Domenico Parisi, “Mente. I nuovi modelli della Vita Artificiale” (PDF

Domenico Parisi
“Mente. I nuovi modelli della Vita Artificiale”
Riassunto a cura di: Fabio Ruini ([email protected])
Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia
Facoltà di Scienze della Comunicazione e dell’Economia
Corso di Laurea Specialistica in Economia e Gestione delle Reti e dell’Innovazione
Anno Accademico: 2005/06 (secondo semestre)
Insegnamento: Teorie e Tecniche del Problem Solving (prof. Roberto Serra)
La separazione della mente dal resto della realtà
Domanda: qual è la caratteristica principale che differenzia gli animali dalle piante?
Risposta semplice: gli animali si muovono, le piante no.
Ogni organismo vivente ha bisogno di energia per crescere. Le piante sono capaci di trovarla nella
terra, attraverso le proprie radici; gli animali devono invece ricercare questa energia muovendosi
nell'ambiente. Ma gli organismi viventi, spesso, hanno anche il problema di dover trovare un
partner per la riproduzione sessuale: questo è un altro motivo per il quale gli animali sono costretti a
muoversi. Per quanto questa affermazione non sia sempre corretta, in prima approssimazione
possiamo dunque distinguere gli animali dalle piante in funzione della loro capacità di compiere
movimenti autonomi. Movimenti che possono essere più o meno complessi a seconda del tipo di
organismo: dalla semplice rotazione che può compiere il paramecio, agli (enormemente più
complicati) movimenti propri degli esseri umani.
Quel che è certo è che i movimenti non possono essere compiuti a caso, ma debbono essere scelti in
maniera tale da produrre risultati utili per la sopravvivenza e la riproduzione dell'organismo che li
compie. Questo processo decisivo non può prescindere da una fase di raccolta di informazioni
relative all'ambiente esterno, che arrivano agli animali attraverso il loro sistema sensoriale. La
complessità di questo sistema sensoriale è a sua volta collegata alla complessità dell'animale che lo
include al suo interno: tanto più complesso è l'organismo, tanto maggiore è la mole informativa
necessaria per decidere il movimento da effettuare.
Possedere un ricco repertorio di possibili movimenti ed un sofisticato sistema sensoriale ancora non
basta. Il problema è quello di riuscire a coordinare gli input sensoriali e gli output motori, cioè il
saper scegliere il movimento appropriato in risposta a ciascun input "letto" dall'ambiente. Negli
animali, l'organo specializzato che si occupa di questo compito è il sistema nervoso, una rete di
cellule chiamate neuroni, specializzate nel trasmettere ed elaborare informazione. Alcune di queste
cellule nervose si trovano solitamente sulla superficie del corpo e prendono il nome di "recettori
sensoriali". Il loro compito è quello di fare da "interfacce" tra il sistema nervoso e l'ambiente extracorporale: esistono infatti recettori specializzati per l'energia luminosa, per quella acustica, per la
pressione meccanica, ecc... Una volta ricevuti i segnali provenienti dall'ambiente, la rete neurale che
costituisce il sistema nervoso è in grado di elaborare l'informazione ricevuta. Essa, ad esempio, può:
- stabilire quando due input diversi richiedono la medesima risposta motoria (generalizzazione) o
risposte motorie differenti (discriminazione);
- collegare tra loro due input differenti (associazione);
- collegare input presenti con input passati (memoria);
- neutralizzare parte dell'input, facendo sì che la risposta motoria dipenda soltanto dalla parte scelta
(attenzione).
Stabilito il tipo di elaborazione da effettuare, la parte più interna e centrale del sistema nervoso che
compie tutte queste elaborazioni, ossia il cervello, invia messaggi appropriati ai neuroni motori che
controllano i muscoli, i quali, contraendosi o rilassandosi, producono i movimenti del corpo.
Reagire agli stimoli sensoriali producendo i movimenti appropriati, sotto il controllo del sistema
nervoso, è quello che si chiama comportamento. Questo è un altro elemento distintivo tra piante ed
animali: i secondi hanno un comoportamento, le prime no. Si tenga inoltre presente che il sistema
nervoso é parte attiva anche nel controllare ciò che avviene all'interno del corpo e non soltanto al
suo esterno.
Se tutto questo è il comportamento, che cos'è la mente? E perché, oltre a parlare di comportamento,
almeno per quanto riguarda gli esseri umani, sentiamo il bisogno di parlare anche di "mente"? Nel
linguaggio quotidiano, questa parola ci serve per parlare del comportamento nostro e degli altri, per
descrivere, raccontare, spiegare, prevedere, annunciare quello che abbiamo fatto, che stiamo
facendo o che faremo. E tuttavia, la "mente" non si riferisce direttamente al comportamento, a
quello che effettivamente facciamo e che tutti possono vedere. Si riferisce ad attività ed a stati
interni, privati, soggettivi, che normalmente, ma non sempre, si traducono in comportamenti. Stessa
cosa dicasi per l'aggettivo "mentale". Se, parlando di un organismo, troviamo che ha senso usare
queste espressioni che contengono il sostantivo "mente" o l'aggettivo "mentale", possiamo dire che
quell'organismo, oltre ad un comportamento, ha una mente, ha una vita mentale o psichica, oltre
alla vita in senso biologico. Quindi, se escludiamo per semplicità gli animali nel loro complesso,
almeno gli esseri umani, oltre al comportamento, hanno anche una mente. Ne deriva che, se
vogliamo capire gli esseri umani, limitarci a considerare i loro comportamenti esterni non è
sufficiente. Occorre studiare anche la loro vita mentale o psichica, qualcosa che dall'esterno non si
può osservare se non talvolta per segni indiretti. Anche quando un'essere umano risponde agli
stimoli esterni, infatti, risponde nella pratica a stimoli che la sua mente ha nel frattempo trasformato
sulla base di emozioni, pensieri e ricordi.
La mente come ciò che rende gli esseri umani "speciali"
La parola "mente" non indica soltanto uno dei tanti fenomeni della realtà che la scienza è interessata
a conoscere ed a capire. Il concetto di mente svolge anche un altro ruolo, cruciale nel definire l'idea
che gli esseri umani hanno, anzi vogliono avere, di se stessi. Dire che gli esseri umani "hanno una
mente" serve a considerarli come qualcosa di speciale, qualcosa di radicalmente diverso da tutto il
resto della realtà. Così come altre nozioni, quali "anima" e "spirito", la mente ha la funzione di
tenerci lontani e separati dal resto della realtà, dalla natura, dal nostro corpo e dalla fine del nostro
corpo, ossia la morte.
Si è abituati a pensare che gli esseri umani siano speciali perché hanno la mente; di riflesso, la
mente deve dunque essere a sua volta qualcosa di speciale. Forte di questa convinzione, la scienza
si è sempre rifiutata di studiarla attraverso i metodi scientifici rigorosi delle scienze naturali. Questo
atteggiamento dualistico è perfettamente comprensibile: da un lato esso ci permette di essere più
ottimisti riguardo alla morte (che sarebbe limitata al corpo e non alla mente), dall'altro ci fornisce
una sensazione di "libertà" di fondo insita nei nostri comportamenti. La consapevolezza di avere
una mente fa inoltre sentire speciali gli esseri umani, legittimati così a dominare le altre specie
animali presenti sul pianeta Terra.
In sostanza, per svariati motivi l'uomo tiene in modo particolare alla propria mente, perché è la cosa
che lo rende speciale. E gli esseri umani hanno un grande bisogno di sentirsi speciali.
La scienza e la mente
La scienza, per sua vocazione, tende a darci un quadro unificato della realtà; un quadro che
riconosce quello che i diversi fenomeni ed i diversi aspetti della realtà hanno di specifico e di
particolare, ma che ha soprattutto il compito di connetterli tra loro.
La scienza ha un legame ovvio con la storia: tutta la realtà può essere infatti vista come un grande
processo storico ed evolutivo che "erutta" di tanto in tanto fenomeni nuovi, che prima non
esistevano, ma che sono nati dai fenomeni precedenti e perciò sono ad essi collegabili. Gli esseri
umani, ad esempio, sono un prodotto recente di una lunga e continua evoluzione. Ma oltre ad essere
un fenomeno recente, gli esseri umani sono anche un fenomeno speciale, qualcosa di
essenzialmente diverso da tutto il resto? Se rispondessimo a questa domanda da un punto di vista
prettamente scientifico, potremmo senz'altro giungere ad una conclusione negativa. Ma questa
categorica affermazione non è semplice da accettare. Gli esseri umani esercitano inconsciamente
una certa resistenza all'idea di essere integrati nel quadro unitario che la scienza progressivamente
costruisce della realtà. A testimoniare questa resistenza é sufficiente ricordare l'ostruzione che la
società ha messo in atto di fronte ad alcune delle teorie più "forti" emerse nel corso della storia: la
Terra non è al centro dell'Universo (Copernico), la vita non ha bisogno di uno speciale "principio
vitale" (Darwin), le nostre azioni non sempre sono frutto consapevole delle nostre intenzioni
(Freud). Sempre, di fronte a queste "mosse" della scienza che oggettivamente portano ad una
"normalizzazione" dell'uomo, vi sono state e vi sono resistenze, negazioni, tentativi di aggiramento.
Per la scienza, però, l'uomo continua a non poter essere "speciale", perlomeno non più speciale di
qualunque altro pezzo della realtà. Il campo di battaglia dove si scontrano oggi le due idee
contrapposte (quella che l'uomo sia "speciale" e quella contraria) è la mente. La mente è rimasta
l'ultima possibilità di essere speciale dell'uomo. Nonostante un secolo abbondante di scienza della
mente, ancora oggi siamo nella fase in cui la sua decifrazione è largamente incompleta e quindi
l'idea che la mente sia speciale viene largamente condivisa dalla stessa scienza. L'idea della mente
come "qualcosa di speciale che ci rende speciali" è la base per tenere le scienze dell'uomo lontane
per sempre dalle scienze della natura. Compito del XXI secolo sarà quello di connettere
strettamente le scienze dell'uomo alle scienze della natura e di rivedere radicalmente le divisioni
disciplinari tra le scienze dell'uomo.
La mente divide in due il quadro della realtà costruito dalla scienza
Quali sono i fattori che, almeno in linea di principio, occorre prendere in considerazione per
studiare da che cosa sono determinati il comportamento e la vita mentale di una persona?
Se ci poniamo in una prospettiva piuttosto allargata, possiamo individuare agevolmente tre tipi di
cose o entità, ordinabili gerarchicamente in base alle loro dimensioni fisiche, che influiscono su
comportamento e vita psichica:
-
molecole, cellule, tessuti ed organi, che tutti insieme costituiscono il corpo dell'individuo
(livello più basso della gerarchia);
organismo intero, formato da tante entità del primo livello (livello intermedio della
gerarchia);
-
società e culture, formate da tante entità del livello intermedio, ossia da molti uomini (livello
più alto della gerarchia).
Ciascuno di questi livelli è studiato da uno specifico insieme di discipline: le scienze biologiche si
occupano del primo livello, le neuroscienze e la psicologia indagano il livello intermedio, le scienze
sociali (economia, sociologia, antropologia, ecc...) si interessano del terzo livello.
Questa divisione di compiti tra le diverse discipline scientifiche è comprensibile e giustificabile,
date le esigenze pratiche della divisione del lavoro scientifico e della specializzazione. Tuttavia,
questa divisione non è necessariamente favorevole al progredire della conoscenza scientifica. La
scienza necessita di percorrere dal basso in alto (e viceversa) la gerarchia dei livelli senza incontrare
ostacoli, in maniera tale da poter individuare collegamenti tra fenomeni diversi e saper spiegare
certi fenomeni che accadono ad un certo livello, attraverso osservazioni fatte su altri livelli.
Servendosi del concetto di mente, però, la scienza spezza in due parti il secondo livello, impedendo
il libero movimento lungo la gerarchia. Da una parte rimane il sistema nervoso dell'individuo,
dall'altra il suo comportamento e la sua vita mentale.
Lo sforzo della scienza è quello di scoprire quali sono i meccanismi che stanno dietro ai fenomeni
osservabili. Quando il fenomeno da indagare è il comportamento o la vita mentale, la scienza è però
ambigua ed afferma, da un lato che dietro al comportamento ed alla vita menale ci sia il sistema
nervoso, il resto del corpo, il materiale genetico ereditato (DNA); dall'altro che dietro a
comportamento e vita mentale vi sia la "mente".
Il dualismo contemporaneo tra mente e corpo afferma che per studiare il corpo e per studiare la
mente dobbiamo usare due categorie di concetti diversi. Sostenere che dietro al comportamento ed
alla vita mentale ci siano il corpo, il sistema nervoso ed il DNA significa dire che il comportamento
e la vita mentale debbano essere studiati utilizzando lo stesso apparato di concetti e di modelli che
la scienza della natura usa per studiare tutto il resto della realtà non-umana. Dire che dietro al
comportamento ed alla vita psichica ci sia la mente, significa invece dire che comportamento e vita
psichica debbano essere studiati con concetti e modelli che nulla hanno a che vedere con quelli
della scienza della natura.
La barriera che la "mente" costituisce a metà della gerarchia che abbiamo visto è resa
insormontabile dai differenti vocabolari utilizzati dalla psicologia e dalle scienze della natura. Con
un vocabolario per parlare del corpo ed uno per parlare della mente, il movimento è possibile al di
sotto o al di sopra della barriera costituita dalla mente, ma questo riesce ad attraversare la barriera.
Le sole ricerche possibili sono quelle che, a posteriori, cercano di stabilire delle correlazioni tra
fenomeni al di qua e al di là della barriera. Questo compito è affidato alle "discipline-ponte"
(psicofisica, psicosociologia, neuropsicologia, endocrinologia comportamentale, studio degli effetti
dei farmaci e delle droghe, ecc...), anch'esse basate però su un'idea di fondo di separazione tra
mente e corpo e tra i rispettivi vocabolari.
La "rivoluzione cognitiva"
Tutta la psicologia, attraverso le varie scuole che si sono succedute nel tempo e non solo, studiano
la "mente", nel senso che adottano un vocabolario teorico per parlare di quello che sta dietro al
comportamento ed alla vita mentale, diverso da quello usato dalle scienze biologiche per spiegare
gli stessi fenomeni.
La separazione della mente dal cervello e dal corpo non può non creare un qualche disagio in chi fa
professione di scienza. Il "dualismo concettuale" della psicologia e delle scienze cognitive non
sembra poi così diverso dal "dualismo ontologico" dei filosofi (si pensi alla distinzione tra "res
cogitans" e "res extensa" ipotizzata da Cartesio), il quale sa di vecchio spiritualismo e di
atteggiamento antiscientifico.
Anche all'interno della stessa psicologia, i vocabolari ed i metodi di ricerca utilizzati nei vari
sottocampi sono tra loro differenti. Tutto ciò è stato all'origine di una particolare scuola psicologica,
quella del comportamentismo, la cui proposta era di abolire la mente, considerandola come una
semplice "black box" tra stimoli esterni e risposte motorie. La vita mentale degli individui, secondo
i comportamentisti, semplicemente non esiste, essendo una pure illusione o una semplice
interiorizzazione di stimoli e di risposte esterne. Secondo la stessa linea di pensiero, il
comportamentismo arrivò ad "abolire" anche il cervello.
Il comportamentismo, nato negli Stati Uniti e divenuto predominante anche in Europa per tutta la
prima metà del 1900, fu repentinamente rovesciato da un'invenzione che, almeno apparentemente,
non ha relazioni particolari con la psicologia. E' stato infatti l'avvento dei computer a rendere
possibile la cosiddetta "rivoluzione cognitiva", un movimento di ribellione alla pretesa del
comportamentismo di abolire la mente.
Il modello comportamentista era troppo semplice per poter essere adattato ad organismi complessi
quali sono gli esseri umani, riconducendo il loro comportamento ad una semplice combinazione di
stimoli e risposte. E' fin troppo evidente, infatti, come un organismo appena un po' complesso
reagisca agli stimoli provenienti dal mondo esterno solo in minima parte in funzione diretta di essi.
E' in buona parte ciò che sta dentro all'organismo a determinare la risposta agli stimoli, risposta che
non necessariamente è visibile esternamente. Con la rivoluzione cognitiva degli anni '60 e '70 si
iniziò dunque a considerare come vero compito della psicologia quello di studiare ciò che avviene
tra il momento dello stimolo e quello della risposta. Purtroppo, la strada presa dalla rivoluzione
cognitiva fu quella di considerare che "dentro", tra stimolo e risposta, vi è la mente e non il cervello.
Il computer viene in aiuto della mente
Abbiamo appena accennato al fatto che é stato l’avvento dei computer a favorire l’avvento della
cosiddetta “rivoluzione cognitiva”. L’avvento dei computer, infatti, ha significato un nuovo modo
di guardare alla mente, che si può riassumere nella semplice espressione “la mente è una
macchina”.
Per comprendere questa affermazione occorre innanzitutto chiarire cosa si intenda con il termine
“macchina”:
-
-
un primo significato può essere identificato nella definizione: “artefatto ecnologico
composto di parti in qualche modo isolabili, le quali interagiscono tra loro secondo i principi
della fisica per produrre il risultato voluto”. Una macchina è dunque qualcosa di meccanico,
agisce cioè in maniera prevedibile, precisa, affidabile, sulla base dell’interazione tra le sue
parti che hanno ciascuna un ruolo ben individuabile nel determinare la prestazione
complessiva della macchina;
un secondo significato, che si può vedere come un’estensione del primo, segue la
definizione: “sistema naturale (cioè qualcosa che non abbiamo costruito noi, non un artefatto
tecnologico), il quale sia composto di parti che interagiscono tra loro secondo le leggi della
fisica o, più in generale, della scienza naturale”.
Il concetto tradizionale di macchina, in entrambi i suoi significati, appare basato su due proprietà: la
“meccanicità” (le macchine sono prevedibili, precise, affidabili, fatte di parti con un ruolo
identificabile nel determinare il tutto) e la “naturalità” (le macchine funzionano in base alle leggi
della natura e sono studiabili/progettabili usando gli strumenti della scienza naturale).
La mente umana, quindi, è una macchina? Per Cartesio no, siccome “la mente non può in nessun
modo esser derivata dalla potenza della materia”; per De La Mettrie, invece sì. In generale, in
passato era impossibile dare due risposte diverse alle domande: “la mente è una macchina?” e “la
mente va studiata usando gli strumenti della scienza naturale?”. Con l’avvento dei computer è
diventato possibile rispondere in maniera affermativa alla prima domanda, sostenendo comunque
che la mente non debba essere affrontata mediante gli strumenti ed i metodi delle scienze della
natura. Il computer, inteso come hardware, è infatti una macchina, nel senso tradizionale di
meccanicità e naturalità. Il software è a sua volta una macchina, ma è una macchina “sui generis”.
Esso, infatti, funziona in maniera meccanica, ma non ha nulla a che fare con la materia fisica e con
le leggi della scienza naturale (e quindi non può in nessun modo esser “derivato dalla potenza della
materia”: nulla di ciò che sappiamo sulla materia ci aiuta a comprendere il funzionamento del
computer inteso come software). Conseguenza logica di tutto ciò è che dopo l’avvento dei computer
le macchine possono essere meccaniche senza essere naturali.
L’analogia che i filosofi e gli psicologi hanno dedotto dalla separazione tra hardware e software è
che gli esseri umani funzionino alla stessa maniera dei computer: il corpo è l’hardware, la mente è il
software. L’uomo, così come il computer, è dunque una doppia macchina. Corpo e mente sono, e
vanno tenuti dalla scienza, rigidamente separati. E’ questo il nuovo dualismo che ha reso possibile
la “rivoluzione cognitiva” contro il comportamentismo: tutte le scienze che studiano una mente
immateriale nel senso in cui è immateriale il software del computer si sono consorziate in una
nuova “inter-disciplina”, la scienza cognitiva.
Ma se lo studio della mente deve essere una scienza (pur non facendo ricorso alle scienza naturali),
con quali metodi e concetti deve essere portato avanti? Il problema è stato risolto ancora dal
computer: la nascita dell’informatica, intesa come scienza del software, ha fornito il nuovo apparato
concettuale attraverso il quale poter studiare la mente. Se il computer funziona manipolando
simboli in maniera algoritmica, perché la mente non potrebbe essere considerata a sua volta come
un sistema che manipola algoritmicamente dei simboli? E’ questo ciò che hanno pensato i
cognitivisti, secondo i quali la mente doveva essere una “mente computazionale”: dentro alla mente
ci sono simboli e strutture formate da simboli e la mente funziona applicando algoritmi per
manipolare questi simboli.
L’idea di “mente computazionale” avanzata dai cognitivisti fa sì che essa possa venire studiata
come se fosse una macchina (ossia in maniera rigorosa), conservando però il dualismo rispetto al
corpo ed alle scienze della natura.
La riunificazione della mente con il resto della realtà
Bilancio
Per alcuni decenni, più o meno fino alla metà degli anni ’80, il nuovo dualismo tra corpo e mente
basato sul computer è stato dominante nello studio del comportamento e della vita mentale in tutte
le discipline che formano la scienza cognitiva. Psicologia, linguistica e filosofia ne sono state
profondamente influenzate. Un’altra disciplina è invece sorta proprio sull’onda dell’entusiasmo
suscitato dall’approccio cognitivista: si tratta dell’intelligenza artificiale, che fin dagli albori si è
posta come obiettivo quello di costruire sistemi artificiali capaci di dimostrare di possedere capacità
intelligenti, basandosi sull’idea che l’intelligenza è manipolazione algoritmica di simboli.
Qual è il bilancio che si può fare oggi dell’“operazione” cognitivista? Senz’altro, l’idea della mente
computazionale ha caratterizzato in modo fondamentale, sia da un punto di vista scientifico sia
culturale, la seconda metà del Novecento. Qualche risultato positivo è stato senz’altro raggiunto, ma
nella sostanza l’operazione cognitivista ha contribuito in maniera decisiva a mantenere lo studio
della mente lontano dalle scienze della natura. Ciò che dobbiamo chiederci è se l’idea che la mente
sia una macchina, simbolica ma non fisica, e quindi la costruzione di “macchine pensanti” basate su
quest’idea, ci abbia aiutato o meno a scoprire il modo in cui gli esseri umani pensano. La disciplina
che si è posta esplicitamente l’obiettivo di costruire “macchine pensanti” basandosi sull’idea di una
mente computazionale (e che quindi si limita a manipolare simboli in maniera algoritmica) è stata
l’intelligenza artificiale. E’ quindi da una valutazione dei risultati concreti ottenuti dall’intelligenza
artificiale che possiamo ottenere una risposta al nostro interrogativo. Molti studiosi del
comportamento e della vita mentale sono oggi convinti che le macchine create nell’ambito
dell’intelligenza artificiale non sono in grado di “pensare” nel senso in cui pensano gli esseri umani.
Osservandole attentamente, esse fanno sorgere il sospetto che gli umani non ragionino manipolando
simboli. Si pensi a Deep Blue, che ha sconfitto il campione del mondo di scacchi Gary Kasparov,
adottando strategie del tutto precluse alla mente umana. Oppure si pensi ai sistemi di
riconoscimento vocale, che interpretano il parlato semplicemente come una successione di suoni, a
differenza di quanto fanno gli umani, che sfruttano anche la loro conoscenza del significato delle
parole e delle frasi in cui esse sono inserite, la loro capacità di considerare i vincoli del contesto, la
loro capacità di porre attenzione a ciò che sembra essere interessante (senza farsi influenzare dal
“rumore”). I limiti pratici di queste macchine sono sempre gli stessi: sono tendenzialmente rigide
(incapaci di adattarsi a circostanze non previste), poco creative, poco propense ad apprendere
spontaneamente ed afflitte da grosse difficoltà nell’interazione con l’ambiente fisico esterno.
I sostenitori dell’intelligenza artificiale sosterranno che tutto ciò è dovuto all’attuale imperfezione
delle macchine, destinate a migliorare di pari passo con l’avanzare del progresso tecnologico. Le
difficoltà che queste macchine incontrano, tuttavia, sono negli aspetti caratteristici e fondamentali
della mente naturale. Se le macchine manipolatrici di simboli non sono in grado di “pensare” allo
stesso modo dell’uomo, allora è probabilmente l’idea di fondo che sta alla base della loro
costruzione ad essere sbagliata. I computer, d’altronde, sono stati inventati per sostituire l’uomo in
un limitato e molto specifico insieme di funzioni, precedentemente svolte da “computer” umani.
Costruire una macchina che automatizza i calcoli e poi usare la stessa macchina come modello
dell’intera mente umana è un’idea che semplicemente non può stare in piedi. La conclusione è
semplice: manipolare simboli non è il modo di funzionare della mente. Dovremo arrivare a costruire
una macchina che riproduca le proprietà fisiche degli esseri umani e che poi sia in grado di
“derivare la mente dalla potenze della materia”.
Le cose stanno cambiando
Il cognitivismo e la sua idea della “mente computazionale”, sganciata dalla materia del cervello e
del corpo, ha dominato la scena dalla fine degli anni ’50 ai primi anni ’80. Le cose sono andate
cambiando negli ultimi 15-20 anni: oggi, il dualismo tra la mente e il corpo che la scienza cognitiva
cerca di legittimare con l’autorità del computer non lascia più soddisfatti. Sembra che esista il
desiderio di togliere la mente dal suo isolamento ed anche quello di non pensarla come qualcosa di
speciale, dato che in fondo gli esseri umani non sono speciali.
Sono principalmente tre le cause che stanno dietro a questi cambiamenti. Prima di tutto, come
abbiamo visto nel paragrafo precedente, il bilancio degli sforzi compiuti dall’intelligenza artificiale,
dal punto di vista della comprensione della mente naturale, non è positivo. Non si tratta del fatto che
le “macchine pensanti” che sono state costruite siano poco intelligenti. Semplicemente, la loro
intelligenza appare di tipo diverso rispetto a quella umana. In secondo luogo, le scienze biologiche
(le neuroscienze in particolare) stanno facendo passi da gigante. Diventa ogni giorno meno
plausibile, per chi studia la mente, ignorare queste conoscenze e queste discipline: il gap tra la
mente e le sue basi materiali è sempre minore. Infine, l’analogia tra software e mente ha un altro
punto debole. I programmi per computer, infatti, non sono emersi dall’hardware nel tempo, come
invece la mente è comparsa dalla materia. Il software è indipendente dall’hardware, ma altrettanto
non si può dire per la mente nei confronti del suo supporto fisico.
Le “macchine simboliche” dell’intelligenza artificiale non servono a farci capire la mente naturale,
ma possono comunque essere utili da un punto di vista pratico, siccome esse non sono altro che
un’esternalizzazione della razionalità occidentale. I programmi software incarnano la razionalità:
sono procedure che, prevedendo tutte le eventualità, con la massima freddezza, affidabilità ed
economicità conducono ad un risultato desiderato e ben definito fin dall’inizio. La realtà è troppo
complicata (anzi, complessa) per essere completamente controllata con la conoscenza e l’azione.
Capire la realtà simulandola
Le ragioni più importanti che spiegano il recente cambiamento di clima nello studio del
comportamento e della vita mentale sono due fondamentali novità avvenute in questi ultimi anni
nella ricerca scientifica: una di carattere metodologico, l’altra di carattere teorico. La prima è il
diffondersi della simulazione mediante computer come strumento di ricerca in tutta la scienza; la
seconda è l’affermarsi di modelli che interpretano un numero crescente di fenomeni della realtà
come fenomeni “complessi”.
Per studiare la mente lungo i tre livelli della gerarchia che abbiamo tracciato nel primo capitolo
(cellule, individui, società), un ricercatore dovrebbe essere al tempo stesso un biologo, uno
psicologo ed uno scienziato sociale. E’ anche per questo che la separazione della mente dal corpo
sembra avere una sua giustificazione pratica, a parte le ragioni più profonde di cui abbiamo parlato
in precedenza. Il metodo della simulazione mediante il computer cambia i termini del problema:
essa si aggiunge, come terzo grande strumento, ai due strumenti tradizionali della scienza che sono
l’esperimento di laboratorio e la formulazione di teorie. Se nella “scienza tradizionale” teoria e
fenomeni empirici stanno in due luoghi separati (la teoria nella testa dello scienziato, i fenomeni
empirici al di fuori, possibilmente davanti ai suoi occhi), nella simulazione sia la teoria formulata
dallo scienziato sia i fatti empirici che questa teoria dovrebbe spiegare stanno all’interno di un
computer.
La simulazione è in qualche modo una “sintesi della realtà”: essa cerca di conoscere e di capire la
realtà sintetizzandola, cioè mettendola insieme a partire dalle sue componenti, riproducendola in un
sistema artificiale, creando un suo simulacro. Il ricercatore mette all’interno del computer le
componenti che secondo la sua teoria sono responsabili di un fenomeno e, facendo girare il
programma, osserva se da queste componenti emerge il fenomeno tutto intero. E’ per questo che
teoria e fenomeni empirici sono incorporati all’interno del medesimo unicum.
Rispetto ai metodi della scienza tradizionale, le simulazioni hanno alcuni vantaggi di carattere
generale. Innanzitutto essere richiedono una formulazione chiara e precise delle teorie: eventuali
vaghezze, incompletezze e contraddizioni vengono subito a galla. La simulazione mette inoltre in
evidenza tutte le conseguenze di un fenomeno e non soltanto quelle che lo sperimentatore sta
ricercando. Infine, mentre in laboratorio è possibile studiare soltanto alcuni tipi di fenomeni, la
simulazione permette di simulare tutto. Ma le simulazioni possono anche spingersi oltre e
riprodurre fenomeni che non esistono, che sono possibili ma al di là del reale.
L’adozione della simulazione come metodo di ricerca costringe a semplificare il più possibile il
fenomeno che si sta studiando per individuare i suoi meccanismi più basilari. Proprio perché
semplificano, le simulazioni possono incorporare aspetti biologici, comportamentali e di
organizzazione sociale degli esseri umani, permettendo uno studio contemporaneo delle tre
gerarchie. La simulazione è un “metodo unico” e come tale rende possibile, ad un singolo
ricercatore, studiare fenomeni complessi come sono quelli legati alla natura umana.
Il post-cognitivismo prevede in sostanza un ribaltamento del ruolo del computer. Da modello per
interpretare la mente (tenendola separata dal cervello e dal corpo), il computer diventa uno
strumento di simulazione praticamente indispensabile per studiare la complessità dei processi che
determinano il comportamento e la vita mentale senza separare più la mente dal resto della realtà.
La realtà è fatta di sistemi complessi, non solo di sistemi semplici
Affermando che per capire il comportamento e la vita mentale è necessario studiare il sistema
nervoso, il corpo, il DNA e la biologia in genere, ci si espone all’accusa di riduzionismo, cioè di
credere che il comportamento e la vita mentale siano solo biologia, che le uniche cose “reali” siano
quelle di cui parla il biologo, che il comportamento e la vita mentale siano completamente
determinati dalla genetica, dal sistema nervoso, dalla biochimica del corpo.
Occorre però distinguere tra due tipi di riduzionismi: quello “buono” e quello “cattivo”. Il
riduzionismo buono è semplicemente la scienza, cioè il tentativo di collegare tra loro i fenomeni
spiegandoli in termini di altri fenomeni, la ricerca dei meccanismi più profondi che stanno sotto ai
fenomeni, la ricostruzione del grande processo di evoluzione storica della realtà attraverso il quale
fenomeni nuovi sono emersi ed emergono nel tempo da fenomeni precedenti di natura diversa,
senza interventi miracolosi. Il riduzionismo cattivo è invece il pensare che soltanto i fenomeni della
fisica, cioè quelli più antichi nel tempo, siano i fenomeni veramente “reali”, che esistano soltanto le
leggi di spiegazione della fisica e che i fenomeni nuovi, apparsi dopo quelli della fisica, non siano
veramente nuovi.
Se la biologia è riuscita a risolvere le sue battaglie riguardanti il riduzionismo, altrettanto non si può
dire per quanto riguarda la psicologia, intesa come scienza del comportamento e della vita mentale.
La psicologia deve combattere contro il riduzionismo cattivo (secondo il quale il comportamento e
la vita mentale sono solo biologia), ma anche a favore del riduzionismo buono (secondo il quale
possiamo capire meglio il comportamento e la vita mentale di tutti gli organismi, esseri umani
inclusi, se individuiamo i meccanismi ed i processi di natura biologica che stanno dietro ad essi).
Soltanto l’emergere di nuovi strumenti teorici per interpretare la realtà può aiutare la psicologia a
risolvere i suoi problemi nei riguardi dei due riduzionismi. Uno di questi fenomeni è già emerso: si
tratta della scienza della complessità, la quale ci dice che la realtà non è fatta soltanto di sistemi
“semplici”, ma in buona parte anche di sistemi “complessi”. I sistemi complessi sono spesso
organizzati in una gerarchia di livelli. Numerosi elementi appartenenti ad un certo livello della
gerarchia determinano le caratteristiche di un singolo elemento al livello immediatamente superiore.
Questo ovviamente accresce la complessità dell’intero sistema, dato che si debbono considerare sia
le interazioni tra gli elementi all’interno di un livello, sia quelle tra i diversi livelli.
Negli ultimi anni molte discipline scientifiche hanno preso coscienza del fatto che la realtà è
costituita in buona parte da sistemi complessi. La scienza, dal canto suo, ha cominciato a sviluppare
gli strumenti teorici e metodologici necessari per affrontare lo studio dei sistemi complessi. Gli
strumenti tradizionali degli esperimenti di laboratorio e della matematica, infatti, non funzionano
bene con sistemi di questo tipo. Come sarebbe possibile descrivere con un’equazione un fenomeno
complesso senza che l’equazione, dovendo considerare un grandissimo numero di variabili che
interagiscono tra loro in maniera non lineare, divenga così complessa da perdere ogni utilità ai fini
della nostra comprensione e da essere intrattabile attraverso i metodi matematici “tradizionali”? Il
metodo della simulazione mediante computer, al contrario, sembra creato apposta per lo studio dei
sistemi complessi.
I sistemi complessi possono aiutare chi studia il comportamento e la vita mentale a risolvere i
problemi del riduzionismo. Il comportamento e la vita mentale, infatti, emergono dalle interazioni
tra numerosissimi elementi che sono le singole cellule del sistema nervoso, le diverse componenti
del corpo (molecole, cellule, organi, sistemi), i segmenti di materiale genetico che costituiscono i
geni. Lo studio di queste componenti e delle loro interazioni è essenziale per capire la natura di
quelle proprietà globali di un individuo che chiamiamo comportamento e vita mentale. Si tratta del
miglior esempio possibile di riduzionismo “buono”. Allo stesso tempo, il comportamento e la vita
mentale non possono essere “ridotti”, nel senso del riduzionismo cattivo, alle cellule nervose, alle
componenti del corpo ed ai geni, in quanto il comportamento e la vita mentale sono proprietà
emergenti di sistemi complessi, di cu le cellule nervose, le singole parti del corpo ed i geni sono le
componenti. Come in tutti i sistemi complessi, non è dunque possibile prevedere o dedurre le
caratteristiche del comportamento e della vita mentale conoscendo queste componenti e le loro
interazioni.
Più in generale, considerare che esistano sistemi complessi fa sì che non si possa ridurre alla sola
biologia tutto l’insieme dei fenomeni socio-culturali che influenzano il comportamento umano. Il
comportamento e la vita mentale sono come la punta dell’iceberg di sistemi complessi quali sono
gli esseri umani e le società all’interno dei quali essi vivono.
Nuovi modelli della mente e della società
Nuovi modelli della mente
Se il dualismo tra la mente ed il corpo deve essere eliminato alla radice, la scienza deve usare
concetti e modelli che non facciano nessuna distinzione tra la mente e il corpo. E’ necessario quindi
partire, fin dall’inizio, da concetti e modelli che siano allo stesso titolo applicabili sia al corpo, sia al
comportamento ed alla vita mentale.
Quando si parla di comportamento e di mente, la parte del corpo a cui prima di tutto si pensa è
naturalmente il sistema nervoso, il cervello. Il sistema nervoso è quella parte del corpo che si è
specializzata nel governare il comportamento, ma è tutto il corpo ad influenzare ciò che un
individuo fa, pensa, immagina, sente, ecc… I manuali di psicologia comprendono quasi sempre una
parte dedicata al sistema nervoso, ma poi lo ignorano del tutto quando si tratta di spiegare tutti i
fenomeni della mente. Per la scienza della mente, sembra che una comprensione ed una spiegazione
dei fenomeni della mente possa fare a meno di ogni riferimento al sistema nervoso.
Negli ultimi anni, la ricerca ha cominciato invece ad usare modelli che unificano fin dall’inizio il
discorso sulla mente e quello sul sistema nervoso. Si tratta di modelli simulativi, cioè di modelli che
girano come simulazioni dentro al computer. Questi modelli si chiamano “reti neurali”.
Che cos’è una rete neurale?
Una rete neurale è una struttura formata da un certo numero di unità collegate tra loro da
connessioni. Attraverso le connessioni, un’unità influenza fisicamente le altre unità con cui è
collegata. Le unità hanno alcune delle caratteristiche essenziali delle cellule nervose, i neuroni del
sistema nervoso reale, mentre le connessioni hanno alcune delle caratteristiche essenziali dei
collegamenti sinaptici tra neuroni.
In ogni dato momento, ciascuna unità di una rete neurale ha un livello quantitativo di attivazione
che corrisponde, nel sistema nervoso reale, a quanto è attivo in un certo momento un neurone, cioè
alla frequenza con la quale il neurone “spara” impulsi nervosi che influenzano gli altri neuroni a cui
è collegato. Ogni connessione ha un suo “peso sinaptico”, quantitativo che determina quando
un’unità influenza il livello di attivazioni di un’altra unità con cui è collegata. Il peso delle
connessioni corrisponde grosso modo, nel sistema nervoso reale, al numero di siti sinaptici
attraverso i quali un neurone influenza un altro neurone. In un sito sinaptico l’impulso nervoso di un
neurone causa il rilascio di speciali molecole chimiche chiamate neurotrasmettitori che, viaggiando
da un neurone all’altro, vanno ad influenzare il livello di attivazione del neurone collegato. Più
numerosi sono i siti sinaptici, più grande è il peso della connessione. Le connessioni possono essere
di due tipi, eccitatore ed inibitorie. Se la connessione è eccitatoria, un’unità tende a far aumentare il
livello di attivazione dell’unità con cui è collegata. Se al contrario la connessione è inibitoria,
l’unità di partenza tende a far diminuire il livello di attivazione dell’unità di arrivo.
Le reti neurali sono certamente una semplificazione del sistema nervoso reale, ma di sicuro sono
più simili ad esso di quanto non lo sia un algoritmo che manipola simboli. Quello che vedremo nei
prossimi paragrafici è il modo in cui esse possono costituire anche un modello del comportamento.
Un organismo elementare con un comportamento elementare
Accendiamo il computer. Ciò che vediamo sullo schermo è un ambiente bidimensionale, un
quadrato, diviso in celle di uguali dimensioni. Chi conosce gli automi cellulari può già avere
un’idea dell’ambiente che stiamo descrivendo. Alcune di queste celle sono occupate da esseri che
assomigliano a dei moscerini, che solitamente sono immobili, ma ogni tanto qualcuno di essi, senza
apparente ragione, vola via e riatterra in un diverso punto dell’ambiente. Nell’ambiente vi sono
anche insetti un po’ più grossi, simili a dei ragni, che si muovo con le proprie zampette. Quando un
insetto finisce nella stessa cella occupata da un moscerino, quest’ultimo sparisce: l’insetto mangia il
moscerino. A ciascun insetto è associato un livello interno di “energia”. L’energia diminuisce un
po’ ad ogni istante della vita dell’insetto ma, quando questo mangia un moscerino, la sua energia
ricresce.
Seguendo con un po’ di attenzione uno degli insetti, vediamo che esso non si muove a caso, ma che
al contrario è chiaramente attratto dai moscerini: si volta verso il moscerino più vicino e si avvicina
fino a raggiungerlo. Il comportamento di caccia non è perfetto: a volte l’insetto gira su se stesso e
perde tempo, oppure arriva nelle vicinanze di un moscerino ma poi ha difficoltà a fare l’ultimo
passo. Inoltre, di tanto in tanto i moscerini volano via casualmente, facendo diminuire l’efficienza
dell’insetto predatore. Sembrerebbe comunque che i movimenti degli insetti siano guidati da uno
scopo: raggiungere i moscerini per poterli mangiare.
Andiamo più a fondo nell’analisi dell’insetto. Zoomando all’interno del suo corpo troviamo una
rete neurale che costituisce il modello del suo sistema nervoso. Le unità della rete sono raggruppate
in tre strati:
-
-
lo strato in basso è quello delle unità di input, che rappresentano gli organi sensoriali
dell’insetto. Il livello quantitativo di attivazione di queste unità registra la posizione del
moscerino che in quel momento si trova ad essere il più vicino all’insetto. Queste unità, in
sostanza, dicono all’insetto dove sta il moscerino; chiamiamo “pattern di attivazione”
l’insieme dei loro livelli di attivazione;
l’informazione contenuta in questo pattern di attivazione viene trasmessa al secondo strato
di unità, quello delle unità interne. Questo vuol dire semplicemente che il pattern di
attivazione delle unità di input determina il pattern di attivazione delle unità interne
attraverso le connessioni che le collegano a tali unità. Quello che succede, in sostanza, è che
ciascuna delle unità interne esegue una somma algebrica delle eccitazioni/inibizioni che le
arrivano dalle diverse unità di input e, in base a questa somma, determina il proprio livello
di attivazione. Si tratta di un comportamento che simula la cosiddetta “funzione integrativa”
-
del sistema nervoso: il pattern di attivazione delle unità di input viene ricodificato nel
pattern di attivazione delle unità interne;
a loro volta, le unità interne trasmettono l’attivazione alle unità del terzo strato, quello più in
alto. Il terzo strato contiene le unità di output motorio che controllano i muscoli delle
zampette dell’insetto: a seconda di qual è il livello di attivazione delle unità motorie,
l’insetto compie un movimento oppure un altro.
Sintetizzando, la rete neurale riceve un’informazione dal mondo esterno attraverso le sue unità di
input, le quali simulano i recettori sensoriali dell’organismo. Questa informazione viene rielaborata
all’interno della rete fino a quando non raggiunge le unità di output, che simulano i neuroni motori
dell’organismo. In questo modo la rete neurale controlla i movimenti con cui l’organismo risponde
agli stimoli provenienti dall’ambiente, cioè il suo comportamento. E’ questo il motivo per il quale
una rete neurale può essere un modello non solo del sistema nervoso, ma anche del comportamento.
Da dove origina il comportamento? L’evoluzione biologica
Il comportamento non consiste nel produrre movimenti qualsiasi in risposta a stimoli di tipo
sensoriale. Il comportamento è produrre quei movimenti “giusti”, ossia quelli che in ultima analisi
permettono all’organismo di sopravvivere e di riprodursi. Gli insetti che abbiamo visto non si
muovono in maniera casuale nell’ambiente, ma si dirigono verso i moscerini e li raggiungono.
Il modo in cui una rete neurale risponde all’input dipende dai pesi sulle sue connessioni e dal
carattere eccitatorio o inibitorio delle connessioni. Se un insetto percepisce un moscerino di fronte a
sé (informazione sensoriale), il “comportamento corretto” è quello di camminare in avanti per
raggiungerlo. Ma come fa la rete neurale dell’insetto ad avere i pesi giusti, ossia quelli che gli
permettono di rispondere agli input sensoriali con i movimenti giusti?
Osservando l’ambiente virtuale descritto nel paragrafo precedente, notiamo come il comportamento
degli insetti che sono presenti è diverso per ognuno di essi. Non ci sono due individui identici:
ognuno ha il proprio “carattere”. Limitandoci a considerare le differenze di abilità, è chiaro come
l’abilità nel catturare i moscerini non sia priva di conseguenze per i nostri insetti. Essi possono
sopravvivere soltanto reintegrando continuamente l’energia che consumano per il semplice fatto di
essere in vita. Essere più bravi (e fortunati) nella caccia permette di vivere più a lungo.
Ogni n step temporali, un insetto dà origine ad un figlio (immaginiamo, per semplicità, che il
processo riproduttivo sia di tipo asessuale ed avvenga per clonazione). Il figlio eredita le
caratteristiche del genitore: ne consegue che i cacciatori più bravi, vivendo più a lungo degli altri,
avranno una maggior discendenza.
Introdurre il concetto di eredità ci introduce all’osservazione del fatto che, per spiegare il
comportamento, non ci si può limitare al sistema nervoso, ma occorre prendere in considerazione
anche il materiale genetico ereditato da ciascun individuo e l’evoluzione biologica che modifica il
materiale genetico della popolazione nel corso delle generazioni. Per fortuna, un’altra novità della
ricerca degli ultimi anni sono i modelli simulativi dell’eredità genetica e dell’evoluzione biologica.
Questi modelli si chiamano “algoritmi genetici”.
Algoritmi genetici
Ogni insetto ha all’interno del suo corpo un po’ di materiale genetico, che possiamo rappresentare
come un sequenza di bit. Questa sequenza è diversa da quella di ogni altro individuo e ciò
determina il fatto che ogni individuo si comporti in maniera diversa rispetto agli altri. Il DNA di un
individuo, attraverso particolari rappresentazioni numeriche, codifica infatti i pesi delle connessioni
della sua rete neurale.
Quando un genitore genera un figlio, trasmette ad esso una copia del suo DNA. La copia tuttavia
non è perfetta, perché durante la fase di copiatura avvengono degli errori casuali, delle mutazioni
genetiche che modificano a caso il valore di qualcuno dei bit del DNA. Un figlio avrà quindi un
DNA estremamente simile a quello del genitore, ma non identico. Di riflesso, il suo comportamento
di caccia non sarà esattamente identico a quello del genitore.
Quali possono essere gli effetti di una mutazione genetica sul comportamento dell’individuo che ne
è affetto? Non è possibile determinarlo a priori, in quanto il comportamento della rete neurale (ossia
dell’organismo) è una proprietà globale della rete che emerge dalle interazioni locali tra le sue
unità, cioè dall’influenza che ciascuna unità ha sulle unità con cui è collegata. La rete neurale è un
sistema complesso: la mutazione può produrre un figlio più bravo del genitore (mutazione
favorevole) o può distruggere completamente nel figlio la capacità di cacciare posseduta dal
genitore (mutazione sfavorevole o deleteria). Oppure la mutazione può anche essere neutra, ossia
può essere riassorbita dalla rete neurale senza nessun cambiamento dell’abilità di caccia.
Ogni generazione tenderà ad essere composta dai figli dei migliori individui della generazione
precedente. Le mutazioni genetiche, essendo completamente casuali, nella maggior parte dei casi
saranno “sfavorevoli”, ma qualche rara volta saranno invece “favorevoli”, facendo così nascere un
individuo migliore rispetto al genitore. Saranno poi questi mutanti fortunati che verranno selezionati
per la riproduzione invece dei mutanti sfortunati. Risultato di questo processo è l’evoluzione
biologica, un cambiamento che si verifica nel succedersi delle generazioni in una popolazione di
organismi e che complessivamente conduce ad individui più “adatti” all’ambiente, cioè individui
capaci di comportamenti che garantiscono meglio la sopravvivenza e la riproduzione.
E’ esattamente questo il meccanismo che ha portato, nella nostra simulazione, ad avere insetti con
pesi e connessioni “giuste”, cioè tali da permettere loro di rispondere agli stimoli ambientali con i
movimenti appropriati. Pesi e connessioni sono stati progressivamente selezionati ne corso
dell’evoluzione con la riproduzione selettiva dei migliori insetti e con le mutazioni genetiche.
Nella nostra simulazione le mutazioni genetiche compaiono come il solo meccanismo che aggiunge
variabilità ad una popolazione di organismi. In molti organismi, in realtà, c’è un secondo
meccanismo che aumenta la variabilità genetica: la riproduzione sessuale. Tale fenomeno è
agevolmente simulabile mediante la tecnica del “crossover”: partendo dal presupposto che, per
riprodursi, gli insetti debbano incontrare un partner del sesso opposto e convincerlo a procedere
all’accoppiamento, il DNA ereditato dal figlio sarà una combinazione di quello dei due genitori.
Tale combinazione può essere ottenuta ad esempio “tagliando” il genoma dei genitori nel punto
centrale della sequenza ed incollando nel figlio la metà di un genitore e la metà dell’altro.
Non bisogna esagerare con l’adattamento
L’evoluzione biologica ha la tendenza a rendere le caratteristiche di un organismo più adatte
all’ambiente all’interno del quale l’organismo vive. L’adattamento riguarda tutte le caratteristiche
di un organismo, dalla forma, dimensioni e colore del corpo, agli organi e sistemi interni, incluso il
sistema nervoso, dalle molecole, cellule e tessuti fino al comportamento e alle interazioni con
l’ambiente.
Non bisogna però incappare nell’errore di credere che le caratteristiche che si osservano negli
organismi siano necessariamente le migliori per l’ambiente in cui essi vivono. Come abbiamo visto
nella nostra simulazione, si riproduce chi è più bravo, ma anche chi è più fortunato. La fortuna, nel
nostro mondo così semplice, si presenta come un meschino che non vola via nel momento in cui sta
per essere catturato e viceversa per quanto riguarda la sfortuna. In questo modo, la fortuna/sfortuna
può far sì che non si riproducano individui con un buon DNA ed un comportamento efficiente e che
si riproducano invece individui che semplicemente sono stati fortunati nella loro vita.
Certe caratteristiche, inoltre, possono emergere soltanto a patto che esistano alcune pre-condizioni
favorevoli all’interno dell’organismo in esame. Se non ci sono le pre-condizioni, una caratteristica
che pure sarebbe adatta non evolve.
Per questi motivi, non dobbiamo pensare che tutte le caratteristiche che osserviamo in un organismo
siano state selezionate. Gli organismi possono avere caratteristiche che non sono state selezionate
appositamente, ma che per qualche ragione viaggiano insieme o sono un sottoprodotto di altre
caratteristiche che invece sono state selezionate appositamente.
Si consideri infine che una caratteristica può essere adatta finché l’ambiente di riferimento rimane
stabile. Se l’ambiente cambia, i comportamenti che prima erano adatti possono non esserlo più e si
rimette in moto un processo di cambiamento evolutivo.
L’ambiente cambia
Modifichiamo la simulazione precedente introducendo, per ogni insetto, una caratteristica genetica
che determina il colore del suo corpo, ereditata insieme ai pesi delle connessioni della rete neurale e
sulla quale può operare la mutazione genetica. Nell’ambiente di questa nuova simulazione, ogni
tanto il sistema è attraversato da un uccello predatore, che si ciba degli insetti ed è in grado di
catturarli, a patto che il loro colore non si confonda troppo con l’ambiente circostante.
Se l’ambiente è di colore verde chiaro, quello che succede è prevedibile. Dopo poche generazioni,
tutti gli insetti tenderanno ad avere un colore non molto diverso dal verdino: questa caratteristiche
evolve perché gli individui di quel colore (a parità di capacità di procurarsi il cibo) hanno più
probabilità di sfuggire al predatore e quindi di sopravvivere e di fare figli di un colore più o meno
simile.
Ipotizziamo ora che l’ambiente cambi e diventi di colore rosso scuro. Il colore verde chiaro, che
pure è il colore del corpo della maggioranza degli insetti, non è più adatto all’ambiente. Il processo
di adattamento evolutivo si rimette in moto e cominciano a riprodursi di più quegli individui a cui
capita di avere, a causa delle mutazioni genetiche, un colore del corpo in qualche modo vicino al
rosso scuro. Passano un po’ di generazioni e ci accorgiamo che tutta la popolazione tende ad avere
un colore del corpo rosso scuro.
I cambiamenti ambientali mettono in moto i processi di adattamento evolutivo. Se l’ambiente muta
in maniera rapida e radicale, una popolazione di organismi può anche estinguersi, perché non fa in
tempo a cambiare per sopravvivere nel nuovo ambiente. E’ quanto successo, secondo una delle
teorie oggi più accreditate, ai dinosauri.
Nella nostra simulazione, ciò che si adatta nel tempo è un tratto morfologico e non un
comportamento. Ma anche per il comportamento succede qualcosa di simile: un cambiamento
ambientale può rendere comportamenti già ben adattati all’ambiente precedente non più adatti al
nuovo ambiente, rimettendo in moto un nuovo processo di adattamento. Un fenomeno di questo
tipo è molto interessante se contestualizzato agli esseri umani, che sono gli artefici del continuo
cambiamento dell’ambiente in cui vivono. Molti dei loro comportamenti, ereditati biologicamente o
culturalmente, potrebbero esseri adatti ad ambienti che oggi non esistono più.
Da dove origina il comportamento? L’apprendimento
L’evoluzione biologica, che agisce a livello di intere popolazioni, è solo una delle fonti da cui
origina il comportamento. Un’altra fonte, che opera però a livello del singolo individuo nel corso
della sua vita, è l’apprendimento.
Un modo di simulare l’apprendimento nelle reti neurali consiste nel modificare i pesi delle
connessioni di una rete in maniera tale che le modificazioni progressivamente producano
comportamenti migliori nel corso della vita dell’organismo. Le modifiche dei pesi dipendono
dall’esperienza: essa insegna all’individuo a comportarsi meglio.
Torniamo alla nostra simulazione, senza considerare i tratti morfologici degli insetti e la presenza di
eventuali animali loro predatori. Osserviamo che gli insetti si muovono casualmente all’interno
dell’ambiente: la ragione è che i pesi delle connessioni delle loro reti neurali non sono ereditati dai
genitori, ma scelti casualmente al momento della nascita. Ogni volta che l’insetto si muove, però,
dall’esterno gli arriva una valutazione del movimento compiuto, ossia un’informazione che gli dice
quanto quel movimento é stato giusto o sbagliato. La rete neurale dell’insetto incorpora un
meccanismo di apprendimento, che usa questa valutazione per modificare i pesi della rete.
Questo algoritmo di apprendimento, che in pratica funziona dando premi e punizioni, si chiama
“rinforzo”. Le modifiche dei pesi sono fatte in modo tale che il comportamento dell’insetto migliori
progressivamente. Col passare del tempo e sfruttando l’esperienza, l’insetto impara il
comportamento “corretto” nel corso della sua vita.
Collaborazione tra evoluzione e apprendimento
Al contrario di quanto accade nelle simulazioni viste finora, negli organismi reali l’evoluzione
biologica e l’apprendimento non si escludono a vicenda e non funzionano in modo separato. Esse
sono entrambe presenti: vi è sempre la trasmissione genetica ed esiste sempre una componente di
apprendimento durante la vita (con ruolo marginale nelle specie più semplici, importante in quelle
più complesse come gli esseri umani). Evoluzione biologica ed apprendimento collaborano tra loro
nello sforzo di dotare l’individuo delle caratteristiche più adatte all’ambiente.
Quando una rete neurale impara, i pesi iniziali con i quali l’apprendimento inizia condizionano i
risultati finali. Nella simulazione che abbiamo osservato nel paragrafo precedente, chi ha in sorte
pesi iniziali buoni impara meglio a procurarsi il cibo rispetto a chi ha in sorte pesi iniziali “cattivi”.
Modifichiamo però la simulazione, ipotizzando che gli insetti ricevano in eredità dai genitori i pesi
iniziali della loro rete neurale. Questa implementazione è in accordo con la biologia, la quale ci dice
che non esiste eredità genetica di caratteristiche che sono state acquisiti durante la vita. Sui pesi
iniziali ereditati da un individuo poi opera l’apprendimento, che li modifica nel modo appropriato.
Il comportamento che otteniamo del sistema è che, con il passare delle generazioni, gli insetti
imparano più rapidamente a procurarsi il cibo. Questo perché vengono selezionati pesi iniziali
sempre migliori, che l’apprendimento sfrutta per creare il comportamento richiesto.
L’apprendimento, inoltre, non dipende soltanto dai pesi iniziali della rete neurale, ma anche dalla
sua architettura, intesa come numero di totale di unità che la compongono e schema delle loro
connessioni. L’idea di fondo è che una certa architettura neurale possa essere migliore di un’altra
come base per l’apprendimento e che anch’essa possa essere codificata all’interno del DNA di un
individuo. Questo rende possibile, da un lato, che si riproducano in misura maggiore quegli
individui che imparano di più durante la vita avendo ereditato una architettura neurale “buona”;
dall’altro che, con il passare del tempo, l’evoluzione tenda a produrre architetture sempre migliori.
L’evoluzione della architetture neurali rende possibile che, ad un certo punto, appaiano strutture
nervose corrispondenti a quelle osservate nei sistemi nervosi reali. Gli esseri umani, ad esempio,
quando vedono una cosa sono interessati a due tipi di informazioni: “che cos’è” e “dove si trova”.
Sembra che il sistema nervoso umano estragga i due tipi di informazione dall’input visivo,
servendosi di altrettanti circuiti nervosi distinti, uno che estrae l’informazione sul “che cosa” ed un
altro che estrae l’informazione sul “dove”.
Lanciamo una simulazione nella quale, per sopravvivere e riprodursi, gli organismi debbono
estrarre dall’input sensoriale sia l’informazione su che tipo di cose incontrano di volta in volta
nell’ambiente per decidere il comportamento appropriato, sia l’informazione su dove esattamente
stanno tali cose, per decidere gli specifici movimenti che debbono compiere. Il DNA di questi
individui codifica una varietà di architetture neurali aventi uno schema semi-fisso: ogni rete neurale
ha tre strati (uno di unità di input, uno di unità interne ed uno di unità di output); le unità di input
codificano l’input visivo registrato da una specie di retina bidimensionale (carpiscono informazioni
sia sulle caratteristiche dell’oggetto, sia sulla sua posizione) e lo inviano a tutte le unità dello strato
interno; le unità di output sono divise in due gruppi (il primo codifica di che oggetto si tratta, il
secondo di dove esso è posizionato). La differenza tra gli individui sta nel modo in cui le unità
interne sono collegate con le unità di output. Quello che si osserva, con il passare delle generazioni,
è l’emergere di una architettura “vincente”. Si tratta di una architettura modulare, con un modulo
che estrae l’informazione sul “che cos’è” ed un modulo separato (leggermente più piccolo rispetto
all’altro) che estrae l’informazione sul “dove sta”.
Ora, forse abbiamo la possibilità di comprendere perché un sistema nervoso non è una grande rete
omogenea ed indifferenziata di cellule nervose collegate tra loro, ma è organizzato in parti
anatomicamente e funzionalmente distinte.
Sviluppo
Un organismo, durante la vita, non si limita ad apprendere, ma si sviluppa. Lo sviluppo di un
individuo, cioé i cambiamenti che avvengono nell’individuo mentre attraversa le diverse età della
vita, dal concepimento alla morte, sono dovuti sia al patrimonio genetico ereditato, che detta le
grandi linee dello sviluppo, sia alle esperienze ed all’ambiente.
Il DNA non contiene soltanto istruzioni che vengono eseguite alla nascita, ma anche istruzioni la
cui esecuzione è prevista per fasi diverse nel corso della vita di un individuo. Vi è dunque un
intreccio tra i geni e l’ambiente. Lo sviluppo di un organismo, infatti, è funzione sia del suo
“programma di sviluppo” codificato nel DNA, sia dell’ambiente all’interno del quale questo
sviluppo ha luogo, in quanto capace di favorire od inibire alcune particolari istruzioni genetiche.
Un piccolo zoo artificiale
Gli insetti visti finora sono soltanto uno dei possibili tipi di organismi. Variando il tipo di
informazione sensoriale che arriva dal mondo esterno o il tipo di movimenti di cui l’organismo è
capace si può ottenere un piccolo zoo artificiale che può darci un’idea della varietà di forme e di
comportamenti presente in natura. Ad esempio, a differenza dei nostri insetti, un organismo può non
ricevere nessuna informazione direzionale dall’ambiente esterno e tuttavia riuscire a muoversi nella
direzione giusta.
Lanciamo una simulazione. I nuovi organismi sono privi di sensori direzionali, ma hanno dei
sensori, unità di input della loro rete neurale, in grado di rilevare qual è la temperatura del pezzetto
di ambiente in cui essi si trovano. Stare all’interno di zone con la temperatura ottimale aumenta le
probabilità di sopravvivere e di riprodursi di questi individui (e viceversa per le zone con una
temperatura “sbagliata”), ma i loro sensori funzionano solo localmente. Osservando la simulazione,
si scopre come gli organismi presenti nell’ambiente tendano ad allontanarsi dalle zone che non
hanno la temperatura giusta e a dirigersi verso quelle a temperatura ottimale, restandoci una volta
che le hanno raggiunte. Com’è possibile che, con il loro rudimentale sistema sensoriale, essi
adottino un comportamento così efficace? Semplicemente, l’evoluzione biologica ha favorito la
diffusione di quegli organismi che:
-
una volta raggiunta una zona a temperatura ottimale, si muovono in maniera lenta e con un
angolo di rotazione molto ampio;
una volta raggiunta una zona a temperatura “sbagliata”, si muovono velocemente e con un
angolo di rotazione molto limitato.
Non si può che rimanere colpiti da come, organismi così semplici, riescano sempre (o quasi) a
trovare soluzioni ai loro problemi di sopravvivenza. Si tratta spesso di comportamenti poco
sofisticati, “barocchi”, ma il problema non è quello di esibire comportamenti eleganti o “razionali”,
ma comportamenti che consentono, nelle condizioni date, di sopravvivere e di preservare i propri
geni riproducendosi.
Se i sensori dell’organismo forniscono un’informazione direzionale, il sistema sensoriale può essere
anche più complicato. Peschiamo, nel nostro zoo virtuale, un nuovo organismo. Si tratta di un
insetto dotato di un solo occhio, con campo visivo di 60 gradi. L’insetto è in grado di vedere un
moscerino solo se questo rientra all’interno del suo campo visivo, ma per fortuna è in grado di
ruotare il suo occhio. Le unità di output motorio della rete neurale sono dunque divise in due
gruppi: uno che codifica i movimenti del corpo necessari per raggiungere il moscerino avvistato;
l’altro che codifica i movimenti di rotazione dell’occhio. Il comportamento che la rete neurale deve
adottare ora è più complicato. Serve un coordinamento tra i movimenti deambulatori del corpo e
quelli rotatori dell’occhio per evitare che il moscerino esca dal campo visivo dell’insetto durante la
caccia.
Cambiamo simulazione e vediamo comparire organismi più complicati, ma appartenenti alla stessa
famiglia. L’ambiente stesso è più complicato rispetto a quello precedente, in quanto al suo interno
esistono due tipi di moscerini: quelli buoni (che contengono l’energia di cui gli insetti hanno
bisogno) e quelli cattivi (contenenti una sostanza che fa male agli insetti e ne compromette la
sopravvivenza). Il sistema sensoriale di questi insetti comprende due gruppi di unità di input: alcune
dicono all’insetto dove si trova il moscerino più vicino, le altre gli comunicano se il moscerino
avvistato è buono o cattivo (in maniera tale che l’insetto possa decidere se avvicinarsi o allontanarsi
ad esso). Il campo visivo è sempre di 60 gradi, ma questa volta c’è una complicazione in più. Esso è
suddiviso in tre parti: una centrale di 40 gradi (la fovea, che è la parte capace di vedere meglio e
l’unica in grado di distinguere tra un moscerino buono ed uno cattivo) e due laterali di 10 gradi
ciascuna. Il comportamento degli insetti è quindi più complicato. Se il moscerino è nella fovea,
possono decidere di avvicinarsi o allontanarsi; se è in una delle due parti periferiche del campo
visivo, l’insetto è costretto a compiere movimenti di aggiustamento dell’occhio, ruotandolo di poco
fino a far rientrare il moscerino all’interno della fovea.
Ma perché esistono organismi dotati di fovea, visto e considerato che un campo visivo di 360 gradi
sarebbe decisamente più efficiente? La risposta è probabilmente da ricercarsi nella limitatezza
dimensionale delle unità presenti all’interno del sistema nervoso. Se le risorse neurali sono limitate,
esse si specializzano per elaborare in modo più sofisticato l’informazione proveniente da una parte
limitata del campo visivo ed in modo meno sofisticato quella proveniente dalle altre parti del campo
visivo.
Passiamo ad altri organismi ospiti del nostro zoo. Vedere dove si trova una cosa ed avvicinarsi ad
essa è un tipo di capacità. Capacità del tutto diversa è invece quella di vedere una cosa ed usarla
come punto di riferimento per orientarsi nella direzione giusta, che non necessariamente è quella
necessaria per avvicinarsi alla cosa usata come riferimento. Tale capacità è presente ad esempio
negli uccelli, che durante le migrazioni si regolano in base alla loro posizione rispetto al sole.
Immaginiamo che, nel nostro nuovo ambiente virtuale, esistano organismi che devono raggiungere
una zona in cui si trova il cibo. Il problema consiste nel fatto che tale zona non è da loro percepibile
fino a quando non ci sono dentro. Esiste però nell’ambiente un punto di riferimento, un albero,
distante dalla zona del cibo ma visibile a qualunque distanza. Spostandosi nell’ambiente, un
individuo modifica la sua posizione rispetto all’albero (e, di conseguenza, la percezione di esso
codificata nelle unità di input della sua rete neurale) e, regolandosi su come cambia l’informazione
sensoriale proveniente dall’albero, può muoversi nella direzione che lo porta a trovare il cibo.
Gli organismi possono essere tra loro diversi, non soltanto per il tipo di informazioni sensoriali che
sono in grado di ricevere dal mondo esterno, ma anche per i tipi di movimento con i quali sono in
grado di rispondere a questi input. Ad esempio, certi organismi non solo possono spostarsi
nell’ambiente muovendo tutto il corpo, ma sono anche capaci di muovere una qualche parte
specifica del corpo, come un braccio o una mano. L’obiettivo rimane comunque quello di
raggiungere una cosa desiderata; a cambiare é semplicemente il modo in cui si cerca di realizzarlo.
L’ultimo ospite del nostro zoo è un organismo in grado di spostare sia il proprio corpo, sia il proprio
braccio. L’ambiente nel quale vive questo organismo contiene cibo sparso in giro: l’organismo si
muove con l’intero corpo per avvicinarsi al nutrimento e, una volta raggiunto, lo raccoglie con
l’estremità del braccio. La rete neurale che caratterizza un organismo del genere ha unità di input
che codificano la posizione del cibo ed unità motorie suddivise in due gruppi, che si occupano
rispettivamente di spostare l’intero corpo e di muovere il braccio.
Tutti gli organismi visti finora hanno in comune il fatto di essere semplici sistemi senso-motori: la
loro rete neurale riceve in input un informazione sensoriale sullo stato dell’ambiente e risponde
producendo un movimento del corpo o di una parte del corpo dell’organismo. Per poter arrivare a
simulare la vita mentale ed i comportamenti specifici degli esseri umani dobbiamo spingerci oltre.
Motivazione e attenzione
Torniamo alla simulazione che avevamo abbozzato qualche paragrafo fa, dove gli insetti non si
riproducono per clonazione, ma sessualmente. Questo ha chiaramente delle conseguenze per il loro
comportamento: per riprodursi non devono più soltanto essere capaci di procurarsi il cibo per
sopravvivere, ma devono anche essere in grado di procurarsi un partner con il quale accoppiarsi.
Osservando un insetto, notiamo come certe volte esso sia intento ad avvicinarsi ai moscerini
ignorando gli altri insetti, mentre in altri momenti ignori i moscerini cercando di avvicinarsi ad un
altro insetto. Com’è fatta la sua rete neurale? La risposta la troviamo nella figura seguente.
Le unità di input sono aumentate: accanto a quelle che, come prima, registrano la posizione del
moscerino più vicino (il cibo), ve ne sono altre che registrano la posizione dell’insetto più vicino
(potenziale partner sessuale). Alla rete si sono poi aggiunte nuove unità un po’ speciali, che
chiameremo “unità motivazionali”, il cui compito è quello di codificare lo stato motivazionale
dell’organismo. Esse segnalano la fame (il bisogno di cibo che l’organismo ha in un determinato
momento), ma ricevono il loro input non dall’ambiente esterno, bensì da dentro il corpo
dell’organismo. Le unità motivazionali hanno due possibili pattern di attivazione, che definiamo
rispettivamente “fame” (che si attiva quando il livello di energia dell’organismo è inferiore rispetto
ad una certa soglia) e “sazietà” (che si attiva quando il livello di energia dell’organismo è uguale o
superiore rispetto alla soglia prefissata). Queste unità funzionano sostanzialmente come dei sensori
interni. Con esse, abbiamo un’altra dimostrazione di come non sia sufficiente studiare il sistema
nervoso per pensare di poter spiegare il comportamento degli esseri viventi.
Il funzionamento di questa rete neurale è concettualmente molto semplice. Quando il pattern di
attivazione delle unità motivazionali è quello della “fame”, l’input sensoriale che riguarda i
potenziali partner sessuali viene neutralizzato (ignorato) al livello delle unità interne e l’insetto
risponde così soltanto all’input sensoriale riguardante il cibo. Il pattern di attivazione della “sazietà”
dà origine, invece, al comportamento esattamente opposto. In altre parole, a seconda dello stato
motivazionale, l’insetto fa attenzione ad una cosa ed ignora l’altra. La conclusione che possiamo
trarre da tutto ciò è che le motivazioni influenzano l’attenzione e sono fenomeni importanti perché
rendono l’organismo, in qualche misura, autonomo dall’ambiente.
Categorizzazzione
Nuova simulazione. Compaiono sullo schermo i soliti insetti, che nel frattempo si sono evoluti in
animali un po’ più complessi rispetto a prima. Il nuovo ambiente contiene dei funghi, sparsi un po’
qua e un po’ là, diversi l’uno dall’altro per colore, forma e dimensione. Alcuni di questi funghi sono
“buoni” (il mangiarli si traduce in un aumento dell’energia dell’organismo che lo fa), mentre altri
sono “cattivi” (il mangiarli fa diminuire l’energia dell’organismo che lo fa, talvolta al punto da
mettere a rischio la sua stessa vita). Il problema è che i funghi sono tutti diversi tra loro e certe volte
capita che un fungo buono ed uno cattivo siano tra loro confondibili.
La rete neurale degli organismi presenti è dotata di tutte le unità di input sensoriale necessarie per
registrare le caratteristiche percettive i funghi che si trova di fronte. Prima di poter decidere il
comportamento appropriato (avvicinarsi ad un fungo e mangiarlo, oppure evitarlo ed allontanarsi),
l’organismo deve “categorizzare” il fungo che ha davanti, ossia classificarlo nella categoria dei
funghi buoni oppure di quelli cattivi.
Osservando la simulazione, si nota che gli insetti si comportano in maniera “corretta”, ossia si
avvicinano e mangiano i funghi buoni, mentre fanno il contrario con i funghi cattivi. Chiamiamo
“codifica sensoriale” di un fungo il pattern di attivazione delle unità di input sensoriale che
osserviamo nella rete quando l’organismo percepisce un fungo. Definiamo invece “codifica interna”
di un fungo il pattern di attivazione che osserviamo non nelle unità di input sensoriale, ma nelle
unità interne della rete quando l’organismo percepisce il fungo. Analizzando le reti neurali dei
singoli individui, si scopre come le connessioni che collegano le unità di input a quelle interne
producono codifiche interne molto simili tra loro per tutti i funghi buoni e codifiche interne diverse,
ma anch’esse simili tra loro, per i funghi cattivi. Con una ricodificazione interna ben funzionante
come questa, la scelta della risposta comportamentale da adottare da parte dell’organismo diviene
molto semplice e può essere messa in atto da una piccola porzione della rete neurale.
Gli errori naturalmente sono sempre possibili: la capacità di categorizzare correttamente evolverà
nella popolazione tramite i soliti meccanismi dell’evoluzione biologica. Questo ragionamento è
valido a patto che non esista l’apprendimento in vita, ma vi sia soltanto una capacità di
categorizzare ereditata geneticamente. Nella realtà, la capacità di categorizzare i funghi può essere
appresa da un organismo nel corso della sua vita, o “sulla sua pelle”, oppure osservando come si
comportano altri individui che già sanno distinguere i fungi buoni da quelli cattivi (apprendimento
per imitazione).
Memoria
Un organismo che apprende è un organismo che ha una forma di memoria. In termini generali, la
memoria può essere definita come una modificazione, una traccia lasciata dall’esperienza passata,
che influenza le esperienze successive. A livello di reti neurali, l’apprendimento modifica i pesi
delle connessioni tra le varie unità e quindi modifica il modo in cui gli organismi risponderanno ai
futuri input sensoriali. E’ in questo modo che la memoria rimane impressa all’interno di una rete
neurale.
L’apprendimento, tuttavia, influenza soltanto quella che gli psicologi definiscono “memoria a lungo
termine” poiché lascia tracce permanenti. La “memoria a breve termine”, invece, lascia una traccia
che influenza il modo in cui l’organismo risponde agli input, ma questa traccia scompare dopo poco
tempo.
Vediamo ora un’altra simulazione, che tratta proprio il fenomeno della memoria a breve termine.
Talvolta, un organismo può incontrare un particolare input sensoriale, al quale non è chiaro come
deve rispondere, nel senso che la risposta “giusta” non dipende soltanto dall’input attuale, ma anche
dagli input precedenti. Agli esseri umani, questo capita con le parole del linguaggio: quando
sentiamo ad esempio la parola “sole”, la reazione giusta in certe circostanze è quella di pensare al
sole, ma in altre circostanze è quella di pensare all’essere soli. Il modo giusto di interpretare la
parola dipende dalle parole precedenti (“Franco si scaldava al…”, “Luisa e Marta erano…”). Nella
nostra simulazione, un organismo simile ad un topolino si aggira all’interno di un labirinto.
Osservandolo per qualche tempo notiamo che, arrivato di fronte a due bivi del tutto identici, una
volta ha scelto di andare a sinistra, mentre la volta successiva ha imboccato la direzione destra. In
base alle reti neurali che abbiamo visto finora, questo comportamento è inspiegabile.
Osservando la rete neurale dell’organismo, l’arcano è svelato. Accanto ai soliti tre strati (input,
interno ed output) vi è un nuovo strato, formato da “unità di memoria” a breve termine. Queste
unità sono collegate a quelle interne con normali connessioni, attraverso le quali inviano eccitazioni
ed inibizioni: funzionano dunque come un input aggiuntivo per le unità interne (in maniera analoga
a quanto facevano le unità motivazionali che abbiamo visto in precedenza). E’ interessante
osservare da dove queste unità di memoria ricevono il loro pattern di attivazione. Ad ogni ciclo
temporale, il pattern di attivazione delle unità interne viene “ricopiato” nelle unità di memoria.
Quando si passa al ciclo successivo, il nuovo input sensoriale che arriva dal mondo esterno si
aggiunge a quello passato (conservato all’interno delle unità di memoria) nel determinare la
configurazione delle unità interne, le quali originano la risposta motoria dell’organismo.
Non ci eravamo accorti del fatto che, prima di arrivare ai due bivi, il topolino aveva attraversato
corridoi di due colori diversi. Le unità di memoria della sua rete neurale gli hanno permesso di agire
nel presente, tenendo conto del passo.
Capacità di prevedere
Un organismo dotato di una rete neurale semplice vive nel presente e basta: la sua vita psichica è
formata da tanti eventi indipendenti l’uno rispetto all’altro. L’aggiunta di unità di memoria crea una
continuità tra il passato ed il presente, dando uno spessore temporale al comportamento
dell’organismo. Ma per quanto riguarda il futuro? E’ possibile che un organismo tenga conto del
futuro nel suo comportamento? Affinché ciò sia possibile senza violare la legge secondo cui le
cause vengono prima dei loro effetti, il futuro deve presentarsi come previsione del futuro.
Se gli input sensoriali che si presentano nell’ambiente lo fanno con una certa regolarità, allora la
rete neurale di un organismo può fornire come output una codifica dello stato successivo. E’ ciò che
possiamo chiamare “previsione”.
Come per ogni output prodotto da una rete neurale, il saper fare previsioni corrette dipende dai pesi
delle connessioni della rete; pesi che possono essere ereditati geneticamente o appresi durante la
vita. In questa seconda ipotesi, quella dell’apprendimento in vita, la rete neurale non utilizza una
strategia di learning “a rinforzo”, ma si appoggia ad un algoritmo più complicato, detto di
“backpropagation”. Ogni volta che la rete produce un output, questo viene confrontato con quello
che sarebbe dovuto essere il pattern di attivazione delle sue unità di output (l’insieme delle
caratteristiche del fenomeno che si era cercato di prevedere, che diventa l’input di insegnamento) e,
in base alle differenze tra i due pattern, modifica i pesi delle sue connessioni. Dopo un certo numero
di cicli di apprendimento, la differenza (errore) tra output prodotto dalla rete ed output corrette
tende verso zero: la rete ha imparato a comportarsi nella maniera desiderata.
Quando si parla di fare previsioni, occorre fare una distinzione importante. Un tipo di previsione è
quello che consiste nel prevedere un evento futuro, che non dipende dalle nostre azioni. sulla base
della situazione presente (ad esempio, “che tempo farà domani?”). Un altro tipo di previsione è
quello che consiste nel prevedere un evento futuro, quando questo evento futuro dipende dalle
nostre azioni (si tratta, in sostanza, del prevedere le conseguenze delle proprie azioni). Le nostre
azioni producono spesso dei cambiamenti sugli input successivi a cui saremo esposti. Rompendo un
uovo, ad esempio, si sentirà un rumore, del liquido appiccicoso a contatto con la pelle, ecc… Saper
prevedere le conseguenze delle proprie azioni può essere una capacità particolarmente utile per un
organismo, poiché gli permette di sapere quale azione deve compiere per produrre una qualche
conseguenza che sa essergli vantaggiosa.
Vediamo quindi una “doppia” simulazione. Da una parte dello schermo è riprodotto l’ambiente
virtuale più semplice che abbiamo analizzato fino a questo momento: insetti, capaci di muoversi e
di ruotare su sé stessi, che devono catturare i moscerini disseminati qua e là. Nell’altra metà dello
schermo la situazione è apparentemente uguale, ma notiamo che gli insetti appaiono un po’ più
“esitanti” rispetto ai colleghi. La differenza è “mentale”: prima di spostarsi o ruotare, nella seconda
simulazione, gli insetti effettuano una previsione di quale sarà la nuova posizione che assumerà il
moscerino. Effettuato il movimento, la previsione viene confrontata con il nuovo input e la rete
migliora la sua capacità di previsione con la procedura della backpropagation. Quali vantaggi ci
sono a saper prevedere le conseguenze dei propri comportamenti? Osservando le due simulazioni la
risposta è chiara: imparare a prevedere le conseguenze dei propri movimenti rende i propri
movimenti più efficaci.
Negli esseri umani, la capacità di effettuare previsioni è talmente sviluppata e radicata che l’uomo
potrebbe essere chiamato “l’animale che prevede”. Tale capacità è particolarmente sviluppata
quando le azioni producono delle vere e proprie modificazioni nell’ambiente esterno e ciò può
spiegare in parte perché l’uomo è “faber”, ossia perché produce così tanti artefatti tecnologici e
modifica così tanto l’ambiente esterno. Gli esseri umani, molto più rispetto a tutti gli altri animali,
appaiono interessati alle modificazioni che provocano nel mondo esterno e dedicano parecchio del
loro tempo ad imparare a prevedere quali azioni producono quali modificazioni. Vi è dunque un
rapporto biunivoco tra la capacità di prevedere le conseguenze delle proprie azioni e la necessità di
modificare l’ambiente.
Abbiamo già visto, parlando dell’apprendimento, che gli organismi (e le reti neurali) possono
imparare come comportarsi sulla base di valutazioni del loro comportamento (apprendimento per
rinforzo). E’ importante sottolineare come le valutazioni che costituiscono il “rinforzo”, possano
giungere dall’esterno (ad esempio da un’altra persona), ma possano anche essere generate dalla rete
stessa. Questa capacità di autovalutazione può essere innata (come quando toccare il fuoco produce
una sensazione spiacevole), ma si estende e diventa più sofisticata con l’esperienza. La capacità di
saper valutare i risultati delle proprie azioni, unitamente alla capacità di prevedere questi risultati,
permette di decidere se effettuare o meno una certa azione. E questa è una prerogativa tipicamente
umana: gli animali agiscono, noi decidiamo di agire.
Se poi uniamo la capacità di prevedere in modo attivo, cioè la capacità di prevedere gli effetti delle
proprie azioni, e la capacità di categorizzare che abbiamo visto qualche simulazione fa, comincia a
diventare chiaro in che senso gli esseri umani hanno un intelletto e vivono in una realtà per loro
intelligibile. Azioni diverse vengono categorizzate insieme, in base a qualche proprietà “astratta” da
loro posseduta, isolando così il fattore che effettivamente fa sì che una certa azione produca un
certo risultato. E tuttavia, la capacità di prevedere, così sviluppata e così importante negli esseri
umani, ha il suo lato oscuro. Essa ha infatti origine all’interno di un mondo estremamente
complesso e, come tale, spesso non prevedibile. L’uomo ha un pattern di adattamento fondato su
quella che si potrebbe chiamare una coazione a prevedere e che tuttavia vive in una realtà
largamente imprevedibile. Il risultato inevitabile di ciò sono ansie, paure, comportamenti
irrazionali, psicopatologie, rituali, credenze magiche.
Autogenerare il proprio input
La capacità degli esseri umani di effettuare previsioni non è soltanto innata, ma anche esplicita.
Molti animali, tuttavia, appaiono capaci di effettuare previsioni “implicite”, cioè di anticipare il
futuro nel proprio comportamento (si pensi ad esempio al cane di Pavlov). Nel comportamento di
questi animali, la risposta allo stimolo presente spesso serve a creare le condizioni per poter
rispondere in maniera più efficiente agli stimoli futuri. E’ ciò che avviene ad esempio quando si
prova paura: l’aumento del battito cardiaco, dello stato di vigilanza e delle altre componenti
psicomotorie servono per reagire meglio ad un pericolo che può presentarsi. Molto comportamento,
dunque, anticipa il futuro. Questo carattere anticipatorio delle risposte è così importante che una
delle più semplici forme di apprendimento, il condizionamento, è fondamentalmente rivolto ad
aumentare la capacità anticipatoria dell’organismo.
Dov’è quindi la specificità del prevedere, se la maggior parte dei comportamenti ha questo carattere
anticipatorio e preparatorio? La risposta la si può trovare osservando di nuovo la figura 13: la rete
neurale di un organismo capace di prevedere è una rete che autogenera il proprio input (a differenza
di quanto accade nelle reti neurali senso-motorie). La rete produce come output un certo pattern di
attivazione, che viene reimmesso all’interno della rete neurale come se fosse un nuovo input.
Talvolta, questo input autogenerato dalla rete neurale ha caratteristiche del tutto simili a quelle di un
vero e proprio input sensoriale. E’ ciò che avviene ad esempio in caso di sogni, allucinazioni, ecc…
Prevedere ed immaginare possono essere due fenomeni strettamente collegati tra loro: la
sostituzione dell’input proveniente dall’esterno con uno autogenerato (prodotto di una rete in grado
di prevedere) può infatti essere vista come una forma di immaginazione.
Linguaggio
Ci stiamo man mano allontanando dagli insetti originari, per avvicinarci sempre di più agli esseri
umani. Passo decisivo in tal senso è introdurre il concetto di linguaggio, capace di amplificare e di
trasformare le capacità dell’organismo che ne è in possesso.
Riprendiamo in mano la simulazione dove erano presenti nell’ambiente funghi “buoni” e funghi
“cattivi”. La rete neurale degli individui è però diversa rispetto a quella vista precedentemente.
Come mostra la figura 14, ora vi sono delle nuove unità di input sensoriale che codificano i suoni
provenienti dall’ambiente e delle nuove unità di output che codificano movimenti fono-articolatori
in grado di produrre fisicamente dei suoni. Gli individui si muovono a coppie (un adulto ed un
bambino); quando una di queste coppie incontra un fungo, l’adulto risponde emettendo un suono,
percepito dal bambino, che sulla base di questa sua percezione sceglie il comportamento da
adottare. I suoni che l’adulto è in grado di emettere sono due, precisi e molto diversi tra loro. La
scelta del suono da emettere è funzione dell’opera di categorizzazione dell’adulto: un suono se il
fungo che la coppia ha di fronte è buono, l’altro suono nel caso in cui il fungo sia cattivo. Ciò
migliora l’efficienza del bambino nel distinguere tra le due categorie di funghi. L’input della rete
neurale del bambino è più completo quando si trova in presenza dell’adulto, con conseguenze che si
ripercuotono sulle sue codifiche interne dei funghi (patterns di attivazione), le quali devono essere
differenti per categorie di funghi diverse (categorizzazione). Il lavoro neurale di categorizzazione,
in sostanza, viene svolto in maniera migliore quando il bambino si trova insieme all’adulto.
Il linguaggio non serve soltanto per categorizzare meglio la realtà: esso può servire anche per
focalizzare l’attenzione. Se immaginiamo che un bambino si trovi di fronte a due oggetti diversi,
uno soltanto dei quali rilevanti per il compito che deve svolgere, il suono emesso dall’adulto può
servire al bambino per capire a quale dei due oggetti deve prestare attenzione. L’attenzione, nella
pratica, si traduce nella neutralizzazione, da parte del bambino, dell’input sensoriale relativo
all’oggetto che l’adulto gli ha detto (attraverso il suono) di considerare come non rilevante.
Qualcosa di analogo accade anche per la capacità di astrazione. Si pensi al bambino che percepisce
una ciliegia piccola, rossa e che si mangia. Se, durante questa percezione, l’adulto emette un suono
che nelle esperienze passate è legato alla sola caratteristica “colore rosso”, il bambino finirà per
neutralizzare l’informazione riguardante le altre proprietà della ciliegia, “astraendo” soltanto il fatto
che essa sia rossa.
Il linguaggio, ad ogni modo, non è utile soltanto per migliorare il modo in cui l’organismo risponde
alla realtà percepita dai sensi, ma serve anche come sostituto di questa realtà. Un essere umano può
infatti rispondere ai suoni del linguaggio come se avesse di fronte la realtà con cui questi suoni sono
normalmente associati (si pensi, ad esempio, al grido “al lupo, al lupo!”).
Se torniamo alla nostra simulazione, osserviamo che dopo un po’ di tempo anche il bambino inizia
ad emettere suoni ogni qualvolta percepisce un fungo. Suoni che dapprima sono molto simili tra
loro, ma poi (attraverso l’algoritmo di backpropagation che utilizza l’adulto come modello) arrivano
ad essere del tutto corretti: il bambino, con il meccanismo dell’imitazione, ha imparato a parlare.
Grazie al linguaggio, il bambino ha potuto sfruttare l’esperienza delle generazioni precedenti, per
imparare con pochissimi rischi quali sono le categorie in cui è possibile classificare i funghi. Una
volta appreso il linguaggio, il bambino, dal punto di vista di questa simulazione, è diventato un
adulto. Ora può sciogliere la sua coppia e cercare un bambino a cui insegnare le nozioni apprese.
Come abbiamo visto, un individuo è influenzato dai suoni prodotti da un altro individuo. Ma
sarebbe altrettanto lecito supporre che esso possa essere influenzato allo stesso modo dai suoni
emessi da lui stesso, o magari semplicemente generati, ma non emessi all’esterno del suo corpo. La
capacità di parlare con sé stessi è generalmente intesa come la capacità di pensare. Stiamo
lentamente arrivando a simulare individui dotati di pensiero e di vita mentale.
Vita emotiva
La vita mentale sembra essere fatta di due di tipi di fenomeni: quelli “freddi” (relativi al conoscere,
prevedere ed immaginare la realtà, al ragionare, al fare ipotesi e progetti, al decidere cosa fare) e
quelli “caldi” (relativi alle motivazioni, alle emozioni, agli effetti). Il linguaggio comune, come
d’altronde fa anche la scienza cognitiva, tende ad associare la parola “mente” ai fenomeni “freddi”.
La mente “fredda” è studiabile senza considerare gli organismi come dotati di un corpo: è possibile
infatti comprenderla attraverso l’analisi della sola rete neurale che caratterizza gli organismi sotto
esame. La vita mentale “calda” è invece un prodotto delle interazioni della rete neurale con il resto
del corpo. Basti pensare alle reazioni del nostro fisico di fronte ad accadimenti particolari quali
l’innamoramento: aumento del battito cardiaco, difficoltà di articolazione delle parole, aumento
della produzione ormonale, ecc… Per simulare la vita affettiva, una rete neurale non può quindi
limitarsi ad interagire con l’ambiente esterno, ricevendo input sensoriali extra-corporali e
producendo in risposta particolari movimenti del corpo, ma deve saper interagire con le parti interne
del corpo, così come il sistema nervoso fa negli organismi.
Si tenga comunque presente che non tutte le influenze che giungono al sistema nervoso dal resto del
corpo sono “sentite”: alcune di esse avvengono e basta, il che fa pensare che il “sentire” o meno una
certo accadimento corporeo sia collegato ai fenomeni dell’attenzione e della motivazione. Se
dunque il “sentire” in quanto tale richiede soltanto un corpo ed una rete neurale, le emozioni
sembrano invece richiedere reti neurali maggiormente sofisticate, in grado di autogenerare il
proprio input, di immaginare, di pensare, cioè, di unire mente “calda” e mente “fredda”.
Comportamenti sociali
Immaginiamo ora un’altra simulazione. Nel nuovo ambiente, vi è un organismo adulto che vaga alla
ricerca di cibo, utile per sopravvivere e riprodursi. Poco distante da lui, che segue i suoi movimenti,
vi è un organismo bambino. La prima domanda che viene da porsi è come faccia il bambino a
sopravvivere. La risposta diventa lampante osservando per qualche tempo la simulazione: si nota
infatti come l’organismo adulto, una volta individuato il cibo, una volta lo mangi, mentre la volta
successiva lo raccolga e lo ceda all’organismo bambino, garantendo anche ad esso la
sopravvivenza.
Cedere una parte del proprio cibo fa diminuire per l’adulto le sue chances di sopravvivenza. Come
possono essersi evoluti dei pesi della rete neurale che si traducono in comportamenti contrari alla
sopravvivenza ed alla riproduzione di chi li compie? La risposta sta questa volta nella relazione che
lega i due organismi: essi sono padre e figlio. Comportandosi in questo modo, il padre fa sì che il
figlio (con il quale condivide il DNA) possa raggiungere l’età fertile e quindi riprodursi,
contribuendo alla diffusione del genoma nelle generazioni future, in misura più ampia di quanto
potrebbe mai fare un padre “egoista”.
Il comportamento dei bambini, che seguono il padre, è molto più semplice da spiegare.
L’evoluzione ha infatti rapidamente eliminato quei comportamenti “autonomi”, che portano
l’organismo bambino a stare lontano dal padre, impedendogli di accedere al cibo necessario per
sopravvivere.
Questi due comportamenti sono alla base delle “relazioni di amore”. Da un punto di vista formale,
possiamo infatti identificare due tipi fondamentali di amore:
-
l’amore dei genitori per i figli (che si manifesta cedendo ai figli le proprie risorse);
l’amore dei figli per i genitori (che si manifesta stando vicini ai propri genitori per ricevere
le loro risorse).
La relazione d’amore tra partners sessuali potrebbe meritare una classificazione propria, ma essa
può anche essere espressa riutilizzando i due tipi di amore visti qui sopra, considerando ciascuno
dei due partner ora il genitore, ora il figlio.
Così come molte delle simulazioni che abbiamo affrontato fino a questo momento (si pensi al
modello dove l’insetto cercava un partner sessuale, a quello dove l’organismo riceveva un aiuto
linguistico per imparare a categorizzare i funghi, ecc…), quella che stiamo analizzando ora ha una
sua componente di carattere “sociale”. Le interazioni sociali sono un campo importante in cui si
esercita, tra le altre, la capacità di prevedere. Se prevediamo come reagirà un altro individuo ad un
nostro comportamento, il nostro comportamento nei suoi confronti sarà più sofisticato.
Più in generale, gli esseri umani sono socialmente piuttosto sofisticati. E’ soprattutto grazie al
linguaggio che gli esseri umani vivono in una comunità sociale non solo quando si incontrano dal
vivo, ma anche quando non interagiscono faccia a faccia, rispondendo a stimoli linguistici
autogenerati in maniera simile a come risponderebbero agli input fisicamente prodotti da altri
individui.
Nuovi modelli della società
Reti neurali ed algoritmi genetici fanno parte di un’impresa più ampia, che prende il nome di “Vita
Artificiale”. La Vita Artificiale può essere definita come “lo studio dei sistemi viventi fatto, non
dissezionando ed analizzando i sistemi viventi che esistono nella realtà (come fa la biologia), ma
costruendo sistemi viventi artificiali”. Questo, in genere, significa simulare con i computers
fenomeni del mondo vivente, ma anche costruire robot fisici dotati di alcune delle caratteristiche
proprie degli organismi biologici.
Il nome “Vita Artificiale” può far pensare ad una sorta di cattivo riduzionismo. In realtà, la scienza
della Artificial Life non condivide affatto il riduzionismo biologico nella spiegazione del
comportamento umano, ma al contrario si interessa dello studio di tutti i fenomeni del mondo
vivente. Il suo quadro teorico di riferimento è quello dei sistemi complessi, il suo metodo di ricerca
quello delle simulazioni: idee completamente generali e pertanto applicabili a tutti e tre i livelli
della gerarchia che abbiamo visto all’inizio di questo lavoro (il livello delle entità e dei fenomeni
studiati dalla biologia, il livello del comportamento e della vita mentale di cui si occupano gli
psicologi, il livello delle società umane e dei fenomeni culturali e tecnologici studiati dagli storici e
dagli scienziati sociali).
Le società umane ed i loro prodotti culturali possono essere interpretati e simulati come sistemi
complessi, le cui caratteristiche sono un risultato dei comportamenti e delle interazioni tra gli
individui che le compongono. Lo studio di queste interazioni individuo-società, d’altronde, è ciò
che le scienze dell’uomo studiano da sempre. L’aspetto innovativo nell’approccio della Vita
Artificiale è il tentativo di tenere assieme i tre livelli della gerarchia, ossia di studiare le relazioni
reciproche tra la biologia, il comportamento o la vita mentale, e la società, chiamando
contemporaneamente in causa le scienze biologiche, quelle psicologiche e quelle sociali.
Strategie sociali di sopravvivenza
Riaccendiamo il computer e torniamo ad occuparci di simulazioni. Osserviamo un ambiente
all’interno del quale si muovono diversi individui, ciascuno con una sua rete neurale, un suo corpo
ed un suo DNA. Questi individui devono trovare e raccogliere cibo per poter sopravvivere e
riprodursi; il loro comportamento di approvvigionamento è codificato nei pesi della loro rete
neurale. Stagionalmente il cibo presente nell’ambiente ricresce, arrivando a compensare quello
raccolto. Ciascun individuo raccoglie la quantità di cibo necessaria a soddisfare i suoi bisogni
energetici immediati ed eventualmente quelli dei suoi figli, se questi sono in un’età in cui non sono
ancora in grado di procurarsene da soli.
Con il passare del tempo, gli individui che vivono nell’ambiente arrivano a sviluppare l’agricoltura
e l’allevamento degli animali. Ora, essi possono procurarsi una quantità maggiore di cibo rispetto a
quella di cui hanno bisogno. Tale eccedenza può essere immagazzinata (in quel “magazzino
individuale” che nella figura 18 è rappresentato con la sigla “MI”) e vi si può attingere nei momenti
di scarsità e di bisogno.
Se non prendiamo in considerazione i rapporti padre-figlio, le strategie di sopravvivenza della
popolazione viste in questi due ambienti sono di tipo puramente “individuale”: le probabilità di
sopravvivere e di riprodursi di ogni individuo dipendono soltanto dall’individuo stesso ed in
particolare dalla sua abilità/fortuna nel procurarsi il cibo. Modifichiamo leggermente la
simulazione, facendo sì che ogni individuo sia disposto a cedere una parte del proprio cibo ad un
altro individuò che si trovi in difficoltà.
Ciò a cui assistiamo ora è l’emergere di una strategia “sociale” di sopravvivenza. Le probabilità di
sopravvivere e di riprodursi non dipendono più soltanto dal singolo individuo, ma anche dalla
capacità di procurarsi cibo degli altri individui e soprattutto dalla loro disponibilità a cederne una
parte ad un individuo in difficoltà.
Da un punto di vista evolutivo, i geni che stanno dietro ai comportamenti altruistici (com’è quello di
cedere il proprio cibo ad un individuo in difficoltà) dovrebbero scomparire dal pool genetico della
popolazione, in quanto provocano una diminuzione delle chances di sopravvivenza/riproduzione
dell’individuo che ne é portatore. Nelle società umane, tuttavia, accade spesso che un individuo
ceda una parte delle proprie risorse ad altri, anche quando questi non sono suoi parenti (e dunque
non prendano parte al processo di diffusione del suo genoma). La stessa evoluzione delle società
umane verso le forme complesse che conosciamo oggi é stata trainata da queste forme di
circolazione sociale.
La condivisione di risorse senza una contropartita immediata, ma con una futura possibilità di
reciprocazione, tende ad avvenire all’interno di gruppi sociali di piccole dimensioni, dove tutti gli
individui si conoscono e dove vi è scarsità di risorse (e dove, quindi, la fortuna è spesso più
determinante dell’abilità nel garantire o meno la sopravvivenza di un individuo). Questo per il
semplice fatto che, in un ambiente di questo genere, la probabilità di reciprocazione del
comportamento altruista è piuttosto elevata.
In un gruppo umano, cedere ad altri le proprie risorse può servire allo scopo di affermare e/o
mantenere una propria immagine di generosità, utile nell’ipotesi inconscia che, in caso di bisogno,
si riceva dagli altri in funzione di quanto si è dato loro. Gli esseri umani sono avvantaggiati in
questo processo sociale, in quanto dotati di linguaggio, in grado di far rivivere nel tempo e rendere
noti a tutti i comportamenti altruistici adottati da un certo individuo.
Il trasferimento di risorse tra individui può avvenire in maniera spontanea, ma anche attraverso la
violenza: un individuo si impossessa delle risorse altrui, sfruttando il fatto che la vittima non è in
grado di opporsi oppure, il farlo, comporterebbe ad essa la perdita di un quantitativo di risorse
maggiore rispetto a quello che gli verrebbe sottratto se decidesse di accettare passivamente
l’accadimento. Terza possibilità è quella del trasferimento di risorse nel contesto di una società
fondata sullo scambio: un individuo cede una sua risorsa ad un altro e ne riceve immediatamente in
cambio un’altra, di valore commisurato a quello della prima.
Vediamo ora un’altra simulazione. La società che ci troviamo di fronte è uno “stato”, basata su di
un meccanismo che funziona come una sorta di “magazzino centrale”, al quale gli individui cedono
una parte delle proprie risorse (sottoforma di tasse, forza lavoro, capacità di combattere, ecc…). Il
magazzino centrale amministra le risorse raccolte, ridistribuendole in maniera equa tra tutti i
membri del gruppo, oppure utilizzandole per produrre “risorse collettive”, che nessun individuo
sarebbe in grado di produrre da solo (strade, sistemi di irrigazione, capacità di muovere guerre
offensive per impadronirsi delle risorse di altri gruppi, ecc…).
Il magazzino centrale tende ad essere gestito da un “capo” (un individuo singolo o un gruppo di
individui), che lo amministra da un punto di vista organizzativo (quante e quali risorse deve cedere
ogni individuo, quante e quali deve poter attingere, come deve essere strutturata la produzione
“collettiva”, ecc…), ma che ha soprattutto il compito di garantire che ciascun individuo della
società ceda effettivamente la parte prevista delle sue risorse al magazzino centrale. I
comportamenti individuali, tendono infatti ad essere egoistici (cedere meno del dovuto ed attingere
in misura maggiore rispetto a quanto previsto); ciò fa sì che buona parte dell’organizzazione sociopolitica delle società umane sia finalizzata proprio a “convincere” i membri del gruppo sociale a
comportarsi nel modo previsto nei confronti del magazzino centrale. Il capo, in cambio del suo
lavoro di amministrazione, viene lautamente ricompensato (con risorse attinte dal magazzino
centrale) ed ha quindi tutto l’interesse nel preservare il funzionamento di questo “magazzino
centrale”.
Ma chi è che diventa capo? Ad un primo livello di approssimazione possiamo identificare due tipi
distinti di “capi”: i capi “assoluti”, che diventano tali perché eredi del capo precedente, appartenenti
a famiglie ricche o potenti o semplicemente perché si impossessano del potere con la forza; i capi
“democratici”, scelti (eletti) e controllati dal corpo sociale previa dimostrazione delle loro abilità
personali.
Le simulazioni che abbiamo visto fino ad ora sono piuttosto semplici: il comportamento è
determinato dal DNA e, sia esso sia le organizzazioni sociali, si mantengono solo se hanno
un’influenza positiva sulla probabilità di sopravvivenza e di riproduzione degli individui. La realtà,
come sempre, è più complessa. Spesso gli individui si comportano semplicemente in maniera tale
da accrescere il proprio benessere psico-mentale, il quale è soltanto lontanamente connesso con i
fattori biologici della sopravvivenza e della riproduzione. I comportamenti, poi, non sono
determinati dal patrimonio genetico, ma sono piuttosto frutto dell’ambiente e delle esperienze
maturate all’interno di questo ambiente. Da quest’ultima considerazione emerge lampante il fatto
che, affinché la Vita Artificiale possa essere estesa al comportamento degli esseri umani, è
necessario riuscire a simulare i fenomeni della trasmissione e dell’evoluzione culturale.
Da dove origina il comportamento? L’evoluzione culturale
Sono tre le modalità fondamentali attraverso le quali, all’interno degli organismi, possono emergere
comportamenti e capacità prima non esistenti. Accanto all’evoluzione biologica ed
all’apprendimento in vita, che abbiamo già osservato, possiamo individuare l’evoluzione culturale:
il comportamento emerge nella popolazione come nell’evoluzione biologica, ma passa attraverso un
apprendimento individuale che ha carattere sociale, ovvero che consiste nell’apprendere dagli altri.
L’apprendimento esiste, in misura minore o maggiore, in tutti gli esseri viventi. Se gli animali,
solitamente, apprendono per la maggior parte della natura (cioè interagendo con l’ambiente), gli
esseri umani apprendono dai loro conspecifici, dai loro comportamenti, dalle loro parole e dagli
artefatti tecnologici che loro hanno creato. La trasmissione culturale è fondamentalmente
“evoluzione culturale”. Comportamenti, idee e tecnologie propri di una generazione vengono
riprodotti selettivamente nella generazione successiva, con l’aggiunta di alcune varianti. Anche la
trasmissione culturale è infatti accompagnata dall’innovazione, che può avere luogo attraverso la
mutazione (errori di “copiatura” durante la trasmissione), la ricombinazione innovativa di idee già
esistenti, l’introduzione di varianti provenienti da altre società, ecc…
Vediamo una nuova simulazione. Nell’ambiente virtuale, gli individui devono cercare cibo per
sopravvivere e riprodursi, ma nascono con pesi della rete neurale casuali e non sono quindi in grado
di provvedere all’approvvigionamento. Muovendosi nell’ambiente accanto ad un “maestro” in
grado di raccogliere cibo (condividendo così il medesimo input sensoriale), mediante un algoritmo
di backpropagation gli individui diventano man mano capaci di raccogliere cibo. Quello appena
abbozzato è un semplice modello della trasmissione culturale: il comportamento di una generazione
viene “ereditato” dalla generazione successiva, non attraverso il DNA, ma tramite l’apprendimento.
Come abbiamo accennato prima, la trasmissione culturale non è soltanto conservazione del passato,
ma anche cambiamento ed evoluzione culturale. Possiamo vedere la cultura come un pool di
varianti di modi diversi ed alternativi di agire, pensare, parlare, costruire ed usare strumenti. Essa
viene trasmessa in maniera selettiva (alcune varianti sono più trasmesse di altre) e con nuove
varianti che si aggiungono ad ogni generazione. E’ questa variabilità che crea il cambiamento, o
meglio, l’evoluzione culturale. Immaginiamo infatti la simulazione precedente alla prima
generazione, senza la presenza di alcun maestro. Gli individui che sono, casualmente, nati con i
migliori pesi della rete neurale divengono maestri nella generazione successiva. Gli individui che
diventeranno loro allievi, cercheranno di apprendere la loro tecnica di approvvigionamento,
introducendo però un certo quantitativo di “rumore” al pattern di insegnamento che osservano dai
maestri. Grazie a questo rumore, la trasmissione culturale diventa evoluzione culturale e farà
evolvere, nel lungo periodo, la capacità di procurasi cibo, precedentemente assente nell’ambiente.
La realtà, tuttavia, è come al solito più complessa. L’aggiunta di nuove varianti da una generazione
all’altra (ossia l’innovazione culturale e tecnologica) non è dovuta soltanto ad “errori” di copiatura,
ma anche ad altri meccanismi, quali possono essere le invenzioni, le influenze di altre culture,
l’innovazione ricercata sistematicamente e coscientemente. Al contrario dell’evoluzione biologica,
quella culturale permette la trasmissione dei caratteri acquisiti nel corso della vita. Come
meccanismo di cambiamento essa è dunque molto più veloce rispetto alla trasmissione genetica.
Evoluzione biologica e culturale non sono comunque fenomeni separati e tra loro alternativi come
abbiamo visto finora: essi avvengono insieme e soprattutto possono influenzarsi a vicenda. Questa
interazione tra i due tipi di evoluzione é simulabile in vari modi. Possiamo infatti immaginare il
nostro ambiente virtuale, dove gli individui nascono incapaci di cercare cibo; se la loro rete neurale
non ha codificato il comportamento di ricerca, ha però al suo interno i pesi (ereditati perché scritti
nel DNA) che sviluppano il comportamento innato del cercare un maestro al quale “accoppiarsi”. In
questo modo, l’evoluzione biologica è il presupposto perché possa avvenire la trasmissione
culturale. Senza trasmissione culturale, l’evoluzione biologica non ci sarebbe stata.
La stessa tendenza ad imparare dagli altri potrebbe essere geneticamente trasmettibile, anche se ciò
non garantisce che, i comportamenti imparati durante la vita mediante l’apprendimento, siano
effettivamente utili alla sopravvivenza ed alla riproduzione dell’individuo che li mette in atto.
Le idee, in genere, vengono trasmesse tra gli individui attraverso il linguaggio, il quale è legato a
doppio filo con la trasmissione culturale. Da un lato, infatti, il linguaggio stesso evolve
culturalmente; dall’altro lato il linguaggio è il tramite attraverso cui vengono trasmesse idee e modi
di comportarsi, conoscenze e valori. Il linguaggio permette inoltre di apprendere dagli altri non
soltanto imitando il comportamento, ma anche ascoltando o leggendo le loro descrizioni
linguistiche di comportamento da imparare.
Evoluzione tecnologica
Gli artefatti tecnologici e le modificazioni apportate all’ambiente esterno sono tipici del pattern
adattivo umano. Gli esseri umani sono gli unici animali che basano in buona parte il loro
adattamento all’ambiente su un una modifica di tale ambiente per renderlo il più adatto possibile a
sé stessi, piuttosto che su una modifica di sé stessi per diventare più adatti all’ambiente così com’è.
Allo stesso modo del linguaggio, anche gli artefatti tecnologici hanno un doppio rapporto con la
trasmissione culturale. Essi sono infatti trasmessi culturalmente ed al tempo stesso fanno da tramite
nell’ambito della trasmissione culturale di idee e modi di comportarsi. Grazie alla tecnologia viene
meno il vincolo di stare fisicamente vicini ad un maestro per poter apprendere: il maestro può
essere sostituito da un libro, da un computer o da un altro dei cosiddetti “artefatti cognitivi”.
Osserviamo ora un’ultima simulazione. L’ambiente virtuale che abbiamo di fronte è costituito da
una moltitudine di “omini” che si muovono nello spazio alla ricerca di cibo (rappresentato
sottoforma di piccole spighe di grano), che conservano all’interno di particolari vasi. Questi vasi,
che servono non solo per conservare, ma anche per trasportare e cuocere il cibo, sono a tutti gli
effetti degli artefatti tecnologici e come tali essi vengono trasmessi culturalmente, in maniera
selettiva, da una generazione all’altra. La rete neurale di ogni individuo contiene una parte dedicata
alla riproduzione dei vasi: vi sono unità di input che codificano le caratteristiche percettive di un
vaso preso come modello da riprodurre, vi sono inoltre unità di output che codificano le
caratteristiche del vaso che viene riprodotto copiando il modello. Tale rete neurale aggiorna i propri
pesi in base ad un algoritmo di backpropagation, che utilizza come riferimento il vaso “modello”
che si vuole riprodurre. Introducendo un po’ di variabilità casuale nella riproduzione dei vasi,
possono avvenire degli “errori” durante la copiatura che, a lungo andare, daranno come risultato
l’evoluzione tecnologica. La qualità media dei vasi migliorerà con il passare delle generazioni.
L’evoluzione tecnologica può non essere dovuta soltanto a processi che avvengono all’interno di un
certo gruppo di individui. Un vaso “evoluto” creato da un dato gruppo può essere immesso, ad
esempio come parte di uno scambio commerciale, in un altro gruppo tecnologicamente più
arretrato: il risultato può essere un’accelerazione nello sviluppo tecnologico di questo secondo
gruppo. Al contrario, l’isolamento di una popolazione può portarla alla diversificazione culturale e
tecnologica, con fenomeni di “deriva” analoghi a quelli della “deriva” genetica, producendo così la
grande varietà tipica delle culture e società umane.
Le strategie sociali di sopravvivenza e l’evoluzione culturale-tecnologica sono fenomeni centrali
delle società e delle culture umane. Il trasferimento e la circolazione delle risorse tra gli individui
(che di fatto è causa dell’interdipendenza tra essi) costituiscono la base dell’esistenza delle società
viste come nuovi sistemi complessi sovraindividuali ed il motore dello sviluppo storico delle società
umane. Apprendere dagli altri all’interno di un gruppo è la base dell’esistenza delle culture, intese
come insiemi di individui, idee e tecnologie condivise.
L’esistenza delle società e delle culture, unitamente al fatto di vivere all’interno di un ambiente
culturale e tecnologico (ossia, un ambiente non soltanto naturale), ha due implicazioni per la mente
degli esseri umani:
1. la mente di un essere umano non sta tutta fisicamente dentro di lui, ma solo in parte: gli
artefatti tecnologici (specialmente quelli cognitivi) in buona misura “pensano” per lui.
L’intelligenza dell’individuo è quindi sparsa per l’ambiente, incorporata negli artefatti
tecnologici;
2. la mente di un individuo è solo in parte la sua mente: ciò che l’individuo pensa, lo pensa la
sua cultura, che l’individuo si limita a ricevere ed a trasmettere, eventualmente con piccole
modificazioni. Esiste una piccola mente dell’individuo; esiste una mente, più grande, della
sua cultura.