltro che, nella sua originaria stesura, il d.d.l. Calabrò non solo non prevedeva alcun avanzamento del principio del consenso per il soggetto che si fosse successivamente trovato in stato d’incoscienza ma addirittura contemplava un inaccettabile regresso nei confronti dello
stesso ammalato cosciente che si fosse espresso nel senso del rifiuto delle terapie mediche: per
quest’ultimo, infatti, l’esito era quello della sostanziale impossibilità di veder rispettato il proprio
rifiuto di cure o la richiesta della loro sospensione, in palese dispregio del dettato costituzionale86. A
seguito delle roventi polemiche che hanno letteralmente infiammato i lavori parlamentari – prima
ancora delle vere e proprie arene mediatiche per l’occasione allestite – siffatta disposizione si è improvvisamente, e fortunatamente, dissolta in una bolla di sapone ma, anche così, il testo che ne risulta non è che brilli per apertura e flessibilità già in ordine al modo di configurare le modalità del
rispetto del consenso informato87.
Quello in parola si dimostra, poi, un testo fuorviante giacché pare – neanche tanto velatamente
poi – suggerire una visione talmente manipolata e distorta del valore costituzionale della salute, inopinatamente convertito da baluardo dell’autodeterminazione consapevole ad arma impropria rivolta contro tutti (e, in particolare, lo stesso ammalato), da travolgere chiunque si sia sfortunatamente parato sul suo cammino88. Basti pensare alla categoria dei medici e, più in generale, del personale sanitario per convincersene (aspramente limitata nella propria libertà di coscienza e prepo84
O, forse, dovrebbe provocatoriamente concludersi che la medesima maggioranza politica – pressoché nello stesso tempo in cui la varava – scorgeva già nitidamente la formale legittimità ma l’intrinseca irragionevolezza della normativa che approvava?
85
Qui si assisterebbe, addirittura, ad una sorta di “giallo” legislativo: come altro definire, infatti, la vicenda di una
legge che, alla norma suddetta, vieta il ripensamento dopo la fecondazione (di fatto una vera e propria volontà interruttiva della gravidanza) e contemporaneamente, all’art. 14 (comma 1), fa salva la disciplina sull’aborto? Come nel più
classico dei romanzi polizieschi di Agatha Christie, uno dei due “sospettati” non dice la verità: o mente la l. n. 40 del
2004 quando vieta la revoca del consenso perché è ancora – e, potrebbe dirsi, a maggior ragione – vigente la l. n. 194, o
a mentire è quest’ultima quando consente di porre fine alla gravidanza. Tradotto nel linguaggio dei costituzionalisti, una
delle due sarebbe irragionevole per violazione dell’art. 3 Cost.: senza scordare che la legge sull’aborto ha trovato, peraltro, conforto nell’interpretazione evolutiva degli artt. 2, 13 e 32 Cost. per come intesi dalla Corte costituzionale (sent. n.
27/1975) secondo cui salute della donna (che persona è già) e vita del concepito (che non lo è ancora) non possono essere assimilate cosicché, nell’eventuale conflitto, la seconda dovrà essere ritenuta recessiva rispetto alla prima.
86
Nella sua originaria stesura, difatti, il c.d. d.d.l. Calabrò disponeva – all’art. 2, comma 2 – che «l’attività medica,
in quanto esclusivamente finalizzata alla tutela della vita e della salute, nonché all’alleviamento della sofferenza non
può in nessun caso essere orientata al prodursi o consentirsi della morte del paziente, attraverso la non attivazione o disattivazione di trattamenti sanitari ordinari e proporzionati alla salvaguardia della sua vita o della sua salute, da cui in
scienza e coscienza si possa fondatamente attendere un beneficio per il paziente»; col che ne sarebbe risultato completamente svuotato il principio del consenso anche per il malato che, in stato di piena coscienza, avesse chiesto
l’interruzione, o la non attivazione, delle cure mediche (limitandosi, cioè, l’effettiva portata del rifiuto alle sole cure “futili”): in oggetto, v. spec. C. CASONATO, Lo schema di testo unificato “Calabrò” su consenso e dichiarazioni anticipate,
in www.forumcostituzionale.it.
87
Se, infatti, «ogni trattamento sanitario è attivato previo consenso informato esplicito ed attuale del paziente prestato in modo libero e consapevole» (art. 2, comma 1), nulla tuttavia si prevede con riferimento alle conseguenze di un
espresso rifiuto del paziente nei confronti del medico e della relativa struttura sanitaria: sul punto, A. PIOGGIA, Brevi
considerazioni sui profili di incostituzionalità del ddl Calabrò, in www.astrid-online.it.
88
Contra, se non si sbaglia, M. GENSABELLA FURNARI, Tra autonomia e responsabilità, cit., part. 166.
19
tentemente pre-orientata nella propria autonomia decisionale): non si dimentichino, infatti, i suddetti criteri-guida che il citato art. 7, comma 2, impone al medico nella valutazione delle volontà espresse dal soggetto nella sua dichiarazione anticipata di trattamento; questi ultimi, tuttavia, lungi dal
rappresentare i valori fatti propri dalla persona interessata, conformemente alla propria visione di
dignità ed al senso che essa da alla propria vita, altro non sono se non un catalogo che un invadente
Parlamento ha ritenuto opportuno formulare per tutti: fra medico e legislatore, tirando le somme,
l’unico soggetto paradossalmente emarginato dalla decisione che lo riguarda sarebbe proprio il paziente89.
Questo non fa che acutizzare un’ingiustificabile asimmetria che, purtroppo, si è già avuto modo
di apprezzare in occasione dell’approvazione della precedente disciplina sulla procreazione medicalmente assistita: che, cioè, ogni qualvolta le Camere decidano finalmente di affrontare i temi eticamente sensibili la libertà di coscienza dei parlamentari pare diventare massima e quella dei destinatari della norma, specularmente, minima90. La qual cosa tuttavia – non solo suona illogica ma –
rappresenta persino il contrario di quello che dovrebbe ragionevolmente accadere allorché le decisioni legislative incidano direttamente sull’autonomia delle persone nel governare la loro vita:
quando, insomma, la libertà di coscienza da tutelare è, in primis, quella della persona che deve
compiere le scelte di vita. «L’alternativa è ormai netta. Le decisioni sulla vita devono essere prese
sulla base dei principi costituzionali, rispettando la libertà delle persone, con gli interventi giudiziari
necessari per adattare quei principi alle singole situazioni concrete? O prevarranno le pretese di variabili e aggressive maggioranze parlamentari, che oggi si candidano a divenire padrone delle nostre
vite?»91.
Il vero è che nessun valore – nemmeno, forse, quello supercostituzionale della dignità92 – può
aspirare a tiranneggiare gli altri che della nostra esistenza pubblica e privata fanno pur sempre parte
ma, ciascuno per proprio canto, deve di necessità rientrare in un più ampio contesto di compensazione, o bilanciamento che dir si voglia: così doveva essere, allora, per la tutela dell’embrione rispetto alla salute della donna, così dovrebbe essere, oggi, per «il caso della libertà di decidere la
morte, rispetto alla tutela della vita. Se il Parlamento se ne rammenterà, prima di licenziare
quest’altra legge sul testamento biologico, potrà quantomeno risparmiare alla Consulta la prossima
fatica»93.
Contraddittoria, in terzo luogo, pare la disciplina all’esame specie se messa nuovamente a confronto con le scelte a suo tempo espresse da uno schizofrenico legislatore in tema di fecondazione
assistita): come altrimenti appellare un Parlamento che, pur insistendo sul medesimo campo (che è,
poi, sempre quello delle questioni eticamente sensibili) si lasci ispirare da criteri orientativi assolutamente antitetici, quali, rispettivamente, la massima naturalità possibile (a tutela dell’embrione) e
l’altrettanto massima artificialità pensabile (a tutela invece del malato)? Così, tra le tante astrattamente richiamabili, a muovere il legislatore del 2004 v’è espressamente stata la convinzione che le
innovazioni tecnologiche avessero provocato delle distorsioni talmente gravi nelle dinamiche naturali del rapporto genitori-figli da esigere un vigoroso giro di vite94: rispetto ai primi, infatti, si è ritenuto che il bisogno indotto di procreare ad ogni costo avesse sostituito al desiderio della maternità il
diritto alla maternità, al “dono” il semplice “scambio”95; rispetto ai secondi, invece, il fatto che
l’evento riproduttivo fosse artificialmente separato dall’unione naturale dei genitori nell’atto sessuale – in modo che più persone potessero concorrervi in tempi diversi – lo si è considerato tanto causa
di una frammentazione delle figure parentali (con danni per l’identità psico-sociale del nascituro)
89
Così A. PIOGGIA, op. cit.
«Il problema, allora, non riguarda la libertà di coscienza di chi deve stabilire le regole: investe la legittimità stessa dell’intervento legislativo in forme tali da cancellare, o condizionare in maniera determinante, quelle scelte»: così, S.
RODOTÀ, Lo tsunami costituzionale, cit.
91
Così, nuovamente, S. RODOTÀ, La via maestra, cit.
92
Su cui, per tutti, A. RUGGERI-A. SPADARO, Dignità dell’uomo e giurisprudenza costituzionale, in Pol. dir., 1991,
345 ss.
93
Così, suggestivamente, M. AINIS, Ritorno al futuro, in www.personaedanno.it (2 aprile 2009).
94
Così l’on. D. Bianchi (relazione di maggioranza del 26 marzo 2002).
95
Sul punto, per esempio, M. GENSABELLA FURNARI, Tra autonomia e responsabilità, cit., spec. 144 ss.
90
20
quanto motivo di un allontanamento dai tradizionali modelli di genitorialità socialmente consolidati.
A dimostrazione, dunque, che la preoccupazione più pressante – che s’intravede, sempre, sullo
sfondo della legge 40 – non fosse altro che quella di riprodurre una situazione il più possibile assimilabile a quella “naturale”96.
Come forse taluni ancora ricorderanno, si era talmente puntato sul requisito della naturalità a
qualsiasi prezzo da pervenire, anche in quel frangente, ad esiti paradossali. Ammettendo difatti l’art.
1, comma 1, il ricorso alla procreazione medicalmente assistita al solo scopo di «favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana», solo alle coppie
sterili/infertili poteva consentirsi di accedere alla fecondazione artificiale: con la conseguenza che
escluse dal trattamento sarebbero dunque state quelle coppie che, pur essendo “fertili” – e, quindi,
formalmente fuori dal raggio di applicazione della presente legge – fossero, tuttavia, portatrici di
malattie genetiche trasmissibili (quali, ad esempio, la talassemia, la fibrosi cistica, la malattia di
Duchenne e altre cromosomopatie che possono essere trasmesse da genitori portatori sani al concepito con un elevato grado di probabilità)97. A quelle di esse, quindi, che avessero desiderato un figlio non sarebbe spettata che la seguente alternativa: o affrontare una gravidanza “naturale”, correndo così il rischio di dare alla luce un bambino malato oppure ricorrere all’istituto dell’adozione,
tertium non datur.
Come conciliare, quindi, l’orientamento di questo Parlamento, ossessionato dall’artificialità
della vita che si spegne, con le iniziative di quello di qualche anno fa – ugualmente tormentato dalla
naturalità di una vita che nasce, al punto di difendere l’embrione … contro se stesso98 – senza cadere in un’insanabile contraddizione?
Se tutto questo non dovesse ancora bastare, deve infine aggiungersi che si tratta di una normativa fortemente discriminatoria. La passata esperienza della disciplina sulla fecondazione artificiale,
in fondo, avrebbe dovuto ormai insegnarcelo; innanzi a normative particolarmente proibizioniste su
diritti comunque ritenuti quesiti dalla coscienza sociale, il cittadino non è che ad un inevitabile bivio: espatriare all’estero (se ha economicamente i mezzi per farlo) o restare in Italia (in mancanza di
sufficienti risorse) così perpetrandosi un’odiosa discriminazione tra soggetti ricchi e quelli poveri.
Al dramma della malattia e della fine imminente, si aggiunge dunque la beffa per tutti quegli individui finanziariamente disagiati cui è materialmente impossibile rivolgersi a centri stranieri per sottrarsi ai divieti della disciplina nostrana: e, più in generale, per tutti i cittadini italiani irragionevolmente discriminati – in violazione dell’art. art. 12 T.C.E. – rispetto agli altri, più fortunati, cittadini
dell’Unione destinatari di discipline molto meno restrittive.
È la tradizionale obiezione della sregolazione della materia, del c.d. far west – come coloritamente si usa dire – che rischia a ben guardare di creare più problemi di quanto non pretenda di risolverne (in tal senso, la sconfortante esperienza della disciplina della procreazione medicalmente
assistita sta quasi quotidianamente a dimostrarlo): una legge ad hoc «si diceva che era indispensabile per eliminare il far west procreativo. E invece lo ha creato. Oggi migliaia di donne italiane vanno
in altri Stati, chiedono un provvisorio ‘asilo politico’ per sfuggire all’assurdo proibizionismo della
legge italiana, e possono finire in paesi, dall’Ucraina alla Slovenia, dove gli interventi non offrono
sufficienti garanzie né alla donna, né alla persona che nascerà»99. Una ben nota, e triste, storia – già
ampiamente vissuta nei suoi, più drammatici e grotteschi, risvolti – dunque si prepara nuovamente a
ripetersi: come accadeva un tempo per l’interruzione della gravidanza ed oggi per la procreazione
assistita e l’impiego di cellule staminali, domani ineluttabilmente accadrà anche per trattamenti di
fine vita e testamento biologico, quando il turismo sanitario davvero rappresenterà l’ultima spiag96
… riaffermandosi, con vigore, la natura relazionale della procreazione a fronte di metodiche che, svincolando la
riproduzione dalla congiunzione sessuale, permettessero ad un sesso di poter potenzialmente fare a meno dell’altro: così
spec. G. FERRANDO, Libertà, responsabilità e procreazione, Padova, 1999, 316 ss.
97
In tali casi, si producono in vitro più embrioni, si seleziona tra questi quello risultato sano mediante villocentesi
(dopo la 10ª settimana di gravidanza) o amniocentesi (dopo la 16ª) e si impianta, da ultimo, nell’utero della madre.
98
Poiché ciò che conta è che venga alla luce e nella maniera “più naturale” possibile (non importa se sano o gravemente malato).
99
V. spec. S. RODOTÀ, La via maestra, cit.
21
gia100; così come il rigido proibizionismo del 2004 ha alimentato il c.d. turismo procreativo, ugualmente dovremmo prepararci ad un’impennata del c.d. turismo eutanasico frutto della medesima,
miope, pretesa punitiva del legislatore del 2009 che – anziché alleviarle – rende più dolorose ed insopportabili le sofferenze delle persone, «delegittimando ai loro occhi una legge che sono obbligati
ad aggirare»101.
Questa dunque la prevedibile sorte di chi parte con la speranza (ed un cospicuo gruzzolo) in tasca: ma chi resta non è che se la passerà meglio. Un assetto normativo di tal genere, difatti, non solo
non appare in grado di fornire alcun apporto alla soluzione dei casi più sofferti ma rischia, persino,
di aumentare esponenzialmente il contenzioso davanti ai giudici, avendo insensatamente esasperato
il possibile conflitto fra doveri professionali della categoria medica – la cui attività è espressamente
qualificata come «esclusivamente finalizzata alla tutela della vita» (art. 1, comma 1, lett. c) – ed autodeterminazione del paziente (che potrebbe invece concretarsi nella legittima richiesta di sospensione di un trattamento vitale)102: così un medico che, invocando la legge a firma Calabrò, imponesse nel prossimo futuro la nutrizione forzata nonostante il paziente incosciente avesse espressamente
lasciato per iscritto il rifiuto (se, ad esempio, colpito da un’emorragia cerebrale) andrebbe facilmente incontro – anzi allo scontro – con il rifiuto di familiari che, verosimilmente non rassegnandosi, si
recherebbero direttamente dal giudice103. Senza prestare ascolto ai convincimenti diffusi nel paese,
senza neppure sforzarsi di capire cosa accada realmente negli ospedali quando il degente arrivi alle
fasi terminali della sua vita ed è necessario prendere delle decisioni, tale testo non pare quindi aver
fatto i giusti conti con gli stessi, pericolosi, effetti cui andrà incontro (o, forse, li ha maliziosamente
accantonati in vista di più remunerative prospettive)104.
Ad ogni buon conto, nemmeno è stato definitivamente licenziato che già si prospetta
l’eventualità di una pronunzia referendaria sul futuro testo approvato dal Senato, ad ulteriore riprova, casomai ve ne fosse il bisogno, che le attuali Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di
consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento anziché dare una risposta convincente e definitiva alle questioni che si affollavano (e giacciono ancora per molta parte) sul tappeto
non ha fatto che riaccendere e, se possibile, inasprire il dibattito sul c.d. testamento di vita e sulle
tematiche ad esso intimamente connesse: già all’indomani del voto di Palazzo Madama, invero,
l’emanazione di siffatta normativa ha provocato una serie di reazioni immediate, veementi e, per
certi versi, scomposte: a fianco di quanti hanno invitato ad una vera e propria “disobbedienza civile”, si sono difatti ritrovati altri che hanno auspicato un sollecito intervento della Corte costituzionale oppure, ancora, hanno appunto manifestato il proposito di raccogliere il numero di firme necessario per il referendum abrogativo.
Pure suggestivo – e con enfasi già ampiamente veicolato dai mass-media – quest’ultimo rimedio si esporrebbe, tuttavia, a più di un dubbio. A parte l’eventuale illegittimità del quesito referendario – verosimilmente plurimo/non omogeneo (potendo, come altamente prevedibile, investire una
molteplicità di diritti ed interessi diversi) – il pericolo, pur sempre in agguato, sarebbe quello di non
raggiungersi il quorum richiesto, sebbene il numero dei cittadini potenzialmente interessato potrebbe comunque essere maggiore di quello cui si rivolgeva, invece, la precedente pronunzia referenda100
Cfr. G. ALPA, op. cit.
«Se la turbo legge passerà (…) verrà così santificata la doppia morale - fate, ma senza clamore e scandalo. E saranno sconfitti tutti quelli che vogliono rimanere nel solco della legalità e dello Stato di diritto, come ha dolorosamente
voluto Beppino Englaro, un eroe civile al quale nessuno dedicherà un film come ha fatto la civilissima America per le
storie di Erin Brockovich e Harvey Mills»: così, S. RODOTÀ, Lo tsunami costituzionale, cit.
102
Sul punto, A. PIOGGIA, op. cit. Per la tesi che le responsabilità si appuntino invece su tutti – persino, dunque,
sullo stesso soggetto che avanzi pretesa di piena autodeterminazione – v. A. RUGGERI, Il testamento biologico, cit., il
quale fa piuttosto rilevare che «in ogni diritto fondamentale (e proprio perché… fondamentale, vale a dire fondante
l’ordine repubblicano) v’è una componente deontica, in ultima istanza riportabile alla dignità della persona umana per
un verso, alla solidarietà per un altro».
103
In oggetto, v. spec. I. MARINO, Libertà di cura, cit.
104
«Cosa accadrà se una persona incosciente sarà portata, contro la sua volontà scritta e contro quella dei familiari,
in sala operatoria per inserirgli un tubo nello stomaco per nutrirlo forzatamente? Che cosa faranno i familiari uscendo
dall’ospedale? Io sospetto che andranno direttamente dal giudice a sporgere denuncia, senza nemmeno passare da casa»: così, nuovamente, I. MARINO, Come si uccide il testamento biologico, cit.
101
22
ria sulla l. n. 40/2004 (tristemente naufragata, come si ricorderà, nel giugno del 2005). Molto dipenderà, naturalmente, dall’effettiva formulazione della futura domanda referendaria: se, cioè, volta
all’abrogazione secca oppure parziale del prossimo testo giacché la prima delle due ipotesi – prospettando la cancellazione radicale ed immediata della legge quale unica soluzione – rischierebbe di
scoraggiare il voto di quanti, pur non condividendo in toto il contenuto della normativa indubbiata,
potrebbero ritenere preferibile una disciplina (qualunque essa sia) piuttosto che … niente. Senza
considerare il problema della endemica parzialità/inadeguatezza dell’informazione sulle questioni
bioetiche offerta dai mezzi di comunicazione di massa, sovente più inclini a contrapporre le diverse
opzioni ideologiche in campo che non ad assolvere il fondamentale compito di informare, in maniera oggettiva, i cittadini.
Ma anche laddove il numero legale previsto fosse raggiunto, non è che di perplessità ne mancherebbero, tanto in caso di esito positivo quanto in quello di risultato negativo della consultazione:
nel primo frangente, ripristinandosi lo status quo ante (di assenza, in altri termini, di una legge dai
più ritenuta comunque costituzionalmente necessitata); nella seconda, un’eventuale conferma referendaria del testo in esame potrebbe non benignamente condizionare possibili, successive, pronunzie della Consulta105. Col che, l’unica possibilità costituzionalmente compatibile rimarrebbe allora
quella dell’abrogazione parziale, a patto che non incida su quel livello minimo essenziale di tutela
che la presente normativa, comunque, accorda ai soggetti coinvolti.
Si fa, così, largo l’idea che è forse la stessa opzione del referendum sulle questioni eticamente
sensibili che meriterebbe qualche ripensamento, giacché esso «nulla toglie e nulla aggiunge: essendo basato sulla stessa logica di maggioranza del voto parlamentare, anche il corpo elettorale può
produrre risultati incostituzionali»106. La qual cosa, tuttavia, presterebbe il fianco ad una duplice obiezione: per un verso, di non mettere neppure in conto che il testo definitivamente uscito dalla
Camera potrebbe dimostrarsi, ad un tempo, inopportuno sul piano legislativo ed illegittimo su quello costituzionale (dal che potrebbe utilmente verificarsi tanto l’eventualità di una pronunzia referendaria quanto quella di una decisione di costituzionalità); per un altro, di trascurare che la stessa Corte, ormai per sistema, guarda anche alla normativa di risulta, prefigurandosene l’assetto ed escludendo quelle domande referendarie che, in relazione ad esso, appaiano contrarie a Costituzione)107.
6. … ed almeno una proposta construens
Fin qui, dunque, solo un pugno di considerazioni, per così dire, destruentes di quanto sin ora
approvato. Ma è opinione di chi scrive che qualsiasi contributo in materia – lungi dal farlo con ciò
che è virtualmente più semplice (ergo, demolire) – dovrebbe pur sempre cimentarsi con quanto è,
almeno in questi frangenti, più scomodo: e cioè, per restare nell’esempio, maturare qualcosa di construens, se aspiri quantomeno a pervenire a conclusioni che possano in futuro essere di qualche uso.
Che lo scontro che si sta attualmente consumando in Parlamento sulla sfera delle libertà individuali sia progressivamente slittato di piano, dal più stabile e sicuro del diritto a quello, molto più
accidentato ed incerto, dei personali convincimenti etici e religiosi – con la conseguenza che il testo
ora in discussione alla Camera dei Deputati paia più influenzato dalla battaglia ideologica tra sostenitori di opposte concezioni dello Stato che non da serena valutazione e ponderato bilanciamento
105
… la quale potrebbe ad esempio ritenere – ma l’osservazione, forse, prova troppo – non ammissibili ulteriori
questioni di legittimità costituzionalità in quanto attinenti a scelte discrezionali del legislatore confermate dalla volontà
popolare
106
Così S. CECCANTI, Procreazione assistita, cit., a parere del quale «contro leggi incostituzionali non si promuovono referendum, si attende che la giustizia costituzionale faccia il suo corso, evitando un passaggio inutile» poiché «sia
la vittoria dei No, sia la vittoria dei Sì con la conseguente normativa di risulta, sia la mancanza del quorum, non incidono in alcun modo su un giudizio di costituzionalità che non si basa sulla forza dei numeri, ma sulla corrispondenza agli
articoli della Costituzione».
107
In oggetto, A. RUGGERI-A. SPADARO, Lineamenti di giustizia costituzionale, Torino, 2009, 293. Ad ogni modo,
si è fatto e – com’è stato ripetutamente confermato in giurisprudenza (sentt. nn. 37 e 50/2000) – si fa un utilizzo ancora
oscillante del controllo giurisprudenziale in parola.
23
dei valori costituzionali in gioco – è certo108. Come si anticipava anche nelle pagine che precedono,
sembra riproporsi, in altre spoglie, una situazione in tutto e per tutto simile a quella verificatasi, a
suo tempo, in materia di interruzione volontaria della gravidanza (o, più recentemente, in tema di
procreazione medicalmente assistita) che vede aspramente contrapporsi i tradizionali schieramenti
laici/cattolici: con i primi intenzionati ad aprire al massimo il ventaglio di possibilità per la libertà
individuale, ed i secondi strenuamente impegnati a ribattere colpo su colpo, con una legislazione
fortemente restrittiva. Il rischio è che, allora, ad esser viziata è proprio l’impostazione di metodo
che ha, poi, guidato la mano del legislatore nella materiale redazione del progetto di legge in parola.
Quella di una normativa estremamente rigorosa e dettagliata – lo si anticipava già, supra, a
proposito del drafting legislativo – non era l’unica via astrattamente percorribile: tra i due estremi di
una totale assenza di disciplina positiva, per un verso, e di una penetrante regolamentazione, per un
altro, sarebbe stato forse possibile battere una terza, ragionevole, pista, (una sorta di “strada di mezzo” alla larga dai difetti dell’una e dagli eccessi dell’altra, opzione adesso prospettata). La delicatezza della materia avrebbe dovuto, infatti, suggerire ai senatori ben altra impostazione metodica,
più ispirata al principio di precauzione e di massima cautela che ad esasperate mire repressive: ad
una legge “pesante” – come quella che si sta commentando – sarebbe stata insomma preferibile una
legge-quadro, ampia ed elastica, recante una disciplina “leggera”, di garanzia, ad imitazione di
quanto già accaduto agli inizi degli anni ’70 con la legislazione sul divorzio, sull’aborto e sul diritto
di famiglia in generale.
Una maggioranza che escluda, tanto per restare al tema più controverso, dalle dichiarazioni anticipate di trattamento l’idratazione e la nutrizione forzata – quali “terapie” irrinunziabili da parte di
qualunque ammalato ed in qualsivoglia circostanza109 – non va certo in questa direzione, perpetrando piuttosto una vistosa forzatura, giacché il carattere non terapeutico di esse è ancora tutto da dimostrare per larga parte della categoria medica110: di fronte a convincimenti che (non coagulano
certo una sufficiente unanimità di vedute ma piuttosto) spaccano la comunità scientifica, misura, rispetto e senso di responsabilità verso la cittadinanza avrebbero dovuto casomai consigliare il Parlamento di astenersi da pretese neo-autoritarie, limitandosi a tracciare una cornice di principi entro
108
Sul mancato utilizzo già di un comune linguaggio sulle presenti tematiche pone, di recente, l’accento A.
RUGGERI, Il testamento biologico, cit.
109
La qual cosa, com’è di tutta evidenza, non è indifferente ai fini della definizione della questione all’esame (ed,
anzi, ne rappresenta probabilmente il vero punctum crucis). Così, a voler ritenere alimentazione ed idratazione alla stregua di qualunque altro trattamento sanitario, esse andrebbero soggette alla normale valutazione di utilità/inutilità di ogni cura medica: con la conseguenza che sarebbero da proseguire quando utili alla complessiva condizione
dell’ammalato e, viceversa, da interrompere quando non utili (o, addirittura, dannose) perché atte insensatamente a prolungare la sofferenza del paziente (confluendo, così, il presente interrogativo nella limitrofa, e non meno vexata,
quaestio della capacità di sentire il dolore nei malati in stato vegetativo). Non ugualmente andrebbero le cose a voler
considerare, invece, nutrizione ed idratazione terapie c.d. di sostegno vitale, per ciò stesso automaticamente sottratte a
qualsivoglia, possibile, giudizio di utilità/inutilità. La domanda, ovviamente, è ancora rovente ed attuale e ben lungi da
una risposta definitiva già tra i medici: utili ragguagli possono comunque vedersi, ex plurimis, in M. GENSABELLA
FURNARI, Introduzione, cit., 11 ss. (e della stessa, ora, in Lasciar morire? Gli interrogativi etici aperti dalla sospensione di idratazione ed alimentazione in stati vegetativi, in Questioni di bioetica, in corso di stampa), nonché in F.
BONACCORSI, Autonomia privata, integrità fisica e dignità della persona: il problema del testamento biologico, in U.
BRECCIA-A. PIZZORUSSO, Atti di disposizione del proprio corpo, a cura di R. Romboli, Pisa, 2007, 295; E. RIPEPE, intervento al forum su L’eutanasia tra bioetica e biodiritto, a cura di P. Passaglia-R. Romboli, in Riv. dir. cost., 2007 364
ss.; P. VERONESI, Il corpo e la Costituzione, cit., 233 ss.; F.G. PIZZETTI, Alle frontiere della vita: il testamento biologico
tra valori costituzionali e promozione della persona, Milano, 2008, 119 ss. e ID., In margine ai profili costituzionali degli ultimi sviluppi del caso Englaro: limiti della legge e “progetto di vita”, in www.astrid-online.it; G.U. RESCIGNO,
Dal diritto di rifiutare un determinato trattamento sanitario secondo l’art. 32, co. 2, Cost., al principio di autodeterminazione intorno alla propria vita, in Dir. pubbl., 2008, 89 ss.; A. VALLINI, Lasciar morire chi rifiuta le cure non è reato. Il “caso” Welby nella visuale del penalista, in Dialoghi, 2008, 49 ss.; L. RISICATO, Indisponibilità o sacralità della
vita? Dubbi sulla ricerca (o sulla scomparsa) di una disciplina laica in materia di testamento biologico, in
www.statoechiese.it; F. VIGANÒ, L’interruzione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiali nei confronti di pazienti
in stato vegetativo permanente: la prospettiva penalistica, in www.forumcostituzionale.it.
110
Ciò «porterebbe, forse, a dire, che sia comunque prematuro intervenire oggi con legge (persino con legge costituzionale, dunque), in presenza di acclarate divisioni e non meno vistose e gravi incertezze ed oscillazioni esistenti nel
mondo scientifico»: così A. RUGGERI, Il testamento biologico, cit.
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il cui perimetro lasciar liberi gli interessati di decidere secondo i propri convincimenti (nonché mettendo a disposizione degli utenti servizi sociali adeguati, assistenza e terapie antidolore)111.
Una legge sui trattamenti di fine-vita degna di tale nome insomma – lungi dal prendersi in carico temi confinanti, ma distinti, quali quelli riguardanti il consenso informato ed il rifiuto di cure,
l’accanimento terapeutico ed il suicidio assistito – avrebbe dovuto unicamente affrontare le questioni necessarie per definire la validità delle direttive anticipate: prendere, cioè, ad esclusivo suo obiettivo la possibilità di ciascuno di esprimere liberamente e responsabilmente la propria volontà per
dettare le regole del morire nel caso in cui lo stato di incapacità in cui si trova gli impedisca di esercitare in quel momento il suo diritto al rifiuto dei trattamenti (come hanno potuto in passato fare,
per intendersi, Piergiorgio Welby e Giovanni Nuvoli); in breve, una normativa sul testamento biologico (meglio, sulle direttive anticipate) «deve essere sintetica, lineare, chiara, immediatamente
comprensibile. Non deve risolvere un problema della politica, ma riconoscere un diritto dei cittadini»112. Senza nulla togliere alla c.d. funzione pedagogico-culturale pure assolta dalle leggi, un testo
che sui temi di fine-vita, sulla nascita e sulla morte non obblighi ma contempli mere facoltà – lasciando più ampli e necessari spazi ai convincimenti personali – si dimostrerebbe, poi, maggiormente compatibile con un’idea di Stato che non pretenda certo di imporre le proprie soluzioni etiche ma
si limiti a prevedere una possibilità che i cittadini liberamente decideranno “se” e “come” utilizzare,
se sol si consideri che proprio «nello spazio tra la legge e la decisione del singolo paziente scorre
l’infinita pianura della democrazia. Non bisogna averne paura»113.
Con almeno un triplice, ambizioso, obiettivo: assicurare, anzitutto, l’assenza di discriminazioni,
la trasparenza delle procedure, la competenza tecnico-professionale, la tutela della dignità e dei diritti fondamentali di tutti i soggetti coinvolti; consentire, in secondo luogo, anche alla dinamica sociale la spontanea ridefinizione dei vecchi modelli di rapporto medico-paziente (e la ricomposizione
dei nuovi); lasciare, infine, ai singoli (e, dunque, all’individuo direttamente interessato) la responsabilità di dirimere eventuali conflitti di natura etica in questo campo, ed all’eventuale giudizio equitativo del giudice solo i casi in cui l’intervento del diritto appaia davvero improcrastinabile.
La soluzione qui patrocinata avrebbe offerto alcuni, innegabili, vantaggi. Dal punto di vista pratico, si sarebbe mostrata maggiormente avvertita dei limiti oggettivi di cui sempre risente il diritto
nella regolamentazione di materie talmente scivolose; l’esperienza dell’aborto e della procreazione
medicalmente assistita, in fondo, hanno già evidenziato come – a prescindere da qualsivoglia orientamento filosofico o morale – in tali campi l’intervento legislativo sconti un ineliminabile tasso di
ineffettività. La rinunzia alle cure rappresenta, a tutt’oggi, una scelta ampiamente praticata ed, ormai, socialmente acquisita con la conseguenza che un vigoroso “giro di vite” (come quello che
sembra ora profilarsi all’orizzonte) non solo dimostra una scarsa lungimiranza del legislatore – che
non sembra (o non vuole… ) accettarlo – ma pare altresì destinato, come si è visto, nella migliore
eventualità ad essere aggirato con la fuga all’estero o, nella peggiore, ad essere aggravato da più che
decennali, spesso laceranti, contenziosi giudiziari.
111
«All’orizzonte, invece, sta comparendo una prepotenza del legislatore, che vorrebbe espropriare le persone del
diritto di governare liberamente la propria esistenza, vivendola dignitosamente fino al momento finale» col rischio
«d’essere doppiamente crudeli verso i morenti. Appropriandosi della loro libertà e dignità, da una parte. E, dall’altra,
negando le risorse per i servizi ad essi destinati, come sta avvenendo, e annunciando la privatizzazione degli ospedali,
senza riflettere sul fatto che proprio lì, nelle strutture private, sono stati chiusi reparti per la terapia del dolore perché
economicamente non redditizi»: così, S. RODOTÀ, Sul testamento biologico, cit.
112
Così, efficacemente, S. RODOTÀ, La via maestra, cit.
113
Cfr., sul punto, L. VIOLANTE, Il bio-testamento, l’eutanasia e la lezione di Moro, in L’Unità (23 gennaio 2009).
Contra, A. RUGGERI, Il testamento biologico, cit., a parere del quale «altro è il c.d. Stato etico, che ha preso corpo in
tristi esperienze del passato e che purtroppo seguita ad affermarsi in non pochi ordinamenti, ed altra cosa l’etica costituzionale o repubblicana, risultante da principi fondamentali ispirati a valori indisponibili». Quanto al più ampio rapporto
tra diritto ed etica, essi avrebbero, ciascuno, «una propria connotazione complessiva, irriducibile a quella dell’altra» ma
questo peraltro non significa, prosegue l’autore, che siano tra di loro incomunicabili: «all’inverso, la giustificazione
prima e la più immediata e genuina espressione del diritto in genere e del diritto costituzionale in ispecie è proprio nella
sua vocazione a dar voce all’etica ed a darvi la più fedele traduzione per il tramite dei principi fondamentali
dell’ordinamento».
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In second’ordine, dal punto di vista più strettamente giuridico: nel riequilibrio, cioè, del rapporto tra diritto “vivente” e diritto “vigente”, attualmente condizionato più dallo scontro istituzionale
che si sta consumando tra Parlamento e magistratura a danno dei cittadini che non dalla preoccupazione di assicurare ad essi il massimo della tutela dei diritti nel momento in cui sono più fragili ed
indifesi. La norma giuridica, per sua natura generale ed astratta, non riesce infatti adeguatamente a
riprodurre, e prevenire, le irripetibili peculiarità dei casi più drammatici: nelle ipotesi più controverse, allora, una disciplina soft avrebbe consentito al legislatore una delega di bilanciamento in concreto al giudice dei valori in conflitto (alla stregua di quanto già accaduto, ad esempio, in tema di
adozione) 114. Il diritto (e, più che mai, quello costituzionale) non sceglie, tra più morali, una morale: la nostra Costituzione al contrario pare disseminata di scelte non effettuate, di valori lasciati incompiuti che attendono solo che sia il magistrato, nella sua quotidiana attività di interpretazione, a
dar loro forma e contenuto concreti, nessuna gerarchia tra valori costituzionali potendosi dunque dare – com’è stato da tempo rilevato dalla più avvertita dottrina115 – “in astratto” ma piuttosto un ordine variabile da rimodulare, volta per volta, “in concreto”, favorendo in tal modo una maggiore responsabilizzazione del giudice nella decisione del caso in esame.
Contestualmente ad un’iniziativa – come dire? – morbida delle Camere, si sarebbe potuto infine affiancare un intervento dell’esecutivo per mettere ordine, con regolamento, nella caotica situazione delle strutture ospedaliere specializzate nei trattamenti di fine-vita attualmente operanti sul
territorio nazionale. Pure qui con non trascurabili evidenze: da un lato, rafforzare l’interesse alla
protezione della salute, oggi indebolito dal proliferare di un vero e proprio mercato selvaggio di
centri privati senza alcuna garanzia di controllo sanitario; dall’altro, evitare che l’apertura incontrollata di nuovi servizi possa alimentare, essa stessa, la domanda e favorire la cosiddetta cultura della
“morte ad ogni costo”.
A conclusione di queste poche notazioni ed in attesa di futuri – ancorché, allo stato attuale, improbabili – emendamenti in senso migliorativo da parte dell’altro ramo del Parlamento, non si può
non esser sopraffatti, dunque, da un diffuso senso di insoddisfazione (se non di vera e propria disfatta) per una disciplina più equilibristica che equilibrata, la quale pare senz’altro candidare l’Italia al,
poco invidiabile, primato dell’unico paese europeo a non ammettere la possibilità di sospendere un
trattamento di mantenimento artificiale della vita ad un paziente che lo abbia preventivamente rifiutato116.
Disfatta, poiché il primo ad esser stato amaramente sconfitto è il trentennale dibattito italiano
sul testamento di vita: di tutto quello per cui si è per anni aspramente combattuto, ben poco difatti è
stato portato a materiale compimento. Sconfitta, in secondo luogo, ne esce la stessa maggioranza
che ha approvato tale legge al Senato: troppo presa forse dalle proprie convinzioni ideologiche,
sembra aver dimenticato infatti (e lasciato da soli) quanti, invece, avrebbero desiderato un legislatore meno lontano e più attento ai bisogni effettivi del cittadino. La lezione della più volte citata l. n.
40, anziché imparata, è stata quindi inopinatamente oltrepassata: non discorrendosi qui di mere
sfumature tecniche in limine passibili di una censura d’incostituzionalità, ma di una più ampia questione di democrazia (del modo, cioè, in cui i governanti pretendono di esercitare il proprio potere
nei confronti dei governati, del diritto fondamentale all’autodeterminazione e dei limiti all’uso della
legge); del modo, insomma, «in cui si stanno delineando i rapporti tra le persone ed uno Stato che,
abituato da sempre a legiferare sul corpo della donna come ‘luogo pubblico’, rende ora ‘pubblici’ i
114
In tal senso, si dichiara favorevole pure A. RUGGERI, Il testamento biologico, cit., ad opinione del quale, però,
autodeterminazione del soggetto e dovere del medico di curare «richiedono entrambi di essere tenuti nel conto dovuto».
115
Sul punto, v. almeno R. BIN, Diritti e argomenti. Il bilanciamento degli interessi nella giurisprudenza costituzionale, Milano, 1992; O. CHESSA, Principi, valori e interessi nel ragionevole bilanciamento dei diritti, in AA.VV., La
ragionevolezza nel diritto, a cura di M. La Torre-A. Spadaro, Torino, 2002, 207 ss.; A. MORRONE, Bilanciamento (giustizia costituzionale), in Enc. dir., Ann., II, t. 2 (2008), 198 ss.; G. ZAGREBELSKY, La legge e la sua giustizia, Bologna,
2008, spec. 205 ss., nonché, da ultimo, G. SILVESTRI, Dal potere ai princìpi. Libertà ed eguaglianza nel costituzionalismo contemporaneo, Roma-Bari, 2009, part. 35 ss.
116
Sebbene sul diverso campo della fecondazione artificiale, in tal senso cfr. pure, volendo, S. AGOSTA, Tra ragionevoli preoccupazioni di tutela ed irragionevoli soluzioni normative: la recente disciplina sulla procreazione artificiale
al banco di prova dei fini-valori della Costituzione, in AA.VV., Bio-tecnologie e valori costituzionali, cit., 95 ss.
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corpi di tutti, li fa tornare sotto il dominio del potere politico e si serve abusivamente della mediazione dei medici, di cui viene restaurato un potere sul corpo del paziente che era stato cancellato
proprio dalla ‘rivoluzione’ del consenso informato»117.
Disfatta per alcuni ambienti cattolici ancora ambiguamente indecisi – sulla falsariga dello stesso Parlamento, d’altro canto – se il progresso scientifico della medicina sia fortunata benedizione o
somma iattura, se più conforme alle prescrizioni religiose sia un’esistenza del tutto naturale od una
intensamente medicalizzata ed artificialmente prolungata (e sine die prolungabile): «non è retorica
dire che il punto forte è costituito dal sentire delle persone, testimoniato da tutti i sondaggi, da quelli
appunto sulle decisioni relative al morire a quelli sull’uso del preservativo, che mostrano (…) una
consapevolezza profonda della libertà e della responsabilità che devono accompagnare le scelte di
vita. Ai deputati bisogna far sentire la voce di questo paese, che la maggioranza politica non ascolta,
chiusa com’è nelle sue convenienze e nei suoi ideologismi»118. Sconfitta per la società civile, perché
una disciplina sul testamento biologico avrebbe richiesto ben diversa convergenza, e collaborazione, con altre categorie di soggetti coinvolte in prima persona nelle materiale effettuazione delle pratiche in parola e pure dalla concreta disciplina di esse sostanzialmente escluse. Si pensi, soprattutto,
ai cittadini ed ai medici: i primi che, sulla propria pelle, corrono il rischio di interventi chirurgici
anche molto dolorosi e invasivi pur di non spegnere un barlume di vita da loro stessi ormai reputata
atrofizzata ed infelice; i secondi, chiamati (come uomini e donne, prima ancora che professionisti) a
praticare in concreto tali operazioni.
Sconfitta, da ultimo, ne esce la stessa Costituzione, poiché si è preteso di legiferare adottando
una visione forse troppo squilibrata – quando non ideologicamente schierata e di parte – di principi
fondamentali pure sanciti dalla Carta per tutti (e non per alcuni solamente).
117
Così S. RODOTÀ, George Orwell a Palazzo Madama, in Repubblica (27 marzo 2009), il quale criticamente prosegue preconizzando che da adesso in avanti «non sarà più la persona a decidere per sé. Altri lo stanno facendo, e lo faranno, al suo posto. Dov’era un ‘soggetto morale’, quello nato appunto dall’attribuzione a ciascuno del potere di accettare o rifiutare le cure, troviamo di nuovo un ‘oggetto’».
118
Cfr. ancora S. RODOTÀ, George Orwell a Palazzo Madama, cit.
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