una patria comune - Istituto Comprensivo Giulio Bevilacqua

UNA PATRIA COMUNE
di Ahmed Albab
classe III B
IC "Giulio Bevilacqua" - Cazzago S. Martino (BS)
Avevo solo diciassette anni quando il comandante supremo spartano Archidamo decise di mandarmi in
guerra, ovviamente non potevo discutere e perciò andai.
Furono ventisei giorni d'eterna sofferenza, vedevo solo compagni tornare feriti alla nostra base; da giorni gli
ateniesi avevano il sopravvento sulle nostre forze.
Io, fortunatamente, lavoravo solo come aiutante del chirurgo del nostro accampamento che era nascosto
dietro a una montagna. Ma il ventisettesimo giorno non avemmo scelta: tutti avrebbero dovuto scendere in
battaglia per la patria e ognuno era consapevole che sarebbe morto.
Combattemmo e come per miracolo divino riuscimmo a vincere la battaglia e io fui uno dei pochi superstiti;
mi fu poi dato l'ordine di cercare nemici ancora in vita sul campo di battaglia e se li avessi trovati di
eliminarli.
Ma non rispettai l'ordine.
Trovai infatti un solo ateniese ancora vivo; lo guardai: aveva probabilmente la mia stessa età. Decisi di non
ucciderlo, era un semplice ragazzo dall'aria innocua, non riusciva nemmeno a parlare, tanto era sfinito.
Prima di tornare a Sparta gli tolsi le armi e me lo caricai sulle spalle. Non so perché salvai quel ragazzo dal
suo destino cruento, è come se mi fosse stato imposto da una divinità. Il ragazzo per tutta la strada non
parlò mai: avevo forse offeso il suo orgoglio con il mio gesto di clemenza?
Lo portai segretamente a casa mia e solo dopo qualche giorno mi rivelò il suo nome: Aristides, un classico
nome ateniese; non avrebbe mai potuto vivere a Sparta con quell'identità: avrebbero ucciso lui e me, in
quanto traditore, poiché avevo aiutato un nemico. Così inventai per lui una parentela con la mia famiglia:
da quel giorno in poi lui sarebbe stato Filippo, nome di un mio cugino venuto a mancare pochi anni prima.
Durante i primi mesi riuscì molto bene a integrarsi nella società spartana, trovandosi un lavoro e, in me, un
vero amico, nel quale riporre molta fiducia. Filippo imparò molto bene le nostre usanze, fino a considerarsi
perfino uno spartano. Dopo due anni faceva già parte del nostro esercito e si era già distinto in battaglie
contro i suoi vecchi compatrioti ateniesi.
La vita proseguì molto tranquillamente, fino al giorno in cui uno schiavo ateniese riconobbe in Filippo colui
che un tempo era stato Aristides. Lo schiavo lo denunciò pubblicamente come traditore e anche se nessuno
gli diede subito retta, Archidamo, dubbioso, volle interrogarlo. Non so in quale maniera, ma riuscì a capire
che Filippo era ateniese; non importa se aveva combattuto per Sparta; fu ugualmente arrestato in quanto
la sua origine lo condannava: in quella città che stava al di là dello stretto, quella città da sempre diversa e
nemica.
Fu così condannato a morte.
La stessa pena sarebbe toccata a me, poiché l'avevo salvato e ospitato. Fu così che mi accadde una cosa
strana: mi sentii anch'io come lui, improvvisamente straniero nella città dov'ero nato e dove tutti parlavano
la mia lingua e adoravano i miei stessi dei.
Trovai così uno stratagemma.
Chiesi ai giudici di poterlo uccidere io stesso: mi fu concesso. Ovviamente non lo uccisi e invece riuscimmo
ad abbandonare la città.
Solo dopo un giorno s'accorsero della nostra fuga, ma, non so per quale motivo, non ci diedero la caccia,
cosa che, in questi casi, solitamente non succede. Filippo mi guidò oltre il confine tra i nostri rispettivi
territori, in una terra a me ancora sconosciuta, ma così simile alla mia. Ancora una volta mi sentivo strano:
mi sentivo... libero, anche se la mia patria era ormai lontana.
Quando arrivammo ad Atene speravo che ciò che io avevo fatto per lui a Sparta Filippo lo avrebbe
ricambiato nella sua città.
Invece... no.
Imprevedibilmente, Filippo (o Aristides?) decise subito di consegnarmi alle autorità cittadine come nemico
spartano, tradendo tutto ciò che avevamo passato assieme.
Fui così condannato a morte e mi fecero mettere in ginocchio. In tutta la mia vita non avevo mai provato
così tanta paura; sentivo il freddo della spada sulla nuca, mentre quello che era stato mio amico assisteva
impassibile.
Prima di essere ucciso chiesi a Filippo perché mi stesse facendo questo. Lui mi rispose che lo stava facendo
per la patria. Io allora gli dissi che la nostra amicizia era stata la nostra unica, comune patria.
Poi rimasi in silenzio, fino alla fine.