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La formazione di Saverio Muratori nell’ambito della scuola romana
Giorgio Muratore
Sono stato invitato a questo convegno per intrattenervi sulle prime cose di Saverio
Muratori, anzi, addirittura, specialmente sul “contesto” nel quale Saverio Muratori si
è andato formando. Ringrazio perciò chi mi ha preceduto di averci restituito un
quadro straordinario e assai completo dell’opera di Muratori, durante la presentazione
del quale abbiamo visto scorrere sotto i nostri occhi, in pochi minuti, presentato
molto pacatamente e molto correttamente, tutto quello che è stato fatto da questo
personaggio di cui qui, questa sera, stiamo festeggiando il centenario. Ringrazio
quindi Giancarlo Cataldi anche perché, non essendomi portato neanche una
diapositiva, avrei avuto qualche difficoltà a spiegarmi e, invece, voi avete già visto
tutto e avete già capito tutto, quindi il mio intervento potrebbe risultare anche
alquanto supplementare. “Tutto Saverio minuto per minuto” ci ha già spiegato tutto
quello che è stato il senso stesso di questa straordinaria personalità. Però, caro
Giancarlo, via discorrendo tu hai fatto i nomi, da un lato, di alcuni “maestri” di
Saverio, di alcuni “compagni di strada”, ma anche di alcuni “nemici giurati”; e io
credo che tutte e tre queste categorie di personaggi siano state, comunque, e ciascuna
a suo modo, fondamentali nella formazione del personaggio. Come sempre capita,
infatti, uno gli amici, naturalmente, se li sceglie; ma, da un certo punto di vista, uno si
sceglie anche i nemici e, gli uni e gli altri ti servono, comunque, per crescere. Quindi,
quello che vi inviterei a fare con la fantasia ed ovviamente e sull’onda dei ricordi che
tutti abbiamo, è di ricostruire brevissimamente quale fosse il clima reale della Scuola
romana, e non soltanto di quella di Architettura, quando fu frequentata dal nostro, tra
gli ultimissimi anni Venti e i primi anni Trenta. Erano quelli anni difficili e turbolenti
durante i quali, come tutti sanno, proprio tra il Ventotto e il Trentuno si è andata
sviluppando, in buona sostanza, una specie di metamorfosi radicale della cultura
italiana e di quella romana, in particolare. Basterebbe pensare, tanto per fare un
esempio, alla trasformazione dei vari progetti elaborati da Piacentini per la chiesa del
Cristo Re, qualcuno forse ce li ha in mente, per rendersene agevolmente conto. Una
specie di cupola neobarocca alla maniera del Milani, del Magni e del Brasini che
diventa improvvisamente, a tappe forzate, una “modernissima” e straordinaria,
“macchina” tedesca; il tutto nel giro di quelle due esposizioni gestite da quel
temerario picchiatore che era il Bardi dell’epoca e che “squadristicamente” costrinse
tutti a cambiare opinione sull’architettura. Quella del MIAR fu infatti un’operazione,
squadristica a tutti gli effetti, di un gruppo di giovani intellettualmente violenti che
sostanzialmente aggredivano i loro professori e i professionisti che in quel momento
avevano maggior fortuna sulla piazza italiana, per cercare di sostituirsi a loro
rivolgendosi direttamente alle gerarchie del nuovo potere fascista dicendo: questi
sono vecchi, culturalmente obsoleti, da “rottamare”, come si direbbe oggi, arriviamo
noi che abbiamo vent’anni, non ci siamo neanche laureati, ma abbiamo già visto qual
è la verità assoluta del futuro dell’architettura … littoria. Ecco quindi che entrare in
una scuola d’architettura in un momento in cui nel paese capitavano cose del genere
deve essere stato un gran bel problema. Un momento quello che, peraltro, mi
immagino piuttosto simile a quello in cui ci siamo trovati io e tutti quelli della mia
generazione quando, nei primi Sessanta, seguendo quella folkloristica diligenza che
avete visto poco fa fuggire da Valle Giulia abbiamo avuto di fronte, “in cattedra”
come professori Zevi, Quaroni, Piccinato (Tafuri quasi), e tutti gli altri che se ne
stavano lì, tutti “a cassetta”: tutti tranne Saverio Muratori. Muratori, quello no, perché
ci avevano fatto capire che Saverio era un “mostro” dal quale bisognava stare lontani
perché altrimenti ci si sarebbe contaminata una certa idea di architettura del
Movimento Moderno che in quegli anni tutti gli altri, i “moderni” appunto, ma anche
altrimenti i “vincitori”, andavano idolatrando. E credo pure che gli anni, tragici, per
Muratori, i primi Sessanta, quelli della grande contestazione, siano stati molto simili a
quelli che lui si era trovato a vivere negli anni della gioventù, gli anni della sua
formazione e questo me lo rende assai vicino e, anche, particolarmente simpatico.
Trovarsi quindi in mezzo a un casino del genere e poi cercare di tirarne le somme,
effettivamente deve aver significato parecchio per lui e non gli deve essere certo stato
facile trovare la forza, la cultura, la maturità, la capacità e l’autonomia culturale è per
trarsi da quell’impaccio. Quindi lui si forma in quel clima rovente tra i Venti e i
Trenta e si aggrega in quegli anni ad alcuni docenti e ad alcuni colleghi attraverso i
quali collaborerà a lungo avvertendo perspicacemente e interpretando poi alcune
delle grandi mutazioni in atto nella scuola romana. Scuola forse all’antica, magari e
per certi versi anche repressiva, ma fatta molto spesso anche da persone assai capaci e
comunque intelligenti. E’, ad esempio, luogo assai comune citare criticamente il
grande Piacentini e l’altrettanto terribile Giovannoni e c’erano poi insieme a loro
altri fior di personaggi, di primo piano; c’era, soprattutto, il signor Foschini che poi, a
sua volta, era stato il rivoluzionario del caso nel momento in cui con Manfredi si
stava ricostruendo l’insegnamento, cioè costruendo per la prima volta, la nostra
scuola già una ventina d’anni prima. Quindi quello della formazione del Nostro è un
momento in cui tutte queste personalità si confrontano ed entrano in tangenza, spesso
anche in rotta di collisione, un momento ove si sviluppa una linea di ulteriore
approfondimento di tutti quelli che erano stati gli argomenti fondativi della Scuola
Romana, dell’Accademia di San Luca, prima, della scuola di Ingegneria, poi, della
scuola di Architettura, infine, che, di fatto, convergono nei primi anni della nuova
scuola prima di Valle Giulia, ancora, a via Ripetta. Ecco che in quello specifico
contesto si riconoscono ancora quelli che erano stati gli argomenti centrali del
dibattito architettonico degli anni appena precedenti, in fondo l’Italia era stata fatta da
poco e la stessa Scuola di Architettura, in qualche misura, ne fu anche una forma
residuale; lo ha scritto Gustavo Giovannoni tante volte, parlando delle difficoltà dei
primi anni dell’unificazione nazionale e delle difficoltà ancora tutte aperte relative
alla formazione degli italiani, prima come cittadini e poi “in particulare”, come
architetti. Va quindi riconosciuta questa situazione di grande incontro e scontro di
vere e proprie forme di “civiltà”, da un certo punto di vista, di culture, all’interno di
questo dibattito che si era sviluppato alla fine dei Venti e nei primissimi Trenta, dove
ancora c’erano i germi, perché poi gli anni che erano passati non erano tantissimi, del
dibattito, di fine secolo. Era ancora viva allora l’eco delle polemiche che si erano
sviluppate attorno ai grandi edifici, attorno agli interminabili cantieri delle grandi
fabbriche romane di fine Ottocento, cioè i grandi monumenti di Roma Capitale
italiana. Non ci dimentichiamo che il monumento a Vittorio Emanuele non era ancora
stato terminato e c’era ancora un bel pezzo da costruirne, l’avrebbe realizzato poi
Brasini, qualche anno più tardi e lo stesso più o meno si può dire, anche se in forme
diverse, dello stesso Palazzo di Giustizia, due realtà straordinarie che
rappresentavano due forme di cultura conviventi, ma in certo modo anche
antagoniste, che ritroveremo poi aggiornate in forme altrimenti divaricate negli allievi
di quei protagonisti di quella prima stagione e quindi leggiamo la profonda eredità di
Sacconi attraverso le personalità dei suoi ulteriori eredi che escludendo il pur
cospicuo contributo del Cirilli vede in primo piano, nella scuola come nella
professione, la triade Koch-Piacentini-Manfredi che ne cureranno la conclusione
della fabbrica del Vittoriano. E non dimentichiamoci che Koch, Piacentini e Manfredi
non erano, a loro volta, dei “pincopallino” qualsiasi. Koch era sicuramente il più
grande, straordinario architetto che lavorava a Roma in quegli anni, dalla Banca
d’Italia in poi ha realizzato fior di architetture, secondo una lezione che gli veniva da
lontano, veniva dalla scuola neo-vitruviana romana e, guarda caso, nasceva proprio
da Poletti (e siamo qui proprio a Modena che ne fu la città natale). Poi la scuola
romana, attraverso Poletti, era passata a Vespignani per poi approdare
successivamente a quella forma di modernismo neo-cinquecentista di cui Koch fu lo
straordinario protagonista insieme ad altri, ma di cui fu di certo l’interprete principe;
ma, secondo me, la vera anima della scuola romana non è stata né quella di
Giovannoni né quella di Piacentini, ma come giustamente ricordava anche Cataldi nel
suo intervento, è stata quella di Foschini. È il Foschini che mette finalmente a punto
un meccanismo logico e metodologico alla base di una complessa ristrutturazione
didattica. Non mi interessano, qui e adesso, le controversie tardive col suo assistente
diventato professore che poi rivendica ancora un altro tipo di didattica, ché quelle
sono forme edipiche classiche, chiunque sia nato figlio di un “personaggio” poi lo
contesta magari cercando di dimostrare quanto non fosse stato giusto quello che gli
aveva insegnato, ma poi alla fine concludendo sempre e comunque in senso contrario;
ci siamo passati tutti attraverso questo tipo fenomenni comportamentali. Secondo me
il grande personaggio, il grande interprete e protagonista della scuola romana, è
quindi stato sicuramente Arnaldo Foschini, questo personaggio che in fondo e per lo
più sfugge a troppo facili identificazioni classificatorie; se ci chiediamo, infatti, cosa
abbia fatto il Foschini non è che ci venga subito alla mente un’immagine forte, un
edificio sensazionale, un libro epocale. Foschini resta quindi un personaggio, un
grande “tessitore” che nell’ombra della didattica e dell’amministrazione poi esercitò
un ruolo, magari empirico, ma importante, strategico e di assai intelligente modernità.
Foschini lasciava, infatti, che lo studente, naturalmente in maniera seria, facesse
quello che gli pareva, cioè nel senso che era libero di produrre e adottare,
sviluppandoli, un linguaggio, una scelta poetica che poi lui indirizzava, criticava, ma
non condizionava e violentava secondo una metodologia stretta, bloccata, stilistica,
ma dimostrando in questo approccio metodologico una grande apertura, una grande
cultura, una grande liberalità. Quali sono le sue architetture più importanti? Forse, per
prima, viene in mente un’architettura un po’ fredda e alquanto legnosa, d’altronde
“l’algido polettismo neo-vitruviano” era proprio la caratteristica più vera di quella
scuola così rigorosa, e pensiamo così in primis alla chiesa dell’Eur che, peraltro, ci
rimanda immediatamente a quello straordinario e paradossale campanile di San Paolo
che non le sta distante, in quella inquietante collocazione dietro l’abside e non si
capisce bene che cosa ci stia a fare e che cosa significa perché con Roma ci ha a che
fare tutto e niente, ma, nel nome di Vitruvio, questo ed altro, in nome di una
ideologia della modernità, forse, più illuministica, e nel caso di Foschini, massonica,
che altro. Foschini è poi anche il realizzatore di ben altre cose prima che costruisse,
ricostruisse addirittura l’Italia, perché sotto la sua egida, ma non certo sotto la sua
“firma”, fu realizzato, di fatto, l’intero Piano INA-Casa che è e resta, probabilmente,
la più grande operazione edilizia del Novecento italiano, almeno dal punto di vista
del grande coordinamento progettuale di autentico livello territoriale. Proprio quel
Piano INA-Casa, di cui abbiamo visto Muratori interpretare poi alcuni frammenti
importanti e non è certo un caso che Foschini abbia dato proprio a Muratori
l’occasione per sperimentare sotto la sua egida i nuovi linguaggi del dopoguerra.
Anche la stessa, incompiuta, chiesa del Tuscolano, in qualche misura è eredità di
quello stesso stato d’animo ed è sicuramente imparentata anche con l’edificio della
Democrazia Cristiana, perché Foschini era sicuramente influente in quel contesto, in
quel momento; faceva poi anche parte della P2 (matricola n°.32), quindi era
influentissimo e sicuramente poteva e voleva indirizzare per il meglio un certo tipo di
cose. Foschini poi, non dimentichiamolo, ha costruito anche il più bell’edificio
realizzato a Roma tra le due guerre, un edificio ove, a ben guardare, si scopre la
migliore muratura, la più sofisticata apparecchiatura laterizia romana contemporanea;
e non è un caso, infatti, che sia proprio questo l’unico edificio romano
contemporaneo davanti al quale si è commosso lo stesso Giorgio Grassi; e per
“commuovere” Giorgio Grassi davanti a un mattone ce ne vuole, lo conoscete tutti e
sapete, quanto me, quanto sia esigente e anche un po’scostante su certe cose;
l’edificio sta proprio a due passi dalla nostra facoltà, lo conoscete benissimo, è la
Cassa del Notariato, è un edificio splendido, uno dei pezzi più straordinari che si
possa immaginare, ed è un edificio che potrebbe essere firmato da Saverio Muratori.
Non c’è dubbio che Saverio Muratori guardasse a quelle cose di Foschini come a
delle “tavole” di manuale e non c’è alcun dubbio, che anche alcuni suoi giovani
colleghi abbiano avuto un peso determinante nella sua formazione. Saverio aveva
infatti “compagni di strada” come Francesco Fariello, di cui non mi addentro qui a
parlare, ma vorrei che fosse riconsiderato come una figura assai meno marginale di
quanto sia stata considerata fino ad adesso e che non è stato soltanto un personaggio
“dotato di grande memoria” come diceva un po’ malignamente Ludovico Quaroni.
Poi naturalmente lo stesso Ludovico che, da un certo punto di vista, restò per tutta la
vita il vero e proprio alter ego di Saverio e di questo non c’è alcun dubbio. Si vede
quasi la mano dell’uno che si incastra nell’altra e poi gli dà pure la coltellata perché
appena può dice quest’idea è la mia, basterebbe leggere alcune cose su “La città” per
esempio, per capire. «Con le strade, le piazze insieme intrecciate si costruisce uno
speciale tessuto tutto filamenti e nodi che si chiama città – chi l’ha scritto? Saverio? –
strade e piazze sono però formate a loro volta da un elemento generatore che era
prima un edificio religioso, pubblico, militare, industriale, privato, e quindi la cellula
organica della città, la città non sono che un raduno di edifici – ma adesso la faccio
troppo lunga quindi: basta – un edificio è un’opera d’arte interamente diversa dalle
altre, non è dunque la città solamente un congegno tecnico di strade e di piazze essa
è anche il più vivo e sincero riflesso dell’anima di una cittadinanza» certo direte chi
l’ha scritto? Quaroni visto quello che ho detto prima. No, il suo “babbo”, come si
potrebbe altrimenti dire, Marcello Piacentini. Quindi questa è la scuola romana,
questo è il Piacentini, figlio di Pio naturalmente, è quindi c’è il padre Pio, il figlio
Marcello, e poi il nipote, praticamente, Ludovico, e poi c’è anche, naturalmente,
Saverio, queste cose avrebbe potuto quasi sottoscriverle: ma a chi, realmente,
appartengono? Forse, e senza tema di sbagliare, addirittura a qualcun altro dal quale
avevano copiato tutti quanti, magari un austriaco, un tedesco, un francese che aveva
scritto una qualsiasi “Storia della città” alla fine dell’Ottocento. Queste cose sono
anche dei solenni luoghi comuni, cioè “la città è l’espressione più tipica della
società”, l’abbiamo sentito e detto tutti mille volte, forse, tra i primi c’è stato Semper,
ma già Percier e Fontaine avevano detto lo stesso e chissà quanti altri prima di loro, è
una frase condivisibile, al cento per cento, da chiunque, in qualsiasi momento del
tempo e dello spazio e sicuramente anche Alberti e Vitruvio prima di lui ci avevano
pensato. Ecco, quindi, una realtà romana che è molto trasversale ove si mescolano
assieme argomenti squisitamente tecnici e costruttivi con la storia dell’architettura e
se pensiamo a tutti gli aspetti a cui facevamo cenno prima ritrovero i termi di una
specifica complessità che fa della scuola di Roma un luogo centrale del dibattito. Non
a caso, nasce lì anche un Pier Luigi Nervi, nasce lì un Milani che a sua volta aveva
studiato Choisy, nasce un’attenzione a una aggregazione di frammenti più complessi
che sono naturalmente architettonici e urbani insieme, e nasce un’attenzione di tipo
territoriale. Ecco quindi che il gruppo Quaroni, Fariello, Muratori si occupa
esattamente di questo, non dimentichiamoci che Fariello è stato il primo che,
targhettandolo come specifico argomento da “Arte dei giardini” fece un’analisi
territoriale complessa perché i primi ragionamenti alla grande scala, a livello
territoriale sulla “grande dimensione”, sul territorio, sul landscape l’ha fatta proprio
Francesco Fariello addirittura negli anni Trenta, quando come redattore di
Architettura andava in giro per il mondo a visitare l’Europa e forse più tardi anche gli
Stati Uniti per vedere di capire dall’interno tutte queste cose. Ma in Europa ci
andavano comunque tutti e ci andavano insieme Fariello e Muratori e andavano a
vedere che cosa? E così proprio loro che erano entrati nella scuola e si erano
affacciati al mondo dell’Architettura in un momento in cui non si poteva discutere e
mettere in discussione il verbo giusto, il vangelo della modernità, del razionalismo
nordico, sono andati a vedere cosa c’era veramente in Germania e in Svezia e
avevano scoperto che tutto quello che avevano visto sulle riviste e che in fondo era
stato per loro un modello ispiratore per alcuni anni era cosa diversa e scoprono che
tra quello che si impara a scuola, quello che ti fanno vedere sulle riviste, e la realtà è
sempre una cosa affatto diversa. Questi giovani fanno un loro Grand Tour alla
rovescia se vogliamo, in cui invece di puntare su Siracusa si punta su Stoccolma.
Passano per Stoccarda e vedono la stazione di Bonatz e gli prende un colpo perché la
stazione di Bonatz è l’edificio più moderno e più classico allo stesso tempo costruito
in Europa e, altrimenti, quando qualcuno capiterà per caso a Cortoghiana capirà che
Saverio si è fermato lì davanti perché la pilastrata di Cortoghiana nasce sulla piazza
della stazione di Bonatz, sono “identiche” rossianamente “analoghe”, certo
Cortoghiana è un villaggio di quattro gatti che i più non sanno nemmeno esattamente
dove sta, più o meno alla periferia di Carbonia, “ti mando in Sardegna” si diceva una
volta, ma Cortoghiana è dopo, è ancora più in là. Laggiù, a Saverio, gli hanno fatto
fare addirittura una città, ma non era proprio un gran premio, era una cosa che si dava
a un ragazzino di venticinque anni, ha fatto il militare in Sardegna e ha approfittato di
quello per fare una città. Probabilmente quelle stesse colonne che disegnava
Ludovico senza capitello ma con la voluta-capitello rigirata a turbina, che poi non si
capisce se sono egizie, sì, perché egizio era il portale di Asplund davanti alla
biblioteca, le colonne di Bonatz alla galleria di Basilea, tutti frammenti di un viaggio
immaginario in cui si formano, perché quello che si impara a scuola è una cosa, ma
quello che si impara poi da soli, sul campo, per strada, sulle piazze, è forse ancora più
importante e significativo. Come oggi sarebbe bellissimo andare a studiare le opere
dal vero, se i nostri studenti a venticinque anni invece che studiare Zaha Hadid su
Europaconcorsi andassero a vederla in giro quando tornano farebbero sicuramente
un’altra cosa. Un’altra cosa che questi giovani di allora hanno visto molto bene in
Europa è stato Behrens. E così se Saverio non avesse visto a Düsseldorf il palazzo
della Mannesmann sicuramente l’edificio della Democrazia Cristiana sarebbe diverso
e anche tutte quelle memorie asplundiane, ma prima ancora schinkeliane che
ritroviamo nelle opere un po’più tarde, fine anni Trenta, primi anni Quaranta, non
sarebbero potute uscire se non ci fosse stato questo contatto diretto con queste realtà,
il suo progetto non tanto per il palazzo del Littorio a via dell’Impero che è veramente
una cosa giovanile, c’è anche Petrucci. Petrucci è un personaggio di grande
importanza e grande personalità e quindi potrebbe anche non essere tutto suo, cioè a
me quell’idea di una parete enorme tutta scolpita alta 40 metri non mi ha mai
convinto troppo, cioè ha partecipato, ma per esempio tutto l’impianto del Palazzo dei
Congressi, la versione poi che fu plagiata al cinquanta per cento da Libera, che poi
guarda caso si trovano sempre gomito a gomito, cioè Libera lì un leader dei
modernisti che in qualche modo era imitato e copiato all’inizio già quattro anni dopo
viene scavalcato da questi giovani che erano molto più furbi, molto più aggiornati e
più intelligenti, cioè Libera rimane sempre, come diceva Fariello, ma l’avrebbe detto
Muratori, forse era una frase che si ripetevano insieme, “un cartellonista”, cioè Libera
era un grafico, era assolutamente un personaggio legato a un modo di intendere
l’architettura che era tutta visiva, pura forma, quasi una affiche era infatti il suo
progetto, perché spesso sono proprio delle pure forme quelle che privilegiano
l’immagine rispetto alla funzionalità, edifici interessantissimi, ma frutto di un altro
tipo di sensibilità. Poi il gruppo che si forma residuale e che vince la piazza imperiale
di cui accennavamo poco fa è un altro gruppo straordinario perché all’interno di
questo c’è un altro personaggio appena più anziano di loro, che è Luigi Moretti, che
farà, già in quell’occasione, una delle tante capriole della sua vita progettando un
teatro per le masse, che in qualche modo ci rappresenta un’altra vena della scuola
romana, c’erano tre anni di differenza più o meno, tra di loro, ma c’è già una
differenza abissale tra Muratori e Moretti, anche se hanno condiviso gran parte della
vicenda romana e non solo degli anni successivi, in fondo si vede che Moretti era
passato attraverso altre realtà, cioè quelle di Giovannoni e quella soprattutto di
Fasolo, cosa che invece questi altri personaggi non avevano assorbito, se non in parte.
Vedere Fasolo era vedere un personaggio che faceva, avrebbe detto dopo Saverio, “le
figurine”, non era il pupazzettaro di cui faceva riferimento nel famoso testo del
Cinquantanove ma era comunque un pupazzettaro “alla romana” che si era ben
trovato in quel contesto. Quindi già un Moretti figlio di Giovannoni e di Fasolo è
cosa diversa in quel contesto, in quelle stesse stanze che oggi hanno ripreso il nome
di Facoltà di Architettura (in questi ultimi anni si erano disperse sotto le
denominazioni di “Valle Giulia” e “Ludovico Quaroni” ma dal primo novembre
hanno riacquistato questa vecchia identità). Qui si sono sviluppati, negli anni, un
dialogo, un confronto, una lotta spesso anche furibonda, tra personaggi che hanno
vissuto insieme una realtà complessa, anche se poi ognuno ha fatto le sue scelte, ma
che rappresentano al meglio, secondo me, quelli che erano gli aspetti positivi di una
generazione che si è affacciata all’architettura tra il Venti e il Trenta. Naturalmente
poi non vanno tralasciati anche i risultati indotti, gli “effetti collaterali” della scuola
di Muratori che, oltre alla ristretta schiera dei chierici, dei pretoriani e degli ortodossi
di più stretta osservanza, è stata capace di proiettarsi nel tempo, riverberandosi fino a
noi, attraverso le tre personalità più rilevanti della Scuola Romana di fine millennio,
con le tre figure fondamentali di Paolo Portoghesi, Gianfranco Caniggia e Paolo
Marconi.
Grazie.
G.M.
In: GIANCARLO CATALDI (a cura di), SAVERIO MURATORI ARCHITETTO a
cento anni dalla nascita, Aiòn Edizioni, Firenze, 2013.