Effetti corrosivi?» Problematizzare l`impatto del New Public

«Effetti corrosivi?» Problematizzare l’impatto del New Public
Management e della governance sui social workers del settore pubblico
Riccardo Guidi
Premessa
Questo capitolo intende contribuire a comprendere il peso dei paradigmi riformatori del New
public management (d’ora in poi, Npm) e della governance sulle riconfigurazioni del lavoro e del
servizio sociale. Una finalità che attraversa più dimensioni d’indagine e che dunque richiede di essere delimitata.
Tre sono i riferimenti essenziali che circoscrivono il campo di osservazione di queste riflessioni.
In primo luogo -con riferimento ai soggetti- il capitolo si concentra sugli assistenti sociali che operano nei contesti organizzativi pubblico-statuali, sebbene, in ragione della diffusione dei paradigmi
riformatori citati, la professione di assistente sociale viene esercitata in misura crescente anche fuori
da questi contesti.1 In secondo luogo -con riferimento agli ambiti di servizio e di lavoroun’attenzione specifica verrà dedicata ad un contesto peculiare di funzionamento dei servizi socioassistenziali contemporanei, quello delle partnership pubblico-privato per la gestione di servizi
(d’ora in poi, Pppgs). Queste rappresentano un fenomeno crescente nell’ambito dei servizi socioassistenziali e per certi versi paradigmatico delle nuove direzioni intraprese, in Italia e non solo, con
le riforme del welfare a partire dagli anni ’90. Concentrando l’attenzione esclusivamente su di queste non si intende comunque né contravvenire alla ben maggiore complessità del lavoro degli assistenti sociali né sottovalutare l’importanza di altre partnership pubblico-privato come quelle per la
co-programmazione dei servizi.
In terzo luogo -con riferimento agli intenti specifici di questo contributo- il capitolo restituisce i
risultati di un percorso di ricerca che, rispetto ai soggetti e agli ambiti richiamati, si è preliminarmente indirizzato verso (a) la definizione di un approccio allo studio degli effetti delle riforme e (b)
una prima ricognizione delle evidenze fondamentali e delle questioni aperte negli studi sul peso esercitato dai principi riformatori sulla riconfigurazione del lavoro e del servizio sociale.
L’interesse a focalizzare specificamente l’influenza del Npm e della governance sul lavoro degli
assistenti sociali operanti nella Pubblica Amministrazione (d’ora in poi Pa) -ed in particolare il peso
delle Pppgs- origina dalla portata della posta in gioco. Alcune direzioni paradigmatiche intraprese
dalle riforme ispirate a questi principi tendono a riconfigurare la posizione di «snodo cruciale dei
sistemi di welfare» (Facchini, 2010, 12) occupata dagli assistenti sociali. Il consistente ingresso dei
1
I dati raccolti in Facchini, 2010 confermano la consistente preminenza del lavoro svolto nei contesti pubblico-statali, sebbene si registri un aumento degli assistenti sociali impiegati nel settore non-profit. Consentono
inoltre di escludere la rilevanza quantitativa del fenomeno dell’esternalizzazione del servizio sociale statale a
soggetti del terzo settore (Fiore, Puccio, 2010, 146).
1
soggetti privati nelle funzioni di erogazione (e non solo) dei servizi socio-assistenziali introduce infatti un nuovo intermediario tra Stato e cittadino-utente e rischia di spostare l’assistente sociale verso funzioni finora considerate marginali (ibidem, 22): ciò produce tout court la marginalizzazione
dell’assistente sociale operante nell’ente pubblico? Degenera il suo ruolo? O, al contrario, ne valorizza la professione?
Tali incertezze si estendono oltre. Riformulando infatti la natura stessa del lavoro e del servizio
pubblico, i paradigmi del Npm e della governance mettono in questione gli strumenti fondamentali
con i quali dal secondo dopoguerra è stato attuato il principio di cittadinanza sociale (Bifulco,
2008). Se gli assistenti sociali della Pa costituiscono lo «snodo del sistema di welfare», allora guardare a come si riconfigura il loro lavoro nelle sedi del nuovo welfare (come le Pppgs) è decisivo anche per comprendere gli effetti delle riforme sulla cittadinanza (Ruggeri, 1991).
Il percorso del capitolo si svolge in tre passi. Il primo paragrafo iscrive le Pppgs nel contesto dei
paradigmi fondamentali di ristrutturazione del lavoro e del servizio pubblico (il Npm e la governance), mettendo in evidenzia la potenziale rottura tra questi e l’assetto tipico dei sistemi di welfare
democratici. Facendo principalmente riferimento ad alcuni contributi della letteratura organizzativistica, il secondo paragrafo cerca di definire un approccio allo studio dell’impatto delle riforme. Ciò
dovrebbe aiutare a superare l’appiattimento sui modelli astratti e a volgere più consapevolmente lo
sguardo verso le pratiche lavorative in ristrutturazione. Il terzo paragrafo espone sinteticamente i
risultati ai quali sono giunti alcuni recenti studi empirici che hanno indagato le ristrutturazioni del
lavoro sociale dopo le riforme ispirate ai principi del Npm e della governance. In questa sede si
metteranno criticamente in evidenza sia i risultati raggiunti che i metodi d’indagine seguiti, facendo
emergere in conclusione anche alcune questioni di carattere più generale sulle quali merita forse
concentrare sforzi ulteriori di ricerca.
1. Le partnership pubblico-privato nei paradigmi di riforma: rotture, convergenze, critiche
Per iniziare a rispondere a queste complesse domande di ricerca pare opportuno iscrivere le
Pppgs nei quadri riformatori dai quali origina. Queste sono infatti da contestualizzare in un fenomeno più generale che riguarda le riforme del servizio e del lavoro pubblico ispirate - a partire dagli
anni ’80 in tutte le democrazie “occidentali” - ai criteri del New Public Management (Npm) (Hood,
1991) e della governance (Rhodes, 1997). Sebbene sia stato ripetutamente osservato che esistano
molteplici e contraddittorie versioni dei due paradigmi (Rhodes, 2000, 2007), questi sono comunemente considerati tra le più rilevanti fonti di orientamento dei programmi di riforma del lavoro e del
servizio pubblico.
Sospinti dalle ideologie neo-liberali e promossi sia da governi conservatori che progressisti, i
processi di riforma ispirati al Npm si sono nel complesso caratterizzati per l’utilizzo dei principi e
dei dispositivi gestionali del mercato allo scopo di contribuire a risolvere la crisi di efficienza, efficacia, legittimazione della burocrazia pubblica (Fedele, 1998, Bifulco, 2008, Casula, 2008). Nella
road-map per «reinventare la pubblica amministrazione»,2 i contributi di riferimento del Npm hanno suggerito l’abbandono dei compiti di gestione diretta dei servizi da parte delle agenzie statali,
con il ricorso a fornitori esterni appositamente contrattualizzati, e la focalizzazione dell’ente pubblico competente sulle funzioni di indirizzo e controllo. Per Osborne e Gaebler (ibidem, 59-84) le
amministrazioni avrebbero dovuto specializzarsi nel reperire risorse, fissare priorità e standard e
2
E’ questo il titolo in lingua originale del testo di Osborne, Gaebler, 1995.
2
«far remare» altri soggetti. Avrebbero insomma dovuto offrire «meno amministrazione e più capacità di guida» (ibidem, 69) e lasciare i compiti di gestione dei servizi ai soggetti privati. 3
La preferenza accordata da molte amministrazioni pubbliche all’esternalizzazione della produzione di beni e servizi pubblici a soggetti privati rispetto ad una produzione “fatta in casa” ha avuto
molteplici conseguenze. Una tra le più significative consiste nella generazione di nuove organizzazioni “ibride” (Evers, 2005), nelle quali cioè coesistono e cercano di integrarsi soggetti diversi
(quello pubblico-statuale e quello privato) e principi di regolazione diversi (Polanyi, 1974, Cella,
1997). La diffusione delle Pppgs tende ad “ibridare” anche i rapporti tra ente e cittadino-utente:
seppure la titolarità del servizio erogato resti in carico al soggetto pubblico-statuale, il fornitore del
servizio svilupperà, specie nel settore dei servizi socio-assistenziali, significative relazioni con il cittadino-utente. Peserà dunque sull’attuazione del principio di cittadinanza sociale (Marshall, 1976)
che costituisce tutt’oggi il quadro regolativo entro cui si inseriscono gli interventi di welfare.
Inserita nel paradigma del Npm, la partnership pubblico-privato per la gestione dei servizi socioassistenziali è interpretabile come uno degli strumenti della nuova efficienza della pubblica amministrazione nel campo del welfare. L’attesa è di risparmiare risorse e al contempo realizzare interventi migliori perchè più calibrati sull’obiettivo di soddisfare l’utente, più creativi e disponibili al
cambiamento, meno stigmatizzanti dell’utente e più responsabilizzanti per la comunità. In sostanza
l’attesa è di «fare meglio con meno» (Osborne, Gaebler, 1995, 52). 4
Pur con significative differenze, le partnership con attori privati organizzati acquistano una spiccata centralità anche per il secondo (vasto) paradigma di riforma del servizio e del lavoro pubblico,
quello della governance. Uno dei più significativi minimi comuni denominatori dei differenti approcci che si richiamano a questo paradigma è l’osservazione del superamento delle modalità tradizionali di intendere e svolgere le funzioni pubblico-statuali verso la ridefinizione dei rapporti e dei
confini tra pubblico e privato. I contributi che si richiamano alla prospettiva della governance tendono a concentrarsi su modalità nelle quali attori non statali partecipano alla formulazione e
all’implementazione delle politiche pubbliche, oltre le forme della democrazia rappresentativa
(Mayntz, 2006). Governare «insieme ed attraverso reti» (Rhodes, 2007, 1246) tra attori pubblici e
privati, a molti livelli e in differenti ambiti di policies, dovrebbe servire a trovare soluzioni migliori
e più legittimate ai problemi sociali.5 Un contributo, dunque, anche al complessivo ripristino della
fiducia nell’amministrazione pubblica.
Costituisce un dato ancora problematico per la letteratura la possibilità della coesistenza dei due
paradigmi fino alla costituzione di un unico strumentario a cui ispirarsi per «reinventare la pubblica
amministrazione».6 Pare comunque un dato acquisito che, seppure con evidenti differenze, il para3
Come hanno notato della Rocca, Fortunato, 2006, 115-118, questi principi tendono rafforzare l’autonomia
strategica dei dirigenti pubblici, allontanandoli da un “imprinting” e da una competenza di matrici esclusivamente giuridici.
4
L’“attesa” è comunque da mettere sotto esame mediante analisi contro-fattuali. Forder et al., 1999, hanno
smentito -con specifico riferimento alla realtà dei servizi assistenziali britannici- che le Pppgs generino un risparmio, mentre in Guidi, 2009 abbiamo presentato una realtà quantomeno variegata sulla qualità sociale dei
servizi socio-assistenziali gestiti in partnership con associazioni di volontariato in Toscana.
5
Occorre però menzionare almeno la circostanza che la presunta maggiore efficacia di decisioni prese collegialmente dovrebbe almeno essere passata al vaglio dei paradossi possibili della decisione pubblica
(cfr.Regonini, 2005). Anche in questo caso siamo cioè in presenza di un’attesa che richiede di essere verificata puntualmente.
6
Per Bifulco, 2008, 69-71, il matrimonio tra governance e Npm è «complicato» dalle visioni normative e dalle logiche divergenti, l’una insistente sulla cooperazione e sul consenso, l’altra sull’efficienza e la competitività.
3
digma della governance confermi il Npm sul punto della dissoluzione della separazione netta tra gli
interessi promossi e tutelati dagli attori pubblici e gli interessi degli attori privati (Clarke, Gewirtz,
McLaughlin, 2000, 3). Lungo entrambi i sentieri tracciati dai due paradigmi le partnership pubblicoprivato sono auspicate in vista di progettare (nel quadro della governance) e gestire (nel quadro del
Npm) i servizi pubblici con più efficacia, più efficienza e più legittimità. Pur nel quadro formale
della persistente titolarità pubblico-statuale del servizio erogato, la via della partnership rappresenta
un’innovazione significativa delle tradizionali modalità di organizzazione e di lavoro della Pubblica
Amministrazione, specie nel campo del welfare.
In molti hanno evidenziato il potenziale contraddittorio di questa tendenza verso la ridefinizione
dei confini tra pubblico e privato, osservandone in particolare la deriva «post-democratica»
(Crounch, 2003). Secondo i critici, l’opzione di «far remare» i privati -soprattutto nel campo del
welfare- porterebbe ad una complessiva degenerazione delle politiche e del servizio pubblico. Mentre formalmente l’autorità pubblico-statuale resterebbe intatta nelle proprie prerogative, nella pratica
il potere crescente degli interessi particolari restringerebbe lo statuto pubblico delle scelte politiche
e renderebbe particolarmente opachi i rapporti tra utenti da una parte ed i titolari ed i provider del
servizio dall’altra, confondendone le responsabilità (Crounch, 2003, 79-87, 114). In particolare, il
coinvolgimento del terzo settore nell’erogazione dei servizi pubblici soggiacerebbe ad una retorica
dell’immediatezza e della bontà delle relazioni tra eguali che favorirebbe l’appiattimento e la depoliticizzazione delle questioni connesse al welfare (de Leonardis, 1998, 49-74; Pennacchi, 2008,
105). Le partnership sarebbero una delle manifestazioni più evidenti dei successi raggiunti
dall’ideologia della superiorità a priori dell’auto-organizzazione della società civile sullo Stato. Avrebbero dunque di per sè una forte carica anti-istituzionale, non senza conseguenze sui lavoratori
pubblici che, secondo Crounch, perderebbero progressivamente competenze a favore degli appaltatori privati (Crounch, 2003, 112).
2. Le riforme in pratica: alcuni orientamenti sul mutamento organizzativo ed istituzionale
In virtù di queste considerazioni è possibile fare un primo passo verso la risposta alla nostra domanda di ricerca: i paradigmi riformatori entro il quale è stato generato lo strumento della Pppgs esercitano un peso normativo sulle ristrutturazioni della Pa. Pur con notevoli differenze, Npm e governance vorrebbero dalla Pa più intraprendenza, più attenzione all’efficienza e all’accountability,
maggiore impegno nelle operatività di indirizzo e coordinamento degli interventi (e meno in quelle
di cura diretta agli utenti), maggiore capacità di promuovere le energie esistenti nella “società civile”. La critica post-democratica a questi auspici di cambiamento ci mette utilmente in guardia sul
loro potenziale impatto degenerativo.
Tuttavia, come dimostrano molti studi comparativi sui programmi di riforma ispirati al Npm
(Pollitt, Bouckaert, 2002), il peso esercitato dalle ideologie, dai principi e dai modelli sulla reale riconfigurazione del lavoro e del servizio pubblico è solo in parte diretto e di per sè determinante. Le
raccomandazioni per la managerializzazione della Pa sono, secondo Pollitt e Bouckaert, un «argomento di vendita», uno «strumento retorico» (ibidem, 249), la cui applicazione richiede
«un’adeguata teoria dei contesti» (ibidem, 251). Pollitt e Bouckaert sollecitano ad introdurre una
prospettiva di studio alle riforme che valorizzi la «conoscenza artigianale», cioè fondata
sull’esperienza, sulle specificità locali e sui «materiali con cui si lavora» (ibidem, 253). Anzichè
fermarsi ad un livello macro composto da enunciazioni di principio, modelli e formule che aspirano
all’assoluto, gli autori sollecitano a scendere ad un livello più micro di analisi, ammettendo che
molti miglioramenti (e peggioramenti, si potrebbe aggiungere) sono imprevisti e imprevedibili dai
riformatori (ibidem, 257).
4
Le conclusioni metodologiche a cui giungono Pollitt e Bouckaert nello studio comparato delle riforme del management pubblico trovano un’eco significativa nei lavori di Rhodes sulla governance.
Questi ritiene imprescindibile uno studio decentrato dei mutamenti delle forme del governare che
esplori ogni processo di riforma come «un prodotto contingente di un contesto di significati in azione» (Rhodes, 2007, 1254). Situandosi in esplicita continuità con la svolta interpretativa impressa da
Weick agli studi organizzativi, la proposta metodologica di Rhodes tende a spiegare i mutamenti
della governance concentrando l’attenzione «sulle interpretazioni di ciò che credono e che praticano gli attori» (Rhodes, 2007, 1260). Questo insieme di osservazioni possono essere consolidate se
si considerano alcuni risultati degli studi contemporanei sul mutamento organizzativo.
2.1 L’incidenza degli atti normativi e delle routines per il mutamento organizzativo
La progressiva distanza da modelli organizzativi contraddistinti da una razionalità forte e centralizzata (Bifulco, 2002, 11-31), almeno a partire dagli anni ’70, problematizza lo studio degli effetti
di una riforma rispetto all’attesa di poter introdurre i cambiamenti organizzativi per decreto (Panozzo, 2000), cioè grazie ad un input avente applicazione automatica. I processi di progettazione, definizione e traduzione delle riforme amministrative sono piuttosto complessi ed incerti, esposti a molteplici vulnerazioni della razionalità sin dalla loro ideazione.
I processi di traduzione non avvengono in un “vuoto organizzativo” che attende di essere riempito da nuove disposizioni normative. Al contrario i tentativi di cambiamento dei funzionamenti organizzativi si iscrivono strutturalmente in (e sono diretti verso) contesti entro i quali esistono e interagiscono attori strategici diversi (Crozier, Friedberg, 1977), portatori di emozioni, motivazioni, interessi, mappe cognitive, identità professionali, entitlements situazionali e interdipendenti (Lanzara,
1993, 115-121) e, al limite, contrastanti e incommensurabili (Catino, 2001, 22-23). I contesti “colpiti” dalle riforme della Pa sono dunque un “pieno organizzato” di elementi vivi e vincolanti che fanno la differenza nel percorso verso l’eventuale cambiamento organizzativo. Lo strumento normativo
centralistico è in definitiva un veicolo assai inefficace per il cambiamento organizzativo ed istituzionale (Catino, 2001, 7-8).
La riflessione cognitivistica sulle organizzazioni ha chiarito che le modalità d’azione tipiche delle organizzazioni tendono a consolidarsi in strutturazioni forma “naturale” di routines.7 Incorporando una riserva di conoscenza pratica implicita, le routines costituiscono una risorsa imprescindibile
per ogni organizzazione e per ogni attore, consentendo delle economie cognitive applicate alle modalità di definizione e di soluzione dei problemi. Ogni organizzazione costruisce quindi con il tempo una modalità tipica e reiterata di classificazione degli eventi, consentendo ai suoi membri di inserirli in alcune cornici standard che ne rendono agevole l’interpretazione e dunque il trattamento
(Weick, 1997). Allo stesso tempo, le routines costituiscono una delle più severe criticità per le organizzazioni proprio in quanto rendono “naturale” le pratiche di definizione e soluzione dei problemi. In questo modo, infatti, le organizzazioni mediano (sono, direbbe probabilmente Weick) i
processi di costruzione dei significati e di interpretazione degli eventi e pre-fissano i sentieri per
l’azione in forma di codici tecnici specifici. Il rapporto tra definizione e soluzione dei problemi che
affrontano tende dunque a rovesciarsi: «è il modo in cui viene impostata la ricerca della soluzione
che dà forma al problema» (de Leonardis, 2001, 72). Il “pieno” culturale delle organizzazioni addestra all’incompetenza (Merton, 1966) e disattiva le capacità di formulazioni alternative, limita cioè
le potenzialità di miglioramento delle organizzazioni (Lanzara, 1993, 60-65).
7
Una routine organizzativa è costituita da un insieme di relazioni complesse tra agenti (attori e artefatti) dentro e fuori l’organizzazione che, nel tempo, ha raggiunto una stabilità evoluta a carattere di standard presupposto, che ha assunto dunque il carattere di norma (Lanzara, 1993, 66).
5
Una seria considerazione dell’incidenza di schemi d’azione strutturati e preesistenti nelle organizzazioni interessate da intenti di riforma pare in definitiva decisivo. Con Lanzara, un progetto di
cambiamento della Pubblica Aministrazione ha buone probabilità di fallire qualora non riesca in
qualche modo a promuovere ed assistere la «capacità negativa» dei membri dell’organizzazione,
ovvero l’applicazione di un’attenzione molteplice ed insolita ai propri ordinari oggetti complessi di
lavoro che si ponga all’origine di un rinnovamento delle routines (Lanzara, 1993, 95). Considerata
in questa prospettiva, l’efficacia di una riforma del lavoro e del servizio pubblico è valutabile soltanto in ragione dei mutamenti che riesce a promuovere nelle routines tipiche dei contesti organizzativi locali che il centro riformatore intende funzionalmente pertinenti rispetto ai risultati che si
propone di raggiungere.
Spiegare come si genera una (nuova) routine non è semplice e supera i propositi di questo capitolo. Esiste tuttavia un buon accordo da parte degli studi organizzativi sulla circostanza che l’atto
del pensiero (il proposito e la formalizzazione di un nuovo “programma per l’azione” come quelli
tipici delle riforme amministrative) costituisca una risorsa secondaria per il cambiamento. Il piano
può costituire un orientamento per l’azione, al limite una nuova mappa per costruire delle coerenze
nella propria attività, ma ciò che fa la differenza è piuttosto l’uso del piano (Catino, 2001, 14-15). A
contare è più la dimensione dell’azione che quella del progetto e dell’intenzione, più il quotidiano
della pratica che lo straordinario della deliberazione, più le peculiarità dei contesti e dei processi di
attuazione che gli intenti originari e le fonti d’ispirazione del centro riformatore. Con le parole di
Lanzara:
i piani dunque possono essere utilizzati in situazioni d’azione per produrre l’intelligibilità dell’azione, ma
questa intellegibilità non è contenuta nel piano: essa deve essere continuamente realizzata dagli attori attraverso l’azione (Lanzara, 1993, 82).
Tale considerazione imprime dunque una svolta allo studio del cambiamento organizzativo verso
la problematizzazione, la localizzazione e la pragmatizzazione dei processi di innovazione (Lanzara, 1993, 139). Il che restituisce un ruolo da protagonisti agli attori periferici che “ricevono” i propositi di riforma elaborati al centro: «le modalità e gli esiti dell’adozione di una norma dipendono
dalle caratteristiche degli adopter» (Catino, 2001, 13). Dunque il cambiamento dipende non tanto
dalla bontà dell’atto riformatore che giunge dall’esterno quanto «dal “codice genetico” costitutivo
dell’organizzazione, dalla sua fisiologia» (Catino, 2001, 24). In questo quadro, lo strumento migliore per il cambiamento non sarà la formulazione di piani e l’emanazione di atti di riforma ma
l’impegno per costituire organizzazioni capaci di cambiare (Catino, 2009, 175-176).
2.2 La riforma come processo di apprendimento e di actor-building: il contributo della sociologia
della traslazione
Nel solco di tali considerazioni un contributo rilevante ai presenti fini di ricerca è quello della
cosiddetta “sociologia della traslazione” applicata allo studio delle riforme dei servizi pubblici
(Gherardi, Lippi, 2000, 2002). A fondamento di questo approccio vi è la convinzione che una riforma (o più generalmente una politica pubblica) emanata da un centro decisionale generi conseguenze pratiche solo lungo traiettorie complesse ed incerte. Posizionandosi lungo di queste, gli attori locali periferici (che non decidono né, spesso, “hanno in agenda” la riforma) possono promuovere
o contrastare gli input della riforma. In ogni caso essi ne praticano una rielaborazione originalmente
connessa alle risorse che hanno a disposizione e alla strutturazione del campo nel quale si trovano.
6
I contributi che si inseriscono nel quadro della “sociologia della traslazione” chiariscono che
l’applicazione degli input di riforma transita sempre da una loro «ri-significazione locale» (Gherardi, Lippi, 2002, 184). La traduzione in pratica di una riforma avviene con il contributo attivo ed imprescindibile di un attore reticolare (actor-network) che include tutti i soggetti che a vario titolo vi
sono implicati (Gherardi, 2000, 42). I processi di traduzione locale di una riforma creano dunque
uno specifico spazio d’azione entro il quale soggetti diversi (ma anche oggetti) allo stesso momento
traducono la riforma e costruiscono il soggetto collettivo che la traduce.
In definitiva il mutamento organizzativo (eventualmente) scaturente da una riforma non è un
processo di affermazione di una volontà razionale da applicare e difendere contro le resistenze irrazionali degli attori locali, ma
un processo di creazione collettiva attraverso il quale i membri di una data collettività apprendono insieme, vale a dire inventano e fissano nuovi modi di stare al gioco sociale della cooperazione e del conflitto
(…). Si tratta di un processo di apprendimento collettivo che consente di istituire nuovi costrutti di azione
colletiva i quali creano ed esprimono nel contempo una nuova strutturazione del o dei campi (Crozier,
Friedberg, 1978, 21).
Su questa scia, alcuni autori hanno precisato la matrice sociale dei processi di apprendimento,
ancorandoli alle pratiche ordinarie dei soggetti che agiscono in relazione. Wenger, 2000, ha chiarito
la natura relazionale dell’apprendimento collocandolo dentro “comunità di pratiche”. Le relazioni
tra soggetti accomunati da pezzi di pratica lavorativa sono lo strumento dell’apprendimento. La tensione tra ciò che la “comunità” riconosce come competenze appropriate e le esperienze vissute dal
singolo e dalla “comunità” costituisce una delel fonti più importanti di apprendimento. Questo,
dunque, non può essere separato dalla pratica entro contesti di relazionalità situata: «il lavoro,
l’attività organizzativa e l’apprendimento -scrive Gherardi, 2000, 36-38- non sono attività distinte
all’interno di una pratica».
Possiamo concluderne che, in un quadro d’incertezza, gli assistenti sociali (e più in generale i
social workers) attuano delle condotte che, sebbene vincolate da quadri regolativi e di sovente routinarie, incidono consistentemente sugli esiti delle riforme delle politiche e dei servizi sociali. Anche in assenza di una tematizzazione esplicita del ruolo del lavoratore sociale come promotore e/o
produttore intenzionale di cambiamenti strutturali macro (Banks, 2006), questi dispone dunque nel
proprio operare quotidiano di un potere di traslazione non indifferente.
Smith, 2003, 354 si spinge fino a sostenere che il successo delle strategie ispirate al Npm dipende dagli operatori di base i quali -anche se inquadrati in strutture organizzative costrittive, come ha
originariamente osservato Lipsky- conservano un potere sostanziale che supera quello della mera
implementazione degli ordini ricevuti dai superiori. Occupando una posizione “privilegiata” e svolgendo spesso mansioni rese complesse dagli imprevedibili fattori umani delle relazioni con gli utenti, gli street-level bureaucrats, esercitano di fatto una tale mole di discrezionalità che essi dovrebbero essere considerati, secondo Lipsky, veri e propri policy-makers (Lipsky, 1980, 13-26).8 Potestà e
Ruggeri hanno d’altra parte più volte e da tempo sottolineato (Potestà, 1986, 1994; Ruggeri, 1986)
che un’attenta considerazione delle soggettività al lavoro conduce a trattare la discrezionalità degli
operatori front-line anche in termini produttivi, come «inosservanza funzionale della norma». Il sapere emergente dalla pratica lavorativa può cioè costituire la fonte per una violazione creativa e in8
Questa convinzione è condivisa da un vasto schieramento di studiosi dei servizi pubblici, sebbene il rapporto
tra i processi di traduzione delle politiche pubbliche ed il ruolo degli street-level bureaucrats costituisca uno
dei più frequenti e nondimeno controversi temi della letteratura di public administration. Cfr.Meyers, Vorsanger, 2003, 245-255.
7
telligente degli ordinamenti formali con la quale le finalità sostanziali dell’organizzazione sono raggiunte meglio dell’osservazione puntuale della norma. E più recentemente, alcuni dei più accreditati
studiosi delle riforme dell’amministrazione pubblica hanno fatto notare che
le persone non solo scelgono di disobbedire deliberatamente ad una regola, ma anche sovvertono, ignorano, evitano e ridefiniscono le regole (Bevir, Rhodes, Weller, 2003, 8).
In virtù di questi risultati degli studi organizzativi è possibile compiere un secondo passo in direzione della risposta alla nostra domanda di ricerca: per comprendere la pressione esercitata dalle
Pppgs sul lavoro degli assistenti sociali degli enti pubblici dobbiamo considerare che il cambiamento delle pratiche lavorative è vincolato e condizionato da pre-esistenti routines. Inoltre la traduzione
in pratica delle riforme ispirate al Npm e alla governance può essere inteso come un processo di risignificazione locale degli input riformatori nel quale gli assistenti sociali giocano un ruolo attivo.
La nostra domanda di ricerca può dunque essere meglio soddisfatta mettendo sotto osservazione le
pratiche vincolate di ri-significazione locale delle riforme, la costituzione periferica di actornetwork e le modalità dell’apprendimento collettivo che avvengono nelle Pppgs.
3. Ristrutturazioni del servizio pubblico, partnership pubblico-privato e state social workers:
alcune recenti evidenze empiriche
I mutamenti delle pratiche lavorative degli state social workers 9 derivanti dai principi riformatori
ispirati al Npm e alla governance stanno ricevendo un’attenzione crescente da parte della letteratura
sul lavoro e sul servizio sociale (a cui si aggiunge l’interesse di altre discipline come gli studi lavoristici, di politica sociale e di public administration). A quali risultati pervengono i contributi più
recenti che trattano il peso delle riforme sul lavoro degli state social workers? Quale ruolo gioca la
diffusione delle Pppgs sulla riconfigurazione delle loro professionalità e sull’ethos pubblico? E su
quali opzioni metodologiche sono fondati questi studi?
Una vera e propria rassegna sistematica degli studi da considerare per rispondere a queste domande avrebbe richiesto più di tempo di quanto effettivamente disponibile. I contributi presi in esame sembrano comunque sufficienti per identificare tre principali traiettorie dell’attenzione degli
studiosi sulle domande che si è posto a fondamento di questo capitolo.
3.1 Npm e “Terza Via”: «effetti corrosivi» sugli state social workers?
Una prima e consolidata evidenza dei contributi presi in considerazione riguarda la carica fortemente negativa che le ristrutturazioni del servizio e del lavoro pubblico ispirate in particolare al
Npm hanno esercitato (e continuano ad esercitare) sulle condizioni lavorative e sull’identità professionale degli state social workers, specialmente nei contesti anglofoni.
Secondo Healy, 2009 -la quale argomenta a partire dalla realtà specifica australiana- il Npm ha
una «agenda de-professionalizzante (...) ed effetti corrosivi» (ibidem, 415) per l’identità lavorativa
degli state social workers. L’approccio neo-tayloristico del Npm (cfr.Baines, 2004) tenderebbe a
marginalizzare le professioni sociali meno formalizzabili in task e standard che sarebbero degradate
9
Con questa espressione, mutuata da Jones, 1983, il riferimento è agli operatori sociali che lavorano nelle organizzazioni pubblico-statuali; una terminologia dunque che supera la professione dell’assistente sociale.
L’espressione state social workers è utilizzata in questo paragrafo per meglio considerare i risultati di alcuni
studi condotti nei contesti anglofoni.
8
a «semi-professioni» (Healy, 2009, 407). L’esternalizzazione di molti compiti di gestione a soggetti
del terzo settore è per Healy una strategia di aggiramento delle tutele nella regolazione dei rapporti
di lavoro, con la conseguenza di abbassare i salari degli state social workers e sottoporli a processi
sostanziali di flessibilizzazione subita (ibidem, 403). D’altra parte le forme esistenti di rappresentanza degli interessi dei social workers sarebbero inadeguate, cosicché non vi sarebbe via d’uscita
all’«attacco alle professioni sociali» (ibidem, 402) sferrato dal Npm.
Facendo specifico riferimento alla realtà britannica dei servizi per l’infanzia, reduce dalla pressione sui servizi pubblici esercitata dai governi Thacher, anche Hall, dieci anni prima della Healy
(Hall, 1999), aveva espresso posizioni simili. L’inserimento del servizio sociale nei nuovi quadri
managerialisti produrrebbe effetti degenerativi sulla pratica professionale degli state social workers,
frammentandola in funzioni strumentali (ibidem, 141) ed imponendole un’attenzione al compito più
che alla persona (ibidem, 135). Inoltre la necessità di evitare il potenziale contraddittorio con gli utenti e altri portatori di interesse tenderebbe a sviluppare un atteggiamento attento alla «decisione
difendibile» più che alla «decisione giusta» (ibidem, 135). Ne guadagnerebbero così le esigenze di
controllo da parte del management ma diminuirebbe l’efficacia del servizio.
Con riferimento al medesimo contesto britannico, Banks, 1999, ha espresso un’analoga posizione critica sull’impatto del trasferimento delle funzioni di erogazione dei servizi al settore privato
che frammenterebbe il lavoro sociale. La tendenza alla dissociazione dei compiti di direzione da
quelli di erogazione segnerebbe la trasformazione dell’assistente sociale in care manager, prioritariamente impegnato «nella valutazione dei bisogni, nella gestione finanziaria e nei collegamenti con
soggetti esterni erogatori di prestazioni», nonchè molto coinvolto in valutazioni di compatibilità finanziaria (ibidem, 151).10 In questa transizione di ruolo per molti state social workers, il rischio
maggiore consiste, secondo Banks, nella «limitazione della discrezionalità professionale nel processo decisionale» e nella «sostituzione dei valori professionali con le regole procedurali dettate
dall’amministrazione pubblica o dai singoli organismi» (ibidem, 165).11 Fedeltà verso la propria
professione (con i suoi valori) e fedeltà verso la propria organizzazione, dunque, divergerebbero,
con il risultato di rendere a tratti schizofrenico il lavoro sociale (ibidem, 151).
Baines, 2004, concentrandosi sugli effetti delle riforme ispirate al Npm in tre province canadesi,
conferma e rinforza questo quadro di pressioni sul lavoro dei social workers operanti negli enti
pubblici e nelle organizzazioni non-profit. De-qualificazione, standarizzazione brutale del lavoro,
perdita pressoché completa di autonomia del lavoratore e burocratizzazione della comunicazione
interna tra lavoratori e management (ibidem, 277-280), perdita dei rapporti con gli utenti e transizione verso funzioni impiegatizie e di brokeraggio (ibidem, 278), drastico peggioramento delle condizioni economiche e lavorative (ibidem, 286-288) sono alcuni dei punti più rilevanti del lungo elenco di effetti negativi che il Npm eserciterebbe sui social workers canadesi. La realtà dei nuovi
servizi sociali canadesi descritta da Baines ha profili di radicalità anche maggiori circa il peso rag-
10
Nei termini di McLaughlin, 2009, dopo i provvedimenti governativi dei governi Thatcher di fine anni ’80
ed inizio anni ’90, «il lavoratore è diventato più un broker, responsabile verso il management, o anche un imprenditore nel caso delle residenze private» (ibidem, 1104). A questa trasformazione corrisponderebbe un mutamento nella considerazione degli utenti da “clients” in “consumers” o “customers”. Sulle differenti rappresentazioni linguistiche (e non solo) degli utenti dei servizi, in rapporto alle novità introdotte dal Npm,
cfr.anche Heffernan, 2006.
11
Pur da un altro punto di vista, una conferma significativa della tesi della perdita di autonomia della professione sociale britannica causata dalle riforme ispirate dal Npm viene da Kirkpatrick, 2006, 24. Secondo Baines, 2004, anche nei servizi sociali canadesi è chiaramente osservabile - quale esito delle riforme ispirate al
Npm - una evidente standardizzazione del lavoro e una chiara perdita di autonomia.
9
giunto dal lavoro volontario dentro gli enti pubblici e circa la commistione tra lavoro volontario e
lavoro retribuito (ibidem, 281-286).
Tesi simili sulla condizione degli state social workers sono espresse da alcuni studiosi che si sono applicati a comprendere gli effetti di alcune riforme promosse sotto gli auspici della “Terza
Via”.12 Effettuando oltre quaranta interviste in profondità, Jones, 2001, ha cercato di raccogliere opinioni sugli effetti dei programmi riformatori del New Labour inglese sugli state social workers.
Introducendo le opinioni raccolte, Jones, 2001, 549, scrive: «non mi aspettavo di trovare una storia
felice, ma non ero preparato al grado di stress e d’infelicità in cui mi sono imbattuto». Le evidenze
di «stress ed infelicità» degli state social workers raccolte da Jones risultano «varie, serie e pervasive» (ibidem, 551). Lo stress viene dall’alto, cioè è proprio del contesto organizzativo entro il quale
si lavora e, in particolare, è generato dalla pluralità, dall’aggressività e dall’insensatezza delle richieste dei manager (ibidem, 551-559). Il lavoro degli state social workers intervistati da Jones si
«proletarizza» (ibidem, 559). Mentre da una parte si allenta e si dequalifica la relazione diretta con
gli utenti, dall’altra crescono a dismisura i compiti amministrativi che regolano minuziosamente la
condotta quotidiana degli state social workers. La durezza di tale conseguenza è testimoniata dalle
parole di un operatore intervistati da Jones, 2001, 554 che confessa: «vorrei giusto sapere perchè sto
facendo questo. Non è lavoro sociale». Risultati come quelli raggiunti da Jones, 2001, rendono secondo Ferguson, 2004, 7- un «luogo comune» lo stato di crisi in cui versa il lavoro sociale in
Gran Bretagna, dopo i programmi di «modernizzazione» promossi dal New Labour.
Lo studio di Fawcett e Hanlon, 2009, riferito ai programmi governativi della “Terza Via” australiana, sebbene con toni meno violenti, conferma questa tendenza. I programmi australiani riferibili
alla “Terza Via” accoglierebbero totalmente i principi del Npm e vi aggiungerebbero un’attenzione
alla comunità e alla partecipazione che tuttavia rischierebbe di essere retorica ed ambigua (ibidem,
435-437). In questo quadro, le professioni sociali sarebbero messe in una posizione difensiva ed il
lavoro di comunità, in quanto non standardizzabile, verrebbe svalutato (ibidem, 442).
I contributi presentati costituiscono una base autorevole per sostenere che le ristrutturazioni del
servizio e del lavoro pubblico hanno avuto, almeno a partire dalla metà degli anni ’90, effetti pesantemente negativi sugli state social workers operanti in alcuni contesti nazionali. Da queste letture
del cambiamento si ricava inoltre che la dissociazione tra compiti di direzione e di erogazione dei
servizi e la conseguente diffusione dello strumento delle Pppgs abbiano costituito dei dispositivi di
vulnerazione e degenerazione della professione sociale.
La consistenza delle fonti e le reciproche conferme tra contributi differenti contribuiscono non
poco a consolidare la tesi degli «effetti corrosivi». L’insieme dei contributi, tuttavia, lascia qualche
dubbio rispetto alla scarsa attenzione rivolta alle traiettorie di traduzione pratica delle riforme in
contesti istituzionali ed organizzativi differenti. Per quanto le critiche agli effetti dei paradigmi sul
lavoro sociale siano supportate da solide evidenze empiriche, le analisi spesso trascurano l’esistenza
di “variabili di traduzione” locali. L’impatto dei principi sembra indifferenziato a tal punto da appiattire qualsiasi peculiarità contestuale, come se non esistessero mediazioni tra i principi delle riforme e le pratiche riformate. Come se la forza dei principi riformatori fosse ovunque e comunque
irresistibile e senza ostacoli.
12
Cfr.Giddens A., The Third Way. The renewal of social democracy, Cambridge, Polity Press, 1998. E’ da
notare che il capitolo 3 del testo, dedicato ai rapporti tra Stato e società civile, sostiene tesi vicine a quelle che
compongono il paradigma della governance. Le partnership giocano un ruolo centrale in questo capitolo che
esordisce come segue: «la riforma dello Stato e del governo dovrebbe essere un principio orientativo fondamentale della politica della Terza Via, un processo di espansione ed approfondimento della democrazia. Il governo può agire in partnership con le agenzie della società civile per rafforzare il rinnovamento e lo sviluppo
della comunità» (ibidem, 69).
10
3.2 Altri contesti: il peso delle variabili istituzionali per comprendere gli effetti delle riforme
3.2.1 La lezione degli studi comparativi
A fronte di questa critica è possibile osservare che altri recenti contributi hanno utilizzato delle
“variabili di traduzione” per articolare le analisi sugli effetti delle riforme sul servizio ed il lavoro
sociale. Molti lavori comparativi sui mutamenti del settore pubblico hanno evidenziato -più volte e
seguendo approcci diversi- l’importanza decisiva delle peculiarità istituzionali locali per comprendere i percorsi di traduzione delle riforme (Flynn, 2000; Pollitt, Boukaert, 2002; Bevir, Rhodes,
Weller, 2003).
Altri contributi più vicini al tema specifico della riconfigurazione del lavoro e del servizio sociale consentono di chiarire il peso dei contesti istituzionali locali. Il recente studio di Leicht et al.,
2009 sull’impatto sui lavoratori delle ristrutturazioni del lavoro pubblico negli ambiti della sanità,
dell’educazione e del consulting management in alcuni paesi aventi differenti tradizioni politicoamministrative evidenzia in particolare che le specifiche tradizioni istituzionali possono offrire ai
gruppi professionali maggiori o minori risorse da utilizzare per rispondere ai propositi riformatori
(ibidem, 598). Sulla scorta del pensiero neo-istituzionalista (Powell, DiMaggio, 2001) ed analogamente a Flynn, 2000, 38-42, Leicht et al. sostengono dunque che i propositi di riforma ispirati al
Npm «si sono incontrati con contesti professionali specifici per produrre risposte organizzative distintive» (ibidem, 586).
In definitiva, quindi, l’impatto di queste riforme sui servizi e sui lavoratori dei settori presi in
considerazione sarebbe molto variabile. Sarebbe ad esempio pesante nel contesto istituzionale e
professionale delle scuole canadesi e molto meno evidente nel differente contesto della sanità pubblica francese. Nel secondo caso infatti le pressioni sui lavoratori avrebbero molteplici opportunità
di essere mediate a partire dalla consolidata tradizione istituzionale di preferenza per la fornitura
pubblica dei servizi essenziali. Dunque tra l’introduzione di nuovi principi manageriali e gli effetti
sul lavoro sociale occorrerebbe considerare il potere dei lavoratori di contrastare le riforme, in particolare nella misura in cui questo potere «depends critically on mediating state and societal institutions» (ibidem, 586).
3.2.2 La situazione italiana: più continuità che rottura?
Questi risultati trovano conferma e sviluppo in quelli della recente indagine sui cambiamenti della professione di assistente sociale in Italia curata da Facchini, 2010. Dai contributi ivi presenti risulta innanzitutto evidente il peso di variabili istituzionali -anche all’interno del medesimo quadro
nazionale- su molteplici dimensioni della pratica professionale. Le differenze tra Nord, Centro e
Sud dell’Italia e tra Comuni per ampiezza demografica pesano su molte componenti dell’esercizio
della professione (dall’accesso alla professione alle condizioni economiche di lavoro, dalla specializzazione delle funzioni alla varietà dell’utenza, dalla composizione degli organici al peso delle differenti operatività esercitate dall’assistente sociale).
Il confronto tra i dati raccolti con la ricerca coordinata da Facchini e i dati raccolti con finalità
analoghe dieci anni prima (Censis-Cnoas, 1999) consente inoltre di comprendere se e quanto gli assistenti sociali italiani abbiano cambiato le proprie operatività sotto il peso delle riforme che hanno
promosso le Pppgs. Un primo oggetto di osservazione riguarda il numero di assistenti sociali impiegati nel settore pubblico e nel settore privato: in virtù delle riforme orientate all’alleggerimento delle funzioni statali e, in particolare, delle funzioni di gestione diretta dei servizi, l’attesa potrebbe es-
11
sere quella di assistere ad una diminuzione del numero di assistenti sociali impiegati nei contesti
pubblici ed un aumento di quelli operanti nel settore privato. Come si può notare dalla Tab.1, dalle
indagini del 1999 e del 2010 risulta che si è effettivamente verificato una diminuzione del numero
di assistenti sociali impiegati negli enti pubblici ed un aumento di quelli operanti negli privati, ma
che questa tendenza risulta particolarmente flebile. I dati nel loro complesso sembrano piuttosto fotografare un quadro di stabilità tra le due popolazioni di assistenti sociali. Se a queste cifre aggiungiamo che (Graf.1) gli iscritti all’Albo nel corso del decennio 2001-2009 sono costantemente aumentati, è possibile ipotizzare che da questo punto di vista la professione non conosca né una crisi
né uno stravolgimento.
Tab.1 - Numero Assistenti Sociali impiegati nel settore pubblico e privato. (Fonti: mia rielaborazione dati Censis, Cnoas,
1999; Facchini, 2010).
Tipologia degli enti per cui si lavora
1999
2010
Enti pubblici
85,3%
84,1%
Enti privati
14,7%
15,6%
Altro
0%
0,3%
Totale
100%
100%
Graf.1 - Numero degli Assistenti Sociali iscritti all’Albo per anno. (Fonte: mia rielaborazione “I numeri della professione”, www.cnoas.it/numeri.php (11/09/2010)
Un secondo oggetto di attenzione riguarda i mutamenti delle operatività degli assistenti sociali
italiani. In virtù della diffusione delle Pppgs, l’attesa potrebbe essere quella di osservare ad una differenziazione strutturale delle due popolazioni di assistenti sociali: coloro che operano nel settore
privato tenderebbero ad essere impiegati principalmente nelle funzioni di relazione con l’utente,
mentre dovremmo trovare coloro che operano nel pubblico principalmente impegnati nella programmazione, nel coordinamento e nei rapporti di rete. Lo studio dell’attuale struttura dell’impegno
settimanale degli assistenti sociali e la comparazione con la situazione di dieci anni fa consente di
verificare l’effettività di questi e di altri mutamenti.
L’esame dei dati riferiti al 2010 sembra smentire sia l’attesa specializzazione degli assistenti sociali operanti nel pubblico nelle funzioni di coordinamento, di programmazione e di rete che
12
l’abbandono da parte degli stessi del lavoro diretto con gli utenti. Come può notarsi dal Grafico 2,
infatti, sono piuttosto coloro che lavorano nel settore privato ad investire una maggiore proporzione
di ore nelle funzioni di coordinamento e programmazione, mentre il lavoro di rete e di comunità da
una parte ed il lavoro diretto con gli utenti impegnano le due popolazioni di assistenti sociali per
una proporzione di ore pressoché identica.
Graf.2 - Impiego medio del monte-ore settimanale degli assistenti sociali nel 2010. (Fonte: mia rielaborazione su dati
Prin 2006-2008 “Gli assistenti sociali. Analisi di una professione in trasformazione”).
Graf.3 - Impiego medio del monte-ore settimanale degli assistenti sociali nel 1999. (Fonte: mia rielaborazione su dati
Cnoas, Censis, 1999).
L’esistenza di una base di dati risalente al 1999 consente di istruire una prima approssimativa
lettura di come sta evolvendo l’operatività degli assistenti sociali del settore pubblico e del settore
privato. Il confronto tra i dati riportati nel Grafico 3 con quelli del Grafico 2 mostra soprattutto
l’ascesa del lavoro amministrativo che in poco più di dieci anni è più che triplicato per gli assistenti
13
sociali del pubblico e più che raddoppiato per quelli del privato.13 Sebbene il carico raggiunto oggi
da queste operatività non sia avvicinabile allo stato di “degenerazione” amministrativistica del lavoro degli state social workers anglofoni, è pur vero che la comparazione tra le due serie di dati segna
una dinamica tendenziale molto chiara.
Più complicato è invece capire come stiano evolvendo gli specifici carichi di lavoro destinati al
rapporto con gli utenti e al coordinamento. Sebbene ad una prima impressione, questi sembrino essere in chiara diminuzione, è pur da considerare che l’inserimento, nell’indagine 2010, della specifica tipologia del “Lavoro di rete e comunità” può avere contribuito ad attrarre una parte significativa delle imputazioni, sia per gli operatori del pubblico che del privato.
Pur con le approssimazioni derivanti dall’impossibilità di una perfetta sovrapposizione dei dati
raccolti nel 1999 e nel 2010, è possibile certificare che le quote destinate al lavoro amministrativo,
alla ricerca e alla formazione stiano aumentando -sebbene queste funzioni restino marginali sia per
gli operatori del pubblico che del privato- e che nel lavoro diretto con gli utenti gli operatori del settore privato stiano avvicinando quelli del pubblico i quali sono d’altra parte già stati superati rispetto alle funzioni di coordinamento e programmazione.
In definitiva questi dati sembrano “complicare” molto l’attesa di ristrutturazione delle operatività
degli assistenti sociali derivante dalle indicazioni dei paradigmi del Npm e della governance. I segnali tendono infatti a
1. confermare la matrice relazionale del lavoro dell’assistente sociale, tanto nel settore pubblico
quanto nel privato, in continuità con i valori della professione ritenuti più importanti (smentendo perciò anche l’ipotesi di una frammentazione delle identità professionali dell’assistente
sociale rispetto ai differenti contesti organizzativi italiani) e pur con le variabilità territoriali
accennate (Facchini, 2010, 183);
2. fissare la tendenza alla progressiva crescita del lavoro amministrativo, tanto nel settore pubblico quanto nel privato, a discapito di altre operatività;
3. confutare l’ipotesi di una sopraggiunta prevalenza (e forse anche di una tendenza alla crescita) delle funzioni di coordinamento e programmazione in capo agli assistenti sociali operanti
nell’ente pubblico.
In estrema sintesi, rispetto al quadro emergente dalle analisi condotte sui servizi britannici, il
nuovo contesto italiano non sembra esercitare la medesima pressione degenerativa sull’identità professionale e sulle operatività degli assistenti sociali le quali -sebbene in transizione- sembrano caratterizzarsi per molti aspetti più per la continuità che per la rottura con il passato (Facchini, 2010,
183).14 La complessità delle questioni in campo pare comunque richiedere di restringere la visuale
d’osservazione a casistiche più ristrette ed osservabili con maggiore profondità.
3.2.3 Fermarsi alle variabili istituzionali?
Oltre a rendere conto più o meno approfonditamente dei mutamenti delle pratiche lavorative di
alcuni state social workers, gli studi comparati e quelli riferiti alla situazione italiana hanno il meri13
Il lavoro amministrativo aumenta con modalità direttamente proporzionali al crescere dell’ampiezza demografica del Comune dove si lavora e del livello d’inquadramento contrattuale. Riveste inoltre una rilevanza
del tutto marginale tra gli interessi soggettivi degli assistenti sociali (Facchini, 2010, 169-178).
14
I più potenti elementi d’insoddisfazione riguardano invece la condizione economica e la possibilità di carriera (ibidem, 179), la crescente instabilità del lavoro pubblico (che colpisce per la maggiorparte gli assistenti
sociali più giovani) (Fiore, Puccio, 2010, 157) ed i livelli quantitativi degli organici a disposizione dei servizi
sociali (Ruggeri, 2010, 327-330). Queste conseguenze negative possono essere ricondotte ai paradigmi di riforma, anche se non rispetto al nostro specifico oggetto di indagine.
14
to di introdurre esplicitamente importanti “variabili di traduzione” che consentono di differenziare
gli effetti delle riforme rispetto a contesti istituzionali, organizzativi e territoriali. Utile anche a discutere i risultati dei contributi che evidenziano tout court gli «effetti corrosivi» del Npm e della
Terza Via sul lavoro sociale, pare a questo proposito condivisibile l’osservazione criticometodologica sollevata da Kirkpatrick, secondo cui
le organizzazioni dell’assistenza sociale non dovrebbero essere viste come strumenti passivi di policy.
Non si può presumere che tutto ciò che le nuove politiche abbiano ritenuto necessario sia stato semplicemente traslato in nuovi, premeditati, modelli d’azione. Poichè i servizi sociali sono stati, e in misura considerevole continuano ad essere, forniti da professionisti con forme specifiche di organizzazione nelle quali essi hanno occupato posizioni chiave, gli effetti dei cambiamenti non sempre sono stati quelli attesi. La
capacità di questi gruppi di negoziare o “catturare” il cambiamento in forme che minimizzassero il disturbo alle loro attività ordinarie non dovrebbe essere sottostimata (Kirkpatrick, 2006, 14)
L’osservazione di Kirkpatrick invita a non fermarsi alle variabili istituzionali per comprendere
l’effetto delle riforme sul lavoro ed il servizio sociale e solleva la questione della comprensione del
livello e della peculiarità della/delle discrezionalità esistente/i nei contesti organizzativi riformati.
Mentre gli studi che introducono variabili istituzionali non si pongono la questione e molti
contributi sugli «effetti corrosivi» sostengono la predominanza pressoché assoluta del management
sugli operatori, Evans, Harris, 2004, 890-892 hanno sostenuto -con riferimento ai servizi sociali
inglesi- che la discrezionalità sia «presente nel lavoro sociale anche in aree di pratica (…) che sono
strettamente delimitate da politiche e linee-guida» e che, paradossalmente, proprio la maggiore
regolazione della pratica professionale -generando confusioni e conflitti- possa aumentare la
discrezionalità. Più recentemente Evans, 2009 -con riferimento al medesimo contesto- ha osservato
che tra management e social workers vi sia complessivamente un’intesa sull’identificazione dei
valori centrali della professione e che spesso le organizzazioni richiedano esplicitamente agli
operatori di esercitare una discrezionalità connessa con il proprio sapere professionale (Evans,
2009, 9-11).
3.3 Il peso delle variabili actor-dependent per comprendere gli effetti delle riforme
In altri recenti contributi sul medesimo tema il peso delle “variabili di traduzione” actordependent risalta con maggiore chiarezza. Nel complesso questi studi invitano a ritenere che, accanto a fattori istituzionali che costituiscono vincoli e/o risorse per l’azione, gli state social workers
conservino ed utilizzino attivamente una capacità interpretativa e strategica -radicata nei propri
giudizi personali e professionali e/o nella propria organizzazione- con la quale di fatto condizionano
la reale attuazione dei propositi di riforma.
Lo studio di Hebson et al., 2003 dedicato agli effetti delle Pppgs in ambito sanitario sull’“ethos
pubblico” britannico costituisce un primo contributo che evidenzia le dimensioni strategiche proprie
dei lavoratori “colpiti” dalle riforme. Dallo studio di due Pppgs gli autori concludono che queste esercitano una pesante pressione negativa sullo spirito pubblico dei servizi e in particolare sulle funzioni di accountability. In questo caso, il management privato non apprende ad esercitare con spirito
pubblico i compiti appaltati dal National Health System, mentre è il management pubblico ad apprendere ad agire sul terreno del privato, trasformando le proprie funzioni di valutazione in un gioco
di interpretazioni e manipolazioni delle previsioni contrattuali (ibidem, 490, 498). Le Pppgs studiate
da Hebson et al. hanno effetti negativi anche sulle condizioni e sulle motivazioni dei lavoratori transitati dal National Health System alla gestione in partnership del servizio. Tuttavia, seppure con elevati livelli di frustrazione, i lavoratori intervistati tendono nella pratica a superare i compiti e gli
15
standard contrattuali sotto i quali sono inquadrati nella partnership, mettendo invece al centro i valori tradizionali del servizio pubblico (ibidem, 494). Ritenendo inappropriato abbracciare la logica
del profitto nell’ambito del servizio ad utenti deboli, essi -in opposizione agli indirizzi del nuovo
datore di lavoro- conservano l’orientamento all’utente quale impegno prioritario.15
Lo studio di Sawyer et al., 2009, basato sullo studio in profondità di un servizio multiprofessionale di assistenza territoriale per disabili ed anziani nello Stato di Victoria (Australia), offre un quadro molto differenziato degli effetti sugli state social workers delle riforme del servizio ispirate dal
Npm. Sawyer et al. sostengono che ciò che fa la differenza, in definitiva, sono le modalità con le
quali gli state social workers implicati nel servizio riformato interpretano i nuovi standard di lavoro,
rappresentandoli come strumento per difendere/rafforzare oppure per offendere/dequalificare la loro
identità lavorativa. Anche all’interno della medesima cornice macro-istituzionale ed organizzativa,
secondo Sawyer et al., non è possibile dunque dare giudizi omogenei sugli effetti della ristrutturazione del servizio pubblico. Inoltre coloro che sviluppano una razionalità critica rispetto alle nuove
procedure di lavoro non si limitano a denunciarne l’inappropriatezza ma, ritenendosi capaci di esercitare una discrezionalità positiva, violano consapevolmente i nuovi protocolli lavorativi per meglio
rispettare quella che secondo loro è la missione del servizio (ibidem, 372-376).
Dallo studio di Sawyer et al. non emergono dunque né evidenze che confermino la tesi che il
Npm abbia di per sé degenerato il servizio ed il lavoro sociale né evidenze che li abbia valorizzati.
Emerge invece chiaramente l’ampio spettro interpretativo attivato dagli state social workers per relazionarsi alla riforma: essi sono «attori che negoziano le nuove condizioni strutturali, piuttosto che
individui su cui agire e che vengono trasformati dalle nuove strutture» (ibidem, 377).
Con questi contributi è dunque possibile sostenere l’esistenza di “variabili di traduzione” actordependent, oltre a quelle institution-dependent. Gli state social workers si confrontano cioè con i
nuovi protocolli lavorativi con un peculiare atteggiamento passivo-proattivo (Banks, 2006) consistente nel ricevere le nuove disposizioni e re-interpretarle rispetto alle proprie convinzioni personali, a quelli che si ritengono essere i valori professionali e alle routines tipiche dell’organizzazione.
Essi conservano dunque, sebbene sul piano dell’informalità, una discrezionalità interpretativa che
possono utilizzare in svariate forme ed eventualmente anche contro la logica stessa delle nuove disposizioni, ritenendole disfunzionali a quella che reputano essere la missione del servizio (Manciulli, Potestà, Ruggeri, 1986).
Lo studio sulle partnership tra enti pubblici e associazioni di volontariato per la gestione dei servizi socio-assistenziali in Toscana curata da Guidi, 2009 costituisce un tentativo di tenere insieme
un ampio spettro di “variabili di traduzione”. Il quadro complessivo che emerge da questo lavoro
invita innanzitutto a non trascurare le variabili istituzionali dei processi di traduzione delle riforme
ed anzi a territorializzarle.16 Nel caso specifico della Toscana, infatti, nonostante che le Pppgs siano
particolarmente diffuse (Guidi, 2009, vol.1, 179-183), la traiettoria di esternalizzazione dei servizi
non segue il percorso di liberalizzazione tipico di altri contesti regionali italiani.17 I servizi socio15
Baines, 2004, 284-285, riferisce di situazioni nelle quali un senso di obbligazione morale sollecita gli state
social workers ad aggiungere frequentemente ore di lavoro volontario al proprio monte-ore per fornire con
tempestività il servizio richiesto dagli utenti.
16
Questo risultato è coerente con una molteplicità di studi (Bifulco, 2003; Kazepov, 2009) che rendono conto
della svolta localistica delle politiche sociali italiane. La nuova micro-localizzazione della scala territoriale
alla quale si realizza - almeno in Toscana - una parte significativa della co-programmazione delle politiche e
dei servizi socio-assistenziali sembra peraltro segnare una tendenza che, seppure affatto scontata, può accrescere il potere dei soggetti sulle scelte locali (Bobbio, 2006, 78-79).
17
Come ad esempio quello lombardo in cui l’autorità politica «opera fondamentalmente per incentivare, legittimare e istituzionalizzare meccanismi di mercato» (Bifulco, 2008, 106)
16
assistenziali toscani restano saldamente inseriti nel quadro formale dei principi di cittadinanza sociale (cfr.L.R.T.40/2005) e, in quanto tali, sono gratuiti per l’utente ed accompagnati
dall’intermediazione dell’ente pubblico. Inoltre, in virtù della nuova normativa regionale
(L.R.T.60/2008), per l’utente viene previsto un potere di orientamento e valutazione del complesso
dei servizi territoriali che trova la sua sede nei Comitati di Partecipazione delle Società della Salute
(Campedelli, Carozza, Rossi, 2009; Villa, Tomei, 2010).18 Dunque, nonostante gli atti normativi e
regolamentari regionali siano permeabili ai principi del Npm, in Toscana questi principi sono situati
in un sentiero istituzionale che pare subordinarli alla priorità della conservazione dei principi della
cittadinanza sociale.
Una territorializzazione della considerazione di variabili di traduzione path-dependent sembra
opportuna anche per quanto riguarda variabili non propriamente istituzionali eppure strutturali rispetto ai contesti entro i quali si sviluppano le Pppgs. Lo studio citato (Guidi, 2009, vol.1, 172-179)
sollecita in particolare a tenere conto di variabili path-dependent connesse con la tipologia di soggetti “privati” coinvolti nelle Pppgs. In particolare, la specifica configurazione regionale del terzo
settore tende ad essere alla base di peculiari modalità con le quali la Regione Toscana regola le
partnership. In alcuni casi queste tendono ad entrare in frontale contrasto con alcune consolidate acquisizioni della letteratura (ad esempio sulla divisione del lavoro dentro il terzo settore tra servizi
“leggeri” e “pesanti”) e con la stessa normativa (ad esempio sulle regole sulla concorrenza nelle
procedure di appalto dei servizi pubblici).
Infine questo studio evidenzia una pluralità di campi strategici per gli attori implicati nelle
Pppgs, le quali -pur all’interno del medesimo quadro istituzionale (nazionale e regionale)- hanno
esiti assai disomogenei rispetto alle aree di indagine prese a riferimento (Guidi, 2009, vol.1, 77-94).
Dallo studio di dieci casi di Pppgs toscane è possibile concludere che le soggettività degli attori in
campo su entrambi i lati della partnership, le loro capacità di utilizzare le proprie molteplici fonti di
legittimazione dentro i rapporti formalizzati e gli esiti dei conflitti interpretativi sul “buon” servizio
giocano un ruolo chiave nel determinare gli esiti sostanziali delle partnership. In definitiva, più dei
quadri regolativi e dell’identità formale degli attori in campo, pesano i caratteri specifici della relazione che il pubblico ed il privato mettono in campo in specifici contesti organizzativi.
Nelle Pppgs toscane studiate, la pratica lavorativa degli assistenti sociali tende a riconfigurarsi
seguendo strade molto differenti. Tale riconfigurazione d’altra parte segna spesso le tipicità della
nuova organizzazione ibrida nonchè la qualità dei risultati della partnership. La tendenza osservata
in questo caso nella ristrutturazione del lavoro degli assistenti sociali è stata articolata su tre differenti percorsi:
1. scivolamento verso la delega al fornitore del servizio (corrispondente al tendenziale svuotamento della titolarità statuale e alla degenerazione del servizio);
2. amministrativizzazione delle proprie funzioni (corrispondente ad una sclerotizzazione della
partnership sul raggiungimento di obiettivi formali);
3. sviluppo delle competenze promozionali e progettuali (corrispondente ad un miglioramento
del servizio).
La corrispondenza tra sviluppo delle competenze dell’assistente sociale e miglioramento del servizio non deve ingannare circa l’auto-sufficienza delle capacità dell’assistente sociale per il raggiungimento di buoni risultati della partnership. Questi dipendono infatti da una complessa trama
18
Potenzialmente questa previsione legislativa apre peraltro un nuovo spazio d’azione per i social workers in
quanto figure professionali aventi funzioni di facilitazione della partecipazione di utenti deboli al disegno del
sistema dei servizi. Questa chance può essere interpretata come peculiare operatività dell’assistente sociale
nel quadro della governance. Ovviamente per comprendere se e come tale previsioni verranno trodotte in pratica necessiteranno ulteriori sforzi di ricerca.
17
relazionale nella quale tutti i partecipanti fanno valere le proprie capacità interpretative e strategiche. Tuttavia l’osservazione empirica incoraggia a non disperare sul ruolo dell’assistente sociale per
orientare la qualità della partnership e sollecita l’assistente sociale ad esplicitare il confronto sugli
orientamenti e sulle pratiche in campo.
Conclusioni
I funzionamenti dei sistemi di welfare della fase del trentennio glorioso sono stati indagati a fondo. Un’ampia e molteplice letteratura critica ha saputo sollevare -rispetto ad una molteplicità di oggetti, soggetti e contesti- le contraddizioni esistenti a vari livelli tra i principi ispiratori, la formulazione di policies e le realizzazioni concrete. Questi risultati sono stati raggiunti nella misura in cui
gli studiosi hanno saputo andare oltre le formulazioni ideali, mettendole piuttosto alla prova del peso e della variabilità dei contesti e delle pratiche ivi osservabili. Un atteggiamento analogamente disincantato circa il potere assoluto ed immediato delle idee sembra opportuno anche oggi che la stagione del welfare è cambiata.
Lo studio condotto presenta molti limiti e forse giunge a qualche risultato utile. Tra i limiti più
evidenti vi è la necessità di una maggiore sistematicità nella considerazione degli studi condotti sul
tema, di un più esplicito approccio comparativo, di un’estensione dello sguardo anche ad altre
partnership (ad esempio quelle per la co-programmazione dei servizi), di un’attenzione ad aspetti
più strutturali (come i livelli della spesa sociale ed i mutamenti nella regolazione del lavoro degli
assistenti sociali) e di una maggiore riflessione sul potere delle idee per orientare il cambiamento.
Per ricapitolare i risultati -provvisori- si possono citare, per punti, i seguenti.
1) I paradigmi riformatori del Npm e della governance convergono nella ridefinizione dei confini tra pubblico e privato. Esercitano un peso normativo sul lavoro degli assistenti sociali spingendolo verso l’intraprendenza, l’efficienza, l’accountability, la programmazione e giudicano le funzioni
di rapporto diretto con l’utenza inopportunamente collocate tra le operatività degli operatori del settore pubblico-statuale. Osservandone i rischi per la democrazia, alcuni critici hanno utilmente messo in risalto il carattere ideologico dei paradigmi riformatori.
2) E’ tuttavia da considerare che un’attenzione unidirezionale ai paradigmi di riforma rischia di
“banalizzare” i processi della loro traduzione pratica. Questo rischio può essere affrontato facendo
riferimento ad alcuni risultati degli studi organizzativi che insistono sulla scarsa incidenza delle
norme, sulla forte incidenza delle routines, sul ruolo preminente dei soggetti e dell’azione per il mutamento della Pubblica Amministrazione. Un approccio che valorizza tipicamente queste componenti nello studio delle riforme è quello della “sociologia della traslazione”.
3) Il giudizio sugli effetti delle riforme sulle condizioni lavorative e sull’identità professionale
degli state social workers emergente in alcuni dei più recenti contributi sul tema è assai severo. Esiste un consolidato parere circa la perdita di autonomia decisionale, lo scivolamento verso funzioni
amministrative ed il peggioramento delle condizioni economiche. Ciò vale soprattutto per i contesti
anglofoni, laddove si ritiene che il paradigma riformatore del Npm abbia ricevuto un’applicazione
più decisa.
4) Molti studi che certificano gli «effetti corrosivi» delle riforme sugli state social workers trascurano di inserire significativamente nella loro analisi alcune “variabili di traduzione”, restituendo
un panorama particolarmente piatto dei processi mediante i quali i principi riformatori diventano
realtà tangibili. Altri contributi hanno evidenziato invece quanto il peso di variabili connesse alle
tradizioni istituzionali pre-esistenti alle riforme e alle capacità interpretative e strategiche degli attori “colpiti” dalle pressioni riformatrici pesino nel differenziare gli effetti delle riforme sugli state
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social workers. In questo quadro sono iscrivibili le evidenze riscontrate sulla continuità dei valori
professionali e delle operatività degli assistenti sociali italiani. La matrice costitutiva del servizio
sociale italiano resta connessa al lavoro diretto con gli utenti. Le funzioni di coordinamento, programmazione e rete occupano una scarsa quantità del tempo di lavoro degli assistenti social italiani,
il che rende effettivo il rischio di lasciare per intero al partner privato la determinazione pratica degli elementi costitutivi dl servizio.
5) Pluralizzando e territorializzando le variabili di traduzione delle riforme, rispetto al caso specifico delle partnership tra enti pubblici ed associazioni di volontariato in Toscana, sono state rintracciate tre traiettorie di riconfigurazione dell’identità professionale dell’assistente sociale: la
scomparsa di fatto (corrispondente alla perdita della reale titolarità pubblico-statuale sul servizio),
l’amministrativizzazione del proprio ruolo (corrispondente allo stallo del servizio) ed il rafforzamento delle competenze promozionali (corrispondente alla generazione di un servizio di eccellenza). L’identità professionale dell’assistente sociale in tutti e tre i casi si è ri-definita nella pratica
delle relazioni con l’associazione, gli utenti, i dirigenti, i quali esercitano su tale identità pressioni
caso per caso differenti.
Nel complesso dello studio tornano attuali alcune questioni più generali per gli studiosi delle
amministrazioni pubbliche, particolarmente per chi si concentra sulla street level bureaucracy. Quali forme della discrezionalità caratterizza il lavoro della street level post-bureaucracy? E con quali
conseguenze sugli utenti, sulle organizzazioni e sugli stessi street level post-bureaucrats? Quali
rapporti possono esistono tra i paradigmi riformatori, le tradizioni istituzionali e le pratiche lavorative nei contesti in transizione del lavoro e del servizio pubblico?
Un approccio di studio fondato sulla localizzazione dei processi di traduzione, sulla centralità
delle pratiche come sistemi complessi di fare e pensare e sulla valorizzazione dei dilemmi insorgenti all’incrocio tra le credenze e le routines dei lavoratori pubblici (e non) può rappresentare
un’occasione per superare sia l’arroganza delle retoriche innovazionistiche che la nostalgia delle retoriche conservatrici.*
*
Desidero ringraziare le persone che a vario titolo ed in vario modo mi hanno incoraggiato ed aiutato a migliorare il capitolo nel corso della stesura. Oltre a Fedele Ruggeri, in particolare Simona Carboni e Matteo
Villa. Un sentito ringraziamento va anche al personale delle Biblioteche dell’Università di Pisa (Scienze Politiche e Sociali, Filosofia e Storia) che -spesso poco ricordato e sovente operante in condizioni difficili- svolge
funzioni preziosissime per chi cerca di documentare al meglio il proprio lavoro di ricerca.
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