11 rapporto individuo-contesto - SPS Studio di PsicoSociologia

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Articolo pubblicato in Psicologia Clinica, n.2, 1995 pg. 5-20
Il rapporto individuo-contesto
Renzo Carli
Dipartimento di Psicologia, Università di Roma, “La Sapienza”.
1. Introduzione
Qualche mese fa abbiamo invitato alcuni colleghi a riferire di loro esperienze ‘cliniche’; esperienze
che chiedevamo fossero caratterizzate da una attenta analisi del contesto entro cui si situava il caso
descritto.
Presentiamo in questo numero della Rivista i lavori che ci sono giunti, quale cortese risposta al
nostro invito.
Si tratta di esperienze condotte da psicologi clinici e da psichiatri, che concernono differenti tipi di
utenza e di struttura.
Si tratta, e questo sembra particolarmente importante, di esperienze ove l’attenzione al contesto
rende impossibile una univoca descrizione di dinamiche e processualità intrapsichiche.
Obiettivo di queste pagine introduttive è quello di orientare il lettore entro una possibile definizione
di questa nozione, il contesto, che può apparire a prima vista di facile comprensione quanto poi di
difficile utilizzazione entro la teoria della tecnica psicologico clinica.
E questo, ci sia consentito di riferirlo per l’ennesima volta, per il fatto che una concezione restrittiva
e scorrettamente fondata di “psicoterapia” tende a considerare il contesto in modo duplice e
contraddittorio:
a. il contesto va eliminato, e trasformato nel setting psicoterapeutico per quanto concerne la
applicazione “pura e semplice” delle varie tecniche psicoterapeutiche. Qui si ha l’applicazione
psicoterapeutica nel “privato”, accezione quest’ultima che equivale a luogo che si pretende e si
propone come acontestuale.
b. il contesto, quale luogo di applicazione delle tecniche stesse, può essere accettato disinvoltamente
a patto di negarne la specificità, oppure di forzarlo fino a farlo diventare una sorta di mimesi del
setting, oppure di colludere con alcune sue componenti, per recuperare con altre condizioni usuali
del lavoro psicoterapeutico.
Qui si ha la psicoterapia ‘applicata’, cioè la pratica condizionata dalle strutture dei servizi, o più in
generale dalle strutture organizzative in cui lo psicoterapeuta si trova ad operare.
Ciò che manca è una teoria del contesto; teoria del contesto a fondamento della pratica psicologico
clinica.
2. Il contesto come categoria emozionale
Il modo di essere inconscio della mente risponde ad alcune caratteristiche che lo rendono
acontestuale.
Per converso, le differenziazioni più primitive del modo di essere inconscio contribuiscono ad una
configurazione di contesto: penso alle categorie “affettive” dentro-fuori, davanti-dietro, alto-basso
che, pur se riferite alle esperienze somatiche, possono contribuire ad una differenziazione
emozionale del rapporto con “l’altro” e quindi alla configurazione di varietà contestuali.
Si tratta di categorie che possono contribuire alla comprensione di momenti storici, di dinamiche
culturali, di modalità di dispiegamento sociale.
Dentro-fuori; l’appartenenza e l’estraneità, l’in-group e l’out-group, i blocchi contrapposti, le
ideologie come luoghi di aggregazione e di divisione; ma anche i “distintivi” all’occhiello, le
tessere di iscrizione, le uniformi e le divise da indossare nei convegni; l’amico e il nemico, il buono
da mettere dentro e il cattivo da espellere, il cerchio come limite di separazione, il ministero degli
interni, ma anche l’arredamento da interni, e la televisione che porta dentro ciò che sta fuori, che
crea idee, modi, comportamenti “da interni”, in un passaggio senza soluzione di continuità dallo
“Studio Uno” al salotto di casa ed all’ascolto in interno, ciabatte, noccioline, un goccio di whisky e
la poltrona sempre più consunta, tanto è quella da Tivù. E’ un’epoca che si può caratterizzare
emozionalmente come dentro-fuori.
Grande-piccolo; il potere dell’uno sull’altro, degli uni sugli altri. I quattro grandi, ma anche i grandi
letterati, i grandi fisici, quello è un grand’uomo. La sicurezza sfrontata di chi ha santi in paradiso; i
grandi politici che pensano a noi piccoli uomini, piccola borghesia, piccoli imprenditori, piccoli
fratelli.
Giocare alla grande, vivere alla grande, ma anche il grande vecchio, fondare un grande partito, o
rilanciare una grande azienda. Una vecchia canzone di Michele Straniero parlava della mediocrità di
chi si accontenta: una piccola casa, una piccola messa alla domenica, una piccola Fiat. . .etc.
Le differenze di potere e quelle di appartenenza hanno costituito i modi per la strutturazione dei
contesti nell’Italia, dal dopoguerra ad oggi, accompagnando una generazione, la mia, negli ideali e
nella meschinità, nelle realizzazioni e nella distruzione.
Davanti-dietro. Viene alla mente Ruskin che si arrampica su una lunga scala appoggiata alla parete
sinistra di San Zanipolo, o a quella del transetto dei Frani di Venezia, per guardare dietro ai
monumenti funebri ivi stratificati nei secoli.
Là sta la differenza tra gotico e rinascimento, dice il grande studioso inglese nelle sue Pietre di
Venezia: i gotici finivano anche “dietro” le loro figure funebri, mentre col rinascimento inizia l’era
dell’apparenza, delle finzione. Vedere per credere.
Davanti, d’altro canto, vuoi dire schiettezza; ma anche il luogo della differenza, di ciò che si vede.
Dietro è il lavorare nell’occulto, il prendere in giro, il circuire.
Stiamo vivendo un momento della storia del nostro Paese caratterizzata dalla convinzione di poter
finalmente sapere cosa stava dietro a gruppi di potere o di appartenenza, ad avventure e successi
politici, aziendali, di consorterie, gruppi e società più o meno segrete. Ma anche la convinzione
solida che “certi” segreti non verranno mai svelati, che nessuno arriverà mai a sapere bene cosa
stava dietro a “certi” avvenimenti.
3. I modi di conoscenza degli psicologi
Ho proceduto sino a questo momento per categorie allusive, atte a definire dimensioni contestuali
non riferibili a precise strutture organizzative quanto invece a momenti culturali, situazioni, “climi”
politici e sociali che tutti noi possiamo riconoscere anche nella nostra più recente esperienza.
Le categorie utilizzate sono riferibili alla più primitive simbolizzazioni affettive, quelle
simbolizzazioni che ontogeneticamente e, forse, filogeneticamente hanno segnato la storia
dell’uomo, la sua capacità di “uscire” dall’universo omogeneo indivisibile del modo di essere
inconscio (Matte Bianco, 1975) per “organizzare” differenze emozionali nel proprio rapporto con il
mondo.
Ma non è questo aspetto che qui interessa sottolineare; aspetto che rimanderebbe necessariamente al
“bambino” o alla fase “bambina” dell’umanità. Rimando in proposito al saggio di Beretta (1974),
che dopo molti anni rimane ancora una pietra miliare per la conoscenza psicologica di questa
tematica.
Qui interessa, di contro, evidenziare che queste simbolizzazioni affettive sono “condivise”
socialmente; e che tale “condivisione” avviene nel registro del modo di essere inconscio della mente
per chi condivide relazioni definite entro le strutture sociali: siano queste ultime le strutture
familiari, quelle lavorative, di partecipazione politica o di fruizione dei mezzi di comunicazione di
massa, televisione in particolare.
Ho proposto di chiamare collusione questa fenomenologia che regola l’interazione di ciascuno di
noi con il contesto; contesto per definizione relazionale, dato che il modo di essere inconscio della
mente conosce per simbolizzazioni affettive, quindi intenzionate, ogni “stimolo” ambientale.
Fin qui il lettore potrà seguire la mia proposta, o forse riconoscere un collegamento con quanto ho
avuto modo di proporre in altri lavori e nella mia pratica di intervento psicologico clinico e di
insegnamento.
Mi pongo, peraltro, un interrogativo. In quale ambito di “conoscenza psicologica” cala questa mia
ipotesi teorica? Quali sono, in altri termini, i modelli di conoscenza e di riferimento degli psicologi
ai quali io parlo con questa mia proposta?
Credo sia giunto il momento di fare un po’ di ordine in tale ambito, al fine di poter “organizzare” in
qualche modo esperienze e riflessioni entro l’ambito psicologico clinico.
Propongo quindi una schematizzazione dei modelli di conoscenza e di prassi degli psicologi che ho
fin qui incontrato.
Vorrei essere chiaro: non è uno schema dei modelli di conoscenza della psicologia (compito che
non mi sento in grado di affrontare) bensì degli psicologi, e non di tutti gli psicologi ma di quei
colleghi e allievi con cui ho avuto a che fare in questi anni di professione.
Pensando in particolare alla formazione degli psicologi presso i Corsi di Laurea e le Facoltà di
Psicologia, ritengo che sia possibile individuare due grandi aree “conoscitive”:
a. La conoscenza di “invarianti” di personalità
b. La conoscenza di dinamiche intrapsichiche idiosincratiche alla prassi psicoanalitica.
Le invarianti di personalità. Nella prima categoria conoscitiva comprendo quella varia e articolata
pratica psicologica volta a misurare, accertare, descrivere, evidenziare, con la più diversa
strumentazione, tratti o caratteristiche della personalità.
Della personalità, appunto, di un individuo; o di più individui considerati, peraltro, sempre come
sommatoria di singole individualità. Le risultanze di tali rilevazioni possono essere studiate nella
loro distribuzione secondo leggi statistiche, raggruppate in base a variabili indipendenti o
confrontate tra loro o con altre rilevazioni per gli scopi più diversi.
Lo psicologo, in riferimento a molteplici teorie e tecniche di misurazione, può rilevare
l’intelligenza, le motivazioni, gli atteggiamenti, le modalità di reazione alla frustrazione, la
creatività, gli interessi o molteplici tratti “fattorializzati” etc.
11 problema concernente tale modalità di conoscenza è, a mio modo di vedere, duplice:
1. Si tratta di modelli conoscitivi che non implicano, nella loro struttura, una teoria dell’intervento
psicologico.
Questo è il ‘limite’, mi sembra di poter affermare, di quella psicologia sperimentale da cui i modelli
di conoscenza in esame discendono: psicologia sperimentale che non considera nemmeno
concepibile una professione psicologica (Musatti, 1982) e che riteneva provvisoria, e fine a se stessa
entro la formulazione teorica di quadro, ogni conoscenza perseguita e raggiunta.
Gli psicologi hanno peraltro utilizzato, per le strade più diverse e nei contesti più vari, questa
conoscenza.
Ma qui serve una precisazione: le “invarianti” di personalità conosciute sono sempre risultante di un
rapporto tra una persona e un “materiale” di prova che si configura come “contesto”; le vignette di
Rosenzweig sono una stilizzazione di un contesto frustrante per il quale si chiede una risposta del
soggetto in esame; un test di intelligenza propone una serie di prove che si possono considerare
quale sintesi più o meno astratta di articolazioni problematiche contestuali.
Il “contesto” rappresentato nelle prove, o definito con la prova, comunque, non è mai un contesto
che possa essere o diventare il committente di un intervento psicologico.
Gli psicologi, specie nel periodo che precede la strutturazione dei Corsi di Laurea, si sono provati in
una utilizzazione professionale di questa prassi di rilevazione concernente invarianti di personalità.
Spesso si è arrivati ad una utilizzazione “acritica” di strumenti e modelli che erano stati pensati o
sperimentati in contesti culturali molto diversi dai nostri, in particolare il “mondo” della psicologia
e della società nordamericana.
E questo poteva avvenire, così come in qualche misura avviene tutt’oggi, forse per la mancanza,
negli psicologi stessi, di una attenzione alle variabili di contesto presenti negli strumenti di
rilevazione, o per la carenza di criteri di analisi del contesto stesso. Ma su questo torneremo tra
breve.
2. Un secondo problema che si può indicare per questa modalità di conoscenza e di prassi per gli
psicologi concerne, appunto, le condizioni della prassi.
Quale poteva essere l’utilizzazione professionale di una conoscenza fondata su invarianti di
personalità?
La mente corre alla selezione del personale, alla prassi di orientamento scolastico e professionale,
alla psicodiagnosi: aree di lavoro psicologico rilevanti negli anni Cinquanta e Sessanta, e tuttora
presenti in alcune enclaves occupazionali. La conoscenza di invarianti di personalità implica, in
questi casi, una committenza (spesso differente dalla persona o dalle persone sulle quali effettuare
la misurazione) che ha un potere forte entro la struttura in cui utilizzare l’informazione psicologica.
L’intervento che consegue alla misurazione, quindi, è agito dalla committenza e in base al potere
che tale committenza possiede entro la struttura: la direzione del personale può assumere o meno
dei candidati ad un lavoro sulla base di queste misure psicologiche: l’insegnante può organizzare, su
misurazioni analoghe, il suo insegnamento nei confronti dei vari allievi e consigliare loro uno
specifico itinerario di studi; lo psichiatra o il medico possono impostare una specifica terapia o
prendere provvedimenti di vario tipo anche in base all’apporto psicodiagnostico.
Si tratta, quindi, di un modello di intervento psicologico anaclitico o per appoggio: lo psicologo
contribuisce ad orientare le decisioni di chi ha potere organizzante, tramite la comunicazione di dati
riguardanti la personalità di singoli individui.
La dinamica intrapsichica nella prassi psicoanalitica. Una seconda area di conoscenza si propone,
per gli psicologi, entro i Corsi di Laurea in Psicologia, con l’arrivo all’insegnamento di discipline
psicologiche di psichiatri formati alla pratica psicoanalitica. Questi psicoanalisti di provenienza
psichiatrica propongono agli psicologi un ordine di conoscenze che concerne modelli psicodinamici
a stretta, univoca collocazione intrapsichica; modelli psicodinamici, d’altro canto, rilevabili e
comprensibili soltanto entro la pratica della cura psicoanalitica ed idiosincratici alla cura stessa. Con
quest’ultima affermazione intendo affermare che la fenomenologia psicodinamica indicata dalla
teoria della tecnica psicoanalitica è riferibile univocamente alle condizioni di setting, cioè di
organizzazione della terapia, che prevedono una dimensione acontestuale; nel senso che quanto si
riferisce al contesto, nelle sue differenti articolazioni, viene agito nel setting e non conosciuto
attraverso modelli che implichino, appunto, la dinamica di relazione individuo/contesto.
La professione psicologica ed i modelli di conoscenza. Non mi soffermo più di tanto su questo
modello conoscitivo, relativo a dinamiche univocamente intrapsichiche.
Penso sia interessante, di contro, considerare la coesistenza dei due modelli ora ricordati
schematicamente, entro la formazione degli psicologi italiani. Si tratta di due prospettive che,
entrambe, precludono ad un accesso professionale credibile sul mercato della committenza nei
confronti di una categoria professionale che conta alcune decine di migliaia di aderenti. La prima,
infatti, è limitata alla utilizzazione del “dato” psicologico quale può essere decisa da ristretti gruppi
di potere. Utilizzazione decisamente in crisi nella società italiana; basti pensare, ad esempio, allo
Statuto dei Lavoratori che ha “vietato” l’esame di dimensioni di personalità per fini gestionali entro
le imprese; ricordiamo il fallimento clamoroso della psicologia scolastica, nel momento in cui gli
insegnanti e più in generale il mondo della scuola ha avocato a sé in base a modelli coerenti con la
prassi didattica e con le finalità formative, la conoscenza degli allievi e della loro relazione entro la
classe e la scuola.
Più in generale è possibile notare come le poche centinaia di psicologi, che nel nostro Paese si sono
dedicati e si dedicano alla ricerca di base, abbiano avuto scarso interesse per l’ampliamento di una
professione psicologica fondata sugli esiti della “ricerca” e sull’applicazione delle teorie proposte in
base alla ricerca stessa.
Se chiamiamo psicologia applicata la professione psicologica fondata sull’individuazione di
invarianti di personalità, è facile evidenziare quanto ristretto sia il mercato di questa prassi e quanto
limitata sia la committenza alla applicazione, appunto, di una conoscenza ristretta all’individuo e
alle sue caratteristiche personologiche.
Considerazioni differenti possono essere poste per la seconda area di conoscenze, che ha inaugurato
nella psicologia italiana l’ipotesi di un mercato e di una prassi “psicoterapeutiche”.
Non mi soffermo sul fatto che, nell’insegnamento universitario e nella pratica sociale, alla
psicoanalisi si siano poi associate e aggiunte altre prassi psicoterapeutiche. Annotando, peraltro,
come la psicoanalisi sia di fatto diversa da tali scuole per la fondazione di un modello conoscitivo
sistematizzato che, unico, si è proposto quale alternativa alla conoscenza delle invarianti di
personalità nella pratica psicologica.
Qui, peraltro, la conoscenza è funzionale alla terapia; l’unico ambito applicativo, professionale
della conoscenza riferita alla dinamica del mondo interno dell’individuo, quindi, è quello della cura
psicoanalitica. Cura psicoanalitica che richiede condizioni di applicazione e di realizzazione del
tutto particolari, tali da renderne funzionale l’accesso a poche persone e per finalità del tutto
peculiari; la psicoanalisi (con tutte le sue derivazioni e filiazioni individuali e gruppali) non è una
vera e propria pratica “terapeutica”, e comunque si rivolge a problematiche che non è corretto
definire entro una casistica psicopatologica; si tratta piuttosto di situazioni le più disparate e
scarsamente comparabili tra loro, caratterizzate dal fatto che singoli individui decidono di accedere
alla cura psicoanalitica.
Penso che se l’Italia proponesse sul mercato ventimila, trentamila “psicoanalisti” si porrebbe come
un “caso clinico” internazionale; lo stesso sarebbe se quegli stessi numeri concernessero più
genericamente degli psicoterapisti.
Sorge allora spontaneo un interrogativo: in quale ambito operano gli psicologi nel nostro Paese?
Non credo sia facile dare una risposta a questo interrogativo, perché non esistono ancora modelli
soddisfacenti per raccogliere e leggere i dati in proposito.
Certamente un gran numero di psicologi in professione operano entro le strutture sociosanitarie
nazionali. Certamente un gran numero di psicologi in professione operano nell’ambito della
formazione aziendale. Altri, organizzati in cooperative, effettuano interventi concernenti specifici
gruppi sociali, specie nell’ambito dell’emarginazione e della devianza.
Ebbene questi psicologi, di fatto, cosa fanno?
Una prima risposta è certa: non misurano invarianti di personalità al fine di applicare la loro
conoscenza ad interventi di potere organizzativo; non effettuano psicoterapie psicoanalitiche, volte
ad indagare ed intervenire sui processi psicodinamici intrapsichici di singoli individui.
Di qui una prima constatazione: se l’Università insegna una prassi fondata su questi due ordini di
conoscenze, ci troviamo confrontati con una vera e propria situazione di “schizofrenia” sociale; si
preparano psicologi con modalità obsolete, e l’Università non “si accorge” delle nuove professioni
psicologiche, non elabora piani di formazione ad esse adeguati.
Ma torniamo al nostro interrogativo: un primo ordine di rilievi concerne le problematiche con le
quali gli psicologi sono confrontati. Ebbene, sembra lecito affermare che si tratta di problemi
riferibili al rapporto individuo/contesto.
4. La relazione individuo/contesto
Nell’ambito di un intervento formativo con dirigenti (“apicali”) di unità operative psicologiche e
psichiatriche si è giunti, sia pure dopo un lungo confronto, ad una definizione dell’obiettivo che si
può riferire al Servizio o Dipartimento di Salute Mentale: facilitare e promuovere l’inserimento
sociale degli utenti del servizio stesso.
Ebbene, una analisi degli “strumenti” atti a realizzare tale obiettivo consente di rilevare due grandi
linee guida della prassi: l’intervento psichiatrico (psicofarmacologico e/o psicoterapeutico)
orientato all’individuo e alla sua malattia; l’intervento psicologico, volto a realizzare l’integrazione
tra individuo e contesto. Spesso gli psicologi si appiattiscono sul ruolo psichiatrico, competendo
con i colleghi medici entro la funzione psicoterapeutica. Si può notare come, nei Sert, gli psicologi
si occupino spesso dei “tossicodipendenti” quali “malati da curare” con la psicoterapia; incontrando
così esperienze frustranti ed altamente problematiche per motivi evidenti, appena si pensi ad un
confronto tra gli strumenti psicoterapeutici e comportamento tossicomanico. Una funzione più utile
sarebbe quella volta ad intervenire sulla “tossicodipendenza”, intesa quale fenomenologia iscritta
nell’area della relazione individuo/contesto.
I formatori, o gli psicologi che nelle organizzazioni produttive si occupano di sviluppo risorse,
valutazione del potenziale, orientamento, counselling, pensano spesso di avere quali utenti i singoli
individui, sia pure caratterizzati nel ruolo o nella funzione. Ma un corretto lavoro in tale ambito non
può non considerare la relazione tra individui o gruppi di individui e contesto.
Questi sono solo alcuni esempi di una professionalità psicologica che richiede teorie e modelli atti a
orientare un intervento sulla relazione individuo/contesto.
In questi ultimi anni, con il gruppo che collabora con me nel lavoro di ricerca all’Università e nella
pratica professionale di intervento psicosociale, ho proposto una teoria che considera la collusione,
il fallimento della collusione e la competenza organizzativa quali fenomenologie costitutive di tale
relazione.
Vorrei qui avanzare alcune considerazioni volte a confrontare le differenti prospettive di prassi
psicologica che abbiano quale unità di analisi l’individuo da un lato, la relazione individuo/contesto
dall’altro.
Il pregiudizio individualista. Propongo di schematizzare nel modo seguente la prospettiva che
considera univocamente l’individuo (v. figura seguente).
L’asse a) può essere definito come l’area delle rappresentazioni che la persona, il singolo individuo
elabora nei confronti dell’organizzazione cui appartiene, o se si vuole del contesto sociale. Tale
rappresentazione può essere considerata nella sua componente cognitiva, organizzata entro un
discorso ostensibile; e nella sua componente fondata sulle simbolizzazioni affettive, riferibile al
modo di essere inconscio della mente.
L’asse b) può essere considerato quale area dei rapporti agiti dalla persona nelle sue differenti
esperienze relazionali, segnatamente nella relazione con lo psicologo.
Si può notare come i due assi siano riconducibili alla definizione delle aree di conoscenza più sopra
individuate quali “invarianti di personalità” (asse a) e “dinamiche intrapsichiche” (asse b).
a
I
O
O
b
S
I = individuo
O = organizzazione, o contesto sociale
S = setting, o modalità con cui viene realizzata la relazione hic et nunc (relazione duale; gruppo di
formazione o di terapia; intervento psicosociale; etc.)
Se lo psicologo si occupa del singolo individuo, in altri termini, ha due alternative: accedere alla
tematica rappresentazionale che l’individuo elabora mentalmente nei confronti del suo contesto;
analizzare quanto viene agito nel rapporto istituito tra il singolo individuo e lo psicologo, nei
differenti setting proposti o comunque realizzati per l’intervento psicologico clinico.
Questo ultimo rapporto può anche essere strutturato tra più persone (gruppo), quale luogo della
dinamica collusiva agita. Di una dinamica collusiva “organizzata” dal contesto istituito dallo
psicologo (terapia di gruppo, t-group, gruppi di incontro o maratona... etc.) senza alcun referente
organizzativo esplicito, al di fuori della struttura relazionale.
Quale è la possibile integrazione di a) in b)? In altri termini, quale rappresentazione
dell’organizzazione viene agita dalle persone nel rapporto di gruppo o nel rapporto duale con lo
psicoterapista?
O ancora, quali categorie conoscitive vengono usualmente utilizzate dallo “psicologo” per
significare tale rappresentazione?
E’ interessante notare come i modelli utilizzati per tale processo di significazione sono
esclusivamente quelli riferiti all’organizzazione familiare. E’utile ricordare, e sottolineare
problematicamente, che la scienza psicologica, nella sua analisi di invarianti di personalità, non si è
affatto limitata a tematiche familiari: lo studio degli stili cognitivi, quello della reazione alla
frustrazione o della motivazione non si esprimono affatto in termini di relazioni familiari. Sorge
allora un interrogativo: il modo di essere inconscio della mente, che pure contribuisce alla dinamica
rappresentazionale, si organizza intorno a temi familiari? Una risposta sensata sembra escludere ciò
che sarebbe una stranezza di difficile comprensione; di fatto la famiglia reale è il luogo elettivo
(anche se certamente non l’unico) ove il bambino, vale a dire ciascun individuo nelle sue prime fasi
di vita, esperisce le proprie emozioni e le primitive simbolizzazioni affettive. La famiglia, in altri
termini è il “primo” contesto; ma non è l’unico, ed è curioso che nell’ottica individuale si pensi che
ogni relazione “affettiva” possa essere descritta nei termini della relazione familiare, facendo
riferimento ai personaggi della vicenda familiare. Tale descrizione, d’altro canto, rappresenta una
invariante che consente allo psicologo (in posizione S) di fare inferenze sulla trasposizione delle
rappresentazioni di O (famiglia) nel rapporto, senza dover elaborare alcuna conoscenza di O.
La famiglia ed i termini istitutivi della famiglia, così come i termini linguistici degli oggetti parziali
sessuali che sostanziano uno degli aspetti della relazione familiare, sono quindi una scorciatoia, che
la psicoanalisi (quale prassi della cura) ha introdotto e consolidato nella cultura psicologica, per la
conoscenza del rapporto tra individuo e contesto. La psicoanalisi, d’altro canto, ha dichiarato
esplicitamente che il contesto interessante per la cura psicoanalitica, così come per la
determinazione del sintomo nevrotico, è il contesto familiare; contesto, è importante sottolinearlo,
descritto univocamente tramite i tradizionali termini familiari.
Qualche studioso, d’altro canto, ha poi tentato di trasporre i termini familistici anche alle
organizzazioni sociali nella loro declinazione più ampia; ipotizzando così di poter “conoscere” le
complesse fenomenologie organizzative con la loro riduzione alle relazioni tra padre-madre-figlio,
al rapporto adulti-genitori-bambini ed alle varie tematiche riconducibili alla tematica edipica o alla
fenomenologia paranoicale e depressiva delle primitive relazioni con l’oggetto.
Tentativi interessanti, nelle loro espressioni più alte, in quanto esprime vano un desiderio di
emancipare il “senso” del rapporto psicoanalitico dal ristretto ambito della cura tradizionalmente
intesa; tentativi altamente problematici in quanto riduttivi, semplificanti, poco utili in definitiva per
un apporto serio e costruttivo di una professionalità psicologica alternativa a quella della
“psicoterapia”.
Come può essere “conosciuta” O? E’ chiaro, speriamo, che la conoscenza di cui parliamo non è
quella sociologica, o quella fondata sulle differenti teorie delle organizzazioni; bensì quella
costituita dal processo di rappresentazione che I si fa di O.
Rappresentazioni sociali e dinamica individuo/contesto. Ebbene, una conoscenza di O implica il
superamento della prospettiva individualistica; si tratta di intendere l’organizzazione contestuale
quale prodotto delle rappresentazioni sociali da parte delle componenti stesse di O, oppure dei suoi
interlocutori privilegiati.
E’ curioso notare come Moscovici ed i suoi epigoni, lavorando nel ristretto ambito della psicologia
sociale sperimentale, non abbiano colto la rilevanza della loro proposta entro la teoria e la prassi
psicologico clinica.
Abbiamo in altra sede discusso (Carli, 1990) la relazione tra dinamica collusiva e processo delle
rappresentazioni sociali. La nostra sperimentazione si sta ora rivolgendo all’analisi del sistema
rappresentazionale da parte delle componenti organizzative di differenti strutture: dai responsabili
dei servizi di Salute Mentale agli studenti della Facoltà di Psicologia, dai laureati in inserimento
entro una grande azienda ai formatori ed ai selezionatori aziendali. I risultati, che intendiamo
presentare in un prossimo futuro con una pubblicazione ad hoc, sono molto promettenti e stimolanti.
Alcuni anni or sono scrivemmo a proposito di uno slogan che ritenevamo importante per lo
psicologo clinico che intende operare nei contesti sociali: “conoscere per intervenire”. Ora ci
sembra di aver fatto un passo avanti sulla strada di tale conoscenza.
Torniamo così alla nostra situazione schematica; ma cambiamo questa volta vertice: poniamoci
nell’ottica di S, del setting utilizzato per l’intervento.
Se l’intervento concerne le componenti di una struttura sociale, se l’obiettivo è quello di analizzare
il processo organizzativo, se la pratica psicologica si pone quale unità di analisi la relazione
individuo/contesto, avremo allora la seguente condizione:
a
I
O
b
c
S
In I avremo più persone che compongono la “popolazione” entro cui lo psicologo intende
sviluppare l’intervento: i membri di una équipe socio-sanitaria, i dirigenti di una specifica area
aziendale, un gruppo di formatori o gli studenti che partecipano ad una iniziativa di tirocinio; ma
anche una persona problematica iscritta nel suo contesto familiare, lavorativo, sociale, o la stessa
persona nel suo fare la domanda allo psicologo. Vale la pena di ricordare, sia pure sinteticamente,
che l’analisi della domanda implica sempre un rapporto tra individuo e contesto: il luogo della
domanda è infatti un rapporto individuo/contesto, e “riproduce” là relazione individuo/contesto che
ha motivato alla domanda stessa.
Questa “popolazione” è portatrice di una rappresentazione sociale dell’organizzazione di
appartenenza (segmento a). La conoscenza di questa rappresentazione da parte dello psicologo
(segmento c) consentirà di finalizzare il rapporto di intervento (segmento b) ad uno specifico
obiettivo: quello di utilizzare la fantasia collusiva agita in b) quale oggetto di pensiero
organizzativo, orientato alla comprensione delle rappresentazioni sociali e ad una loro
modificazione guidata dalla competenza organizzativa che il “pensare su” invera.
E’ importante sottolineare come il pensiero sulla collusione agita, entro l’ottica che considera la
relazione individuo/contesto, non faccia più riferimento alla dimensione stereotipale familistica, ma
utilizzi i modelli descrittivi della dinamica rappresentazionale evidenziati nello studio del segmento
a.
Definiamo come competenza organizzativa la capacità che le componenti organizzative
acquisiscono, tramite l’intervento psicologico, di modificare la rappresentazione sociale della
propria organizzazione e di orientare quindi l’azione ad una maggiore efficienza ed efficacia entro
l’organizzazione stessa.
Si apre così il problema della domanda di intervento presso le strutture organizzative, e dei processo
di fallimento della collusione quale motivazione all’intervento. Problematica trattata in altri lavori, e
che concerne la relazione tra incongruenza degli obiettivi dell’organizzazione e dinamica collusiva.
Incongruenza di volta in volta dovuta a cause differenti: dal cambiamento delle condizioni
funzionali dell’organizzazione stessa alla falsità della sua fondazione sociale.
5. Un orientamento alla lettura dei contributi
Vediamo ora se è possibile tracciare una linea di lettura dei testi.
Si tratta, per la maggior parte, di resoconti concernenti situazioni cliniche; l’implicazione del
“contesto” sembra riferibile, di fatto, alla mancata applicazione, nella trattazione e nella discussione
dei problemi presentati dagli Autori, di tecniche specifiche, definibili in base alle differenti etichette
di scuola dell’ambito cosiddetto psicoterapeutico.
Eppure di psicoterapia si tratta. O di riflessioni che con la prassi psicoterapeutica hanno di sicuro a
che fare.
Una prima osservazione: se facciamo riferimento alla “tecnica” implicita nella quasi totalità dei
lavori, si potrebbe parlare di tematiche “non ortodosse”, “eclettiche” o ... la fantasia può soccorrerci
nel trovare le definizioni più curiose.
Di fatto, se il lettore si pone nel vertice di una qualsiasi teoria della tecnica fondante la prassi delle
differenti scuole psicoterapeutiche, ebbene, i problemi, prima ancora che le tecniche o i modelli
presentati in questi lavori, non sembrano riferibili alle usuali esperienze.
Ma, come ho detto, è incontrovertibile la natura psicoterapeutica dei problemi qui presentati.
E allora, come la mettiamo?
Invito il lettore a porsi, nella sua analisi dei lavori presentati, in un’ottica che non concerne le
tecniche ma il “contesto”. Può essere un esercizio utile.
Porsi nell’ottica del contesto, vorrei sottolinearlo ancora una volta, significa lasciare da parte la
psicopatologia.
Proviamo a “fare” davvero gli psicologi: utilizziamo categorie strettamente psicologiche: categorie
che si riferiscono alle teorie psicologiche e che non comprendono, appunto, la psicopatologia
psichiatrica.
Invito il lettore a guardare da questa angolatura, ad esempio, il “caso psichiatrico”,
interessantissimo, presentato da Roberto Pergher. O quello, altrettanto interessante, di Antonio,
presentato da Correale e coll.
Pensiamo al Simone “aggressivo” o al contesto in cui si articolano tali episodi di aggressione (non
di aggressività) nel caso, ricco di spunti socio-organizzativi, presentato da Brignone. O al dilemma
“strutturale” di Drigo e Marchiori.
Qui, e siamo nel contesto più esplicitamente psichiatrico, la relazione individuo/contesto è evidente.
Ma è evidente anche l’implicazione contestuale degli operatori e la necessità di inquadrare i
problemi (perché di problemi si tratta, è utile sottolinearlo) entro la dinamica istituzionale che li
contiene ed al contempo li evoca.
Ho ricordato per primi gli amici psichiatri perché è nelle strutture dei Servizi di Salute Mentale, dei
reparti di Diagnosi e Cura, nelle Case Famiglia ... che i problemi e il loro trattamento sembrano
ormai, definitivamente, aver preso il posto della sola diagnosi e terapia del singolo, quindi del
pregiudizio individualista.
Al confine tra psichiatria e psicologia, così come al “confine psichico” di cui tratta, si pone a mio
parere il lavoro di Nucara e Pontalti. Qui il rapporto proposto è quello tra matrice familiare
borderline e spazio terapeutico gruppale.
Su un piano più specificamente psicologico clinico si situa un gruppo di lavori presentato da allievi
della Scuola di Specializzazione in Psicologia Clinica: Cariani e Farnese, Di Girolamo, Langher,
Langher e Pini.
Si tratta di riflessioni originate dall’esperienza del tirocinio, ed orientate dai modelli formativi della
Scuola di Specializzazione.
Qui la relazione tra problemi clinici e contesto si definisce su un duplice versante: da un lato la
“natura” del problema descritto, della metodologia e della struttura in cui si opera (counselling per
studenti universitari nel lavoro di Langher, giovani utenti di un DSM per Cariani-Farnese, la
domanda di un asilo nido per Di Girolamo, la fattibilità di un intervento psicologico clinico in una
casa famiglia per psicotici nel lavoro di Langher-Pirri). Dall’altro il contesto “formativo” degli
allievi-Autori dei contributi, quindi la valenza clinica dell’esperienza formativa; questo aspetto del
contesto sembra attraversare i quattro lavori, non esprimersi sempre in modo esplicito, sollecitare
comunque un interesse, a mio modo di vedere, molto elevato.
Leggendo i “grandi padri” della clinica o i presunti grandi padri, abbiamo in parte perso l’attenzione
ai motivi che portano gli Autori di lavori clinici a scrivere quello che scrivono, a resocontare e
commentare il loro lavoro.
Motivi, peraltro, interessanti da decifrare e scoprire per dare senso alla lettura, per trasformarla, a
volte, da assunzione acritica di ipotesi normative alla moda, in riferimento storico all’esperienza, ai
suoi limiti ed al senso della sua comunicazione.
La lettura di questi lavori può essere fatta in questa “chiave”, con attenzione ai temi e problemi
della formazione e dell’apprendimento in Psicologia Clinica.
Seguono due contributi, Solano e Morozzo-Salvatore, che affrontano sotto un profilo teorico la
tematica della relazione individuo/contesto nella pratica clinica. Letture che, pur da vertici
differenti, contribuiscono all’approfondimento del tema proposto in questo numero della Rivista.
Fa parte a sé il contributo di Merlino-Padiglione, che intende affrontare un ambito dì lavoro clinico
particolare, quello dei SERT e delle tossicodipendenze. Area e contesto problematici, come ho
avuto modo di proporre anch’io in un contributo specifico, ove è importante l’analisi delle
coordinate contestuali per orientare un intervento psicologico clinico “sensato”.
Bibliografia
Beretta A., Barbieri M. S. (1974), Il centauro e l’eroe. Il Mulino, Bologna.
Carli R. (1990), Il processo di collusione nelle rappresentazioni sociali, Rivista di Psicologia
Clinica, 3, 282-296.
Matte Blanco I. (1975), The Unconscius as Infinite Sets. an Essay in Bi-Logic,
Gerald Duckworth & Company, London (Trad. It.: L’inconscio come insiemi
infiniti, Einaudi, Torino 1981).
Musatti C. (1982), Documento per un dibattito sullo psicoterapeuta, Psicologia
Clinica, 1, 173-176.
Ruskin I (1987), Le pietre di Venezia, Bur, Milano.
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