Dequotazione della motivazione e provvedimento amministrativo

Dequotazione della motivazione e provvedimento amministrativo (*)
di
Avvocato
Antonio
GUANTARIO
1.
Considerazioni
introduttive
e
oggetto
dell’indagine.
La legge 7 agosto 1990, n. 241, fra le importanti novità introdotte in tema di procedimento amministrativo
e di diritto di accesso ai documenti dell’Amministrazione, ha previsto la generalizzazione dell’obbligo della
motivazione per tutti i provvedimenti amministrativi, tranne che per gli atti aventi carattere normativo e per
quelli
a
contenuto
generale.
È apparsa subito evidente l’estrema novità del precetto contenuto nell’art. 3, in considerazione del lungo
e tormentato dibattito sviluppatosi sul tema dell’obbligo di motivazione per quegli atti amministrativi che a
tale obbligo non erano espressamente assoggettati da una specifica norma di legge (1).
Nell’ordinamento giuridico vigente in epoca anteriore all’entrata in vigore della legge n. 241/90, infatti, un
obbligo di motivazione ascrivibile a tutti, indistintamente, gli atti amministrativi non era normativamente
previsto; sicché costituiva ius receptum il principio secondo cui l’atto amministrativo andava
necessariamente motivato nell’ipotesi in cui tale obbligo fosse o imposto da un’esplicita disposizione di
legge ovvero richiesto dalla intrinseca "natura dell’atto". La motivazione si configurava, di conseguenza,
come elemento formale dell’atto il cui difetto, nel primo caso, dava luogo al vizio di violazione di legge e,
nel
secondo
caso,
a
quello
di
eccesso
di
potere
(2).
Era dunque "la natura dell’atto" lo strumento concettuale utilizzato per l’individuazione dei provvedimenti
amministrativi assoggettati all’obbligo di motivazione; obbligo che, pertanto, sebbene non previsto da
alcuna disposizione di legge, traeva origine dall’orientamento giurisprudenziale consolidatosi nel
convincimento che il difetto di motivazione integrasse un’ipotesi sintomatica di eccesso di potere
amministrativo
(3).
L’impossibilità di ricondurre l’obbligatorietà della motivazione ad un principio generale indusse dottrina e
giurisprudenza a sostenere che la questione dovesse risolversi caso per caso, considerando cioè i singoli
atti, posto che non tutti gli atti incidono con pari intensità nella sfera giuridica dei terzi.
Se ne concluse che l’esigenza di rendere trasparente l’operato dell’Autorità, esternando i motivi del
provvedimento, dovesse porsi unicamente per quegli atti destinati, in maggiore misura, ad incidere
negativamente
nella
sfera
giuridica
degli
amministrati.
"Sorse così e via via si consolidò in dottrina e giurisprudenza la teoria dell’obbligo secondo la natura
dell’atto"
(4).
In tal modo, assoggettando all’obbligo di motivazione tutti gli atti autoritativi di natura discrezionale idonei
a produrre effetti negativi – attuali o potenziali – nella sfera giuridica degli amministrati, davvero "pochi"
erano, di fatto, i provvedimenti per i quali la motivazione potesse considerarsi non necessaria: "i
provvedimenti vincolati; quelli dichiarativi non valutativi, le autorizzazioni positive, le concessioni di scarso
rilievo,
i
provvedimenti
ablatori
obbligatori
non
discrezionali"
(5).
A questa stregua, l’introdotta generalizzazione dell’obbligo di motivazione, più che costituire un novum, è
apparsa
piuttosto
la
codificazione
di
un
principio
già
pienamente
operante
(6).
La novità, dunque, ad un primo esame, è sembrata consistere nel diverso trattamento assegnato alla
motivazione, il cui difetto, da spia per la rilevazione sintomatica dell’eccesso di potere, si è annoverato
tout
court
nella
categoria
della
violazione
di
legge
(7).
Veniva, così, reciso lo storico cordone ombelicale che teneva saldamente ancorato il difetto di
motivazione al genus della patologia dell’atto, sub species dell’eccesso di potere (8). Prendeva corpo, in
sostanza, l’automatismo secondo cui il difetto di motivazione è senz’altro sussumibile nella categoria del
vizio di violazione di legge, così precludendosi alla giurisprudenza qualunque possibilità ermeneutica di
ricondurre
quel
vizio
ad
un’ipotesi
sintomatica
di
eccesso
di
potere.
Tale quadro, apparentemente schematico, si complica, tuttavia, non appena si pongono a confronto le
contrastanti posizioni su cui si attestano, nella vigenza del citato art. 3 della legge n. 241/90, dottrina e
giurisprudenza, su temi quali: a) rapporto tra obbligo generale di motivazione normativamente previsto e
ammissibilità della motivazione "successiva"; b) contenuto effettivo della nozione di motivazione così
come desumibile dall’espressione letterale adoperata dal legislatore nel citato art. 3.
Traendo spunto da una decisione del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana (20
aprile 1993, n. 149 - Est.: Giacchetti) (9) – che, sia pure entro certi limiti, ha ritenuto ammissibile in linea
di principio l’integrazione in corso di giudizio della motivazione del provvedimento impugnato – è stato
acutamente evidenziato come, nel nostro sistema amministrativo, la sostanzializzazione del processo
contrasti con la processualizzazione del procedimento di cui è espressione la legge n. 241/90. Di guisa
che la tesi sostanzialistica (favorevole alla motivazione successiva) diviene accettabile solo alla
condizione (tutta da dimostrare) che i vizi formali dell’atto amministrativo, tra cui la mancanza o
l’insufficienza della motivazione, siano degradabili a mere cause di irregolarità (10).
Per contro, da altro angolo prospettico è stato obiettato che l’art. 3 della legge n. 241/90 non esclude la
"motivazione a formazione successiva" (11) e che, comunque, nell’ordinamento vigente "non sembra
rinvenirsi alcuna norma che impedisca la sanatoria degli atti amministrativi nel corso del giudizio" (12).
Parallelamente, è stato osservato che, al di là del nomen iuris adoperato, la norma, piuttosto che alla
tradizionale nozione di motivazione, sembra fare riferimento alla "giustificazione" del potere (13).
Si è anche rilevato che "... il contenuto prescrittivo del secondo alinea del primo comma dell’art. 3 citato
nulla innovi, o quasi, ai principi precisati in dottrina con riferimento alla giustificazione" (14), mentre, dal
riferimento "alle risultanze dell’istruttoria" se ne è dedotto che la giustificazione (= motivazione)
"costituisce non un dato formale di carattere conoscitivo sovraimpresso sul provvedimento ..., bensì che
essa esteriorizza il criterio della scelta – discrezionale o non discrezionale – ogni volta che l’istruttoria
ponga
in
risalto
interessi
secondari
diversi
tra
cui
operare
una
scelta"
(15).
Altri hanno affermato, invece, che "si sia in presenza di un vero e proprio recupero di centralità della
motivazione, intesa come discorso ragionato dell’Autorità volto a giustificare l’esercizio del potere" (16),
ritenendo imposto all’Amministrazione "un vero e proprio obbligo di esternazione dei motivi che
sostengono il provvedimento con la conseguenza che tale esternazione, e dunque la motivazione nel suo
significato
formale,
diventano
elementi
essenziali
dell’atto"
(17).
Le segnalate divergenze, richiamate nei loro termini essenziali, sono l’indice di un più generale contrasto
su opzioni sistematiche in apicibus, contrasto che conduce ad una inevitabile divaricazione delle
conclusioni
sui
temi
nodali
che
la
problematica
della
motivazione
involge.
Tale contrasto, peraltro, ha origini ben più remote rispetto all’introduzione del citato art. 3 dal momento
che la dottrina, formatasi sul tema in epoca anteriore al 1990, già avvertiva come gli sforzi protesi ad
esaltare il valore della legittimità sostanziale del provvedimento, pur formalmente sprovvisto di
motivazione, non trovassero riscontro nella giurisprudenza maggioritaria "condensata in massime
consolidate
di
ardua
scalfitura"
(18).
Con ciò evidenziando che, nonostante il citato art. 3, rimangono irrisolti i problemi classici (19) della
motivazione quali l’estensione (individuazione degli atti assoggettati al relativo obbligo), il contenuto,
l’esternazione della stessa (con riguardo soprattutto alla c.d. motivazione per relationem) (20),
l’ammissibilità o meno della motivazione successiva e, infine, ma non ultimo per importanza, l’ambito di
reiterabilità
dei
provvedimenti
annullati
per
difetto
di
motivazione.
Tale ultimo aspetto, infatti, assume rilevanza primaria in relazione all’esigenza di tutela sostanziale del
ricorrente che, nel tenore della novella del 1990, non sembra essere garantita dalla apparente (21)
aumentata tutela processuale (22), derivante dalla, di certo più agevole, caducabilità del provvedimento
sfornito
di
motivazione
per
violazione
di
legge.
È un dato, invero, che a fronte della puntuale e copiosa attenzione dedicata alla generalizzazione
dell’obbligo di motivazione introdotta dall’art. 3 della legge n. 241/90, non si è riservata una altrettanto
estesa analisi alla nozione di motivazione proposta dalla medesima norma (23). Norma che, in verità,
sembra delineare per la prima volta, in modo espresso, la fattispecie normativa della figura iuris, sino ad
allora appannaggio esclusivo delle discordi ricostruzioni sistematiche dottrinarie, nonché delle decisioni
giurisprudenziali più tese ad individuare la disciplina del caso concreto che non a risolvere intricati
problemi
teorici.
Anche nella dottrina più recente si registra, in generale, la doglianza del mancato recepimento da parte
della giurisprudenza successiva all’anno 1990 del "passaggio culturale e, dunque, applicativo della nuova
normativa" (24), soprattutto nelle decisioni (25) concernenti la sufficienza della motivazione, nelle quali, è
stato rilevato, "si afferma che l’obbligo di motivare i provvedimenti amministrativi si può ritenere
sufficientemente assolto quando sia dato ricavare la ricostruzione dell’itinerario logico seguito
dall’Amministrazione
in
attuazione
di
un
potere
discrezionale"
(26).
Sta di fatto che la dottrina, nell’interpretare il citato art. 3, si è divisa in due orientamenti:
a) da una parte, l’opinione che ha ravvisato nell’art. 3 cit. la conferma (rectius, codificazione formale) di
un principio sostanzialmente già vigente, in quanto progressivamente affermatosi in giurisprudenza;
b) dall’altra, la posizione interpretativa che, accanto al carattere prevalentemente confermativo del
principio esistente, ha ravvisato soprattutto un’innovazione del medesimo (27), interpretato in
collegamento organico con le diverse prospettive della nuova legge, il cui punto focale è individuato nel
rapporto tra la nozione di "motivazione necessaria" e il concetto di organizzazione procedimentale
dell’Amministrazione
(28).
In forza di questo secondo orientamento, la generica affermazione dell’innovatività del precetto in tema di
motivazione postula, in via programmatica, la necessità di depurare il concetto dal suo bagaglio storico –
così come progressivamente elaborato in dottrina e giurisprudenza – per concludere che, in sede
dommatica, l’innovazione normativa "è idonea ad invertire la direzione della interpretazione" ed escludere
il fondamento (se non nei limiti di un mero rilievo, anche in termini di evoluzione storica, nella
applicazione giurisprudenziale) della prospettiva ermeneutica delineata dal Giannini sulla progressiva
dequotazione
della
motivazione
(29).
Ciò in quanto, si è osservato, "recepire la innovazione precettiva dell’art. 3 della legge n. 241 come una
semplice conferma dei principi previgenti, contrasterebbe, in termini costruttivamente positivi, con la
rilevante novità fondata sulla disciplina positiva del procedimento amministrativo" (30).
L’approccio metodologico sotteso alla riferita opinione rivela, con tutta evidenza, una obiettiva carica
svalutativa delle origini e dell’evoluzione storica della nozione di motivazione, in relazione al concreto
atteggiarsi del sindacato di legittimità sotto forma di eccesso di potere. Tale carica svalutativa trova il suo
culmine nel convincimento che, in realtà, l’orientamento giurisprudenziale consolidato contrasti con la
diversa nozione di motivazione, postulata in sede di interpretazione dell’art. 3 cit. ed elaborata nella
dichiarata "prospettiva di collegamento dell’obbligo di motivazione con il sindacato diffuso sull’azione
amministrativa"
(31).
Senonché, la stessa dottrina, contraddittoriamente (32), al fine di salvaguardare il principio di efficienza
dell’azione amministrativa – per il quale si ritiene inammissibile che l’Amministrazione, cui sia preclusa
l’integrazione successiva della motivazione, debba sopportare l’effetto paralizzante del ricorso
giurisdizionale – considera, "maggiormente coerente con il dettato della legge, ammettere l’integrazione
postuma della motivazione con la conseguente cessazione della materia del contendere" (33).
Preme sottolineare come la riferita opinione segnali al suo interno un notevole contrasto tra
l’affermazione della rilevanza invalidante immediata del difetto di motivazione – ricostruito come non
completa e/o coerente esposizione di tutti i fatti e ragioni giuridiche (motivazione in senso ampio) – e
l’affermazione della sanabilità successiva del vizio mediante la motivazione successiva, che, a rigore,
come è stato da altri evidenziato, si tradurrebbe nel "consentire che il provvedimento amministrativo
possa nascere ab origine non motivato o insufficientemente motivato, circostanza questa che potrebbe
offrire la strada ad una prassi dell’Amministrazione elusiva (parzialmente o totalmente) dell’obbligo di cui
sopra" (34); operazione, questa, incompatibile con la generalizzata formalizzazione normativa del
predetto
obbligo.
Alla luce di questa ultima considerazione la riflessione dommatica mostra un’involuzione che, a nostro
avviso, trova riscontro emblematico nell’osservazione che l’enunciato testuale dell’art. 3 cit., prescrivendo
che la motivazione debba contenere "i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato
la decisione ¼ , in relazione alle risultanze dell’istruttoria", fornirebbe "¼ un argomento contrario alla
distinzione tradizionale tra motivazione e giustificazione: "i presupposti di fatto" – com’è noto –
costituirebbero infatti materia della seconda, e non, come invece afferma la norma in esame, della prima"
(35).
L’approccio interpretativo possibile nei confronti del dato testuale dell’art. 3 cit. è, pertanto, a nostro
avviso, quanto meno bivalente: accanto alla prospettiva di chi ritiene superata la distinzione tradizionale
tra motivazione e giustificazione – in quanto la norma riferisce al contenuto della motivazione i
presupposti di fatto – va considerata la possibilità alternativa di ritenere che la norma abbia codificato, al
contrario,
proprio
l’obbligo
di
giustificazione
(36).
Se la seconda prospettiva fosse, almeno in ipotesi, attendibile, la quaestio della motivazione successiva,
ripetutamente sollevata dalla dottrina e dalla giurisprudenza, si convertirebbe in quella della
"giustificazione" successiva così recando in sé, de plano, la soluzione dal momento che la dottrina ha da
tempo chiarito che "la giustificazione successiva non può affatto dar luogo a quelle obiezioni cui dà luogo
la motivazione successiva, dato che è molto più facile indagare l’esistenza di fatti preordinati ad un atto, e
controllare la esattezza della loro esposizione, anziché l’esistenza dei motivi stessi" (37).
La prospettiva ermeneutica che precede, ha, tuttavia, a nostro avviso, una portata ben più ampia. Ad una
analisi attenta, infatti, non può sfuggire che, stando al dato testuale della norma in esame, si può dire che
non esista, nel precetto posto dall’art. 3 della legge n. 241/90, la previsione dell’obbligo di esternare
(formalmente)
i
motivi
della
decisione
amministrativa.
La motivazione troverebbe così la sua collocazione oggettiva – del tutto indipendentemente dalla sua
esternazione "formale" – nel rapporto, che sia possibile istituire, fra i presupposti di fatto (fatto storico)
(38)
e
la
decisione
amministrativa.
A sua volta questo rapporto, che è oggettivo perché intercorre fra due termini oggettivi (presupposti di
fatto e decisione), non può non rivelare, in modo del pari oggettivo, la intrinseca congruità e/o
adeguatezza (o non) che spiega (o non) ciascun termine del rapporto in funzione dell’altro (39).
Le considerazioni che precedono si troverebbero, peraltro, in linea, con quella perspicua giurisprudenza
incline a "svalutare", per così dire, il ruolo della motivazione formale pur in vigenza, si noti, dell’art. 3 della
legge n. 241/90. Appare, quindi, di dubbio fondamento la censura di quella parte della dottrina che
ascrive alla giurisprudenza una sorta di disattenzione al "passaggio culturale e dunque applicativo della
nuova
normativa"
(40).
Questa ricostruzione, pur asseritamente orientata a destoricizzare la pregnanza dell’obbligo di
motivazione, per renderlo coerente con il sistema di principi della legge n. 241/90, non ci sembra apporti
elementi di novità all’evoluzione del dibattito, ove si consideri che rimane del tutto inesplorata la
questione fondamentale della esigenza di effettività della tutela giurisdizionale (41) a fronte del
potenziamento di un vizio (difetto di motivazione) nella sua prospettiva formalistica (violazione di legge).
Se, come sostiene l’autore, l’obbligo di motivazione ex art. 3 cit. inverte "la direzione della interpretazione"
ed esclude il fondamento della teorica della dequotazione (42), si dovrebbe ritenere affetto da violazione
di legge il provvedimento carente di motivazione formale, ma ben sostenuto da motivi ricavabili dagli atti
procedimentali.
Una soluzione di questo tipo si innesta nel solco di una visione formalistica della tutela giurisdizionale, in
palese controtendenza rispetto all’evoluzione del nostro sistema di giustizia amministrativa, proteso a
trasformarsi
da
giudizio
sull’atto
a
giudizio
sul
rapporto.
Destoricizzare l’obbligo di motivazione, infatti, significherebbe recidere il cordone giuridico sostanziale
che lega i motivi del provvedere al vizio di eccesso di potere; in altri termini renderebbe autoreferenziale
l’obbligo di motivazione formale, scollegandolo, dunque, dall’obbligo sostanziale di fornire adeguati motivi
del provvedere: motivi che si pongono come unico indice rivelatore di un corretto esercizio del potere
discrezionale
della
P.A.
(43).
Privilegiare il "fatto manifestante" (44) (motivazione formale) rispetto al "fatto manifestato" (45) (motivo)
non offrirebbe alcun nuovo apporto al difficile cammino che la trasformazione del processo amministrativo
sta
compiendo
per
rendere
più
effettiva
la
tutela
giurisdizionale.
La giurisprudenza, dal canto suo, stante la connaturale esigenza pratica di risolvere casi concreti, in un
quadro di principi coerenti con le direttive di sistema, in controtendenza rispetto alla tesi della
formalizzazione dell’obbligo di motivazione e della riconduzione alla categoria della violazione di legge di
ogni ipotesi di sua inosservanza, ha inaugurato una stagione di decisioni classificabili, a nostro avviso,
come "sostanzialistiche". Tali decisioni, in altri termini, hanno di mira la sostanza del conflitto tra ricorrente
e P.A., preoccupandosi di verificare che i motivi di ricorso (a prescindere dalla censura di difetto di
motivazione) consentano di pervenire ad una decisione che tenga pienamente conto del merito della
vicenda (46) in vista di un risultato "certamente più vantaggioso di quello che il singolo interessato
potrebbe conseguire da un mero annullamento formale per violazione da parte dell’Amministrazione
dell’obbligo
del
clare
loqui"
(47).
Abbiamo accennato in precedenza che questa giurisprudenza è stata duramente criticata da quella
dottrina che riconnette alla violazione dell’obbligo della motivazione ex art. 3 cit. una automatica
violazione
di
legge.
A nostro avviso, al contrario, la cennata impostazione metodologica giurisprudenziale appare quantomai
lungimirante, poiché all’eccepito vizio di difetto di motivazione dell’atto non attribuisce rilevanza, laddove
le ragioni del provvedere possano comunque cogliersi dalla lettura degli atti del procedimento.
Infatti, se dalla lettura degli atti del procedimento non si dovessero cogliere le ragioni del provvedere, ne
sarebbe provato il difetto, che impingerebbe nell’eccesso di potere per mancato perseguimento
dell’interesse pubblico; mentre, se si dovessero cogliere ragioni non conformi agli scopi di legge, sarebbe
provato lo sviamento di potere. In ambedue i casi il difetto di motivazione formale verrebbe
inevitabilmente assorbito e superato da vizi sostanziali di ben più pregnante portata (48).
Le notazioni critiche svolte delineano, dunque, quale debba essere la prospettiva di indagine: dimostrare
che il dettato normativo di cui all’art. 3 della legge n. 241/90, lungi dallo sconfessare il principio della
dequotazione della motivazione, offra, al contrario, un addentellato di diritto positivo alla evoluzione del
pensiero giurisprudenziale sostanzialista sviluppatosi sul tema del difetto di motivazione quale
manifestazione dell’eccesso di potere, mirabilmente sintetizzato dapprima dal Giannini, nella locuzione
"dequotazione della motivazione", e successivamente consolidatosi proprio sotto la vigenza dell’art. 3 cit.
(49).
Tuttavia, questa ipotesi interpretativa non può restare semplice enunciazione di un principio, ma deve
dimostrarne
la
fondatezza
ed
approfondirne
le
conseguenze
giuridiche.
A tal fine tenteremo di porre in collegamento dommatico la tesi interpretativa proposta e le linee evolutive
della teorica della motivazione mediante l’approfondimento del percorso storico che va dalla motivazione
c.d. enunciativa alla sua "dequotazione". Percorso che si snoda di pari passo ed in intima connessione
con l’evoluzione storica dell’eccesso di potere amministrativo. Emergerà così un’interessante sintonia tra
l’insegnamento della dottrina (Iaccarino), che per prima ha ricostruito sistematicamente la figura iuris della
motivazione, con la più recente giurisprudenza c.d. sostanzialista, dimostratasi sensibile tanto alla critica
di scarsa utilità della sentenza di annullamento dell’atto per mero difetto di motivazione formale quanto ad
una
più
estesa
ammissibilità
della
c.d.
motivazione
successiva.
2. - Linee evolutive della teorica della motivazione: dalla motivazione enunciativa alla sua
dequotazione.
La ricostruzione storica dell’eccesso di potere sub specie di difetto di motivazione evidenzia che la
motivazione degli atti amministrativi è collegata all’eccesso di potere sotto due profili: da un lato, per la
sua funzione strumentale ad un pieno ed effettivo sindacato giurisdizionale e, dall’altro, per la sua
funzione probatoria sull’esistenza dei motivi posti a base dell’atto. Funzione probatoria connessa al
convincimento che i motivi non indicati nella motivazione possano denunciare che l’Amministrazione
abbia qualcosa da nascondere e che, quindi, la mancanza o l’insufficienza della motivazione sia sintomo
dei
vizi
occulti
dell’atto
(50).
La dottrina più antica, nell’intendimento di tratteggiare a grandi linee lo sviluppo della giurisprudenza
"sopra alcuni aspetti dell’eccesso di potere" (51), passando in rassegna la giurisprudenza di circa mezzo
secolo (dal 1890 al 1930), così descriveva la motivazione: "Essa (...) costituisce la prova manifesta di un
vizio dell’atto. Mi riferisco ai casi in cui l’Amministrazione dà, nella motivazione, sufficiente ragione di
esso. Ma da queste ragioni si deduce, appunto, che l’atto è viziato: o perché tali ragioni denunziano dei
criteri contrari alla legge o al pubblico interesse o perché le ragioni medesime testimoniano che la volontà
dell’Amministrazione si è malamente formata o perché da tali ragioni appare il travisamento dei fatti,
l’illogicità, la contraddizione, l’errore di diritto, lo sviamento di potere, ecc. Per quanto in pratica ciò non
sia infrequente, in tutti questi casi non è corretto affermare che l’atto è viziato per difetto di motivazione.
Diremo, invece, che la motivazione costituisce la prova del travisamento, dello sviamento, ecc." (52).
Proseguendo, la stessa dottrina spiegava come il difetto di motivazione integrasse un sintomo del vizio
nella causa (= vizio nei motivi) – eccesso di potere – in quanto "difetto di motivi che dà luogo a sospetto di
arbitrio" (53), mostrando così di confondere e/o identificare motivi e motivazione.
Nello stesso periodo (1933) C.M. Iaccarino era costretto ad evidenziare come la teoria della motivazione
fosse in stretto rapporto con la teoria dell’eccesso di potere, "... inquantoché questo, che è spesso basato
su un vizio relativo ai motivi, su errore voluto o non voluto, si rileva facilmente attraverso la motivazione
che, come esposizione dei motivi, rende agevole vedere se essi rispondono ad esattezza oppure no.
Poiché quindi l’una (la motivazione) è mezzo per dimostrare l’altro (l’eccesso di potere) questo rapporto di
causa ad effetto ha qualche volta portato ad affermare addirittura come il vizio di motivazione, in quanto
fa presumere il vizio dei motivi, costituisca di per se stesso eccesso di potere" (54).
Lo stesso autore avvertiva che "spesso il non motivare un provvedimento può essere determinato dal
desiderio di non far conoscere i veri suoi motivi, e poter così attenuare, se non proprio eliminare, i dubbi
sulla sua legittimità. In questo caso l’uso della facoltà discrezionale di motivare o meno l’atto ha scopi
diversi da quelli per cui tale discrezionalità è stata concessa, e ciò costituisce un vero e proprio
detournement
de
pouvoir"
(55).
È interessante notare come, in entrambi i casi, si assegnasse al difetto di motivazione il valore indiziario
e/o presuntivo di un arbitrio e/o di un vizio dei motivi nell’ambito dell’atto (56).
Tale convincimento risultava influenzato dalla concezione volontaristica dell’atto amministrativo, di
derivazione privatistica, che vedeva nella motivazione il "luogo" in cui si esternano i motivi (psicologici)
posti a base dell’atto. Motivi considerati, a loro volta, quali elementi compositivi di una problematica più
ampia: la prevalenza della volontà dichiarata sulla volontà formata (intenzione), nell’eventualità di una
loro
discordanza
(57).
Sul punto Iaccarino, pur non apportando un contributo particolare, non mancava di segnalare che "come
manifestazione della volontà si può intendere non solo la manifestazione del momento dispositivo per
così dire, ma anche la manifestazione del momento motivo" (58), limitandosi ad illustrare lo stato della
questione e ad aderire all’orientamento della prevalenza, in diritto pubblico, della volontà interna (59). Di
particolare interesse appare, tuttavia, a nostro avviso, l’osservazione critica rivolta dall’autore a quella
dottrina che, facendo leva sulla specificità del diritto pubblico, accreditava la tesi della prevalenza
dell’intenzione, proprio perché riscontrabile nella dichiarazione dei motivi (motivazione): osservava
Iaccarino che "la questione risorge per altra via, nel caso di una manifestazione dell’intenzione, cioè dei
motivi, poiché è ben possibile che vi sia discordanza tra la vera intenzione e l’intenzione manifestata"
(60).
Come è stato autorevolmente notato, "contro l’opinione dominante si può osservare ¼ che dicendo
"volontà vera" resta sempre da definire che cosa più precisamente essa sia nei suoi rapporti con quella
manifestata" (61), potendosi così condividere la lucida analisi del Betti secondo cui "la questione se la
"volontà interiore" (perché questa è la volontà "vera") debba prevalere sulla dichiarazione, o la
dichiarazione sulla volontà interiore, esprime un’alternativa inammissibile sul terreno del diritto, quindi è
mal riposta. Perché la volontà delle parti non acquista rilevanza giuridica se non, per l’appunto, nella
forma della dichiarazione o di comportamento: onde non può essere collocata sullo stesso piano di
questa forma, né assumere un valore a sé stante, in antitesi con essa" (62).
Probabilmente in argomento è mancata una consapevole riflessione dommatica che ponesse in luce le
conseguenze cui siffatta zona d’ombra ha dato origine. Sul piano storico-effettuale, infatti, un primo
interessante elemento di riflessione si ricava proprio dal legame tra motivazione ed eccesso di potere: se
la motivazione, in quanto enunciazione dei motivi dell’atto, è il mezzo per esternare-dichiarare
l’intenzione, cioè la volontà effettiva dell’atto; la stessa sarà anche unico e necessario mezzo per
dimostrare l’eccesso di potere sotto forma di eventuali stati viziati della volontà.
Ne derivava che un generale obbligo di motivazione, pur normativamente non previsto, trovasse il suo
fondamento nell’essere la motivazione l’unico strumento attraverso cui esercitare il sindacato per eccesso
di potere (63). Ne derivava, altresì, la sindacabilità del tratto discrezionale dell’atto in contemplazione
"esclusiva" dell’esternazione formalizzata dei motivi (64), "onde più l’autorità amministrativa ampliasse la
motivazione, più si ampliasse correlativamente l’ambito di conoscenza giudiziale" (65). Sicché, per un
verso, l’atto amministrativo, unico punto di contatto tra Amministrazione ed amministrati (66), costituiva
esclusivo parametro giuridico rilevante per l’esame dei processi decisionali, protagonista di ogni controllo
e/o sindacato; per altro verso, l’attività procedimentale precedente all’emanazione dell’atto era
considerata attività riservata all’ufficio e come tale sottoposta al segreto (67). Emblematica al riguardo
l’opinione del Mortati secondo cui "in sostanza tutte le varie forme di eccesso di potere quali sono state
elencate dalla dottrina sulla base della giurisprudenza del Consiglio di Stato (e cioè: assenza di qualsiasi
motivo o di un specifico motivo di pubblico interesse, indicata di solito come mancanza o falsità della
causa; illogicità; travisamento dei fatti, o contraddizione con i fatti; violazione del principio di eguaglianza)
sono di norma accertabili solo attraverso gli elementi, la cui rilevazione è funzione della motivazione
rendere possibile" (68). È sorprendente come questa posizione, pur così divaricata rispetto a quella del
Presutti, che riteneva, invece, l’esame del dossier (atti del procedimento) sufficiente e idoneo strumento
del sindacato per eccesso di potere, non fornisca alcuna riflessione critica a spiegazione di un sì forte
contrasto.
Analogamente, il radicarsi del principio giurisprudenziale del divieto di motivazione successiva, –
derivante dalla considerazione del rischio che essa enunciasse motivi diversi da quelli effettivi (69) – si
innesta sulla logica della prevalenza della c.d. volontà vera (intenzione effettiva) su quella dichiarata.
Sta di fatto, tuttavia, che, in seguito, lo stesso Iaccarino, per sottrarre la motivazione successiva alla
obiezione di una sua possibile falsità, ne affermasse sindacabile l’esattezza attraverso l’esame della c.d.
motivazione implicita contenuta nella "giustificazione" dell’atto (70). Si assisteva, così, sul piano logicogiuridico, ad una sorprendente inversione: la motivazione successiva espressa assumeva valore e ruolo
recessivi rispetto alla giustificazione, quale esposizione delle circostanze di fatto e di diritto da cui si
inferiscono
i
c.d.
motivi.
Il punto posto in evidenza è di estrema importanza e sembra in qualche modo offrire riscontro alla
problematica dei riflessi giuridici di un eventuale contrasto tra motivazione espressa e motivazione
implicita,
quale
si
ricava
dalla
giustificazione
ovvero
dalla
documentazione
(71).
Nell’opinione di Iaccarino, quindi, più o meno consapevolmente, il "luogo" della volontà-intenzione vera, e
cioè la motivazione espressa, viene mutato nella "giustificazione" da cui trarre la motivazione implicita
(72) che è una "non motivazione" (73). La volontà vera, dunque, in questo caso, non emerge dalla
enunciazione formale della motivazione, ma dai "fatti" e "atti" indicati nella giustificazione e/o preordinati
alla manifestazione di volontà (74). Non è di poco momento considerare che Iaccarino concludeva la sua
opera con la seguente definizione: "possiamo dire che la motivazione di un atto è la esposizione (anche
implicita) dei motivi che lo hanno determinato in modo da consentire il sindacato sull’iter voluntatis
dell’agente" (75). Come è stato acutamente osservato, la tesi sostenuta dallo Iaccarino "spostava per la
prima volta il problema della motivazione dall’interno all’esterno dell’atto, anticipando singolarmente il
tramonto
dell’importanza
teorica
della
motivazione"
(76).
La ricostruzione critica del pensiero di Iaccarino, in sostanza, al di là dell’apparente diversità di opinioni,
sembra, pertanto, confermare i rilievi formulati dal De Valles sin dal 1909, il quale segnalava che la
divergenza tra volontà reale e volontà dichiarata fosse ristretta in modesti confini, nel senso che per
volontà reale deve intendersi non un concetto astratto bensì la "volontà reale che può dedursi dagli atti e
documenti
inerenti
l’atto"
(77).
Di conseguenza il principio del predominio della volontà reale su quella dichiarata perdeva gran parte del
suo valore, posto che divenivano irrilevanti per il diritto tutte quelle intenzioni dell’agente in nessun modo
esteriorizzate negli atti preparatori. In altri termini, la problematica della prevalenza dei reali intenti su
quelli dichiarati si trasformava in quella della prevalenza della volontà, quale obiettivamente emerge
dall’intero
procedimento,
sui
motivi
formalmente
dichiarati
nell’atto.
Sul punto è illuminante la limpida ricostruzione di M.S. Giannini (78), lì dove evidenzia come ad un certo
punto, dopo la prima fase, di elaborazione dell’eccesso di potere come figura dai "contorni sfumati" e la
seconda in cui la giurisprudenza legò strettamente l’eccesso di potere alla motivazione del provvedimento
– richiedendo in sede processuale che la parte ricorrente dimostrasse l’infondatezza dei motivi esposti in
motivazione, mediante l’introduzione di fatti idonei a provare l’esistenza di motivi diversi – prevalse, nel
terzo stadio, l’opinione che ammetteva l’accertabilità dei motivi non dedotti in motivazione, purché
rilevabili
in
altro
luogo.
In quest’ultima fase si è attuato il reale superamento della concezione della motivazione formalizzata
nell’atto come unico tramite attraverso cui il giudice potesse conoscere dei vizi dell’atto. Superamento
che, come si è visto, Iaccarino, con estrema lucidità, aveva anticipato in sede dommatica con la
enucleazione della figura della motivazione implicita, quale giudizio logico da inferirsi dai fatti presupposti
dell’atto e l’affermazione della prevalenza di quella sul giudizio conoscitivo meramente incentrato sulla
motivazione enunciativa contestuale espressa, intesa come comunicazione formale dei motivi.
3. - Verifica della dequotazione della motivazione nell’art. 3 legge n. 241/90.
Passando, ora, ad affrontare, in chiave ricostruttiva, la figura della motivazione così come si ricava
dall’art. 3 della legge n. 241/90 è di particolare interesse notare come la norma, più che disciplinare il
contenuto della motivazione, in realtà, per la prima volta nella storia del nostro ordinamento repubblicano,
abbia
introdotto
la
descrizione
normativa
del
contenuto
del
provvedimento
(79).
Non è una disciplina sul "come" si motivi, ma su "cosa" debba motivarsi: "La motivazione deve indicare i
presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’Amministrazione, in
relazione alle risultanze dell’istruttoria" (art. 3, comma 1, seconda parte, legge n. 241/90) (80).
Infatti, il grande assente nella descrizione normativa del contenuto della motivazione è proprio il "motivo"
(81).
La norma ha qualificato motivazione ciò che, sul piano della distinzione logica tradizionale, è mera
"giustificazione".
È agevole considerare a questo punto come la descrizione normativa di ciò che la motivazione deve
indicare (presupposti di fatto) coincida con le circostanze di fatto cui Iaccarino collegava la motivazione
implicita, circostanze che si atteggiavano quale strumento di verifica della veridicità dell’eventuale
motivazione
successiva.
"Si ha motivazione implicita quando l’accertamento dei motivi risulta agevole, piano e univoco, dalle
circostanze di fatto che li producono" (82) in relazione ad un giudizio c.d. meccanico; date alcune
premesse e alcune conseguenze, "il ragionamento non può essere diverso da quello che è supposto
dalla legge o che si deve supporre sia il tipo medio di ragionamento in materia" (83).
In sostanza la motivazione implicita, a differenza della motivazione espressa formale che sovrappone
artificialmente, testualizzandolo, un rapporto di congruità tra scelta e situazione di fatto considerata, trae
la sua genuinità dalla forza di autoevidenza che i fatti enunciati o documentati riflettono sulla bontà della
scelta
effettuata.
Di qui la considerazione che la motivazione di cui all’art. 3 cit., risponda perfettamente alle prospettive
dogmatiche tracciate da Iaccarino, evolutesi in giurisprudenza attraverso la casistica dell’eccesso di
potere, e lucidamente riannodate dal Giannini, in sede di analisi critica, con la teorica della
"dequotazione".
Secondo la fine analisi storica del Giannini sulle origini giurisprudenziali del problema della motivazione
(84), quale principale elemento di indagine su cui si esercitava il sindacato giurisdizionale dell’attività
amministrativa, da una prima fase in cui si è registrata un’esaltazione della funzione della motivazione del
provvedimento si è passati ad una revisione della posizione precedente, con una "dequotazione della
motivazione
in
quanto
tratto
formale
dell’esternazione
del
motivo"
(85).
In sostanza da un "obbligo di motivazione inteso in senso rigido, di motivazione come enunciato
necessario del provvedimento discrezionale" (86), "per cui ciò che non fosse in motivazione non fosse nel
provvedimento" (87), si passava ad una motivazione la cui verificazione giudiziale veniva effettuata "sulla
base degli atti e dei risultati dell’intero procedimento" (88). Si ammettevano cioè, oltre alla motivazione,
"altri elementi di integrazione dell’atto, anche non espressamente richiamati in motivazione" (89).
Con la perdita di significato formale e vincolante degli enunciati della motivazione "ciò che balza in rilievo
non è la motivazione (in senso largo), ma sono il motivo o presupposto nella loro realtà effettiva" (90);
"conta ciò che si è fatto, non ciò che si è dichiarato di voler fare" (91), in quanto "al giudice non interessa
più sapere che cosa l’Amministrazione ha esternato, in particolare quali motivi e come; interessa sapere
che cosa con il provvedimento adottato, ha voluto e ha compiuto, e, per saperlo, ripercorre l’intero
procedimento
in
quanto
dimostrativo
della
genesi
del
provvedimento"
(92).
Le affermazioni del Giannini sono la sintesi dei principi consegnati in materia di eccesso di potere
dall’evoluzione giurisprudenziale la quale, come acutamente osservato, nell’adottare come regola
generale "il criterio che la verificazione giudiziale dei motivi del provvedimento ¼ dovesse farsi sulla base
degli atti e dei risultati dell’intero procedimento" (93), diede origine all’indirizzo dottrinale inaugurato da F.
Benvenuti. L’autore, prospettando la tesi secondo cui il vizio in questione dovesse oramai raffigurarsi
come vizio della funzione amministrativa (94), veniva a compendiare l’indirizzo giurisprudenziale incline a
collocare la prospettiva dei vizi di legittimità al di fuori dell’atto finale, proiettandoli sull’intero procedimento
che
sta
a
monte
dell’atto
stesso
(95).
Di qui poi l’affermazione della dequotazione della motivazione "in quanto tratto formale dell’esternazione
del motivo" (96) e del tradursi della dogmatica della motivazione nell’analisi dei limiti del sindacato
giurisdizionale sotto forma di eccesso di potere (97), che ha offerto alla dottrina più recente una traccia
per
l’approfondimento
di
un
tema
di
difficile
soluzione
(98).
In prosecuzione logica con la teorica della dequotazione, pur riscontrandosi sovente in dottrina
l’affermazione che la mancanza o insufficienza della motivazione si risolva comunque nell’impossibilità di
conoscere i motivi posti a fondamento del provvedimento (99), è stato autorevolmente precisato, però,
che la mancanza di motivazione non dovrà intendersi, dunque, come impossibilità di conoscere i motivi
attraverso l’esame del solo atto, ma come impossibilità di ricostruire dall’intero procedimento i motivi c.d.
dedotti, vale a dire quelli ricavabili dalla motivazione aliunde, cioè da altri elementi del provvedimento
(inteso come documento) o del procedimento necessario per la sua formazione (100).
Senonché va avvertito che il richiamo (espresso o meno) all’atto procedimentale in cui i motivi siano
esplicitati mediante enunciazione discorsiva, a sua volta, non risolve di per sé il problema che si era
creduto di chiarire con il superamento della motivazione contestuale espressa del provvedimento
amministrativo, quanto semplicemente lo sposta, perché rimarrebbe aperta la questione della artificialità
della motivazione enunciativa in relazione alla sostanza della determinazione amministrativa (101): e cioè
"¼ la possibilità, tutt’altro che eccezionale, che i motivi dichiarati dall’agente siano ben diversi da quelli
posti effettivamente a base dell’atto stesso" (102), in contrapposto alla declamata funzione garantistica
della
motivazione
enunciativa.
Il rischio che l’esposizione formale dei motivi (contestuale e/o aliunde) sia artificiosa, in realtà, si supera
allorquando il riferimento agli atti del procedimento valga come "documentazione" dei c.d. fatti
"ufficialmente" noti all’Amministrazione (103), da cui inferire autonomamente (da parte di colui che
sindaca) i motivi obiettivati (nel senso di obiettivamente ricostruibili rispetto a quelli formalmente
enunciati) sottesi all’atto, inteso questo come estrinsecazione finale (sintesi) del potere (e/o dei poteri)
esercitato
(i)
nell’arco
procedimentale.
Questa ricostruzione consente di porre la seguente definizione: la motivazione è l’obiettiva esternazione
giuridica dei motivi, che prescinde dalla loro enunciazione formale nell’atto, in via contestuale ovvero per
relationem, poiché in via logico-giuridica l’obbligo di motivazione è senz’altro preceduto dall’obbligo di
adeguati motivi (elemento teleologico dell’atto: perseguimento dell’interesse pubblico concreto).
Pertanto, sarebbe più corretto dire che l’obbligo di motivazione altro non sia che il riflesso (la forma
giuridica necessaria) della rilevanza giuridica (obbligo) dei motivi, che si traduce in obiettiva
esteriorizzazione
(evidenza
pubblica)
dei
motivi
obbligatori.
D’altro canto è stato perspicuamente sottolineato come la regola dell’evidenza pubblica "... si possa in
realtà predicare di tutta l’attività amministrativa autoritativa come caratteristica del rilievo giuridico dei fini
o interessi pubblici ..." (104). La migliore dottrina ha avvertito, infatti, che, lungi dal costituire elemento
strutturale dell’atto, "ufficio della motivazione è quello di rendere giuridicamente rilevanti alcuni elementi
concreti, dalla cui sussistenza dipende la conformità dell’atto all’ipotesi normativa (¼ ). Così, la mancanza
di motivazione costituisce quasi il segno esteriore di un vizio sostanziale: precisamente, di quello stesso
vizio che viene a profilarsi nel caso di accertata inconsistenza della ragione indicata dall’autorità nella
motivazione dell’atto" (105). L’unico punto critico della tesi riportata è il postulato che si tratti pur sempre
di motivazione enunciata nell’atto (c.d. puro testo formalizzato), quando, invece, nulla impedisce che la
stessa non sia testo formalizzato nell’atto, ma esternazione ricavabile obiettivamente dall’intero
procedimento (106). La giurisprudenza più avvertita, sia pure minoritaria, non ha mancato dal canto suo
di sottolineare come "allo stato della evoluzione dottrinale e giurisprudenziale in tema di motivazione,
quest’ultima
va
cercata
nel
procedimento
più
che
nel
provvedimento"
(107).
Ne deriva che non è un preteso e autonomo obbligo di motivazione formale ad imporre, sul piano logicogiuridico, gli approfondimenti sostanziali (istruttori) che la giurisprudenza esige in alcune situazioni
(tipizzate come ipotesi di "motivazione rinforzata"), ma è l’obbligo sostanziale della sussistenza di
adeguati motivi che fa venire ad emergenza giuridica l’esigenza di riconoscerli mediante l’esternazione: in
un primo tempo ritenuta esternazione formalizzata nel provvedimento, in un secondo momento ricavata
anche
dagli
atti
e
fatti
del
procedimento.
Quelle regole particolari che la giurisprudenza suole riferire alla motivazione non costituiscono
prescrizioni speciali e variabili secondo la categoria di atti, ma il "semplice riflesso del modo di
determinazione normativa degli elementi da esternare" (108), nel senso che in considerazione della
incidenza del provvedimento (positivo sfavorevole oppure negativo) su situazioni giuridiche ritenute
particolarmente qualificate, la norma determina in modo più specifico le possibili ragioni dell’atto lesivo,
circoscrivendo in limiti più ristretti la discrezionalità amministrativa (109). Dunque, quelli che vengono
qualificati casi di motivazione rinforzata, in realtà, più correttamente, dovrebbero definirsi ipotesi di
discrezionalità
particolarmente
limitata
(110).
Stando così le cose risulta, altresì, chiaro che alla dequotazione della motivazione espressa è collegato il
preminente rilievo assegnato alla c.d. motivazione implicita contestuale e/o aliunde (ossia quella
deducibile in via logica dalle circostanze di fatto presupposte al provvedimento ed esternate nella
giustificazione
ovvero
evincibili
dalla
documentazione).
Conseguentemente non appare infondato ritenere che l’enunciazione ex art. 3 cit., in realtà, privilegi la
dimensione implicita della motivazione, la quale segna però una sorta di tramonto giuridico di quella
enunciativa, in favore di un sindacato di legittimità che ha di mira gli aspetti sostanziali dell’esercizio della
funzione, a detrimento dei meri vizi formali, inidonei ad offrire tutela piena, effettiva e, soprattutto,
definitiva.
Con la motivazione implicita, quindi, "la motivazione espressa viene ad essere sostituita dalla
giustificazione, contestuale, esplicita od implicita, nel senso che da questa si prendono elementi per
giungere
a
quella"
(111).
La ragionevolezza della tesi avanzata trova conforto nell’opinione della dottrina più antica (Presutti) che,
con una modernità sorprendente, avvertiva che la motivazione "non in altro è necessario consista che
nella esposizione delle circostanze di fatto, in vista delle quali l’Amministrazione emana l’atto. La
dimostrazione del concatenamento logico fra questi fatti e l’oggetto del provvedimento in base alla norma
giuridica, è perfettamente inutile. È cioè perfettamente inutile che nel provvedimento sia esposta
l’argomentazione in base a cui si dimostri l’esattezza dell’accolta interpretazione della norma giuridica, e
della fatta applicazione della norma alle circostanze di fatto. Ciò perché chi sindaca l’atto può,
obbiettivamente considerando tali questioni e prescindendo onninamente dalla dimostrazione
eventualmente contenuta nell’atto sottoposto al suo sindacato, vedere se effettivamente gli assunti
presupposti di fatto giustificano la emanazione del provvedimento. Qualunque errore si contenga nella
dimostrazione di questo nesso non potrà impedire di constatare che questo nesso vi è, se effettivamente
sussiste"
(112).
Il non aver ricompreso nel contenuto della motivazione un esplicito obbligo di esposizione dei motivi è, a
nostro avviso, sintomo di una ben precisa scelta del legislatore, che ha chiuso definitivamente con il
concetto di motivazione strutturato in discorso enunciativo dei c.d. "motivi"; motivi che la dottrina ha,
ormai, dimostrato essere depsicologizzati e, quindi, obiettivati nell’intero procedimento amministrativo. In
proposito non si può fare a meno di ricordare come il Levi avesse colto, da un lato, l’evanescenza delle
ragioni che muovono il funzionario a provvedere, e, dall’altro, la natura di mera ipostasi delle ragioni
obiettive del provvedimento (113). Sempre secondo il Levi "non è dato addentrarsi in modo diretto nelle
ragioni dell’agire altrui" (114) poiché, "... anche qualora l’agente estrinsechi ed esponga dette ragioni, è
sempre lecito il dubbio se le sue affermazioni rispondono a verità ¼ , se cioè i motivi indicati siano quelli
che hanno effettivamente sorretto la condotta" (115). Più esplicitamente il Levi, nell’indicare la volontà
"obiettiva" dell’organo, quale fonte del provvedimento amministrativo, da un lato, spiega che "dinanzi a
quest’ultima nozione, invero, ha perso gran parte del suo interesse, sia dommatico che positivo, la
considerazione della volontà in senso puramente psicologico" (116), e, dall’altro, evidenzia il parallelismo
tra nozione di volontà obiettiva e concetto di conoscenza ufficiale dell’organo amministrativo – ossia non
la conoscenza effettiva dei dati da parte del funzionario, bensì la conoscenza presunta di quei fatti e
prove
"¼
che
a
vario
titolo
dovrebbero
essergli
noti
¼
"
(117).
L’oggettivazione della volontà, dunque, nel diritto pubblico, se inizialmente è stata sostanziata come
identificazione della volontà reale con quella comunque formalmente esternata in un atto o documento
del procedimento (118), oggi deve intendersi come un quid di immateriale, ma nondimeno oggettivo.
Sembra, allora, che da una tipologia di esternazione simbolico-rappresentativa si sia passati alla tipologia
del segno informale, segno che si sostanzia essenzialmente nei presupposti di fatto da cui il
ragionamento
giuridico
si
diparte.
Per meglio comprendere il senso della distinzione tra motivazione formale enunciativa e motivazione
come sintesi degli elementi giuridicamente rivelatori dei motivi è opportuno rifarsi al concetto d’oggettività
materiale
ed
immateriale
introdotto
dal
Falzea.
Premesso, infatti, che il motivo corrisponde all’oggettività immateriale (significato), mentre la motivazione
corrisponde all’oggettività materiale (segno) (119), è opportuno chiarire che la motivazione, unitamente al
provvedimento amministrativo, rientra nella figura del comportamento manifestativo quale "fatto
manifestante" che si scinde in dichiarazione in senso stretto e manifestazione in senso stretto
("comportamento che fa argomentare, secondo una regola di esperienza, la realtà ¼ dei fenomeni
manifestati
–
detta
significazione
illativa").
Mentre le dichiarazioni si limitano ad evocare idee, le manifestazioni fanno argomentare fenomeni reali
(120), sì da aversi nella vita pratica umana che le manifestazioni sono più serie e garantite perché
consistono di comportamenti effettivi, e che le dichiarazioni sono più significanti perché si avvalgono della
potenza
del
linguaggio
(121).
Tuttavia il diritto vive nella dimensione intersoggettiva e i suoi fenomeni diventano rilevanti nella misura in
cui entrano in quella dimensione e assumono carattere di oggettività. Il significato soggettivo può
diventare giuridico alla condizione che risulti oggettivamente fondato. Non bastano, perciò, alla rilevanza
giuridica del significato soggettivo le attestazioni dell’autore della dichiarazione (leggasi: motivazione
discorsivo-enunciativa), le quali non sono in grado di offrire una garanzia sicura, a prescindere dalle
intenzionali
alterazioni,
su
ciò
che
egli
ha
inteso
realmente
dichiarare.
Al significato soggettivo non può che condurre una manifestazione in senso stretto.
In conclusione: il significato oggettivo (apparente) si ricava dalla dichiarazione, il significato soggettivo
(vero) dalla manifestazione. Esclusa la possibilità di una verificazione diretta del significato soggettivo,
anche quest’ultimo è in ultima analisi una forma di significato oggettivo. Ciò che lo distingue dal
significato oggettivo in senso più stretto è la circostanza che quest’ultimo si deduce unicamente dalla
dichiarazione senza alcun riferimento alle idee e alle intenzioni del dichiarante, mentre il significato
soggettivo si ricava da un insieme di fattori che accompagnano la dichiarazione e che sono presi in
considerazione allo scopo di ricostruire le idee e le intenzioni del dichiarante. Sicché, qualora il significato
soggettivo reale non riesca a farsi luce oggettivamente, attraverso il comportamento complessivo o la
situazione
complessiva,
resta
privo
di
rilevanza
giuridica.
Di qui, a nostro avviso, il superamento, già sul piano della loro ipotizzabilità logica, di tutte quelle figure
sintomatiche dell’eccesso di potere legate al contrasto testuale tra discorso meramente enunciativo dei
motivi
e
contenuto
in
senso
tecnico-giuridico
(dispositivo)
del
provvedimento.
In quest’ottica vengono a cadere tutti gli ostacoli frapposti dalle diverse teorie sull’eccesso di potere,
inclini ad inibire le potenzialità cognitorie del giudice amministrativo nel corso del giudizio di legittimità.
Elemento comune a tali teorie è la convinzione che estendere l’obbligo di motivazione equivalga ad
estendere l’area dell’impugnabilità e la casistica del vizio di legittimità (122) e che, così argomentando,
possa
ritenersi
ampliata
la
tutela
processuale.
Non considerano, tuttavia, tali teorie che, limitandosi a rilevare l’esistenza di un c.d. sintomo di eccesso di
potere e/o di un vizio formale, si finisce per omettere l’accertamento della reale esistenza o meno dei
motivi, infliggendo al ricorrente un grave diniego sostanziale di giustizia, dal momento che, annullato l’atto
per difetto di motivazione, l’Autorità amministrativa procedente potrebbe riadottarlo esternando i motivi
effettivamente esistenti (123) e ricostruibili alla luce degli atti e dei fatti contenuti nel procedimento (124).
Le concezioni di questo segno finiscono col privilegiare, in realtà, una nozione dell’eccesso di potere che
va a sanzionare una malaccorta formulazione del discorso motivante che si palesi incongruo ed
illogicamente articolato, a discapito dell’indagine sulla eventuale conformità sostanziale della misura
adottata alla legge e all’interesse pubblico (125). Si ritiene, in altri termini, che siano ben precise esigenze
di giustificazione del provvedimento di fronte all’opinione pubblica ad offrire ratio e fondamento alla
postulata clausola generale per cui gli atti amministrativi non possano presentare esteriormente i caratteri
dell’illogicità e dell’arbitrio (126): esigenze di giustificazione la cui violazione diviene, poi, sul piano
teorico-dogmatico, centro di imputazione giuridica di numerose figure sintomatiche d’eccesso di potere,
tutte traducibili nel difetto o nella inadeguatezza dell’enunciazione motivante (127).
L’attribuzione alla motivazione del provvedimento della funzione, lato sensu, democratica, di mostrare al
sindacato di opinione pubblica la decisione autoritativa (e segnatamente una delle sue più significative
espressioni: la clausola di apparente logicità dell’esercizio delle funzioni pubbliche) si pone in insanabile
contrasto con la ricostruzione dell’eccesso di potere che reputa irrilevante il c.d. vizio logico nel processo
formativo del provvedimento, ove l’intrinseca legittimità sostanziale di quest’ultimo possa riconoscersi
attraverso
la
situazione
di
fatto
obiettivamente
accertata
(128).
Il sindacato di opinione pubblica agli albori del sistema vigente di giustizia amministrativa coincideva con
le tecniche indagatorie del sindacato giurisdizionale, di ispirazione essenzialmente formalistica (in
ossequio al c.d. principio dell’atto formale), limitato ad un riscontro del tutto estrinseco sulla apparente
obiettività e ragionevolezza dell’atto considerato. Tale coincidenza, però, si è progressivamente affievolita
man mano che il sindacato giurisdizionale abbia acquisito maggiore capacità di penetrazione, oltre
l’involucro formale dell’atto, nella sottostante realtà del rapporto amministrativo. Questo passaggio,
presupponendo il principio della prevalenza del reale sull’apparente, rafforza la tendenza al progressivo
scadimento
del
vincolo
dell’Amministrazione
a
precise
formalità
esternative.
Di qui la sostanziale antinomia logico-giuridica tra la natura del sindacato di opinione pubblica e l’istanza
sostanzialistica che permea il sindacato giurisdizionale, "di cui costituisce segno tangibile la progressiva
obliterazione del principio dell’atto formale, sempre più disatteso dalla recente giurisprudenza" (129). La
dottrina, pur riconoscendo il c.d. tramonto del principio dell’atto formale, non offre ipotesi di soluzione alla
rilevata antinomia e si limita a considerare come non ancora consumata la svalutazione del sindacato di
legittimità condotto nelle forme del riscontro estrinseco sulla apparente logicità dell’esercizio delle funzioni
pubbliche. E ciò viene sostenuto, facendo leva su un generico richiamo ai testi legislativi, che prevedono
espressamente l’obbligo di motivazione, e sulle risultanze di quella giurisprudenza ben radicata nell’uso
delle figure "sintomatiche" di eccesso di potere, nelle quali, si è visto, si esprime l’essenza del "vizio
logico"
della
funzione
di
cui
si
vorrebbe
contestare
il
rilievo
(130).
Questa posizione è criticabile in quanto, a nostro avviso, si riduce a dar conto dell’antinomia, senza
preoccuparsi di saggiare la fondatezza o meno dell’atteggiamento giurisprudenziale che applica
formalisticamente
i
c.d.
sintomi
di
eccesso
di
potere.
Tanto più che le esigenze del sindacato di opinione pubblica, cui sarebbe funzionale l’obbligo di
motivazione, sono contraddette profondamente dal largo accoglimento in giurisprudenza della c.d.
motivazione per relationem, "giacché il rinvio alle argomentazioni desumibili da atti non contestualmente
esternati (né spesso in alcun modo resi pubblici) osta tecnicamente alla rilevazione positiva della
razionalità
ed
adeguatezza
della
misura
adottata"
(131).
A questo punto si pone un dilemma, delle due l’una: o la motivazione per relationem, in quanto
incompatibile con l’esigenza del sindacato diffuso, è illegittima; oppure la ricostruzione dell’obbligo di
motivazione in funzione del sindacato di opinione pubblica è infondata proprio per la sua incompatibilità
con
l’istituto
giurisprudenziale
della
motivazione
per
relationem.
È un dato incontrovertibile che la figura della motivazione per relationem costituisce, ormai, ius receptum
(peraltro, codificata espressamente dall’art. 3 della legge n. 241/90), mentre il principio dell’obbligo di
motivazione in funzione del sindacato di opinione pubblica non è fondato su dati di diritto positivo.
Ciò nonostante, è singolare notare che la dottrina abbia accolto, quasi unanimemente, la tesi della
funzione democratica della motivazione, senza farsi carico di superare le obiezioni appena espresse.
Soltanto in tempi recenti si è registrata l’opinione discorde di chi ha affermato che non "¼ si vede come il
controllo democratico possa essere esercitato su un atto che non è sottoposto a un regime di pubblicità
generalizzata (come la pubblicazione sulla "Gazzetta Ufficiale"), ma è reso noto, in via di principio, ai soli
destinatari" (132), non richiedendo il principio democratico, di per sé, la motivazione degli atti giuridici,
posto che la decisione democratica si legittima in ragione del suo essere espressione della maggioranza,
mentre la motivazione è, invece, funzione della legittimazione dell’esercizio di un potere che il cittadino
subisce
senza
esserne
partecipe
(133).
Ne discende che la giurisprudenza in materia di sintomi di eccesso di potere – traducibili nel difetto o
nella inadeguatezza dell’enunciazione motivante – non potrà essere spiegata sul fondamento di un non
ben dimostrato principio democratico della motivazione, idoneo soltanto a fornire una copertura
dogmatica
di
dubbio
fondamento.
D’altro canto, in una fase storica in cui, sempre più, si afferma l’obiettiva necessità di assicurare tutela
sostanziale effettiva al ricorrente, offrirgli, sul piano teorico e pratico, un mero appiglio formale e, quindi,
rispondente ad una logica meramente cassatoria, non appare producente, ai fini di un potenziamento del
profilo
conformativo
della
sentenza
amministrativa.
È significativo che lo stesso Romano Tassone, nella vigenza dell’art. 3 della legge n. 241/90, abbia
riconosciuto che "la motivazione del provvedimento non sembra necessaria ai fini del sindacato di
legittimità, più agevolmente ed utilmente esplicabile dal giudice attraverso la consultazione del dossier in
cui è formalmente rappresentato l’iter del decision-marketing process". Anche perché "nel momento in cui
il processo amministrativo tende a perdere i propri connotati cassatori, sia attraverso l’estensione dei
poteri istruttori del giudice, sia attraverso una sempre più accentuata trasformazione in giudizio sul
rapporto anziché sull’atto, la posizione di un dovere generale di motivazione degli atti amministrativi non
può coerentemente ritenersi funzionale al sindacato giudiziale, a pena di frenare l’ormai quasi compiuta
evoluzione verso un riscontro pieno e diretto della legittimità dell’azione amministrativa" (134).
In ogni caso, non può trascurarsi che, ammettere l’annullamento per meri vizi logici (alla stregua di meri
errores in procedendo), sul piano sostanziale, non sortirebbe alcun rimedio efficace per il ricorrente che,
comunque, almeno nei casi di lesione di interessi pretensivi, non fruirebbe degli effetti conformativi
nascenti dal giudicato, per la semplice ragione che la sentenza amministrativa, di fronte a meri vizi
formali, non potrebbe fissare alcuna disciplina diretta o indiretta del rapporto amministrativo (135).
Sulla natura del vizio di eccesso di potere per difetto di motivazione, dottrina e giurisprudenza, avendo
ormai piena consapevolezza della inutilità sostanziale del vizio, finiscono per confermarne la natura
formale e l’ammissibilità della rinnovazione dell’atto annullato, munito della enunciazione motiva (136).
Ciò nell’unanime e condiviso convincimento che il difetto di motivazione, inteso come carenza grafica del
documento, sia inidoneo ad offrire tutela effettiva quanto meno nei casi di lesione di un interesse legittimo
pretensivo. Altrettanto, a nostro avviso, può dirsi nei casi di ricorso proposto per la tutela di un interesse
legittimo oppositivo. Come è noto, in tali ipotesi, l’eliminazione dell’atto, nella mera ottica processuale, pur
sufficiente a restituire al ricorrente il bene della vita sacrificato dalla P.A. con l’atto impugnato (137) –
sempre che l’esecuzione del provvedimento di poi annullato non abbia già prodotto sul piano fattuale
modificazioni irreversibili (138) – non sottrae l’interesse oppositivo agli effetti del principio
dell’irrinunciabilità del potere (139), in forza del quale la P.A. dovrà reiterare l’atto, munendolo di regolare
motivazione, così come potrà spontaneamente adoperarsi per l’eliminazione del vizio in sede di
autotutela, mediante sanatoria e/o riesercizio del potere in corso di causa (140).
A tale proposito, non merita adesione l’obiezione (141) secondo cui, nel caso di interessi oppositivi fatti
valere in sede giurisdizionale, la caducazione dell’atto per il mero vizio formale, ripristinando la situazione
giuridica da questo modificata, costituisca "una utilità sostanziale apprezzabile in se stessa" per il
ricorrente nell’eventualità che la P.A. non riemani l’atto per sopravvenute valutazioni, o perché divenuto
concretamente non riadottabile come nel caso in cui il difetto o insufficienza dell’enunciato motivante "...
ridondi in erroneità od inconferenza dei motivi indicati, e questi costituiscano le effettive ragioni del
provvedere" (142). Ciò in quanto, non attenendo tale effetto alla sfera dei risultati del processo, ma al
campo del normale esercizio del potere amministrativo, sarebbe una conseguenza pratica e meramente
ipotetica dell’annullamento e non già un effetto giuridico del medesimo. Anzi, a ben vedere, l’unico effetto
giuridico ipotizzabile ne rimarrebbe l’incontestabilità di eventuali vizi sostanziali, non sollevati nei termini
dal ricorrente, che, a situazione immutata, dovrebbero obbligare la P.A. a riadottare l’atto annullato con il
medesimo
contenuto.
Con riferimento al profilo ordinatorio della sentenza amministrativa di annullamento di un atto positivo
sfavorevole (incidente su un c.d. interesse meramente oppositivo) è stato osservato che "annullato l’atto
di espropriazione, il ricorrente può vedere forse in ciò la soddisfazione del suo interesse, ma, salvo il caso
in cui sia stata travolta la stessa pubblica utilità, all’Amministrazione spetterà comunque il compito di
trovare una via per realizzare l’opera" (143). In sintesi l’interesse materiale del privato non esce indenne
dalla vicenda sopraesaminata, "giacché esigenze di certezza giuridica dei rapporti renderebbero
conveniente per il regolamento dei propri interessi la preventiva conoscenza della sussistenza o meno di
ragioni sostanziali di legittimità o illegittimità in ordine al fissaggio degli interessi operato dalla P.A. con il
provvedimento, al fine di impedire quella gravosa situazione di pendenza derivante dalla possibilità che il
bene, che si reputava scampato, venga successivamente sottratto alla propria sfera giuridica" (144).
Non a caso, la dottrina e la giurisprudenza più sensibili alla richiesta di giustizia sostanziale che proviene
dal processo, hanno efficacemente avvertito che "se il giudice si limita ad annullare l’atto, impugnato
anche per motivi sostanziali, per i vizi meramente formali o per difetto di motivazione, senza penetrare in
che senso questi vizi nascondano un’illegittimità sostanziale, compie un atto di denegata giustizia" (145).
"L’annullamento da parte del giudice amministrativo degli atti impugnati per difetto di motivazione è
soluzione residuale alla quale il giudice adito è legittimato a ricorrere solo quando non ha la possibilità di
definire il merito della controversia, giacché, recando implicita la clausola di salvezza degli ulteriori
provvedimenti da parte dell’Amministrazione con il solo limite del clare loqui, costringe quest’ultima a un
defatigante rinnovo di attività procedimentale senza peraltro soddisfare compiutamente le ragioni di
sostanza
del
privato
ricorrente"
(146).
Dunque, inevitabilmente, la sempre più spiccata tendenza a condurre il processo amministrativo dal
modello cassatorio a quello di accertamento del rapporto, investe le teorie formulate sull’eccesso di
potere e si ripercuote sulla motivazione, la cui dogmatica, allora, va sì studiata in contemplazione delle
modalità e strumenti del sindacato di legittimità, come, peraltro, già segnalato dal Giannini, ma, a nostro
avviso, anche e soprattutto sulla scorta di una concezione dell’eccesso di potere amministrativo
compatibile con il principio di effettività della tutela giurisdizionale ex art. 24 Cost. Detto principio, a sua
volta, impone di privilegiare i profili accertativi della sentenza amministrativa anziché quelli meramente
cassatori
(147).
Significativa, al riguardo, l’opinione di M. Nigro che ha così delineato il thema decidendum del processo
amministrativo: "il ricorrente critica l’assetto conferito agli interessi, ne propone un altro e chiede al
giudice
di
farlo
proprio
ed
imporlo
all’Amministrazione"
(148).
Puntualmente la dottrina più attenta ha segnalato che, con riguardo all’inquadramento della motivazione
intrinsecamente contraddittoria, (motivazione perplessa), nell’ambito dei sintomi dell’eccesso di potere, la
voluntas legis, con cui dette fattispecie confliggono, non è quella che il principio di ragionevolezza
andrebbe rispettato nella redazione della motivazione, "ma più realisticamente, quella che il pubblico
potere sia esercitato senza contraddizioni, incertezze, incongruenze e lacune conoscitive" (149). Ciò è
tanto vero che, il più delle volte, l’apprezzamento giudiziale di sufficienza della motivazione è di fatto
condizionato dal convincimento che il giudice si forma sulla reale rispondenza dell’atto alle sue finalità
istituzionali e alla ragionevolezza o meno della scelta operata in concreto dall’Amministrazione.
Trattasi, comunque, della dequotazione (150) di quell’aspetto, poi, realmente formale della motivazione,
la cui conservazione non arreca alcun vantaggio sostanziale al ricorrente vittorioso.
Il Giannini sottolineava, in fondo, che non si può continuare a seguire l’idea di una motivazione tutta
enucleabile dal provvedimento. Pertanto, a nostro avviso, se si vuol essere conseguenziali al principio
della procedimentalizzazione della volontà, si deve accogliere una concezione, per così dire,
"procedimentale" della motivazione, enunclearla cioè dalle esteriorizzazioni emergenti negli atti
preparatori del provvedimento, pur sempre nella misura in cui a loro volta documentino e/o enuncino
circostanze di fatto rilevanti, od in atti e/o fatti che con esso abbiano una connessione (151). Questo
ordine di idee sembra essere in linea con chi ha tracciato la distinzione tra processo decisionale e
provvedimento (152), potendosi dire che "le scelte discrezionali attengono propriamente alla decisione, e
non attengono quindi al provvedimento, il quale è, come tale, sempre uguale a se stesso, tanto nel caso
che sia preceduto alla decisione tanto nel caso che sia direttamente applicativo della legge o di altri atti
vincolanti. Il provvedimento, in questa prospettiva, assume il ruolo di "riepilogo" della decisione, se non
soltanto
della
sua
formalizzazione"
(153).
È possibile, ora, riguardare il tema della motivazione dal punto di vista del contenuto e dell’oggetto, così
come si ricavano da una corretta interpretazione dell’art. 3, legge n. 241/90, che, fornendo la descrizione
normativa del contenuto della motivazione, consente, in prima battuta, di desumere, per implicita
presupposizione logica, il contenuto (154) del provvedimento, inteso come rappresentazione del fatto
storico. Il contenuto del provvedimento, a sua volta, dovendo contenere l’individuazione e descrizione dei
fatti da manifestarsi (i presupposti in relazione alle risultanze istruttorie), presuppone e impone, sul piano
sostanziale, l’oggetto del provvedimento, offrendo, quindi, riprova della partecipazione dei presupposti di
fatto
alla
fattispecie
(155)
normativa
del
provvedimento
(156).
Se oggetto del provvedimento sono i fatti e i presupposti, l’eventuale loro difetto o vizio si rifletterà sulla
fattispecie dell’atto che, per il principio di convenienza dell’effetto giuridico al fatto (157), produrrà una
mera
illegittimità
anziché
l’inesistenza
dell’atto
stesso.
Mentre, da altro angolo prospettico, se il contenuto della motivazione (nonché del provvedimento) altro
non è che mera descrizione (fatto manifestante) di fatti storici, allora non si vedono ragioni valide per
ritenere escluse le altre descrizioni emergenti dagli atti procedimentali dal novero dei fatti manifestativi. Di
qui la necessità, per l’interprete, o per colui che è chiamato a sindacare in legittimità l’atto, in coerenza
con il dettato dell’art. 3 cit., di ripercorrere l’iter procedimentale per ricostruire sia l’intera "manifestazione"
(158) (contenuto del procedimento, atto finale compreso), sia l’intero fatto manifestato (l’oggetto del
potere
esercitato).
Infatti, il contenuto della motivazione, che l’art. 3 cit. obbligatoriamente riferisce ai presupposti di fatto e
alle ragioni giuridiche, in stretto collegamento e relazione "alle risultanze dell’istruttoria", non potrà che
interpretarsi come codificazione di una direttiva interpretativa sostanziale, rivolta essenzialmente a
desoggettivizzare l’esercizio del potere, vale a dire a sottrarre alla P.A. qualsiasi possibilità di filtrare i fatti
mediante la mera affabulazione semantica. Si sottrarrà, in tal modo, all’Amministrazione la possibilità di
plasmare i fatti attraverso l’uso sapiente e scaltro di formali espressioni letterarie (c.d. schermo
motivazionale) (159), strumentali alla formale (dunque, apparente) valorizzazione o alla messa in ombra
di
alcuni
fatti,
entrati
a
far
parte
dell’istruttoria,
a
scapito
di
altri.
In sostanza il legislatore, con il chiaro riferimento "alle risultanze dell’istruttoria", ha voluto mettere in
evidenza che i presupposti di fatto (oggetto del provvedimento) sono tutti quelli emersi in istruttoria,
proprio perché il concreto perseguimento del fine pubblico, la non irragionevolezza della scelta, anche in
sede di sindacato di legittimità, dovranno e potranno in via oggettiva essere desunti dal rapporto di
congruità tra quanto emerso in istruttoria (fatti c.d. "ufficialmente" noti) (160) e la decisione finale, a
prescindere dalla corretta (o non) esternazione formale dell’iter logico seguito (161). In altri termini, la
ragione sufficien-te (162) del provvedimento non dovrà ricavarsi dall’esternazione formale del valore che
la P.A. attribuisce ad un certo fatto, ma, sul piano strettamente logico-oggettivo, sarà rivelata dal fatto
stesso.
Conseguenza di tanto è che le stesse figure sintomatiche dell’eccesso di potere non saranno, per così
dire, eludibili con una motivazione formale successiva – come pure certe amministrazioni hanno tentato
di fare – ma potranno essere superate soltanto attraverso la ricostruzione di idonei motivi oggettivati nel
procedimento ed opportunamente evidenziati con una motivazione formale chiarificatrice, nonché con un
atto difensivo di mera agevolazione interpretativa, ovvero attraverso la ricostruzione logico-interpretativa
del
giudice.
È in questa logica che si inquadra l’intima valenza del diritto di partecipazione al procedimento previsto
dalla legge n. 241/90 ed in particolare dall’art. 10, lett. b), secondo cui "i soggetti di cui all’art. 7 e quelli
intervenuti ai sensi dell’art. 9 hanno diritto ¼ b) di presentare memorie scritte e documenti, che
l’Amministrazione ha l’obbligo di valutare ove siano pertinenti all’oggetto del procedimento", da ricostruirsi
come diritto dell’interessato a contribuire alla determinazione del "fatto" (presupposti), mediante la
rappresentazione di interessi c.d. secondari. Tale partecipazione permette una "integrazione della
conoscenza", che, una volta entrata a far parte del patrimonio di conoscenza dell’Amministrazione, si
obbiettiva e viene assistito dalla garanzia della tutela giurisdizionale, "circa la quale problema delicato è
soprattutto quello dei limiti del sindacato del giudice amministrativo sull’idoneità dell’intervento ad
innescare
il
dovere
"di
tenerne
conto"
(163).
È stato osservato che l’istante o interventore, con la propria attività di prospettazione di fatti o motivi, "può
disporre e dispone del problema amministrativo" contribuendo a determinare la materia che dovrà essere
sottoposta ad esame critico. Così operando egli non suscita questioni autonome o distinte, ma produce
un mutamento in quel medesimo problema che l’Amministrazione sarebbe comunque tenuta ad
affrontare siccome attinente al proprio compito, poiché "le informazioni pertinenti dell’interessato
concorrono ad individuare in modo vincolante gli oggetti di un’indagine che si configura come "agire
d’ufficio" per definizione doveroso; e che tale dovrebbe reputarsi anche in difetto d’una prescrizione
esplicita come quella formulata nell’art. 10, lett. b), ultimo inciso, della legge (il dovere reso attuale da
quelle informazioni sarebbe da ricollegare appunto alla stessa nozione dell’ufficio)" (164).
Corollario della nostra proposta ricostruttiva è che ogni fatto entrato a far parte dell’acquisizione
procedimentale, da qualsiasi parte provenga, sostanzia i c.d. fatti ufficialmente noti in cui si oggettiva (o
non) l’interesse pubblico concreto. È proprio l’ingresso del fatto nel procedimento a fargli acquisire
rilevanza giuridica e renderlo, dunque, limite e misura del sindacato sotto forma di eccesso di potere, a
prescindere dalla più o meno estesa e/o corretta formulazione letteraria della motivazione.
Di qui la conferma della codificazione della dequotazione dei tratti formali della motivazione e la totale
aderenza
ad
essa
dell’orientamento
giurisprudenziale
c.d.
sostanzialista
(165).
4. - Dequotazione e ricaduta sul principio del divieto di motivazione successiva.
Ulteriore effetto della dequotazione è l’incompatibilità logico-giuridica della figura della motivazione
successiva intesa come mera esternazione grafica di ragioni non ricavabili dal testo del provvedimento, in
quanto priva di rilevanza giuridica ex se. Difatti, ai fini del sindacato sotto forma di eccesso di potere,
posto che i motivi sostanziali si obiettivizzano a prescindere dalle enunciazioni formali, l’eventuale
enunciazione formale, a posteriori, di valutazioni di opportunità, non potrà sottrarre l’atto all’eventuale
censura, ove fondata, di eccesso di potere per sviamento e/o difetto dei motivi; così come una
motivazione successiva che si appalesi viziata, non potrà inficiare l’atto impugnato che, pur in assenza di
formalizzazione
espressa,
sia
sostenuto
da
motivi
legittimi.
Al riguardo non è irragionevole ipotizzare che la giurisprudenza possa finire per dequalificare a tal punto
la
natura
della
motivazione
successiva
da
considerarla
irrilevante
(166).
La motivazione successiva, infatti, ha potuto vantare una sua dignità contenutistica fino a quando il
giudice amministrativo ha considerato la motivazione formale come "schermo motivazionale". In tale
prospettiva, pertanto, risultava utile anche una successiva esternazione che, al pari della motivazione
contestuale, si offrisse quale "schermo" postumo, cui estendere il sindacato per eccesso di potere, così
limitando, al tempo stesso, la possibilità di censura dell’atto per assenza di motivazione.
Viceversa, con l’abbandono della concezione della motivazione formale come "schermo", e il contestuale
riconoscimento del potere istruttorio del G.A. di acquisire e conoscere gli atti del procedimento, per
verificarne la ponderazione degli interessi, è divenuta irrilevante (o quanto meno si è fortemente
svalutata) anche la portata della motivazione successiva ai fini del sindacato di eccesso di potere.
Pertanto, la declaratoria di inammissibilità della motivazione successiva, in realtà, si sostanzia nella
affermazione della oggettiva irrilevanza della stessa ai fini del sindacato sotto forma di eccesso di potere
e riproduce integralmente gli effetti che si riconnettono al carattere di artificialità della motivazione in cui
gli eventuali motivi viziati o assenti non possono essere rispettivamente sostituiti o integrati da un mero
discorso
motivante
formale.
Ciò fornisce una linea guida in sede di ricostruzione del dibattito concernente la questione della sanabilità
dell’atto,
affetto
dal
vizio
del
difetto
di
motivazione,
in
corso
di
giudizio.
Invero, ha senso parlare di "sanabilità" dell’atto in relazione al difetto di motivazione ove quest’ultimo
venga
classificato
come
vizio
formale,
ossia
vizio
esternativo.
Al contrario, ove il difetto di motivazione, come ci sembra più corretto, venga qualificato come mero dato
sintomatico di una difettosa ponderazione dell’interesse pubblico (difetto di motivi e/o manifesta
irragionevolezza della scelta) (167), l’esternazione successiva di un semplice discorso motivante non
sarebbe, comunque, idonea a sanare un vizio di natura sostanziale. In tale evenienza, infatti,
occorrerebbe una nuova istruttoria da cui emerga l’effettiva sussistenza di motivi di interesse pubblico.
Del pari, ove il discorso motivante successivo sia in grado di dimostrare che il sospetto di difettosa
ponderazione dell’interesse pubblico possa essere fugato da elementi ricavabili dal dossier
procedimentale, più che di motivazione successiva dovrebbe parlarsi di discorso chiarificatore – avente
ad oggetto motivi già dedotti dalla P.A. e, pertanto, già nel libero dominio dei soggetti processuali – che
funga
da
traduzione
di
un
giudizio
logico
in
affabulazione
semantica
(168).
La stessa giurisprudenza, invero minoritaria, espressasi a favore della c.d. motivazione successiva (o, se
si preferisce, della integrazione della motivazione in corso di giudizio), ha dato origine ad un dibattito che
ha registrato posizioni fortemente contrapposte, ma che, a nostro avviso, appare caratterizzato, ab
origine,
da
eccessiva
astrattezza.
Detto dibattito si è, infatti, sviluppato senza che, da parte della giurisprudenza, sia stata preliminarmente
delineata la nozione di motivazione successiva accolta in sentenza e senza che ne sia stata verificata la
possibile
rilevanza
ai
fini
decisionali.
La cennata astrattezza ha impedito di procedere ad una corretta lettura del fenomeno. Difatti, la
giurisprudenza favorevole alla motivazione successiva, ove correttamente interpretata, rivela una ratio
decidendi che presuppone l’assoluta incompatibilità logica della motivazione successiva, intesa come
esternazione postuma di motivi già ricostruibili dagli atti, con il principio della dequotazione.
È importante considerare, infatti, che la formula "motivazione successiva" sul piano logico può riguardarsi
sotto
tre
diversi
profili:
a) successiva esternazione grafica di motivi già ricavabili dagli atti del procedimento [c.d. motivi dedotti,
sia pure non espressamente (169)] ovvero di motivi non riscontrabili negli atti del procedimento [c.d.
integrazione
postuma
dei
motivi
non
dedotti
neppure
implicitamente
(170)];
b) integrazione della motivazione mediante la produzione in giudizio di scritti difensivi (171);
c) produzione in giudizio di atti del procedimento da cui sia possibile ricavare in via logica la motivazione
(172).
È importante, inoltre, tenere presente che queste ipotesi impongono un autonomo approfondimento delle
obiezioni mosse genericamente alla figura della "motivazione successiva", con particolare riferimento alla
specifica
nozione
volta
a
volta
presupposta.
Non è condivisibile, infatti, come si verificherà in seguito, la tralaticia posizione giurisprudenziale che
nega la possibilità di integrazione della motivazione in corso di giudizio mediante la produzione di scritti
difensivi, documenti e/o atti procedimentali o atti successivi integrativi, avvalendosi dell’aprioristico
principio del c.d. divieto di motivazione successiva. Poiché, in questo caso, gli scritti e/o gli atti non
introducono motivi nuovi (quindi, successivi), ma si limitano a mettere in luce (secondo una logica di mera
chiarificazione) quelli già evincibili (e quindi controllabili) da quegli atti procedimentali, già acquisiti al
giudizio, che siano preordinati, presupposti e/o connessi al provvedimento impugnato (173).
Affatto diversa è poi l’ipotesi della rinnovazione del procedimento in corso di causa, sfociante in atti di
riesercizio della funzione che, come sarà illustrato, postulano una rinnovata istruttoria e ponderazione
dell’interesse
pubblico.
Del pari necessario, ai fini di un più chiaro codice di linguaggio, è avere ben presente l’ambivalenza del
significato che viene attribuito all’espressione "divieto di motivazione successiva". Giurisprudenza e
dottrina, infatti, utilizzano il divieto di motivazione successiva sia come motivo di illegittimità che come
causa di irrilevanza dell’atto integrativo. Ditalché l’atto integrativo nel primo caso è ritenuto
processualmente e sostanzialmente produttivo di effetti giuridici, a prescindere da ogni considerazione
sul suo contenuto di mera esternazione formale di motivi già ricavabili in via logica dagli atti del
procedimento ovvero di esternazione di motivi nuovi e non tenuti presenti dall’Amministrazione. Nel
secondo caso, l’atto integrativo, essendo irrilevante, comporta, per il giudice, il divieto ex officio di tenerne
conto ai fini del sindacato di eccesso di potere, indipendentemente da una espressa impugnazione da
parte
del
ricorrente.
La distinzione concettuale è utile al fine di una corretta interpretazione delle decisioni in subiecta materia,
nonché al fine di isolare quelle che, in realtà, più che alla esternazione formale successiva in sé (intesa
come
mero
atto),
hanno
riguardo
al
suo
contenuto.
A questa stregua, tuttavia, ne esce svalutata la pretesa carica innovativa delle più importanti decisioni
giurisprudenziali presentate come favorevoli alla ammissibilità della motivazione successiva (e perciò
stesso in apparente controtendenza all’orientamento consolidato del "divieto"). Da tali decisioni,
osservato il contesto del caso di specie preso in esame, emerge con evidenza trattarsi, in realtà, di
ipotesi di successiva esternazione grafica di motivi già rilevabili (perché presenti) negli atti del
procedimento.
In sostanza non essendovi enunciazione di motivi nuovi, ma mera descrizione di un fatto, queste ipotesi
sono
riconducibili
alla
nozione
di
giustificazione
successiva
(174).
L’ambivalente attribuzione di significati al cennato divieto di motivazione successiva, così come elaborato
dalla giurisprudenza, porta con sé l’ambivalenza dei possibili riflessi processuali in caso di sua violazione.
A) Ritenere giuridicamente irrilevante (175) (tamquam non esset) la motivazione successiva – sia che il
difetto di motivazione venga inteso come mera carenza grafica, sia che venga inteso come assenza di
motivi e sintomo di sviamento) (176) – produce l’effetto di precludere al giudice di conoscere i motivi che
hanno indotto l’Amministrazione ad emanare l’atto, poiché da questa dedotti soltanto nel corso del
giudizio (177); sul piano processuale ciò postula l’assoluta irrilevanza del termine per impugnare l’atto
integrativo.
B) Ritenere l’atto integrativo invalido produce l’effetto processuale dell’obbligo di impugnativa da parte
dell’interessato. Ditalché, se non impugnato, detto atto si consolida, spiegando effetti diversi sul vizio di
eccesso di potere a seconda che sia fatto valere come vizio formale (difetto di motivazione inteso come
mera carenza grafica) ovvero come vizio sostanziale (difetto di motivi dedotti nel provvedimento e nel
procedimento, da cui indurre lo sviamento e/o la manifesta illogicità-irragionevolezza), trattandosi di
censure
(formale
e
sostanziale)
profondamente
diverse
tra
loro
(178).
In questa seconda ipotesi (efficacia invalidante della violazione del divieto) la motivazione successiva
(atto integrativo), nei confronti del vizio formale di difetto di motivazione, assume i caratteri dell’atto
amministrativo di sanatoria (179). Esso, al pari di ogni atto amministrativo, dispiega efficacia
prescindendo dalla sua legittimità, così da profilarsi la necessità, per il ricorrente che denunci il difetto di
motivazione, di impugnare con motivi aggiunti anche l’atto integrativo, sotto pena di rilevanza obbligatoria
della motivazione successiva e conseguente sopravvenuta carenza di interesse a ricorrere anche per
l’atto principale. Mentre, nel caso di vizio sostanziale (eccesso di potere per sviamento), l’atto integrativo
fa sorgere l’obbligo, per il giudice amministrativo, di valutare se la motivazione successiva sia
sostanzialmente irrilevante nei confronti della censura mossa dal ricorrente (che resta, pertanto, fondata)
ovvero la smentisca (destituendola, così, di fondamento) (180). Sul piano processuale, l’efficacia
invalidante comporta, in ogni caso, la stretta osservanza del termine decadenziale, a pena di
sopravvenuta carenza di interesse ad ottenere la caducazione di un atto medio tempore integrato o
modificato.
Da un attento esame della giurisprudenza sarà possibile enucleare, di volta in volta, la ricostruzione
interpretativa
seguita
in
sede
decisionale.
Nella fattispecie concreta esaminata dalla, ormai famosa, decisione del T.A.R. Veneto, Sez. I, 10 giugno
1987, n. 648 (181), la ditta ricorrente aveva contestato il provvedimento di esclusione dalla gara di
appalto deducendo unicamente il vizio di difetto di motivazione. Senonché l’Amministrazione, in corso di
causa, adottava una delibera dichiarando espressamente di voler integrare il provvedimento impugnato
esternandone le ragioni e indicandole nella mancanza di fiducia sulla capacità della ditta che, vincitrice di
una precedente gara, aveva realizzato un progetto rivelatosi scarsamente funzionale.
La ditta ricorrente, anziché proporre motivi aggiunti o nuovo ricorso estendendo le proprie censure alla
motivazione che l’Amministrazione aveva esternato a posteriori, si limitava ad eccepire l’irrilevanza
dell’atto integrativo, invocando genericamente il noto principio dell’inammissibilità dell’integrazione ex
post
della
motivazione.
Nell’analizzare il caso, il Collegio introduceva la distinzione tra integrazione della motivazione (nel senso
di introduzione di motivi e/o ragioni sopravvenuti) e integrazione della "esternazione" della motivazione
(nel senso di illustrazione-dimostrazione di "ragioni preesistenti e tenute in considerazione") per
concludere che nel caso di specie non era vietato all’Amministrazione di provare l’inesistenza del vizio
della funzione, indotto in via sintomatica e/o presuntiva dal sollevato difetto di motivazione formale,
attraverso la produzione in giudizio di documenti, anteriori rispetto al provvedimento impugnato,
comprovanti la effettività della preesistenza e legittimità di validi motivi di esclusione della ditta ricorrente
dalla gara. Si desume, quindi, che nella prospettiva seguita dal T.A.R. Veneto, il difetto di motivazione sia
stato ricostruito come sintomo di difetto di motivi (vizio della funzione) superabile mediante l’esibizione
degli atti che hanno preceduto il provvedimento contestato, dai quali emergano i motivi non enunciati (c.d.
principio della effettiva teleologia procedimentale) (182). Ne deriva che la successiva integrazione
formale della esternazione della motivazione (rectius, dei motivi), più che produrre un effetto sanante
sull’asserito vizio sostanziale della funzione (in realtà non necessario, attesa la provata sussistenza della
preventiva ponderazione e legittimità dei motivi di esclusione), ha svolto un ruolo di mera chiarificazione
delle autonome risultanze desumibili da un fatto probatorio autonomo ed autosufficiente (gli atti depositati
in
giudizio
dall’Amministrazione).
Non è di poco momento considerare che, in realtà, il giudice ha ritenuto infondata l’implicita censura di
eccesso di potere mercè l’esame diretto degli atti prodotti, in corso di causa, dalla P.A. a comprova della
corretta valutazione preventiva delle ragioni idonee a fondare l’impugnato atto di esclusione dalla gara.
Ciò vuol dire che la formale integrazione della esternazione della motivazione non ha svolto alcun ruolo
giuridico autonomo nel giudizio sulla legittimità sostanziale dell’atto di esclusione.
Nell’economia della decisione il giudice, più che dare credito alla esternazione successiva della
motivazione, ha escluso l’eccesso di potere mediante l’esame diretto degli atti del procedimento che,
sebbene esibiti soltanto nel corso del giudizio, dimostravano la preesistenza della esplicitazione dei
motivi che era, invece, mancata nel provvedimento successivamente adottato (183). La correttezza
dell’impostazione seguita è corroborata, secondo il T.A.R. Veneto, dalla considerazione del venir meno,
ad atto integrato, dell’interesse del ricorrente ad una decisione che non tenesse conto degli sviluppi
processuali, dal momento che "all’Amministrazione dopo la sentenza non sarebbe precluso di riproporre
l’atto con la motivazione che già allo stato la sorregge" (184). In altre parole, secondo tale giudice,
un’ottica processuale statica, che guardi all’atto piuttosto che alla funzione, non produce un
accrescimento delle garanzie e dei risultati perseguibili in sede processuale, ma una loro contrazione,
posto che l’annullamento del provvedimento impugnato, visto come obiettivo, "lascia all’Amministrazione
tanto più margine di movimento quanto minore è il sindacato della funzione che il provvedimento stesso
consente e quanto minore è il contenuto in termini di accertamento costitutivo e di indirizzo vincolante che
il giudice è in grado di esprimere in ordine alla pretesa sostanziale" (185).
Nell’ambito della dottrina (186) che si è occupata della sentenza testé analizzata manca, a nostro avviso,
una confutazione plausibile dell’affermazione di principio resa dal T.A.R. Veneto, architrave della
impostazione sostanzialistica dell’intera decisione, secondo cui non è "assiomatico il collegamento tra
l’immutabilità dell’atto e la pienezza delle garanzie di difesa del cittadino", non essendovi, in realtà,
"nessun principio che in qualche modo stabilisca che i poteri dell’Amministrazione debbano restare
paralizzati in dipendenza dell’esercizio da parte dei cittadini dei rimedi di tutela amministrativa e
giurisdizionali
contro
precedenti
provvedimenti
amministrativi".
La considerazione che non è precluso all’Amministrazione di riproporre l’atto con motivazione identica a
quella risultante dall’integrazione successiva, svuota di fondamento la critica secondo cui il difetto di
motivazione non possa leggersi, semplicemente, come sintomo di eccesso di potere, ma vada "¼
interpretato come violazione di quella norma implicita che impone all’Amministrazione di predisporre gli
strumenti necessari all’attuazione del sindacato di legittimità" (187). Secondo la dottrina in commento "il
concetto di motivazione, come tramite di rilevazione del vizio sostanziale, è infatti superato qualora si
attribuisca all’esposizione dei motivi il valore di requisito formale condizionante la legittimità dell’atto in
termini
di
violazione
di
legge"
(188).
Essa si basa sul non condivisibile assunto che la sanatoria in corso di processo del vizio formale di difetto
di motivazione incida negativamente sulle potenzialità difensive del ricorrente. Non considera, tuttavia, la
sostanziale inutilità di un processo che, pur vedendo il ricorrente vittorioso, non possa impedire alla P.A.
di rieditare l’atto inserendovi quella motivazione ritenuta non sanante solo perché esternata in corso di
giudizio. Non considera, altresì, la non trascurabile utilità (in termini di effettività della tutela) di un
processo che, ammettendo l’immediata proponibilità di motivi aggiunti ovvero di autonomo ricorso
avverso l’eventuale atto integrativo della motivazione (ovvero avverso l’eventuale atto di riesercizio del
potere), consentirebbe di anticipare in un unico giudizio (estendendone l’oggetto) un più esteso sindacato
della funzione. Ne risultano, così, ampliati i limiti oggettivi del giudicato e, di conseguenza, ridotti i margini
di
riadozione
dell’atto,
da
parte
dell’Amministrazione,
dopo
la
sentenza.
Nella citata pronuncia del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana n. 149/1993 (189)
è stato affrontato il tema della motivazione successiva con riguardo alla integrazione postuma mediante
l’esibizione in giudizio di tre pareri, già acquisiti dalla P.A., e di cui solo uno veniva citato nel
provvedimento impugnato; pareri, peraltro, richiamati dalla difesa erariale nel corso del giudizio.
Sul punto, il ricorrente, mediante motivi aggiunti, aveva sollevato due tipi di censure: una formale e
generale, incentrata sull’inammissibilità dell’integrazione postuma; l’altra, sostanziale e specifica, di
sviamento (ribadita in appello), posto che, dalla integrazione postuma, sostanziantesi nel contenuto della
difesa erariale, sarebbe emerso che il reale motivo del diniego si fondasse su considerazioni attinenti alla
repressione dei fenomeni mafiosi e fosse, perciò, diverso dal fine dichiarato di "riservare la banda di
frequenza
interessata
ad
istituti,
enti
ed
attività
con
maggiore
rilievo
sociale".
Il giudice di appello, in via preliminare, escludeva lo sviamento in quanto riteneva prive di "un’autonoma e
determinante efficacia causale" le considerazioni addotte ex post da parte della difesa erariale a sostegno
del diniego impugnato; diniego idoneamente motivato, secondo il Consiglio, dalle ragioni espresse nel
parere
richiamato
per
relationem.
Con riguardo, invece, alla censura formale di inammissibilità dell’integrazione postuma della motivazione,
lo stesso giudice perveniva, alla conclusione che, trattandosi solo di un vizio formale di difetto di
motivazione, l’Amministrazione potesse "validamente integrare, anche in corso di giudizio, la motivazione
del provvedimento impugnato in sede giurisdizionale, con conseguente eventuale cessazione della
materia
del
contendere
in
ordine
al
dedotto
vizio"
(190).
Il principio desumibile dalla sentenza discende dalla considerazione del giudizio di rilevanza, espresso
dal giudice, sulla motivazione successiva, ai fini dell’accoglimento o meno della censura formalmente
denominata dal ricorrente "eccesso di potere per difetto di motivazione", ma che, a ben vedere, si
risolveva nel censurare "la motivazione indicata nel parere del settembre 1985" come ""apparente" e sul
piano sostanziale priva di contenuto, in quanto in particolare, essa non contiene riferimento alcuno né alla
indicazione di quegli "istituti, enti ed attività con maggiore rilievo sociale" che dovrebbero utilizzare la
banda di frequenza, né alla sussistenza di richieste da parte di tali enti che non sia stato possibile
soddisfare
per
sovraffollamento
sulla
banda
stessa".
Dunque, più che di difetto (assenza) di motivazione, nella specie si è trattato di una censura di difetto di
presupposti giustificativi del potere di diniego esercitato ovvero di eccesso di potere per manifesta
illogicità e/o irragionevolezza della scelta sottesa al diniego. Tale ricostruzione è stata, poi, confermata
dallo stesso giudice, lì dove, nel dichiarare infondato il motivo di ricorso in esame, ha fatto riferimento
espresso alla ragione giustificativa del provvedimento (formalmente censurata con il vizio di difetto di
motivazione), asserendo "che non poteva ritenersi né illogica né carente, nulla rilevando la circostanza
che
in
atto
non
vi
fossero
altri
potenziali
utilizzatori".
Ne discende che il giudice di appello, nel caso esaminato, abbia ritenuto ammissibile la motivazione
successiva, nell’ambito di un’ipotesi di c.d. motivi dedotti, da intendersi, dunque, come successiva
esternazione grafica di motivi già ricavabili dal procedimento; ed ha, altresì, ritenuto che tale forma di
integrazione postuma non sia ex se illegittima, ma sia suscettibile di impugnativa laddove il suo contenuto
presti il fianco a censure sostanziali (già sviluppate o introdotte ex novo) di eccesso di potere per
sviamento,
per
manifesta
illogicità
e/o
irragionevolezza.
A differenza del T.A.R. Veneto, il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana, avendo
disconosciuto un’autonoma e determinante efficacia causale sul provvedimento delle considerazioni
prospettate ex post, sembra aver attribuito giuridica irrilevanza alla motivazione successiva.
Ciò, peraltro, in un contesto in cui la premessa sostanziale della decisione era che non esistesse un
obbligo di motivazione, sicché, la motivazione successiva del caso di specie, essendo destinata a sanare
una violazione inesistente, assumeva tutti i caratteri della c.d. motivazione facoltativa da cui trarre
elementi idonei a dimostrare il buon fondamento (e/o la non manifesta irragionevolezza) della scelta
operata,
attaccata
con
la
censura
di
eccesso
di
potere.
Ma, a ben guardare, nell’economia della decisione esaminata, la motivazione successiva non ha neanche
tale utilità teleologica, in quanto, in via preliminare, il giudice aveva precisato che le giustificazioni addotte
ex
post
non
rivestono
una
autonoma
e
determinante
efficacia
causale.
L’approfondimento dei due arresti giurisprudenziali conferma l’assunto di partenza secondo cui il dibattito
in argomento rischia di arenarsi sul piano dell’astrattezza ove non si distingua, in via dommatica, tra
giustificazione
successiva
e
motivazione
successiva.
La riflessione sviluppatasi sul tema della motivazione successiva sembra oscillare tra due poli: il primo,
favorevole alla figura, nell’intento di evitare l’emanazione di sentenze inutili e la duplicazione dei ricorsi
(fenomeni fisiologici in un sistema che conserva intatto il potere della P.A. di disporre sul merito del
rapporto sostanziale che la contrappone al privato ricorrente, anche dopo la sentenza di annullamento
per difetto di motivazione); il secondo, contrario, in forza dell’idea di fondo che una reale tutela
sostanziale del ricorrente si accordi ad un’esigenza di accrescimento e non di contrazione delle garanzie
e
dei
risultati
perseguibili
in
sede
processuale.
Occorre precisare, tuttavia, che il dibattito in materia, ancora una volta, non mette a fuoco la distinzione
tra motivazione successiva intesa come esternazione grafica di motivi dedotti (già ricavabili dal
procedimento) e motivazione successiva come esternazione di motivi non dedotti (nuovi).
Più in particolare, le principali ragioni a sostegno della inammissibilità della motivazione successiva sono
le
seguenti:
a) l’eliminazione della motivazione enunciativa, in quanto surrogata dalla intrinseca giustificabilità
dell’atto, annienterebbe la caratteristica peculiare della polifunzionalità della motivazione (intesa come
strumento di conoscenza per il ricorrente, per la comunità dei cittadini ai fini del sindacato di opinione
pubblica, e al giudice che non sempre può avvalersi della cognizione diretta) (191);
b) la necessità di assicurare il rispetto del principio costituzionalmente garantito di parità delle parti nel
processo amministrativo, non può giustificare una posizione privilegiata all’Amministrazione tale da
consentirle di "aggiustare il tiro" una volta che siano state proposte le varie censure. Il ricorrente avrebbe,
in sostanza, impugnato un atto che potrebbe rivelarsi, poi, pienamente legittimo allorché
l’Amministrazione adducesse i motivi posti a suo fondamento, in precedenza non dedotti (192);
c) l’esistenza, sul piano processuale, del principio della non sanabilità in corso di causa degli atti
impugnati
(193).
La principale critica cui si espongono i primi due argomenti è che il divieto di integrazione della
motivazione e la conseguente pronuncia di natura meramente cassatoria, non precludono
all’Amministrazione di reiterare lo stesso provvedimento con la medesima motivazione, questa volta
contestuale
(194).
Inoltre, è stato osservato che sono argomenti di per sé sufficienti per ritenere non violato il principio di
parità
delle
parti
nel
processo
amministrativo:
a) la possibilità di proporre ricorso per motivi aggiunti od autonomo ricorso (a seconda che si tratti di atto
meramente integrativo o di atto formalmente autonomo) avverso il provvedimento con il quale viene
integrata
la
motivazione
(195);
b) ovvero (nell’ipotesi in cui il provvedimento sopravvenuto determini la cessazione della materia del
contendere) la facoltà per il ricorrente di agire per il risarcimento dei danni nei confronti del funzionario
responsabile.
In ordine al principio di insanabilità dell’atto in corso di causa si è obiettato, infine, che nell’ordinamento
vigente non vi sono norme contrarie alla sanatoria; anzi, dall’art. 6 della legge 18 marzo 1968, n. 249, che
consente di sanare con efficacia retroattiva l’atto viziato di incompetenza relativa – ancorché quest’ultimo
sia oggetto di ricorso giurisdizionale o amministrativo pendente – utilizzando l’argomento a simili, si è
desunta
la
vigenza
dell’opposto
principio
della
generale
sanabilità
(196).
Del resto, la stessa giurisprudenza amministrativa, sia pure non unanimemente, riconosce in generale il
potere della P.A. di procedere alla convalida e/o rinnovazione dei propri atti nel corso del giudizio.
Ciò, peraltro, è coerente con il principio generale che l’autorità di amministrazione attiva (a differenza
dell’autorità di controllo) non esaurisce il proprio potere con l’emissione dell’atto; né, comunque, la
proposizione di un ricorso contro l’atto emesso può precludere all’autorità stessa di esercitare quel
potere, specie allorché (come avviene nel caso di difetto di motivazione) sia stato esercitato in maniera
incompleta.
Approfondendo quest’ultimo profilo, che si lega al tema dell’indefettibilità e continuità della funzione
amministrativa, in stretta applicazione del principio di economia dei mezzi giuridici, va evidenziato che,
secondo il filone giurisprudenziale sostanzialista, "Il principio del diritto all’annullamento dell’atto da parte
del ricorrente che ha ragione deve essere armonizzato con quello di indefettibilità e continuità della
funzione amministrativa, nonché con quello di economia dei mezzi giuridici, con riferimento diretto al
divieto di integrazione motivazionale, attuato attraverso scritti difensivi provenienti dall’Amministrazione
intimata, ma non al caso della motivazione integrativa derivante da successivi atti di riesercizio della
funzione"
(197).
È stato chiarito che le fattispecie procedimentali di riesame, derivate da un provvedimento cautelare
sollecitatorio del giudice, devono essere assimilate, sul piano ontologico, agli atti di rinnovazione del
procedimento, che possono essere discrezionalmente posti in essere in sede di autotutela relativamente
ad
un
atto
impugnato.
In un caso di specie, deciso dal T.A.R. Campania, Sez. I, 9 novembre 1995, n. 402 (198), era accaduto
che il provvedimento di revoca impugnato in sede giurisdizionale, seguito da specifico ordine impartito dal
giudice alla P.A. di riesame del "rapporto controverso tenendo conto anche delle censure di ricorso e
compiendo tutti gli atti istruttori" ritenuti necessari, fosse stato successivamente confermato nel contenuto
con rinnovata motivazione. Senonché il ricorrente impugnava il provvedimento di conferma sollevando la
censura di inammissibile ampliamento della carente motivazione del provvedimento confermato e già
impugnato.
Il T.A.R. Campania dichiarava infondata la censura fissando il principio che il giudice "¼ – non potendo
sostituire le proprie valutazioni a quelle degli organi competenti – ben può imporre, nel rispetto dei principi
che indirizzano lo svolgimento della funzione giurisdizionale, ulteriori adempimenti istruttori, ovvero
ordinare il riesame della fattispecie alla luce delle censure dedotte in ricorso a seconda dei casi e delle
necessità".
Nell’ipotesi della rinnovazione del procedimento, che porti al riesame degli atti alla luce dei rilievi introdotti
dal ricorrente, con esito di conferma del precedente provvedimento, non si realizza un inammissibile
ampliamento della motivazione del provvedimento impugnato, "in quanto in tale fase ciò che conta è la
fondatezza sul piano sostanziale sia delle ragioni originarie addotte; e sia di quelle eventualmente
emerse in seguito ad ulteriori accertamenti istruttori ¼ Il nuovo provvedimento non costituisce pertanto
uno sviatorio tentativo dell’Amministrazione di correggere un precedente provvedimento, ma è una nuova
manifestazione di volontà, emanata su ordine del giudice amministrativo in seguito ad un’istruttoria
interamente
rinnovata".
In altro caso deciso dal Consiglio di Stato (199), la rinnovazione in corso di giudizio dell’atto impugnato si
è avuta su iniziativa dell’Amministrazione, la quale ha ritenuto opportuno esercitare i suoi poteri di
autotutela, poiché in sede di rilascio di nulla osta regionale all’apertura di grande struttura commerciale,
l’atto era affetto dal vizio di difetto di motivazione. Senonché la Regione, avvedutasi del vizio formale,
decideva in corso di causa di annullare d’ufficio l’atto viziato e contestualmente di rinnovare l’esercizio del
potere
mediante
emanazione
di
nuovo
nulla
osta
debitamente
motivato.
Alla censura specifica sollevata dal ricorrente-controinteressato, secondo cui l’intento perseguito
dall’Amministrazione sarebbe stato di realizzare surrettiziamente i presupposti e gli effetti della convalida
dell’atto viziato, al di fuori dei limiti consentiti dall’unica ipotesi normativamente prevista ex art. 6 della
legge n. 249/68 – così alterando il rapporto di parità tra le parti del processo – il giudice di appello
replicava che "l’Amministrazione può rinnovare l’atto in corso di giudizio quando è stato impugnato per
mero vizio di forma", in quanto, se così non fosse, "sarebbe costretta ad attendere l’annullamento dell’atto
per rinnovare solo a quella data il procedimento e per finalmente emanare un secondo atto emendato dal
vizio formale, con intollerabile appesantimento della sua azione e frustrazione delle aspettative degli
interessati". Detta possibilità di rinnovazione per vizi di forma si riteneva "coerente con il principio di
efficienza ex art. 97 Cost. e con l’effettività della tutela della pretesa dedotta in giudizio".
Ulteriore espressione dell’orientamento favorevole all’integrazione della motivazione in corso di giudizio,
in osservanza del principio di autotutela, è contenuta in una recente decisione del T.A.R. Lazio (200)
secondo cui sarebbe illogico non riconoscere alla P.A., quando abbia riscontrato l’illegittimità del proprio
operato (e benché sia pendente al riguardo un giudizio), il potere-dovere di intervenire per porvi rimedio,
allo scopo di circoscrivere, così, la propria eventuale responsabilità e limitare possibili danni per l’erario
(201). Ciò soprattutto dopo che, la recente caduta della preclusione di principio alla risarcibilità
dell’interesse legittimo (202), ha esposto la pubblica Amministrazione alla potenziale responsabilità civile
per l’illegittimità dei suoi atti (ove, beninteso, sussista il concorso degli ulteriori elementi, oggettivi e
soggettivi,
idonei
a
convertirle
in
veri
e
propri
"fatti
illeciti").
Non è sembrato dubbio, invero, che il principio del neminem laedere implichi, per tutti i soggetti di diritto,
privati e pubblici, un onere di attivarsi per far cessare la situazione di illiceità originata e suscettibile di
produrre
ulteriori
conseguenze
pregiudizievoli.
Diversamente, verrebbe violato il principio (un tempo invocato, sotto ben diverso profilo) della parità tra le
parti del processo, posto che la pendenza del ricorso impedirebbe all’Amministrazione, pur assoggettata
al paritario principio del neminem laedere, di assumere iniziative di diligenza a difesa dei propri interessi
anche
patrimoniali
(oltre
che
della
legalità).
Ulteriore argomento a favore si è tratto dalla legge 21 luglio 2000, n. 205, che, modificando l’art. 21 della
legge 6 dicembre 1971, n. 1034, ha previsto in termini generali che "Tutti i provvedimenti adottati in
pendenza del ricorso tra le stesse parti, connessi all’oggetto del ricorso stesso, sono impugnati mediante
proposizione
di
motivi
aggiunti".
Si è sostenuto, da parte del medesimo giudice, che una siffatta innovazione, tendente a far confluire
all’interno del giudizio tutti gli atti connessi al suo "oggetto", non andrebbe vista soltanto come uno
strumento di economia processuale. La sua portata impone innanzi tutto di rivedere la tradizionale
identificazione dell’oggetto del giudizio amministrativo con il singolo provvedimento impugnato. Difatti, il
presupposto logico che ha reso possibile l’estensione, all’interno del giudizio pendente, dell’impugnativa
ai provvedimenti sopravvenuti, mediante semplici motivi aggiunti, risiede nell’aver, il legislatore del 2000,
rimodellato l’oggetto del processo amministrativo intorno alla pretesa sostanziale fatta valere dal
ricorrente
(203).
Ebbene, questa nuova norma comporta che l’adozione di un ulteriore provvedimento, inteso ad
emendare un vizio dell’atto oggetto di gravame, non pone più, automaticamente, fine al relativo giudizio
(strutturato, innovativamente, come giudizio sul rapporto), ma ne estende l’oggetto abilitando l’interessato
ad
integrare
la
sua
originaria
impugnativa
mediante
motivi
aggiunti.
Viene meno, pertanto, il pericolo che il provvedimento di autotutela con funzioni di sanatoria vanifichi il
diritto
costituzionale
di
azione
e
di
difesa
in
giudizio.
D’altra parte, ove l’Amministrazione incorsa in un vizio di legittimità suscettibile di sanatoria intenda
avvalersi di tale facoltà, non sembra possa esserle opposto un "diritto" dell’interessato ad ottenere, ad
ogni costo, l’annullamento giurisdizionale del provvedimento viziato. E questo tanto più in un processo
amministrativo incentrato, ormai, sulla pretesa sostanziale del ricorrente, in cui, quindi, l’accertamento,
istituzionalmente devoluto al giudice, deve investire, più che l’isolato aspetto della legittimità formale di un
singolo provvedimento, il grado di fondatezza delle aspettative e delle correlative pretese che
costituiscono
la
materia
del
singolo
rapporto
di
diritto
amministrativo.
Nella vigenza della legge attuale, pertanto, il ricorrente, in pendenza del giudizio, così come ben può
continuare a beneficiare di un rinnovato esercizio del potere amministrativo in una direzione a lui
favorevole – con l’esito della cessazione della materia del contendere – simmetricamente, dovrà
accettare gli effetti di un nuovo provvedimento, diretto semplicemente ad emendare un vizio del
precedente
atto.
Del resto, se si ammette la possibilità per l’Amministrazione di un riesame della legittimità del proprio atto
in pendenza del giudizio, appare problematico limitare le conseguenze di tale riesame secundum
eventum: accordare, cioè, alla P.A. la possibilità di intervenire a difesa della legittimità e degli interessi
pubblici quando ciò richieda un atto di ritiro, e disconoscerle la stessa possibilità, in presenza di vizi
sanabili, quando il riesame potrebbe essere concluso con una semplice riforma della precedente
determinazione
(204).
A quanto detto si aggiunga che la stessa sanatoria e/o rinnovazione del procedimento, in presenza di un
vizio conclamato e difficilmente superabile in sede giudiziaria, sarebbe imposta a fortiori dalla necessità di
evitare una probabile condanna risarcitoria che faccia proprio leva sul comportamento omissivo,
negligente,
colposo
e/o
doloso.
Dalla lettura della giurisprudenza citata si ricava il principio che, in realtà, la mera pendenza di
un’impugnativa non possa arrestare l’esercizio del potere di Amministrazione attiva della P.A., che, per
vero, e ciò non è mai stato considerato abbastanza, neppure il giudicato può arrestare.
In tal caso non di mera sanatoria di vizio formale si tratta, quanto di emanazione di nuovi provvedimenti
sulla scorta di nuove valutazioni (ponderazioni) dell’interesse pubblico (motivi nuovi). Se così è non si
vede perché si debba ridurre il tema della motivazione successiva (e/o integrativa) alla mera sanatoria
processuale del difetto di motivazione formale, quando invece dalle risultanze giurisprudenziali emerge
una dimensione sostanziale del fenomeno di portata più ampia e assolutamente autonoma, nel cui
ambito ciò che viene in rilievo preminente è il riesercizio della funzione e non già una successiva
enunciazione
formale
della
motivazione
(205).
In conclusione, sulla scorta della nostra ricostruzione ermeneutica dell’art. 3 della legge n. 241/90, i
risultati conseguiti dimostrano che il contrasto tra previsione espressa dell’obbligo di motivazione ex art. 3
della citata legge n. 241/90, da un lato, e la teorica della dequotazione dei tratti formali della motivazione,
unitamente alla ritenuta ammissibilità della motivazione successiva, dall’altro, così come rilevato nei suoi
termini essenziali nelle considerazioni introduttive, è smentito. Non solo, detta smentita è coerente con la
evoluzione storica dell’istituto della motivazione in relazione al sindacato di legittimità per eccesso di
potere, nella cui scia devono collocarsi la legge n. 241/90 e la sua interpretazione.
Antonio GUANTARIO
avvocato
([email protected])
Note
(*) Il presente scritto è stato pubblicato nella rivista "Nuova Rassegna", 2002, n. 21, pagg. 2230-2281,
(anche
nella
versione
Nuova
Rassegna
"on
line",
in
www.nuovarassegna.it/).
(1) Per una valida esposizione del dibattito sull’obbligo di motivazione ved. L. Vandelli, Osservazioni
sull’obbligo di motivazione degli atti amministrativi, in "Riv. trim. dir. proc. civ."., 1973, pag. 1595.
(2) Cfr., da ultimo, A. Romano Tassone, Motivazione dei provvedimenti amministrativi e sindacato di
legittimità, Giuffrè, Milano, 1987, pag. 13. Ved. però G. De Fina, La motivazione dei provvedimenti
amministrativi, in "Riv. It. Sc. Giurid.", 1971, pag. 105, secondo cui "¼ l’obbligatorietà della motivazione –
se ritenuta – non può che farsi discendere dalla norma, sebbene non espressa, in base ad una
interpretazione estensiva o analogica: con la conseguenza, che anche per gli atti per cui la motivazione
non è legislativamente richiesta expressis verbis, il difetto di motivazione ¼ costituendo trasgressione di
un adempimento formale, dovrebbe integrare il vizio di violazione di legge e non quello di eccesso di
potere".
(3) Volendo richiamare brevemente una valida schematizzazione dell’elaborazione giurisprudenziale in
subiecta materia, gli atti amministrativi che richiedevano una motivazione per la loro stessa natura erano i
seguenti: a) atti della funzione consultiva; b) atti decisori; c) atti negatori; d) atti che sacrificano posizioni
giuridiche dei privati; e) atti di scelta comparativa; f) atti di ritiro; g) atti difformi dal parere obbligatorio,
così P. Virga, Il provvedimento amministrativo, Giuffrè, Milano, 1972, pagg. 209 e ss.; ved. anche M.S.
Giannini, Motivazione dell’atto amministrativo (voce), in "Enc. Dir.", vol. XXVII, 1977, pag. 263, il quale
individua sei categorie di atti in cui ricorre la c.d. motivazione necessaria: "a) i provvedimenti negativi, in
pratica di ogni specie; b) i provvedimenti di secondo grado, quali annullamenti, conferme, riforme,
revoche; c) i provvedimenti che la giurisprudenza chiama "restrittivi della sfera giuridica del privato",
nozione invero non del tutto chiara, ma in concreto comprensiva dei provvedimenti ablatori personali,
reali od obbligatori, sempreché discrezionali, nonché dei provvedimenti sanzionatori; d) i provvedimenti
positivi, risultanti da procedimenti aventi istruttoria complessa, come le autorizzazioni, le concessioni, gli
atti organizzativi; e) i provvedimenti dichiarativi valutativi, come per esempio le dichiarazioni di bene
culturale".
(4) G. De Fina, La motivazione..., cit., pag. 13. A conforto di quanto affermato nel testo l’autore nella nota
10 richiama l’opinione conforme dei maggiori trattatisti: G. Zanobini, Corso di diritto amministrativo, I,
Giuffrè, Milano, pag. 283; C. Vitta, Diritto amministrativo, I, pagg. 144-145; R. Alessi, Sistema istituzionale
del diritto amministrativo italiano, Giuffrè, Milano, 1958, pag. 286; A.M. Sandulli, Manuale di diritto
amministrativo, Jovene, Napoli, 1957, pag. 274; G. Landi-G. Potenza, Manuale di diritto amministrativo,
Giuffrè,
Milano,
1960,
pag.
240.
(5) Così M.S. Giannini, op. cit., pag. 263. Cfr. anche dello stesso autore, L’atto amministrativo. Corso di
diritto amministrativo anno accademico 1963-1964 (Appunti delle lezioni a cura di un gruppo di studenti),
pagg.
62-74.
(6) Cfr. V. Italia-M. Bassani (a cura di), Procedimento amministrativo e diritto di accesso ai documenti,
Giuffrè, Milano, 1991, pagg. 44 e ss.; G. Corso-F. Teresi, Procedimento amministrativo e accesso ai
documenti (Commento alla legge 7 agosto 1990 n. 241), Maggioli, Rimini, 1991, pagg. 55 e ss. Contra,
ved. però A. Andreani, Idee per un saggio sulla motivazione obbligatoria dei provvedimenti amministrativi,
in
"Riv.
trim.
dir.
proc.
amm.",
1993,
n.
1,
pag.
3.
(7) Parla di "attrazione del vizio della motivazione, nella violazione di legge" G. Sala, L’eccesso di potere
amministrativo dopo la legge 241/90: un’ipotesi di ridefinizione, in "Riv. trim. dir. amm.", 1993, n.2, pag.
181. Si veda anche P. M. Vipiana, Introduzione ai vizi di legittimità dell’atto amministrativo, Cedam,
Padova, 1997, pagg. 231-232, secondo cui "con il disposto dell’art. 3 della legge n. 241 del 1990, i difetti
inerenti alla motivazione dell’atto amministrativo sembrano sempre più attratti nell’orbita del vizio di
violazione di legge, quantunque il vizio di eccesso di potere sia sempre ampiamente invocabile e venga,
in effetti, invocato dai giudici amministrativi ¼ Invero, il difetto assoluto di motivazione, in base al citato
art. 3, integra un caso di violazione di legge". Contra, G. Bergonzini, Difetto di motivazione del
provvedimento amministrativo ed eccesso di potere a dieci anni dalla legge 241 del 1990, in "Riv. trim.
dir. amm.", 2000, n. 2, pagg. 203-204) secondo il quale "il difetto di motivazione si configura diversamente
a seconda che nella motivazione del provvedimento manchi l’indicazione dei presupposti giustificativi
oppure quella delle valutazioni discrezionali effettuate. Nella seconda eventualità il difetto di motivazione,
pur dopo l’entrata in vigore della legge n. 241, considerate le modalità con cui il relativo sindacato
continua ad essere ordinariamente svolto dal giudice amministrativo, appare ancora inteso come sintomo
di eccesso di potere; e non possono venire perciò condivise quelle opinioni secondo cui, dopo detta
legge, il difetto di motivazione andrebbe sempre riportato all’ambito della violazione di legge". Secondo R.
Scarciglia, La motivazione dell’atto amministrativo. Profili ricostruttivi e analisi comparatistica, Giuffrè,
Milano, 1999, pagg. 7-8, l’impostazione del sindacato giurisdizionale, saldamente ancorato alla
valutazione del difetto di motivazione quale vizio di eccesso di potere, tende a venir meno, "anche ove si
tenga conto delle approfondite indagini della dottrina tese alla trasformazione del sindacato sull’eccesso
di potere in una indagine sulla violazione di legge, per l’atteggiarsi ex lege della motivazione quale
elemento
essenziale
dell’atto".
(8) Quanto affermato nel testo si riferisce esclusivamente alla classificazione del vizio derivante dalla
violazione dell’obbligo di motivazione e non anche al contenuto sostanziale della stessa. Ved. invece A.
Andreani, Idee per un saggio..., cit., pag. 9, secondo cui "la previsione formale scritta di un obbligo di
motivazione "destoricizza" la pregnanza del precetto con le sue diverse sfaccettature (obbligatorietà,
contenuto, sufficienza, validità, apparenza ecc.) ed impone di renderlo coerente con il sistema di istituti
consolidati (o ridefiniti da leggi nuove) in cui il precetto stesso si innesta e trova collocazione". Si veda
anche M. Di Giorgio, Innovazioni in tema di motivazione dei provvedimenti amministrativi e sindacato
giurisdizionale, in "Riv. trim. proc. amm.", 1998, n. 3, pag. 608, che sulla scia di A. Andreani, afferma che
la "nuova impostazione della legge n. 241/90, necessariamente destoricizza la giurisprudenza del
Consiglio di Stato fino al 1990; pur non potendosi negare tra le due costruzioni un rapporto di
sussidiarietà
ed
integrazione".
(9) Cons. giust. amm. reg. siciliana, 20 aprile 1993, n. 149, ne "Il Foro it.", 1993, III, col. 616 ss., con nota
redazionale. Questa decisione ha dato spunto ad un dibattito dottrinale specifico in tema di motivazione
successiva: G. Virga, Integrazione della motivazione nel corso del giudizio e tutela dell’interesse alla
legittimità sostanziale del provvedimento impugnato, in "Riv. trim. proc. amm.", 1993, n. 3, pagg. 507 ss.;
A. Zito, L’integrazione in giudizio della motivazione del provvedimento: una questione ancora aperta, in
"Riv. trim. proc. amm.", 1994, n. 3, pagg. 577 e ss.; S. Giacchetti, Fontanazzi giuridici: l’integrazione in
corso di giudizio del provvedimento impugnato, in "Riv. trim. proc. amm.", 1995, n. 1, pagg. 19 e ss.
(10) A. Zito, L’integrazione in giudizio della motivazione ¼ , cit., pag. 584. Per la tesi dell’irregolarità cfr.
A. Romano Tassone, Contributo sul tema dell’irregolarità degli atti amministrativi, Giappichelli, Torino,
1993, pag. 102, secondo cui "¼ nell’immediato futuro è facile prevedere che quelle formalità, richieste
proprio e soltanto in funzione della legittimazione del provvedimento nei confronti dell’opinione pubblica,
vengan in gran parte ritenute mere condizioni di regolarità dell’atto amministrativo, e che la loro violazione
non conduca quindi all’invalidità dell’atto stesso. È questo il caso, ad esempio, della prescrizione dell’art.
3 della legge n. 241/1990, che impone la motivazione di tutti i provvedimenti amministrativi, anche di
quelli vincolati o di particolare semplicità. Tale disposizione, fortemente contestata come causa di inutile
intralcio all’attività amministrativa, sembra particolarmente prestarsi ad una sorta di "derubricazione",
almeno per le ipotesi i cui il dovere di motivazione non era prima normalmente riconosciuto dalla
giurisprudenza".
(11)
S.
Giacchetti,
Fontanazzi
giuridici
¼
,
cit.,
pag.
22.
(12)
G.
Virga,
Integrazione
della
motivazione
¼
,
cit.,
pagg.
526-527.
(13) Così G. Virga, op. cit., pag. 533, che evidentemente si richiama alla ben nota definizione di
giustificazione introdotta da C.M. Iaccarino, Studi sulla motivazione..., con speciale riguardo agli atti
amministrativi, Soc. editrice del "Foro italiano", Roma, 1933, pag. 88: "esposizione delle circostanze di
fatto
e
di
diritto
che
hanno
dato
luogo
ai
motivi".
(14)
A.
Andreani,
Idee
per
un
saggio...,
cit.,
pag.
17.
(15) Op. loc. ult. cit., pag. 18; sostanzialmente conforme G. Mezzapesa, Il divieto di integrazione in corso
di giudizio della motivazione: un principio ancora saldo nel nostro ordinamento giuridico, in "Riv. trim.
proc.
amm.",
1996,
n.
2,
pagg.
382
e
ss.
(16)
A.
Zito,
L’integrazione
in
giudizio
¼
,
cit.,
pag.
585.
(17)
A.
Zito,
L’integrazione
in
giudizio
¼
,
cit.,
pag.
585.
(18)
A.
Romano
Tassone,
Motivazione
dei
provvedimenti¼
,
cit.,
pag.
2.
(19) La dottrina, in prosecuzione logica con le risultanze conseguite prima dell’entrata in vigore della
legge n. 241/90, ha richiamato l’attenzione sul mutamento dei termini del dibattito in tema di motivazione
imposto dalla novella del 1990, ponendo al centro dell’analisi il problema dei requisiti della motivazione
(estensione e profondità che il discorso motivante deve possedere), dovendosi ritenere ormai superati e
risolti dal legislatore sia l’aspetto dell’obbligo di motivazione che quello sul concetto di motivazione (A.
Romano Tassone, Legge sul procedimento e motivazione del provvedimento amministrativo. Prime
osservazioni,
in
"Scritti
in
onore
di
P.
Virga",
II,
1994,
pagg.
1589-1590).
(20) Cfr., in tal senso, G. Corso-F. Teresi, Procedimento amministrativo ¼ , cit., pag. 58.
(21) Usiamo intenzionalmente il termine "apparente" in quanto, come si vedrà più avanti, gli sviluppi della
nostra
ipotesi
ricostruttiva
vanno
in
senso
opposto.
(22)
Cfr.
M.S.
Giannini,
Motivazione¼
,
cit.,
pag.
268.
(23) La dottrina più recente ha senza mezzi termini osservato che il concetto di motivazione "se pur
cristallizzato dal legislatore nell’art. 3, legge 241/90, resta a tutt’oggi uno degli oggetti misteriosi della
riforma del 1990" (così L. Tarantino, Wittgenstain, Mortati, e l’integrazione della motivazione in giudizio, in
"Urbanistica
e
appalti",
2002,
n.
8,
pag.
942).
(24) Così M. Di Giorgio, Innovazioni in tema di motivazione dei provvedimenti amministrativi e sindacato
giurisdizionale,
in
"Riv.
trim.
dir.
proc.
amm.",
1998,
n.
3,
pag.
609.
(25) Per il Consiglio di Stato "¼ la garanzia di adeguata tutela delle proprie ragioni non viene meno per il
fatto che nel provvedimento finale non risultino chiaramente e compiutamente esplicitate le ragioni
sottese alle scelte, allorché le stesse possano essere agevolmente colte dalla lettura degli atti afferenti
alle varie fasi in cui si articola il procedimento" (così Cons. Stato, Sez. IV, 29 aprile 2002 n. 2281, in
www.giustizia-amministrativa.it; anche in "Urbanistica e appalti", 2002, n. 8, pag. 935; Cons. Stato, Sez.
IV, 9 ottobre 2000, n. 5346, in "Rass. Cons. Stato", 2000, n.10, pag. 2167; Cons. Stato, Sez. IV, 26
gennaio 1998, n. 66, ne "Il Foro amm.", 1998, n. 1, pag. 32), posto che la funzione propria della
motivazione può ritenersi assicurata allorquando è idonea, al di là della sinteticità, a consentire
all’interessato di ricostruire l’iter logico seguito dall’Amministrazione e quindi a valutare ed eventualmente
contestare la ragionevolezza delle scelte (Cons. Stato, Sez. IV, 18 gennaio 1996, n. 56, ne "Il Foro
amm.", 1996, n. 1, pag. 85; Idem, 6 maggio 1996, n. 569, ne "Il Foro amm.", 1996, n. 5, pag. 1475).
Tuttavia l’orientamento in parola non impedisce al Supremo Consesso di accogliere la censura di difetto
di motivazione allorquando "non v’è alcun elemento che leghi logicamente, ancor prima che
giuridicamente, le generali considerazioni svolte nella parte motiva con quella dispositiva oggetto di
contestazione" e nessuno dei richiami operati nel provvedimento impugnato "dà conto di come essi
abbiano concretamente ed effettivamente, secondo un necessario rapporto logico-giuridico di
causa/effetto, influito sulla decisione oggetto di impugnativa" (così Cons. Stato, Sez. IV, 29 aprile 2002, n.
2281,
cit.).
(26)
M.
Di
Giorgio,
Innovazioni
...,
cit.,
pag.
611.
(27)
A.
Andreani,
Idee
per
un
saggio
...,
cit.,
pagg.
4-5.
(28) A. Andreani, Idee per un saggio ..., cit., pagg. 10-11. Sembra aderire a questa impostazione R.
Scarciglia,
La
motivazione
¼
,
cit.,
pagg.
304-305.
(29) Così A. Andreani, Idee per un saggio ..., cit., pag. 9. Secondo G. Mezzapesa, Il divieto di
integrazione ¼ , cit., pag. 388, l’art. 3 della legge n. 241/90 introduce una disciplina "rigidamente
formalistica sulla necessità e sufficienza della motivazione che determina una chiara involuzione rispetto
all’orientamento sostanzialista verso cui invece sembra orientarsi la dottrina più recente e da cui il
principio di una impossibilità di una integrazione successiva della motivazione sembra discendere come
logico corollario". Contra, ved. A. Romano Tassone, Legge sul procedimento e motivazione ..., cit.,
passim, in particolare pag. 1606, che espressamente afferma che "la legge sul procedimento
amministrativo nel suo complesso ¼ tende a ridurre nettamente la rilevanza della motivazione del
provvedimento ai fini di tale sindacato". Secondo G. Corso, Motivazione dell’atto amministrativo (voce), in
"Enc. dir.", IV aggiornamento, 2001, pag. 775, col. sin. "La prospettiva di una "dequotazione" della
motivazione, ossia di una perdita di rilevanza dell’esternazione in dipendenza di una crescente attenzione
della giurisprudenza alle ragioni sostanziali quali risultano anche dagli atti preparatori, è stata smentita".
(30)
A.
Andreani,
Idee
per
un
saggio
...,
cit.,
pag.
10.
(31)
M.
Di
Giorgio,
Innovazioni
...,
cit.,
pag.
613.
(32) Infatti, lo stesso A. Romano Tassone, pur essendo il maggiore teorico della motivazione in funzione
del sindacato di opinione pubblica, è contrario all’ammissibilità della motivazione successiva (Motivazione
dei
provvedimenti
...,
cit.,
pag.
397).
(33)
M.
Di
Giorgio,
Innovazioni
...,
cit.,
pag.
618.
(34)
A.
Zito,
L’integrazione
in
giudizio
...,
cit.,
pag.
579.
(35) Così A. Romano Tassone, Legge sul procedimento e motivazione ¼ , cit., pag. 1597.
(36) In tal senso sembra Cons. Stato, Sez. IV, 30 marzo 1998, n. 504, in "Rass. Cons. Stato", 1998, n. 3,
pag. 377 e ss., secondo cui "deve infatti ritenersi necessaria e sufficiente alla luce dei parametri ispiratori
della legge n. 241/90, la indicazione, nel provvedimento di controllo, della c.d. giustificazione, ovvero
della esternazione dei presupposti di fatto e la individuazione delle norme giuridiche".
(37)
C.M.
Iaccarino,
Studi
sulla
motivazione
...,
cit.,
pag.
90.
(38) Cfr. F. Paparella, Studi sulla presupposizione nel diritto pubblico, Edizioni Levante, Bari, 1974, pagg.
140 e ss., secondo cui "il condizionamento dell’ordinamento positivo alla produzione di un effetto giuridico
è posto tuttavia in essere, quando si verifica, da un fatto della vita reale, che prospetta la propria tipica
struttura in forme esterne peculiari ed imprevedibili", il cui trapasso dalla astratta tipicità alla originale e
vivente concretezza "richiede per ciò l’esternazione, in una dichiarazione del soggetto, della
rappresentazione del modo di essere storico del fatto"; "il fatto storico rappresentato è l’oggetto del
negozio
ed
entra
a
sua
volta
a
far
parte
della
fattispecie
negoziale".
(39) Sostanzialmente in questo senso E. Presutti, I limiti del sindacato di legittimità, Società editrice
libraria, Milano, 1911, pag. 124, secondo cui la motivazione "non in altro è necessario consista che nella
esposizione delle circostanze di fatto, in vista delle quali l’Amministrazione emana l’atto. La dimostrazione
del concatenamento logico fra questi fatti e l’oggetto del provvedimento in base alla norma giuridica, è
perfettamente inutile. È cioè perfettamente inutile che nel provvedimento sia esposta l’argomentazione in
base a cui si dimostri l’esattezza dell’accolta interpretazione della norma giuridica, e della fatta
applicazione della norma alle circostanze di fatto. Ciò perché chi sindaca l’atto può, obbiettivamente
considerando tali questioni e prescindendo onninamente dalla dimostrazione eventualmente contenuta
nell’atto sottoposto al suo sindacato, vedere se effettivamente gli assunti presupposti di fatto giustificano
la emanazione del provvedimento. Qualunque errore si contenga nella dimostrazione di questo nesso
non potrà impedire di constatare che questo nesso vi è, se effettivamente sussiste".
Per una ipotesi di motivazione, invece, intesa come dimostrazione di concatenamento logico tra
decisione assunta e atti e fatti emergenti dal procedimento cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 16 marzo 1999, n.
287, in "Rass. Cons. Stato", 1999, n. 3, I, pag. 370, secondo cui "La verifica della logicità "estrinseca"
dell’esercizio del potere amministrativo si incentra sulla motivazione del provvedimento, per cui ai fini
della sua sufficienza non basta la mera verosimiglianza del ragionamento espresso, ma occorre che sia
evidenziato un nesso di conseguenzialità e proporzione delle varie conclusioni con gli atti effettivamente
acquisiti al procedimento e con le premesse fattuali emergenti da ciascuno di essi".
Innovazioni
¼
,
cit.,
pag.
609.
(40)
In
questo
senso
M.
Di
Giorgio,
(41) L’indirizzo interpretativo volto a promuovere il "polo dell’effettività della giustizia amministrativa" fa
leva su alcune disposizioni chiave della Costituzione (artt. 24, 113, 97 Cost.): cfr. M.S. Giannini, Problemi
attuali della giustizia amministrativa, in "Riv. Trim. dir. proc. amm.", 1984, n.2, pag. 167; V. Bachelet, La
giustizia amministrativa nella costituzione italiana, Giuffrè, Milano, 1966; E. Capaccioli, Per l’effettività
della giustizia amministrativa (Saggio sul giudicato amministrativo), in Capaccioli, Diritto e processo, in
Scritti vari di diritto pubblico, Cedam, Padova, 1978; G. Abbamonte, Sentenze di accertamento e oggetto
del giudizio amministrativo di legittimità e di ottemperanza, in Studi in onore di M.S. Giannini, Giuffrè,
Milano,
1988,
vol.
I,
pagg.
3
e
ss.
(42)
A.
Andreani,
Idee
per
un
saggio
¼
,
cit.,
pag.
4.
(43) È opportuno precisare che l’obbligo della P.A. di esercitare i suoi poteri discrezionali in vista
dell’interesse pubblico non deriva dalla previsione della categoria dell’eccesso di potere. È vero il
contrario. È dall’obbligo generico della P.A. di perseguire l’interesse pubblico che il Consiglio di Stato
francese ricavò il principio che stornare il potere dal proprio scopo concretasse un detournement de
pouvoir, quale specie di eccesso di potere (cfr. A. Azzena, Natura e limiti dell’eccesso di potere
amministrativo, Giuffrè, Milano, 1976, pag. 32, nota 32). Oggi l’art. 1 legge n. 241/90 così dispone:
"L’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ¼ ". Secondo G. Sala, L’eccesso di potere
¼ , cit., pag. 181, "la codificazione del principio di nominatività, nell’art. 1, legge n. 241/90, pare offrire un
ulteriore, anche se per la verità non necessario – non essendosi mai dubitato che l’attività amministrativa
dovesse perseguire i fini determinati dalla legge –, avallo normativo all’idea che anche la più antica delle
manifestazioni dell’eccesso di potere, lo sviamento, fosse in realtà riconducibile alla violazione di legge,
rinvenendosi sostanzialmente in esso una distonia tra fattispecie reale e fattispecie legale, la carenza del
presupposto
giustificativo
del
potere".
(44) Si accoglie la definizione di A. Falzea, Manifestazione – teoria generale – (voce), in "Enc. Dir.", vol.
XXV, Varese, 1975, pag. 442, secondo cui "il fatto manifestante è tale perché contiene in sé il riferimento
ad un fatto diverso" e si offre nella sua materiale presenza alla osservazione sensibile.
(45) Cfr. A. Falzea, Manifestazione ¼ , cit., pag. 442, per il quale "il fatto manifestato entra in gioco
esclusivamente in virtù del riferimento contenuto nel fatto manifestante". Il primo "è indicato per allusione
o richiamo mentre non è materialmente presente e non è osservabile coi sensi". La sua dimensione "è
quella
della
immaterialità".
(46) Così T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. I, 20 dicembre 1997, n. 2298, ne "Il Foro amm.", 1998, n. 1,
pag.
117.
(47) Cons. Stato, Sez. IV, 22 dicembre 1998, n. 1866, in "Rass. Cons. Stato", 1998, n. 12, I, pag. 1925;
Idem, Cons. Stato, Sez. IV, 26 gennaio 1998, n. 66, ne "Il Foro amm.", 1998, n. 1, pag. 32.
(48) Secondo l’analisi puntuale di E. Presutti, I limiti del sindacato ¼ , cit., pag. 134, nota 2, "se le
circostanze di fatto, assunte nel caso concreto a causa del provvedimento, non potevano legittimarlo, il
provvedimento è viziato da eccesso di potere, non da mera violazione di legge, consistente
nell’inadempimento dell’obbligo fatto dal diritto obbiettivo di motivare e di motivare in modo logicamente e
giuridicamente
sufficiente".
(49) Ovviamente, detta giurisprudenza si presenta come paradossale per chi non si pone nell’ottica
evolutiva del sistema di giustizia amministrativa proteso a valorizzare gli aspetti sostanzialistici e di
effettività della tutela giurisdizionale e si attarda nell’accogliere concezioni interpretative del dettato
normativo
scollegate
dalle
linee
di
tendenza
sostanziali
del
sistema.
(50) Ved. N. Pappalardo, L’eccesso di potere "amministrativo" secondo la giurisprudenza del Consiglio di
Stato, in Studi per il centenario del Consiglio di Stato, Roma, 1932, pag. 434; si confronti anche G.
Treves, Vizio della motivazione ed eccesso di potere, in "Temi Emiliana", 1935, pag. 8.
(51) Così N. Pappalardo, L’eccesso di potere ..., cit., pagg. 482-483, al quale si rinvia per l’esame della
giurisprudenza più risalente sul tema. Vedi anche G. De Cesare, Problematica dell’eccesso di potere
amministrativo, Padova, 1973, pagg. 73 e ss. Per alcune decisioni che indicano quale sintomo di eccesso
di potere l’assenza o l’insufficiente motivazione vedi Cons. Stato, Sez.IV, 25 ottobre 1907, n.441, in
"Giust. amm.", 1907, 1, pag. 411; Idem, 17 luglio 1925, n. 686, ne "Il Foro amm.", 1925, I, 1, pag. 328.
(52)
N.
Pappalardo,
L’eccesso
di
potere
...,
cit.,
pagg.
481
e
482.
(53) N. Pappalardo, L’eccesso di potere ..., cit., pag. 486, il quale, a sua volta, riprende la formula da una
decisione del Consiglio di Stato del 1902: Cons. Stato, 12 settembre 1902, n. 436, in "Giust. amm.", 1902,
I, pag. 423. La dottrina recente, ricostruendo in chiave storicistica l’evoluzione del rapporto tra
motivazione e sindacato giurisdizionale, ha individuato tre periodizzazioni giurisprudenziali a cui sono
riconducibili tendenze diverse tra loro: a) fase anteriore alla riforma Crispi; b) fase concernente il periodo
che va dall’ultimo ventennio del secolo scorso al primo decennio di questo secolo; c) fase concernente il
secondo e terzo decennio del secolo (A. Romano Tassone, Motivazione dei provvedimenti ¼ , cit., pagg.
131 e ss.). È stato dimostrato che l’attività consultiva del Consiglio di Stato prima della riforma Crispi non
aveva mai avvertito un interesse particolare per i profili motivatori del provvedimento oggetto di sindacato
(A. Romano Tassone, Motivazione dei provvedimenti ¼ , cit., pagg. 131 e ss.). Anche nei primi anni della
sua attività giurisprudenziale la Sez. IV del Consiglio di Stato più che censurare il difetto di motivazione
formale si limitava a verificare se l’atto fosse sostenuto da "motivi" giustificativi, affidandosi spesso agli
elementi integrativi di giudizio desumibili dagli atti comunque acquisiti al fascicolo.
Pertanto, sembra potersi fondatamente ritenere che "nulla quindi legava motivazione ed eccesso di
potere nel primo ventennio di attività della Sez. IV" (A. Romano Tassone, Motivazione dei provvedimenti
¼ , cit., pagg. 159-160). Anche nel primo decennio del secolo, tranne casi isolati, la giurisprudenza
appariva restia ad affermare un obbligo generale di motivazione (A. Romano Tassone, op. ult. cit., pag.
160). Ved. il parere del Consiglio di Stato, Ad. gen., 3 febbraio 1908, (pubblicato in "Giur.", 1908, col. 253
e ss., con nota di F. Cammeo), nella cui motivazione si afferma che "la giurisprudenza di questo Collegio,
sia consultiva, sia contenziosa, è costante nel ritenere necessaria alla legittimità delle decisioni
amministrative l’indicazione dei loro motivi, mercè i quali soltanto si può dimostrare che il provvedimento
ha suo fondamento nella legge e non proviene da arbitrio ¼ " (ved. col. 260). Tuttavia l’autorevole
annotatore del parere critica recisamente siffatta affermazione di principio sul rilievo che "la
giurisprudenza prevalente ritiene che debbano essere motivate le decisioni su ricorso ¼ Ma neppure
questo principio è incontroverso in giurisprudenza ¼ Circa gli altri provvedimenti non presi su ricorso, ma
in sede di Amministrazione, si possono citare decisioni nel senso che occorra di regola la motivazione,
ma sono per lo più, anche se formulate in generale, decisioni di specie ¼ Vi sono invece decisioni che
dicono l’opposto: per esempio: Consiglio di Stato, Sez. IV, 30 giugno 1905, n.11, (in "Giur. It.", 1905, III,
376,
approvazioni
tutorie
della
G.P.A.
¼
col.
256)".
A ciò fa da contrapposto, invece, l’ascesa di un forte fermento dottrinale che cominciava a porsi il
problema. Soltanto nel secondo e terzo decennio del secolo il Consiglio di Stato manifestava la tendenza
diffusa a collegare l’eccesso di potere sotto forma di sviamento al difetto di motivazione in quanto sintomo
dei vizi occulti dell’atto; ed è in questo periodo che si affermava il principio secondo cui l’obbligo della
motivazione discendesse, oltre che dalla legge, dalla c.d. "natura dell’atto" (A. Romano Tassone, op. ult.
cit., pag. 172; vedi G. De Cesare, op. cit., pag. 68 e ss.; cfr. anche A. Azzena, Natura e limiti dell’eccesso
di potere amministrativo, cit., pag. 107, in nota, secondo cui "in tema di motivazione non prescritta non
sembra esservi dubbio che in giurisprudenza essa venisse intesa come indice di un comportamento
arbitrario della pubblica Amministrazione"). Formula quest’ultima alquanto empirica, ma idonea in realtà a
ricomprendere la gran parte dei provvedimenti discrezionali (cfr. M.S. Giannini, Motivazione ¼ , cit., pag.
263). Per una rassegna giurisprudenziale ragionata, risalente agli anni ’50, ma tuttora valida, ved. R.
Juso, Tratti caratteristici della giurisprudenza sulla "motivazione" degli atti amministrativi, in "Riv. trim. dir.
pubbl.",
1959,
pagg.
667-671.
(54) C.M. Iaccarino, Studi sulla motivazione ¼ , cit, pagg. 21-23. Sul punto G. Treves, Vizio della
motivazione ¼ , cit., col. 12, avvertiva che occorre "tener distinta l’esposizione dei motivi difettosi dai
motivi stessi, come l’effetto dalla causa o il mezzo di prova dell’esistenza di un fatto dal fatto stesso".
(55) Cfr. C.M. Iaccarino, Studi sulla motivazione ..., cit., pag. 23, nota 10.
(56) Siffatta affermazione si è radicata sul convincimento che "poiché i motivi illegittimi espressi
corrispondono normalmente a quelli effettivi la motivazione può rappresentare un indizio di eccesso di
potere" (così G. Treves, op. cit., col. 11); per l’affermazione che la motivazione normalmente corrisponde
ai veri motivi cfr. L. Raggi, Motivi e motivazione dell’atto amministrativo, in "Giur. it.", 1941, col. 163.
(57) Cfr. C.M. Iaccarino, Studi sulla motivazione ..., cit., pag. 24, nota 12, lì dove l’autore si preoccupa di
avvertire che "il determinare il valore della motivazione e dei motivi nei confronti dell’atto amministrativo ¼
è un aspetto del problema della prevalenza della volontà dichiarata o della volontà formata".
(58) Cfr. C.M. Iaccarino, Studi sulla motivazione ..., cit., pag. 26, nota 12. In proposito cfr. M.S. Giannini,
L’interpretazione dell’atto amministrativo e la teoria giuridica generale dell’interpretazione, Giuffrè, Milano,
1939, pag. 321, in nota 19, secondo cui "non è la motivazione di per sé che circoscrive la volontà
dell’agente, ma il fatto che, disponendo la legge la rilevanza del motivo, giuridicamente tale volontà risulta
più definita di quella dell’agente i cui motivi sono irrilevanti di fronte al diritto".
(59)
C.M.
Iaccarino,
Studi
sulla
motivazione
...,
cit.,
pag.
26,
nota
12.
(60)
C.M.
Iaccarino,
Studi
sulla
motivazione
...,
cit.,
pag.
25,
nota
12.
(61)
Cfr.
M.S.
Giannini,
L’interpretazione
...,
cit.,
pag.
288.
(62) Cfr. E. Betti, Interpretazione della legge e degli atti giuridici. Teoria generale e dogmatica, Milano,
1949,
pag.
287.
(63) In tal senso ved. L. Ragnisco, Il rifiuto di approvazione dei contratti della pubblica Amministrazione e
la motivazione degli atti amministrativi, ne "Il Foro it.", 1909, III, col. 11-12. Contra, ved. E. Presutti, I limiti
del sindacato di legittimità, Società editrice libraria, Milano, 1911, pag. 129, nota 2.
Esaminando gli orientamenti della dottrina, è interessante notare come già nel 1902 il Pacinotti
segnalasse che "¼ le forme amministrative ¼ tendono anche a garantire l’esplicazione dell’attività dei
controlli amministrativi ¼ : basta ora richiamare, a cagion d’esempio, l’obbligo imposto alle
amministrazioni pubbliche di motivare i provvedimenti, perché, tenuta presente l’esperibilità ¼ di ricorsi
per eccesso di potere la accennata finalità appaia in piena evidenza" (G. Pacinotti, Saggio di studi sui
negozi giuridici di diritto pubblico, estratto da Arch. Giur (Serafini), XII, n. 2, Modena, 1902, pag. 48). Lo
stesso autore riteneva che i motivi posti a base dell’atto da parte dell’autorità procedente fossero
sindacabili, rifacendosi alla fase preparatoria del provvedimento rinvenibile nel fascicolo
dell’Amministrazione (G. Pacinotti, op. cit., pag. 48. In precedenza ved. A. Codacci Pisanelli, L’eccesso di
potere nel contenzioso amministrativo, in "Giust. amm.", 1892, IV, pag. 29, da cui è possibile ricavare la
medesima idea stante il ruolo privilegiato che l’autore assegnava ai poteri istruttori del Consiglio di Stato).
Non molto difformi appaiono le conclusioni del Cammeo il quale nel 1908 riconosceva che la motivazione
espressa fosse il mezzo più efficace per rilevare l’eccesso di potere derivante da irregolarità negli intimi
motivi di un atto (F. Cammeo, nota a parere Consiglio di Stato, Ad. gen., 3 febbraio 1908, cit., pag. 255).
Tuttavia l’illustre autore negava recisamente l’esistenza di un obbligo generale di motivazione, insistendo
sulla assenza di una norma espressa in tal senso (a ciò non ritenendo idoneo l’art. 3 legge abolitiva del
contenzioso amministrativo in quanto norma specifica e particolare) e facendo leva sul carattere
processuale della norma che individuava l’eccesso di potere come vizio, per argomentarne l’inderivabilità
di una norma sulla forma degli atti amministrativi (F. Cammeo, nota a parere Consiglio di Stato, Ad. gen.,
3 febbraio 1908, cit., pagg. 254-255). L’impostazione del Cammeo venne criticata dal Ragnisco che,
collegando alla non manifestabilità dei motivi una presunzione di arbitrarietà dell’agire della pubblica
Amministrazione, ammoniva a non confondere il potere discrezionale con l’agire libero stante il vincolo
teleologico a ben amministrare incombente sull’Amministrazione (L. Ragnisco, Il rifiuto di approvazione ¼
, cit, col. 11-12). Detto convincimento era sostenuto dal rilievo che se la storia dell’eccesso di potere
fondava su appezzamenti illogici o irrazionali, ne doveva conseguire un obbligo di motivazione di tutti i
provvedimenti amministrativi, in quanto il cittadino di fronte ad un atto amministrativo non corredato da
motivazione, non avrebbe avuto alcuno strumento per dimostrare la consistenza dell’eccesso di potere.
Contra, cfr. E. Presutti, I Limiti del sindacato di legittimità, cit., pag. 129, nota 2, lì dove affermava che
l’obbligo di motivazione non potesse desumersi dalla sindacabilità dell’atto sotto il profilo dell’eccesso di
potere. Secondo l’autore questa tesi era un sofisma perché l’assenza di motivazione non impediva il
sindacato per eccesso di potere, atteso che il giudice aveva i mezzi per poter conoscere quali fossero i
motivi
dell’atto.
(64) Ved. M.S. Giannini, Motivazione ¼ , cit., pag. 265, dove si evidenzia come al fondo di molti problemi
giurisprudenziali stesse il convincimento che la motivazione del provvedimento costituisse limite alla
conoscenza dell’atto da parte del giudice. Ved., anche, F. Benvenuti, L’istruzione nel processo
amministrativo, Cedam, Padova, 1953, pag. 117, il quale nel suo lavoro tiene a precisare che "mentre da
un lato quella rappresentazione di fatti e motivi cui la motivazione dà luogo non è necessariamente la
rappresentazione di tutti i fatti e i motivi connessi con l’atto, ma solo di quelli necessari e sufficienti per la
sua interpretazione ¼ , pur implicando la disposizione da parte dell’Amministrazione di fatti di cui si può e
si deve tener conto nel processo, tuttavia non costituisce necessariamente un vincolo alla disponibilità
processuale dei fatti secondari, talchè ci si trovi nel processo a dover dipendere da una scelta già operata
con
efficacia
processuale".
(65) M.S. Giannini, Motivazione¼ , cit., pag. 265; cfr. P.G. Lignani, La disciplina del procedimento e le
sue contraddizioni, in "Riv. trim. dir. proc. amm.", 1992, n. 3, pag. 582, il quale ritiene che l’estensione
dell’obbligo
di
motivazione
estenda
l’area
dell’impugnabilità
del
provvedimento.
(66) Per l’opinione che l’Amministrazione pubblica fosse caratterizzata dalla separatezza dal mondo
esterno e dei cittadini cfr. G. Berti, Il rapporto amministrativo, 1977, pagg. 44 e ss.; M. Nigro, È ancora
attuale una giustizia amministrativa, ne "Il Foro it.", 1983, V, col. 250 e ss. In generale cfr. l’ampia analisi
di M. Bombardelli, Decisione e pubblica Amministrazione (la determinazione procedimentale
dell’interesse pubblico), Giappichelli, Torino, 1996, passim, segnatamente pagg. 48 e segg.
(67)
Ved.
M.
Bombardelli,
Decisione
¼
,
cit.,
pag.
43,
nota
106.
(68) C. Mortati, Obbligo di motivazione e sufficienza della motivazione degli atti amministrativi, in "Giur.
it.",
1942,
III,
col.
19.
(69)
C.M.
Iaccarino,
Studi
sulla
motivazione
...,
cit.,
pag.
74.
(70) C.M. Iaccarino, Studi sulla motivazione ..., cit., pag. 83, secondo cui "contribuiscono ad assicurare la
esattezza della motivazione successiva e danno mezzo di esercitare un sindacato su di essa, da un lato i
fatti che si assumono posti a base del provvedimento, la indicazione dei fatti ¼ può valere come
motivazione implicita, e dall’altro gli atti preordinati alla manifestazione di volontà, da cui si possono
dedurre i motivi che verosimilmente hanno determinato quella manifestazione di volontà. E se pure questi
elementi non siano tali da poter mettere in essere una vera e propria motivazione implicita successiva
aliunde, tuttavia potranno sempre valere come indizi per ricostruire quel che sarebbe stata la motivazione
di un atto se fosse stata emanata dalla stessa persona organo che ha emanato la parte dispositiva, o
come mezzi per poter saggiare la esattezza dei motivi che siano stati successivamente messi a base
dell’atto".
(71) La figura della motivazione implicita porta con sé un nodo, costituito dall’obiezione della dubbia
corrispondenza tra motivi reali e quelli dedotti, in quanto, appunto, dedotti "ad opera di chi interpreta o
applica l’atto, cioè ad opera di persona diversa da quella che ha posto in essere la volontà" (C.M.
Iaccarino, Studi sulla motivazione ..., cit., pag. 87). Obiezione superata nella teorica in esame dal rilievo
che "gli elementi per formare tale motivazione sono infatti forniti dallo stesso soggetto volente, quindi non
v’è sostituzione di attività nel creare i motivi, ma solo nel dire quali sono" (C.M. Iaccarino, op. ult. cit., pag.
87). Trattasi in fondo di un giudizio logico per vedere quale possa essere la motivazione dell’atto dati quei
fatti; viceversa nel caso della motivazione espressa "è, possibile solo un giudizio conoscitivo, in cui la
parte
logica
è
limitata
solo
alla
interpretazione
della
esposizione dei motivi, ma non è estesa fino alla ricerca di quelli che potrebbero essere i motivi" (C.M.
Iaccarino,
op.
ult.
cit.,
pag.
70,
nota
42).
Ad avviso di chi scrive, però, l’interrogativo legittimo, e forse più avvincente, a cui l’illustre autore non ha
riservato un’attenzione pari alla sua profondità di analisi, ma che si impone per l’importanza della
risposta, è lo stabilire quali siano i riflessi giuridici in termini di legittimità dell’atto amministrativo
determinati dall’eventuale contrasto tra le risultanze del giudizio conoscitivo compiuto sui motivi
espressamente esposti in motivazione e la motivazione implicita quale risultanza del giudizio logico
sviluppato dall’interprete (e/o da colui che sindaca l’atto) sulle circostanze di fatto dedotte nella
giustificazione
e/o
ricavate
dalla
c.d.
documentazione.
Non potrà negarsi, infatti, che ogni provvedimento amministrativo espressamente motivato, in quanto
contenente anche una "giustificazione" ovvero supportato dalla documentazione (si dà per implicito il
riferimento anche alla giustificazione c.d. aliunde, ossia quella ricavabile dagli atti del procedimento
preordinato all’emanazione del provvedimento finale), sollevi il problema posto e ne esiga una soluzione.
È un dato che il rapporto tra motivazione implicita e motivazione espressa rivesta estrema importanza
nell’ambito del sindacato di legittimità sotto forma di eccesso di potere, soprattutto quale criterio di
spiegazione della sua evoluzione giurisprudenziale. A ben riflettere, però, se, come è stato detto, anche
la stessa motivazione contestuale, al pari di quella successiva, può enunciare motivi diversi da quelli
effettivamente posti a base dell’atto, varranno gli stessi rimedi che l’autore aveva indicato per sollevare la
motivazione successiva dal sospetto di possibile falsità: vale a dire ammettere la sindacabilità della sua
esattezza mediante la motivazione implicita contestuale e/o aliunde (si confronti il pensiero di R. Iannotta
in nota a Cons. Stato, Sez. V, 15 gennaio 1987, n. 13, ne "Il Foro amm.", 1987, n. 1-2, pag. 103, secondo
il quale "l’esclusione della motivazione come modo di essere dell’estetica dell’atto dovrebbe indurre a
superare il criterio della necessaria contestualità della motivazione, in quanto questa può essere
individuata in apprezzamenti, valutazioni, indagini compresi nei procedimenti. Del resto la contestualità
della motivazione non esclude la necessità della verifica dei dati (tecnici, storici, ambientali) che possono
spiegare
la
scelta
(discrezionale)
operata
dall’Amministrazione").
(72) Al di là della terminologia usata dallo Iaccarino, per motivazione implicita crediamo volesse intendere
"motivo": se la motivazione implicita è una non motivazione, ossia non enunciazione, quale referente del
termine
"implicita"
non
rimane
che
il
motivo.
(73) Iaccarino osserva che "spesso la circostanza di fatto o di diritto vien fatta valere come motivo" (Studi
sulla motivazione ..., cit., pag. 259), rilevando come "intanto ¼ può sopperire alla mancanza
dell’enunciazione del motivo in quanto inequivocabilmente quella circostanza dia luogo a quel motivo o a
un motivo di quella circostanza dia luogo a quel motivo o a un motivo di quel genere, per cui
presuntivamente lo si deve ritenere esistente e in quel modo, anche non formulato espressamente" (Studi
sulla
motivazione
...,
cit.,
pag.
260).
(74) Infatti, C.M. Iaccarino, Studi sulla motivazione ..., cit., pagg. 261-262, nelle conclusioni del suo lavoro
espressamente affermava l’esistenza di un principio generale che rendeva obbligatoria la motivazione
successiva degli atti amministrativi ponendo, dunque, l’obbligo "di non motivare contestualmente e
contemporaneamente; ma di fornire la motivazione (o tali elementi che la facciano dedurre) quando ciò
sia reso necessario. C’è quindi un obbligo generale di motivazione gli atti amministrativi: ma, diremo così
con una formula empirica, solo in caso di uso. Abbiamo visto come ciò non sia anormale poiché né è
completamente nuovo per il nostro diritto, né in pratica arreca conseguenze dannose che possano essere
arrecate anche da una motivazione contestuale, specialmente se la motivazione successiva è implicita, in
quanto contenuta in una giustificazione o documentazione successiva. In genere, tranne disposizione
espressa di legge, e tranne che lo richieda la natura dell’atto, la motivazione può essere implicita, cioè
può anche desumersi dalla giustificazione, pure quando questa sia aliunde (documentazione)". Secondo
M.S. Giannini, L’interpretazione dell’atto amministrativo ¼ , cit., pag. 281, non è affatto vero che
l’intenzione sia sempre rilevante attraverso la motivazione, posto che quest’ultima "è un momento da
porre dal lato della manifestazione, non dell’intenzione, e inoltre è un’estrinsecazione dei motivi, non
un’asseverazione
solenne
della
verità
dei
motivi
stessi".
(75)
C.M.
Iaccarino,
Studi
sulla
motivazione
...,
cit.,
pagg.
263-264.
(76) Così G. De Fina, La motivazione dei provvedimenti amministrativi, in "Riv. It. Sc. Giurid.", 1971, pag.
31.
(77) A. De Valles, La validità degli atti amministrativi, ristampa anastatica dell’ed. 1916,Cedam,Padova,
1986,
pagg.
142-143.
(78)
M.S.
Giannini,
Diritto
amministrativo,
Giuffrè,
Milano,
1988,
pag.
751.
(79) Rilevava M.S. Giannini, nella non più recente voce Atto amministrativo, in "Enc. Dir.", vol. IV, 1959,
Milano, pag. 157, che "L’atto amministrativo si trova menzionato in testi normativi di diritti positivi vigenti:
in Italia, gli artt. 4 e 5 legge 20 marzo, 1865, n. 2248 all. E), sul contenzioso amministrativo, T.U. 20
giugno 1924, n. 1054, sul Consiglio di Stato, e altri secondari. Non risulta invece che ne esistano
definizioni positive (n.d.r.: la sottolineatura è nostra): la relativa teoria è quindi opera di dottrina e di
giurisprudenza, in particolare della dottrina tedesca e italiana e della giurisprudenza francese".
(80) Per quanto concerne le "ragioni giuridiche" seguiamo la definizione di E. Presutti, I limiti del
sindacato ¼ , cit., pag. 135, nota 2, il quale parla di "accolta interpretazione della norma giuridica e della
sua retta applicazione alle circostanze di fatto". Tuttavia, secondo l’autore, "tali argomentazioni possono
essere errate: ma se l’interpretazione della norma, obbiettivamente considerata è retta, se è esatta
l’applicazione della norma alle circostanze di fatto, la sentenza come l’atto restano fermi, malgrado il vizio
dell’argomentazione". In generale la dottrina, recependo principi giurisprudenziali consolidati, è concorde
nel ritenere che "l’atto amministrativo deve essere qualificato in relazione al concreto potere esercitato,
quale risulta dall’intero contesto del suo contenuto sostanziale e dal complessivo comportamento
dell’Amministrazione" (così P. Virga, Il provvedimento amministrativo, Milano, 1972, pag. 321); corollario
indiscusso di detto principio è che la mancanza del richiamo agli articoli di legge "non comporta invalidità,
quando la identificazione della natura del provvedimento è ugualmente possibile sulla base di elementi
intrinseci ed estrinseci"; del pari, se il richiamo alle norme di legge è erroneo, l’errore materiale in cui è
incorsa l’autorità nel citare l’articolo di legge è irrilevante "se non vi è alcun dubbio circa la natura del
potere
esercitato"
(P.
Virga,
op.
loc.
ult.
cit.).
(81) La legge n. 241/90 soltanto nell’art. 11, comma 4, parla di sopravvenuti "motivi" di pubblica utilità a
proposito
di
accordi
procedimentali.
(82)
C.M.
Iaccarino,
Studi
sulla
motivazione
¼
,
cit.,
pag.
87.
(83)
C.M.
Iaccarino,
Studi
sulla
motivazione
¼
,
cit.,
pag.
86.
(84)
M.S.
Giannini,
Motivazione
¼
,
cit.,
pagg.
261
e
ss.
(85)
M.S.
Giannini,
op.
ult.
cit.,
cit.,
pag.
262.
(86)
M.S.
Giannini,
op.
ult.
cit.,
cit.,
pag.
264.
(87)
M.S.
Giannini,
op.
ult.
cit.,
pag.
265.
(88)
M.S.
Giannini,
op.
ult.
cit.,
pag.
266.
(89)
M.S.
Giannini,
op.
ult.
cit.,
pag.
266.
(90)
M.S.
Giannini,
op.
ult.
cit.,
pag.
266.
(91) M.S. Giannini, op. ult. cit., pag. 266. Cfr. anche M. Nigro, Problemi veri e falsi della giustizia
amministrativa dopo la legge sui tribunali regionali, in "Riv. trim. dir. pubbl.", 1972, n. 4, pag. 1839, il quale
pone in risalto la tensione della giurisprudenza a spingere il sindacato di legittimità sotto forma di eccesso
di potere ad essere revisione dell’intero arco dell’esercizio del potere anziché un controllo sull’atto. Per
meglio comprendere questa frase del Giannini ci sembra possa tornare utile e chiarificatore un
parallelismo con l’opinione del Levi secondo cui "... l’ordinamento esige non che la scelta dell’organo
amministrativo sia in concreto dettata dalla considerazione dell’interesse pubblico, bensì che il
provvedimento emanato risulti conforme alla decisione o alle decisioni che obiettivamente appaiono
indirizzate a soddisfare tale interesse; se si ammette questo, si vede senz’altro come, anche per il diritto,
sia una mera eventualità che l’interesse pubblico abbia realmente ispirato la scelta del funzionario: in altri
termini, che ne sia stato il reale motivo o fine. In verità, si richiede soltanto che il provvedimento sia tale
che l’interesse pubblico specifico possa averlo determinato, anche se in astratto questo poteva
giustificarne uno o più altri entro il margine libero della legge" (F. Levi, L’attività conoscitiva della pubblica
Amministrazione,
Giappichelli,
Torino,
1967,
pag.
299).
(92)
M.S.
Giannini,
op.
ult.
cit.,
pag.
266.
(93)
M.S.
Giannini,
op.
ult.
cit.,
pag.
266.
(94) M.S. Giannini, op. ult. cit., pag. 266. L’indirizzo dottrinale accennato nel testo, come è noto, è quello
tracciato da F. Benvenuti, L’eccesso di potere amministrativo per vizio della funzione, in "Rass. dir.
pubbl.", 1950, I, pag. 47 secondo cui l’eccesso di potere che si manifesta attraverso sintomi è una causa
estrinseca di invalidità dell’attività amministrativa, ogni qualvolta vi sia "deviazione di quella attività dalle
norme sulla funzione, giuridicamente disciplinata, in cui deve esercitarsi". L’elaborazione del Benvenuti
ha tratto origine dallo studio di quei casi in cui la giurisprudenza riconosceva l’eccesso di potere partendo
dalla considerazione di una manifestazione sintomatica (F. Benvenuti, L’eccesso .., cit., pag. 3) al
dichiarato fine di proporre una tesi idonea a "giustificare sia la individuazione operata dal giudice
amministrativo di tali situazioni, sia l’uso che egli ne fa come ragione di invalidazione degli atti
amministrativi e pertanto l’ampia interpretazione giurisprudenziale della categoria" (F. Benvenuti,
L’eccesso
...,
cit.,
pag.
47).
Da questo angolo visuale è chiaro che il riferito condizionamento esercitato dall’evoluzione
giurisprudenziale in tema di eccesso di potere sulla teorica formulata dal Benvenuti debba intendersi
come obiettiva sollecitazione della giurisprudenza a offrire una compiuta sistemazione dommatica alle
c.d. situazioni sintomatiche di eccesso di potere, finalizzata a superare il convincimento che il valore delle
medesime situazioni fosse fondato "su di una norma che sarebbe stata introdotta dal giudice stesso
praeter legem" (F. Benvenuti, L’eccesso¼ , cit., pag. 43). È un dato di costante rilevazione l’approccio
metodologico della dottrina che ha approfondito la nozione di "eccesso di potere amministrativo", fondato
sul convincimento che ad essa non possa riconoscersi il valore attribuitole dalla giurisprudenza, "poiché
non è ammissibile che questa possa attribuire qualificazioni giuridiche non risultanti dalla legge" (così A.
Azzena, Natura e limiti..., cit., pag. 8), potendosi ricavare il significato dell’espressione "eccesso di potere"
"da alcune delle norme che con essa indicano un motivo di annullamento" (A. Azzena, Natura e limiti...,
cit.,
pag.
65).
(95) Cfr. G. De Fina, La motivazione dei provvedimenti amministrativi, cit., pag. 32.
(96) Il Giannini (Motivazione¼ , cit., pag. 260) preferisce definire la motivazione in senso stretto come
"esternazione del motivo anziché come dichiarazione del motivo" in quanto non necessariamente la
motivazione in senso proprio e la giustificazione fanno parte della dichiarazione, ne costituiscono cioè
articolazione logica individuale, ma possono incorporarsi sia in altre dichiarazioni, sia manifestazioni che
non
hanno
specie
di
dichiarazioni,
collegate
funzionalmente
all’atto.
(97) M.S. Giannini, Diritto amministrativo, vol. II, Giuffrè, Milano, 1988, pagg. 698-699.
(98) Il riferimento è all’importante opera di A. Romano Tassone, Motivazione dei provvedimenti¼ , cit.,
dove il tema della dequotazione della motivazione, sia pure nell’ambito della critica all’orientamento
sostanzialista, viene affrontato sulla scorta di una ricostruzione del pensiero del Giannini, a nostro avviso,
non completamente aderente alle sue obiettive risultanze. Dati i limiti del presente lavoro non ci
addentreremo nell’esposizione ragionata delle nostre critiche, riservandoci di farlo in un lavoro successivo
e di più ampio respiro. Ciò che più rileva, però, è che il Romano Tassone, inserendosi nel solco teorico
indicato dal Giannini, ha compiuto un’ampia ricostruzione dommatica dei limiti del sindacato di legittimità
sotto forma di eccesso di potere, quale lavoro propedeutico e preliminare alla sua proposta di
ridefinizione
della
dogmatica
della
motivazione.
(99)
A.
Azzena,
Natura
e
limiti...,
cit.,
pag.
318.
(100)
A.
Azzena,
Natura
e
limiti...,
cit.,
pag.
313.
(101) Sul punto è fondamentale la riflessione di G. De Fina per il quale le argomentazioni addotte in
dottrina a sostegno della motivazione come requisito della procedura amministrativa necessario per il
corretto esercizio della funzione "si riducono ad un circolo vizioso esasperando il carattere garantistico
della motivazione proprio mentre se ne rivela la sua mera artificialità in relazione alla sostanza della
determinazione amministrativa" (La teleologia degli atti nel rapporto autorità-libertà, Cedam, Padova,
1974,
pag.
197,
in
nota
109).
(102) G. De Fina, La motivazione dei provvedimenti amministrativi, cit., pag. 11. Si veda anche L.
Calzoni, Motivazione, sindacato sui motivi, formazione procedimentale dell’atto, ne "Il Foro amm.", 1982,
n. 6, pag. 1001, secondo cui "... non si può non osservare che l’aver esternato i motivi della decisione,
nulla dice quanto all’effettiva esistenza dei motivi stessi: come si può infatti controllare ex post che i motivi
addotti non siano fittizi, che non siano una semplice invenzione dell’Amministrazione?".
(103) Ved. l’acuta analisi di F. Levi, op. cit., pag. 500, che pone sullo stesso piano sia i fatti conosciuti che
quelli acquisiti al procedimento anche se non valutati dall’organo che provvede.
(104) F.P. Pugliese, Il procedimento amministrativo tra autorità e contrattazione, in "Riv. trim. dir. pubbl.",
1971,
n.
4,
pagg.
1486-1487,
in
nota
20.
(105)
F.
Ledda,
Il
rifiuto¼
,
cit.,
pag.
225.
(106) Il Ledda, infatti, per giustificare l’obbligo di motivazione e il corrispondente divieto della motivazione
successiva fa riferimento al principio dell’atto formale, ossia al principio che "qualunque modificazione
unilaterale del rapporto tra autorità e libertà deve "essere" fissata formalmente in un atto, che esprima nei
termini di una puntuale proposizione giuridica la soluzione di un conflitto attuale o potenziale di interessi"
(Il rifiuto ..., cit. pag. 216); ammettendo la possibilità della motivazione successiva "¼ si ridurrebbe di
molto la portata della garanzia offerta al cittadino, poiché la proposizione giuridica relativa al caso
concreto raggiungerebbe la sua completa espressione formale in un momento posteriore a quello in cui,
con la statuizione autoritativa e normalmente esecutoria, si determina la lesione dell’interesse individuale"
(Il rifiuto ..., cit., pagg. 217-218). A questa considerazione può, a nostro avviso, replicarsi che prima del
principio dell’atto formale esiste, ormai, il principio del procedimento formale, e che, pertanto, nulla
esclude che le garanzie riconnesse all’atto formale possano riconnettersi al procedimento. Riteniamo,
infatti, che offra molte più garanzie l’evidenza pubblica dei motivi obiettivabili dal procedimento che quella
artificiale
offerta
dalla
motivazione
formale.
(107) Così Cons. Stato, Sez. V, 31 maggio 1983, n. 202 (Est.: Baccarini), pag. 8 (motivazione inedita).
(108)
F.
Ledda,
Il
rifiuto
¼
,
cit.,
pag.
226,
in
nota
122.
(109) È stato osservato che, in realtà, la motivazione è stata ritenuta non necessaria ovvero sufficiente in
tutti quei casi in cui l’interesse leso del privato non era munito di una positiva qualificazione "protettiva".
Essa, a sua volta, pur non costituendo ostacolo assoluto alla concreta realizzazione dell’interesse
pubblico concreto, avrebbe potuto dar luogo ad una tutela condizionata ad una valutazione della pubblica
Amministrazione, la cui struttura è data dal parametro valutativo della prevalenza proporzionale
dell’interesse pubblico su quello privato "qualificato" che deve essere adeguatamente esternato (così F.P.
Pugliese, Il procedimento amministrativo tra autorità e contrattazione, in "Riv. trim. dir. pubbl.", 1971, n. 4,
pag. 1489 in nota). Cfr. anche A. Romano Tassone, Motivazione dei provvedimenti ¼ , cit., pag. 84, nota
142, che, riferendosi allo specifico obbligo di motivazione imposto dalla giurisprudenza alle previsioni di
piano (o di variante) contrastanti con un piano di lottizzazione già approvato, pone in evidenza come qui
l’esigenza della motivazione si ricolleghi non alla lesione dell’interesse del privato né al carattere
discrezionale del provvedimento (caratteristiche queste presenti anche nelle ipotesi ritenute non soggette
ad uno specifico obbligo di motivazione), "bensì semplicemente alla apparente contraddittorietà della
decisione
rispetto
alle
valutazioni
precedenti".
(110) Quanto affermato nel testo è in connessione con il pensiero di G. De Fina, La motivazione dei
provvedimenti amministrativi, cit., pagg. 100 e ss., in particolare pag. 113, che espressamente ritiene
l’insussistenza del difetto di motivazione come categoria giuridica di illegittimità sotto forma di eccesso di
potere (il vizio di motivazione rimane assorbito dal vizio di ponderazione), nel senso che, ove l’obbligo di
motivazione non sia contemplato da una espressa norma che sanzioni espressamente il difetto-vizio di
esternazione documentale, la censura di difetto di motivazione postulerà il cattivo uso del potere
discrezionale per una sostanziale manchevolezza di ponderazione dei correagenti interessi; pertanto il
difetto di motivazione potrà essere soltanto un indizio (indice) del difetto di ponderazione ai fini
dell’annullamento dell’atto per il vizio di eccesso di potere, indizio peraltro, liberamente valutabile dal
giudice,
in
quanto
privo, processualmente,
di una efficacia probatoria particolare.
(111)
C.M.
Iaccarino,
Studi
sulla
motivazione
...,
cit.,
pag.
87.
(112)
E.
Presutti,
Il
sindacato¼
,
cit.,
pag.
124.
(113)
F.Levi,
L’attività¼
,
cit.,
pag.
195,
nota
99.
(114)
F.Levi,
L’attività¼
,
cit.,
pag.
281.
(115)
F.Levi,
L’attività..,
cit.,
pag.
283.
(116)
F.Levi,
L’attività
¼
,
cit.,
pag.
500,
nota
80.
(117)
F.Levi,
L’attività¼
,
cit.,
pag.
500,
ed
in
particolare
nota
80.
(118) Il Giannini nel 1939, Interpretazione ¼ , cit., pag. 282, rilevava che dicendosi volontà vera restava
da definire che cosa più precisamente essa fosse nei suoi rapporti con quella manifestata. A nostro
avviso questo rilievo mostra l’infondatezza della distinzione tra volontà vera e manifestata in diritto
amministrativo, dove è più corretto parlare di "volontà esternata", comprendendo in essa quei tratti
desumibili
comunque
dal
procedimento.
(119)
A.
Falzea,
Manifestazione
(teoria
gen.),
cit.,
pagg.
466-467.
(120)
A.
Falzea,
Manifestazione
(teoria
gen.),
cit.,
pag.
470.
(121)
Ibidem.
(122) Ved. P.G. Lignani, La disciplina del procedimento e le sue contraddizioni, in "Riv. trim. dir. proc.
amm.",
1992,
n.
3,
pag.
582.
(123) Ved. F. Benvenuti, Eccesso ¼ , cit., pag. 21, che in sede di analisi del vizio di eccesso di potere si
rappresenta l’ipotesi plausibile che, in presenza di un difetto logico nella motivazione inteso come
sintomo dell’eccesso, l’Amministrazione potrebbe riprodurre il provvedimento eliminando semplicemente
il
sintomo,
modificandone
formalmente
l’espressione
dei
motivi.
(124) Secondo G. Bergonzini, Difetto di motivazione ..., cit., pagg. 211-212, nota 68, ove il giudice accerti
la falsità della motivazione (ossia la non rispondenza a verità dei motivi dichiarati), purché i reali motivi
(emersi o meno nel corso del giudizio) corrispondano allo scopo della legge ovvero non siano
inconciliabili con le finalità per le quali il potere sarebbe potuto essere esercitato, "non è preclusa la
reiterazione dello stesso provvedimento per i motivi, legittimi, prima non dichiarati".
(125) Si è acutamente osservato che le ipotesi di eccesso di potere, nelle figure sintomatiche di esso
elaborate dalla dottrina, pur riconducibili in linea generale al novero dei motivi di annullamento che
attengono al contenuto vero e proprio del provvedere, esigono che se ne valuti la variabile portata di
ciascuna in ordine a quest’ultimo (F. Satta, L’esecuzione del giudicato amministrativo di annullamento, in
"Riv. trim. dir. proc. civ.", 1967, pag. 992), posto che "la valutazione degli effetti della decisione sull’attività
amministrativa anteriore al provvedimento, e quindi rilevante ai fini della sua rinnovazione, non può
essere determinata in astratto, semplicemente fissando lo sguardo sull’espressione "eccesso di potere".
Occorre ¼ cioè scendere all’interno della motivazione della sentenza e del procedimento e da essi, dal
motivo o dai motivi per cui, in relazione a quel procedimento, si è annullato, fissare il punto da cui il vizio
della funzione, il vizio dei motivi prende corpo, e da cui quindi tutta l’attività amministrativa deve
considerarsi caduta" (F. Satta, L’esecuzione del giudicato amministrativo¼ , cit., pag. 996). La stessa
ricostruzione dommatica dell’eccesso di potere, è stato notato (F. Ledda, Potere, tecnica e sindacato
giudiziario sull’Amministrazione pubblica, in "Riv. trim. dir. proc. amm.", 1983, n. 4, pag. 438), sembra
essersi troppo irrigidita sulla eccessiva teorizzazione delle c.d. fattispecie sintomatiche, la cui rilevazione
"rappresenta un utile surrogato del necessario accertamento dei fatti" (F. Ledda, Potere, tecnica e
sindacato giudiziario ¼ , cit., pag. 438, nota 161) che, per un verso, non si sottrae ad una ineluttabile
"deriva formalistica", e, per altro ancora, sconta "... l’astuzia dell’Amministrazione, divenuta esperta nello
schivare quei vizi sintomatici, mettendo così al riparo i suoi provvedimenti, anche se viziati nella
sostanza" (così M. E. Schinaia, Il controllo del giudice amministrativo sull’esercizio della discrezionalità
della pubblica Amministrazione, in "Riv. trim. dir. proc. amm.", 1999, n. 4, pag. 1108). Le notazioni
cennate rivestono, a nostro avviso, estremo interesse perché sollevano il problema, forse sin troppo
trascurato, di discernere nell’ambito del vizio di eccesso di potere, così come costruito dalla elaborazione
giurisprudenziale, gli aspetti eminentemente "sostanziali" da quelli che tali non sono (per la tesi
dell’insufficienza del controllo esterno ancorato a criteri di mera logica formale ved. F. Ledda, Potere,
tecnica e sindacato giudiziario ¼ , cit., pagg. 422-423), atteso che soltanto nell’ipotesi di vizio sostanziale
(violazione di legge di tal genere e, nella più parte dei casi, anche eccesso di potere) "l’annullamento è
pacificamente accompagnato da effetti ulteriori, variamente individuati nella disciplina del rapporto o nella
preclusione di adottare altro provvedimento affetto da quel medesimo vizio" (P. Stella Richter,
L’aspettativa di provvedimento, in "Riv. trim. dir. pubbl.", 1981, pag. 19. Per un analogo ordine di idee, cfr.
M. Clarich, L’effettività della tutela dell’esecuzione delle sentenze del giudice amministrativo, in "Riv. trim.
dir. proc. amm.", 1998, n. 3, pagg. 547-548). Come la dottrina ha rilevato, in tema di sindacato sui c.d.
"vizi logici", un sindacato solo estrinseco o comunque parziale sul processo logico, limitato cioè ad alcuni
dei suoi momenti, non consente di escludere che ulteriori vizi d’altri momenti del medesimo processo
valgano a compensarlo e di accertare, quindi, la conformità o meno del suo risultato alla realtà (A.
Azzena, Natura e limiti..., cit., pag. 261), tanto che l’irregolarità del processo logico rileva solo se è tale da
condurre a una conclusione inesatta (A. Azzena, Natura e limiti..., cit., pagg. 179 e ss.). È stato anche
aggiunto che "come il rispetto della logica non garantisce la ragione stessa della scelta, non tutti i vizi
logici valgono ad escluderla: essi potranno risultare privi di rilievo rispetto alla materia trattata, per la
soverchiante importanza di elementi effettivamente utilizzati nel procedimento anche se non indicati nella
motivazione; ed in questi casi l’annullamento dell’atto conclusivo sarebbe da considerare inutile e
pregiudizievole per gli interessi sostanziali in gioco" (F. Ledda, Problema amministrativo e partecipazione
al procedimento, in "Riv. trim. dir. amm.", 1993, n. 3, pag. 161). In uno scritto precedente lo stesso autore
aveva già avvertito che "il solo fatto che enunciati ed asserzioni siano coerenti sotto il profilo di logica
formale non vale certo a garantire l’accettabilità della soluzione accolta" (F. Ledda, L’attività
amministrativa, ne Il diritto amministrativo degli anni ’80, Milano, 1987, pag. 91). Rovesciando la
prospettiva, la conclusione del procedimento conoscitivo può anche essere diversa dalla reale situazione
esistente (o che deve essere realizzata) in fatto, pur essendo frutto di una deduzione esatta in quanto
conforme al principio che ad essa presiede, in quanto "l’esattezza della deduzione non costituisce di per
se solo la garanzia della conformità della conclusione alla realtà, potendo esplicare un’influenza negativa
in proposito l’erroneità delle premesse" (A. Azzena, Natura e limiti..., cit., pag. 163, il quale riprende la
nota tesi del Calogero, La logica del giudice e suo controllo in Cassazione, Cedam, Padova, 1937, pagg.
48 e 293. Si veda anche F. Ledda, Potere, tecnica ¼ , cit., pagg. 422-423, che sottolinea come il
"sindacato esterno ancorato a criteri di logica formale non può di per sé stesso considerarsi sufficiente:
neanche il più attento vaglio critico del ragionamento svolto dall’Amministrazione può equivalere a una
verifica diretta dell’apprezzamento tecnico, e consentire un appagante risposta in ordine alla questione
concernente l’adeguatezza del criterio assunto a base del medesimo, nonché la correttezza delle
operazioni condotte in sede amministrativa. Talvolta sotto il manto di un’argomentazione ineccepibile nel
suo aspetto logico – formale possono celarsi errori di valutazione tecnica talmente gravi, da inficiare
radicalmente la soluzione del problema". Ved. anche P.M. Vipiana, Introduzione al principio di
ragionevolezza ..., cit., pagg. 72 e ss. che, sul piano logico, distingue tra ragionevolezza in senso
oggettivo (attinente al conseguimento delle corrette conclusioni da certe premesse) e ragionevolezza in
senso
soggettivo
(attinente
alla
predisposizione
delle
premesse).
(126) Ved. A. Romano Tassone, Motivazione dei provvedimenti ¼ , cit., pagg. 80 e ss., segnatamente
pag. 84, nota 143, il quale, pur riconoscendo espressamente che il vizio dell’esternazione, anche
nell’ipotesi dell’eccesso di potere per illogicità manifesta, non implichi di necessità l’eguale invalidità della
decisione, è costretto a ricostruire teleologicamente l’obbligo di motivazione come obbligo imposto in
vista dell’esigenza di legittimare, di fronte alla generalità dei cittadini, il provvedimento, pur di mantenersi
coerente con l’idea che le figure di eccesso di potere a vario titolo incentrate sulla illogicità, perplessità,
intrinseca contraddizione del provvedimento, in realtà, sanzionino "l’inidoneità del materiale giustificativo
offerto a fondare nella collettività organizzata il convincimento circa la razionalità ed adeguatezza del
provvedimento, inidoneità ravvisata nella perplessità e nell’arbitrio evidenziati dal discorso motivante" (A.
Romano Tassone, op. ult. cit., pagg. 85-86). Per la tesi che la motivazione sia una formalità esternativa
tendente a dimostrare alla comunità dei cittadini la correttezza e non arbitrarietà della decisione assunta
cfr. anche A. Romano Tassone, Contributo sul tema della irregolarità degli atti amministrativi, Giappichelli,
Torino,
1993,
pag.
84.
(127) Coerentemente con la sua impostazione il Romano Tassone, Motivazione dei provvedimenti ¼ ,
cit., pag. 86, nota 146, finisce per attribuire alle c.d. figure sintomatiche di eccesso di potere un’autonomia
sostanziale che le rende altrettante autonome cause di illegittimità, svincolate da qualsivoglia relazione
sintomatica con alcunché, e che si con cretano nella violazione dei principi deontologici della
discrezionalità amministrativa (secondo la terminologia di G. Guarino, Atti e poteri amministrativi, Giuffrè,
Milano, 1994, pagg. 239 e ss.). Il richiamo a Guarino, tuttavia, a nostro avviso, non pone in evidenza che
probabilmente quest’ultimo non intendeva teorizzare valenza sostanziale ai c.d. "principi deontologici",
ma limitarsi ad offrire un quadro descrittivo effettuale dell’evoluzione giurisprudenziale in subiecta
materia.
(128) A. Romano Tassone, op. ult. cit., pag. 88, dove si richiama A. Azzena, Natura e limiti..., cit., pagg.
172
e
ss.
(129)
A.
Romano
Tassone,
op.
ult.
cit.,
pag.
94.
(130) Ved. A. Romano Tassone, Motivazione dei provvedimenti ¼ , cit., pag. 93.
(131)
A.
Romano
Tassone,
op.
ult.
cit.,
pag.
121.
(132) G. Corso, Motivazione dell’atto amministrativo (voce), in "Enc. Dir.", Aggiornamento, 2001, pag.
786. Si veda anche S. Giacchetti, Fontanazzi giuridici ¼ , cit., pag. 21, il quale sottolinea che di controllo
diffuso "... può parlarsi solo in relazione a provvedimenti a conoscenza diffusa (nessun controllo diffuso
c’è sul rilascio di una patente automobilistica o di una licenza di pesca), e quindi solo in relazione a
provvedimenti sottoposti a misure di pubblicità legale. Ma tali provvedimenti sono – di regola – o privi del
tutto di motivazione (atti normativi, atti di approvazione di graduatorie, ecc.) o assistiti da una motivazione
di ordine più o meno latamente politico, che come tale non consente – di regola – sindacato di legittimità
ed è comunque estranea – ved. art. 3 della legge n. 241 – alla problematica in esame (deliberazioni del
CIPE, strumenti urbanistici ed altri atti generali non normativi); e sono comunque un’esigua minoranza del
complesso
dell’attività
provvedimentale".
(133) In tal senso G. Corso, Motivazione dell’atto amministrativo (voce), cit., pag. 787.
(134) A. Romano Tassone, Legge sul procedimento ¼ , cit., pagg. 1593-1594.
(135) G. Greco, L’accertamento autonomo del rapporto nel giudizio amministrativo, Giuffrè, Milano, 1980,
pag. 193; ved. anche A. Piras, Interesse legittimo e giudizio amministrativo, vol. II, Giuffrè, Milano, 1962,
pag. 454, che addirittura ritiene coperto il deducibile in favore della P.A. Ved. Anche F. Benvenuti,
Eccesso ..., cit., pag. 21, che, nel criticare la ricostruzione del valore giuridico dei sintomi di eccesso di
potere, quali causa di annullamento dell’atto, fondata sul valore logico loro attribuibile, sottolineandone a
detta stregua il valore di categoria di annullamento meramente strumentale, ha obiettato che ciò
"condurrebbe a ritenere che l’Amministrazione potrebbe riprodurre il proprio provvedimento eliminando
semplicemente il sintomo, ma non anche il vizio, come ad es. in una ipotesi di difetto logico nella
motivazione, qualora rinnovi l’atto modificandone formalmente la espressione dei motivi". Si confronti,
anche, la tesi di G. Sala, L’eccesso di potere ..., cit., pag. 277, secondo cui "la conferma che il vizio logico
è rilevante non come sintomo, ma quale elemento patologico in sé può evincersi dalla constatazione che
l’eliminazione del vizio logico ¼ può portare alla legittima emanazione di un atto dal medesimo contenuto,
accettabile se il processo decisionale non appare più abnorme rispetto ai comuni criteri di giudizio:
conseguenza normale di un sindacato non di merito, di giustizia della decisione, ma della sua normalità
regolarità".
(136) Cfr. A. Romano Tassone, Motivazione dei provvedimenti¼ , cit., pagg. 399 e ss., in particolare pag.
405.
(137) Si confronti F. Ledda, Il rifiuto di provvedimento amministrativo, Giappichelli, Torino, 1964, pagg.
219-220.
(138) Emblematica al riguardo la fattispecie di creazione giurisprudenziale della occupazione c.d.
acquisitiva che si è formata proprio sul duplice presupposto strutturale dell’atto di esproprio annullato dal
giudice amministrativo e della intervenuta irreversibile trasformazione del bene adibito dalla P.A. ad
utilizzazione
pubblica.
(139) Sull’irrinunciabilità del potere cfr. M. Clarich, Giudicato e potere amministrativo, Cedam, Padova,
1989, pag. 233. Si vedano anche E. Cannada Bartoli, L’inapplicabilità degli atti amministrativi, Giuffrè,
Milano, 1950, pag. 94 e F. Bassi, Contributo allo studio delle funzioni dello Stato, Giuffrè, Milano, 1969,
pag.
105.
(140) Per un esempio recente di rinnovazione in corso di causa del provvedimento amministrativo viziato
dal difetto di motivazione, cfr. Cons. Stato, Sez. V, 2 marzo-20 luglio 1999, n. 847, in "Guida al Diritto-Il
Sole-24 Ore", 1999, n. 36, pag. 111, secondo cui "l’Amministrazione può rinnovare l’atto in corso di
giudizio quando è stato impugnato per mero vizio di forma. Se così non fosse, l’Amministrazione sarebbe
costretta ad attendere l’annullamento dell’atto per rinnovare solo a quella data il procedimento e per
finalmente emanare un secondo atto emendato dal vizio formale, con intollerabile appesantimento della
sua
azione
e
frustrazione
delle
aspettative
degli
interessati".
(141) Cfr. A. Zito, L’integrazione in giudizio ¼ , cit., pag. 591, che si rifà alla nota tesi di F. Ledda, Il rifiuto
...,
cit.,
pagg.
219-220.
(142)
A.
Romano
Tassone,
Motivazione
dei
provvedimenti
...,
cit.,
pag.
402.
(143) E. Ferrari, La decisione giurisdizionale amministrativa: sentenza di accertamento o sentenza
costitutiva?,
in
"Riv.
trim.
dir.
proc.
amm.",
1988,
n.
4,
pag.
605.
(144) G. De Fina, La motivazione dei provvedimenti amministrativi, in "Riv. It. Sc. Giurid.", 1971, pag.
108.
(145) V. Caianiello, Diritto processuale amministrativo, Utet, Torino, 1988, pag. 763; ma vedi già dello
stesso autore, Lineamenti del processo amministrativo, Utet, Torino, 1979, 2a ed., pag. 321.
(146) Cons. Stato, Sez. IV, 28 maggio 1993, n. 569, in "Rass. Cons. Stato", 1993, I, pag. 630.
(147) Per una interessante proposta sul come dovrebbe essere impostato praticamente il profilo
accertativo ved. G. Greco, Per un giudizio di accertamento compatibile con la mentalità del giudice
amministrativo, in "Riv. trim. dir. proc. amm.", 1992, n. 3, pagg. 481 e ss.
(148) M. Nigro, Processo amministrativo, voce dell’"Enc. Giur. It.", Treccani, pag. 6.
(149) G. Bergonzini, Difetto di motivazione ..., cit., pagg. 205-206. Contra, P.M. Vipiana, Introduzione allo
studio del principio di ragionevolezza ¼ , cit., pagg. 96-97, secondo cui in seguito all’entrata in vigore del
citato art. 3 della legge n. 241/90 "¼ il provvedimento dev’essere motivato, anche riguardo all’osservanza
del principio di ragionevolezza ¼ Fra le indicazioni che dovrebbero essere presenti in motivazione non
potrebbe non venir annoverato un richiamo, sebbene sintetico, all’osservanza, nella specie, del principio
di ragionevolezza, nelle sue varie componenti: pertanto il principio di ragionevolezza rileva oggi
sull’ampiezza del contenuto motivazionale ed i riferimenti al rispetto del principio costituiscono
probabilmente una condicio sine qua non dell’assolvimento dell’obbligo di motivazione, sotto il profilo
della
completezza
dell’enunciato
motivazionale".
(150) La "dequotazione" della motivazione di cui parla Giannini non è la dequotazione dell’esternazione
scritta del provvedimento amministrativo e non legittima l’interpretazione fornita dal Romano Tassone,
che sembrerebbe presupporre in Giannini l’accettazione del postulato della prevalenza della volontà vera
rispetto
a
quella
dichiarata.
(151) Ved. già A. De Valles, La validità, cit., pag. 142 e ss., il quale parlava di volontà reale che può
dedursi dagli atti e documenti inerenti all’atto. Cfr. M.S. Giannini, L’interpretazione¼ , cit., pagg. 280 e ss.;
C.M.
Iaccarino,
Studi
sulla
motivazione¼
,
cit.,
pagg.
24
ss.
(152) F. Ledda, La concezione dell’atto amministrativo e dei suoi caratteri, in Diritto amministrativo e
giustizia amministrativa nel bilancio di un decennio di giurisprudenza (a cura di U. Allegretti, A. Orsi
Battaglini,
e
D.
Sorace),
II,
Rimini,
1987,
pag.
784,
e
pagg.
792
ss.
(153) F. G. Scoca, La teoria del provvedimento dalla sua formulazione alla legge sul procedimento, in Le
Trasformazioni del diritto amministrativo (Scritti degli allievi per gli anni ottanta di M. S. Giannini), a cura di
S.
Amorosino,
Giuffrè,
Milano,
1995,
pagg.
290-291.
(154) Sul contenuto del provvedimento si veda R. Lucifredi, L’atto amministrativo nei suoi elementi
accidentali, Giuffrè, Milano, 1963, ed in particolare pag. 32, che offre una ricostruzione ampia della
nozione, distinguendo, sul piano logico, il contenuto tecnico-giuridico (parte dispositiva) e il contenuto
come elemento obiettivo dell’intero provvedimento, "sì da includervi pur quelle parti di atto che, come le
enunciative, come le motivazioni, non rientrano negli elementi formali, e neppure possono confondersi
colla
parte
dispositiva
dell’atto".
(155) Fondamentale sul concetto di fattispecie D. Rubino, La fattispecie e gli effetti giuridici preliminari,
Giuffrè, Milano, 1939. Sul passaggio dal fatto "causa" alla funzione mediatrice del fatto cfr. A. E.
Cammarata, Il significato e la funzione del fatto nell’esperienza giuridica, in "Formalismo e sapere
giuridico", Giuffrè, Milano, 1963, pag. 267 (anche in "Annali dell’Università di Macerata", V, 1929). Di
estremo interesse anche G. Guarino, Potere giuridico e diritto soggettivo, in "Rass. dir. pubbl.", 1949, I,
pagg. 238 e ss.; R. Scognamiglio, Fatto giuridico e fattispecie complessa, in "Riv. trim. dir. proc. civ.",
1954, pagg. 348 e ss.; A. Cataudella, Note sul concetto di fattispecie giuridica, in "Riv. trim. dir. proc. civ.",
1962, pagg. 433 e ss.; A. Cataudella, Fattispecie (voce), in "Enc. Dir.", vol. XVI, 1967, pag. 392, dove
afferma che la tesi del Cammarata rappresenta la tesi "più avanzata che sia dato logicamente
prospettare". Di particolare interesse è la originale ricostruzione dommatica di F. Paparella che ha
dimostrato come la teorica del fatto, dal punto di vista della funzione, e la teorica del fatto qualificato
formalmente dalla norma, comunque, non spieghino la sua articolazione strutturale, posto che questo
fatto descritto dall’ordinamento non si trova mai nell’ordinamento così com’esso è nella vita (Studi sulla
presupposizione ¼ , cit., pag. 48). D’altro canto la stessa concezione dell’effetto giuridico come valore
realmente condizionato (A. Falzea, Efficacia giuridica (voce), in "Enc. Dir.", vol. XIV, 1965, pagg. 570 e
ss.) postula l’esistenza di una esigenza proveniente da una situazione della vita, ed è rispetto ad essa
che si pone la necessità del valore (dell’effetto della scelta dell’ordinamento rispetto ad un interesse). Ciò
posto l’autore descrive il fatto che interessa il diritto come fatto a struttura tipica (ossia la convergenza di
due o più interessi in ordine allo stesso bene che li soddisfa) (Studi sulla presupposizione ¼ , cit., pag.
58). Questo fatto, è tipico, è giuridicamente rilevante perché costituisce il problema del diritto, il problema
che il diritto deve risolvere, dando la sua adesione all’uno o all’altro interesse (Studi sulla presupposizione
¼ , cit., pag. 60). Ed è questa tipicità, questo essere giuridicamente rilevante per sé che consente di
superare e annullare lo iatus logico che divide il fatto materiale da quello giuridico (Studi sulla
presupposizione ¼ , cit., pag. 62). L’annullamento dello iatus si giustifica in ragione del fatto tipico,
"perché quando il fatto tipico materialmente si pone è fatto giuridico a causa di questo suo porsi
tipicamente" e condiziona l’ordinamento a dar vita all’effetto giuridico (Studi sulla presupposizione ¼ , cit.,
pag. 66), ponendo "... effettivamente in essere un reale condizionamento assiologico in ordine alla
produzione dell’effetto giuridico da parte dell’ordinamento positivo" (Studi sulla presupposizione ¼ , cit.,
pag.
70).
Dal condizionamento si passa poi al collegamento di un determinato effetto al fatto tipico da parte
dell’ordinamento positivo (Studi sulla presupposizione ¼ , cit., pag. 71), che ricollega l’effetto giuridico
attraverso l’individuazione fattane mediante le circostanze di individuazione previste dalla norma
giuridica, integrate dalla indicazione di altre circostanze materiali offerta dai soggetti interessati,
costituendo, quest’ultimo, esercizio di un potere conferito dall’ordinamento positivo (Studi sulla
presupposizione ¼ , cit., pag. 72). Per attribuire rilievo giuridico alla presupposizione Paparella sostiene
che essa, pur non essendo prevista dalla norma e non facendo parte della fattispecie, è elemento
costitutivo del fatto a struttura tipica che condiziona l’ordinamento a produrre l’effetto giuridico, che si
individua e ricollega mediante le circostanze di individuazione indicate dal soggetto e dall’ordinamento.
(156) Per la costruzione del provvedimento amministrativo come fattispecie normativa di specie della più
generale figura dell’atto normativo cfr. F. G. Scoca, Contributo sul tema della fattispecie precettiva,
Perugia,
1979.
(157) Così A. Falzea, Efficacia giuridica (voce), in "Enc. Dir.", vol. XVI, 1965, pagg. 456 e ss.; secondo
l’illustre autore "... il principio di adattabilità dice appunto che ogni norma di legge contiene oltre il suo
rigido modello formale un criterio sostanziale più elastico di orientamento dell’efficacia e che nei limiti
volta per volta più o meno ampi in cui è consentito lo scarto del criterio sostanziale dal modello formale
l’effetto deve potersi adattare alle variazioni della fattispecie. Il regime delle anomalie dei negozi e in
genere degli atti giuridici può ritenersi una immediata applicazione del principio di adattabilità, così come
il regime dell’interpretazione e l’esigenza di conservazione a cui esso si ispira".
(158) Secondo A. Falzea, Manifestazione ¼ , cit., pag. 470, manifestazione in senso lato è "ogni fatto che
manifesta un fatto diverso". Lo stesso autore spiega che la manifestazione in senso stretto, invece, "è un
comportamento che fa argomentare, secondo una regola di esperienza, la realtà – più o meno probabile
–
dei
fenomeni
manifestati"
(op.
cit.,
pag.
470).
(159) Cfr. F. Bassi, L’eccesso di potere per difetto di motivazione, in Scritti per M. Nigro, vol. III, 1991,
Giuffrè,
Milano,
pagg.
73-74.
(160) Ved. l’acuta analisi di F. Levi, L’attività conoscitiva ..., cit., pag. 500, che pone sullo stesso piano sia
i fatti conosciuti che quelli acquisiti al procedimento anche se non valutati dall’organo che provvede.
(161) Per la non condivisibile tesi che il riferimento "alle risultanze dell’istruttoria" imponga un obbligo di
formale esternazione provvedimentale della realtà effettivamente emersa e valutata nel procedimento cfr.
L. Torchia, Procedimento e processo dopo la legge 241: tendenze e problemi, in La trasparenza
amministrativa a due anni dalla legge 7 agosto 1990, n. 241, Atti del Convegno di Siena 30 ottobre 1992,
Mondo Economico – allegato 27 febbraio 1993, pag. 39. Il nostro dissenso si spiega in ragione della
visione formalistica che detto obbligo integra, inidoneo a fornire tutela sostanziale al soggetto inciso
negativamente dal provvedimento, che per cogliere l’effettiva portata delle scelte e la loro sostanziale
legittimità (o non) dovrà comunque riportarsi all’interno del procedimento. Si veda anche A. Valorzi, Dalla
procedura amministrativa al processo giurisdizionale, Cedam, Padova, 1999, pag. 175, il quale
all’espresso rinvio "alle risultanze dell’istruttoria" collega l’allargamento della cognizione giurisdizionale, al
di là dell’atto finale impugnato, all’intera procedura. Tuttavia, secondo l’autore, "la cognizione giudiziale
può dirsi realmente rivolta alla funzione, potendo contemplare nell’insieme il procedimento in senso
sostanziale sia attraverso la rappresentazione ufficiale contenuta nella motivazione (che deve dar conto
delle acquisizioni della procedura che gradualmente coprono il passaggio tra istruttoria e decisione), sia
attingerlo direttamente agli atti del fascicolo, compresi memorie e documenti "art. 10, lett. b) prodotti dai
soggetti intervenuti". È evidente come questa tesi non consideri che attingere direttamente agli atti del
fascicolo costituisce l’aspetto essenziale della teorica della dequotazione, e che, quindi, la più o meno
corretta e/o sufficiente rappresentazione ufficiale, contenuta nella motivazione, delle acquisizioni della
procedura, rimane assorbita nella sua rilevanza dalla preponderanza delle oggettive risultanze degli atti
del
procedimento.
(162) Secondo A. Schopenhauer, La quadruplice radice del principio di ragion sufficiente, trad. dal
tedesco dell’edizione originale del 1813 di A. Vigorelli, Guerini e Associati, Milano, 1990, pag. 137, "...
ogni decisione – sia propria che altrui – presuppone sempre una ragione sufficiente". "Il motivo è dunque,
per il carattere empirico, la ragione sufficiente dell’agire. Però le condizioni che diventano appunto motivi
dell’agire non vanno concepite come causa di tale agire, considerato come effetto, perché l’azione non
risulta da tali motivi, bensì dal carattere empirico da essi sollecitato, il quale non è immediatamente
percepibile, ma deve a sua volta venir ricostruito e desunto solo sulla base delle azioni" (La quadruplice..,
cit., pag. 144). F. Levi, L’attività conoscitiva ¼ , cit., pag. 554, identifica l’interesse pubblico specifico, o
concreto, in quel particolare fatto che, tra gli altri fatti acquisiti al "caso", assurge al rango di ragione
sufficiente
del
provvedimento
amministrativo.
(163) E. Casetta, Profili della evoluzione dei rapporti tra i cittadini e pubblica Amministrazione, in "Riv.
trim. dir. amm.", 1993, n. 1, pag. 10. Sull’obbligo di ponderazione degli interessi cfr. S. Cognetti, La tutela
delle situazioni soggettive tra procedimento e processo. Le esperienze di pianificazione urbanistica,
Perugia, 1987, nonché L’obbligo di ponderazione degli interessi nei processi di pianificazione in
Germania (R.F.T.), Comunicazione, in "Atti XXXII Congresso di Varenna", Giuffrè, Milano, 1986, pagg.
292
e
ss.
(164)
F.
Ledda,
Problema
amministrativo...,
cit.,
pagg.
142-143.
(165) La dottrina più antica nel commentare una decisione del Consiglio di Stato secondo cui i motivi del
provvedimento, ai fini del sindacato di eccesso di potere, potessero desumersi da atti o provvedimenti
precedenti (Cons. Stato, Sez. V, 6 giugno 1924, in "Giur. it.", 1924, III, col. 182 e ss., con nota di F.
Cammeo) così affermava: "Il principio che ai fini del sindacato sull’eccesso di potere, si possano ricercare
i motivi di un provvedimento non espressamente motivato, dalle circostanze che lo precedono od
accompagnano, è costante e tocca uno dei punti più delicati della teoria dell’eccesso e della relativa
prova" (F. Cammeo, nota a sentenza Cons. Stato, Sez. V, 6 giugno 1924, cit.).
(166) Un’ipotesi di tal genere è data da quanto accaduto con la decisione del Cons. giust. amm. reg. sic.,
20 aprile 1993, n. 149 (Pres.: Scarcella – Est.: Giacchetti), ne "Il Foro it.", 1993, III, col. 616 e ss.; il
Collegio, infatti, pur riconoscendo in linea generale l’ammissibilità della motivazione successiva, così
concludeva: "poiché peraltro, come già rilevato, tale integrazione non è stata determinante ai fini dell’esito
del giudizio, dovendo la pretesa dell’appellante essere respinta a prescindere dall’integrazione stessa,
non sussistono i presupposti per porre a carico dell’Amministrazione le spese di lite, che possono invece
compensarsi
tra
le
parti".
(167) Si segue la ricostruzione dommatica unitaria dell’eccesso di potere proposta da E. Casetta, Attività
e atto amministrativo, in "Riv. trim. dir. pubbl.", 1957, pagg. 313-314, che risolve la figura interamente
nello sviamento, qualificando i sintomi come mezzi necessari per dimostrarne l’esistenza, che
comprovano il vizio nell’atto soltanto quando permettano di dissipare ogni dubbio circa la mancata
corrispondenza degli interessi propri dell’atto con quelli che la fattispecie normativa concreta involge.
L’elaborazione giurisprudenziale e la letteratura sull’eccesso di potere sviluppatesi dopo il lavoro di A.
Codacci Pisanelli, L’eccesso di potere nel contenzioso amministrativo, in "Giust. amm.", 1892, IV, pagg. 1
e ss.) sono, si può dire, sconfinate. L’elaborazione giurisprudenziale (per un’utile rassegna sulla
giurisprudenza dei primi decenni, N.Pappalardo, L’eccesso di potere ¼ , pagg. 429 e ss.) accanto al
fenomeno dello sviamento è venuta introducendo e sviluppando altre figure come ad esempio quelle di
"travisamento dei fatti", di "illogicità manifesta", di "manifesta ingiustizia", di "contraddittorietà immotivata
fra più atti", di "difetto di motivazione" ecc. (per una classificazione completa, Gasparri, Eccesso di potere
(dir. amm.), in "Enc. Dir.", vol. XIV, pagg. 128 e ss.). In generale hanno qualificato l’eccesso di potere
come vizio della causa dell’atto amministrativo: Cammeo, La violazione delle circolari come vizio di
eccesso di potere, in "Giur. It.", 1912, III, col. 107; Pappalardo, op. ult. cit., pagg. 542 e ss.; Resta, La
natura giuridica dell’eccesso di potere come vizio degli atti amministrativi, in "Ann. Univ. Macerata", 1932,
pag. 176 (dello stesso autore, La legittimità degli atti giuridici, in "Riv. trim. dir. pubbl.", 1955, pagg. 35 e
ss.);
Borsi,
La
giustizia
amministrativa,
Padova,
1941,
pag.
52.
Hanno ravvisato, invece, nell’eccesso di potere un vizio dei motivi dell’atto: Forti, I "motivi" e la "causa"
negli atti amministrativi, ne "Il Foro It.", 1932, III, col. 297; Giannini, Lezioni di diritto amministrativo,
Milano, 1950, pag. 391. Concorde Alessi, Intorno ai concetti di causa giuridica, illegittimità, eccesso di
potere, Giuffrè, Milano, 1934, pagg. 110 e 71 e ss., secondo cui l’eccesso sarebbe essenzialmente
caratterizzato da un "vizio di potestà" dell’atto in relazione allo stato viziato dei motivi.
Una terza posizione ritiene che l’eccesso di potere consista in realtà nel vizio del giudizio di
apprezzamento messo a base dell’atto discrezionale: così Rovelli, Lo sviamento di potere, in Raccolta di
scritti di dir. pubbl., in onore di Giovanni Vacchelli, 1935, pag. 462; A.M. Sandulli, Il procedimento
amministrativo,
Giuffrè,
Milano,
1959,
pagg.
323
e
ss.
Una originale ricostruzione dell’eccesso di potere si deve a F. Benvenuti, Eccesso di potere
amministrativo¼ , pagg. 3 e ss., il quale ha creduto di risolvere il problema costruendo i "sintomi" come
violazioni di norme generali sulla funzione amministrativa (principio di giustizia sostanziale, principio di
ragionevolezza dell’agire amministrativo e principi della stessa organizzazione), svincolandoli dall’essere
funzionali allo sviamento. Contra, però, E. Casetta, Attività ..., cit., pagg. 313-314, per il quale l’eccesso di
potere va ricondotto ad unità concettuale sub specie di sviamento, essendo i sintomi mezzi di rilevazione
dello stesso e non cause autonome di annullamento. Si veda anche A. Azzena, Natura e limiti
dell’eccesso di potere ¼ , cit., pagg. 331-332, che, diversamente dal Benvenuti, attribuisce alle figure
sintomatiche il valore di vere e proprie prove presuntive del vizio di merito da cui l’illegittimità deriva (sul
punto C. Camilli, Considerazioni sui "sintomi" dell’eccesso di potere, in "Rass. dir. pubbl.", 1965, n. 4,
pagg.
1038
e
ss.).
(168) Sul punto appare interessante la decisione del T.A.R. Marche, 2 febbraio 1995, n. 53, in "Rass.
T.A.R.", 1995, I, pagg. 1775 e ss., che è in perfetta sintonia con quanto da noi sostenuto: "¼ Il Collegio
considera che, secondo un recente indirizzo giurisprudenziale (Cons. Stato, Sez. VI, 9 marzo 1992, n.
174) è ammessa, in corso di giudizio, la giustificazione del potere esercitato, potendosi ritenere che,
fermo il principio per cui il provvedimento non può ricevere integrazione di motivazione attraverso gli
scritti difensivi dell’Amministrazione il comportamento della stessa potrebbe contribuire, se non ad
integrare, a chiarire la motivazione dello stesso provvedimento, dovendosi a tal fine distinguere tra
motivazione vera e propria e giustificazione del potere. La giustificazione del potere consiste non solo
nella indicazione delle norme che sovraintendono ad esso, quanto nella indicazione del tipo di potere
esercitato e dei presupposti di esso. Nel caso in esame, il provvedimento impugnato ha indicato il potere
esercitato, cioè quello di valutare, con riferimento alle proprie esigenze organizzative e funzionali, se
concedere o no la predetta aspettativa, ed ha pure indicato, genericamente, i presupposti di diritto e di
fatto di tale potere. Dunque, ad avviso del Collegio ed in adesione all’indirizzo giurisprudenziale testè
ricordato, la relazione acquisita può essere considerata quale atto inteso non ad integrare, ma a chiarire
la già esistente motivazione dell’impugnato provvedimento, cioè diretto a giustificare uno dei presupposti
del
potere
esercitato".
(169) È questa, a nostro avviso, la fattispecie concreta esaminata nella sentenza del T.A.R. Veneto, Sez.
I, 20 giugno 1987 (pres. Rosini), n. 648, ne "Il Foro amm.", 1988, n. 5, pagg. 1439 e ss., in particolare
pag. 1442 dove si precisa che "nella specie non trattasi di integrazione della motivazione ma della sua
"esternazione" poiché l’atto non fa riferimento ad elementi motivatori additivi sopravvenuti quanto a
ragioni
presenti
e
tenute
in
considerazione,
ancorchè
non
esplicitate
...".
(170) È questa l’ipotesi di motivazione successiva ritenuta inammissibile da A. Azzena, Natura e limiti ...,
cit.,
pagg.
311
e
ss.
(171) Questa ipotesi in sé è generica in quanto dovrebbe essere precisata ulteriormente suddividendosi
in due specie: scritti difensivi meramente descrittivi e/o chiarificatori delle risultanze dell’istruttoria; scritti
difensivi introduttivi di argomenti e/o fatti nuovi non ricavabili dall’istruttoria procedimentale.
(172)
Ved.
A.
Azzena,
Natura
e
limiti
...,
cit.,
pagg.
312-313.
(173) Si vedano, infatti, le importanti osservazioni di M.S. Giannini, Motivazione ..., cit., pag. 267, ed in
particolare in nota 24, lì dove spiega che il divieto di integrazione della motivazione da parte del difensore
in giudizio non necessariamente comporti sostituzione di questi all’Amministrazione, "in quanto il
provvedimento può essere collegato ad altri provvedimenti, a comportamenti, a prassi, che non sono
enunciati in alcun atto del procedimento di formazione, ma che, se tuttavia esistono, e se ne dimostra il
collegamento,
non
danno
luogo
ad
alcuna
sostituzione
del
difensore
all’autorità".
(174)
C.M.
Iaccarino,
Studi
¼
,
cit.,
pag.
90.
(175) Parla di esclusione di rilevanza della eventuale motivazione successiva dell’atto F. Ledda, Il rifiuto
¼
,
cit.,
pag.
215.
(176) In questo senso, a nostro avviso, deve leggersi l’interessante ordinanza del T.A.R. Sicilia, Sez.
Catania, 20 settembre 1997, n. 2408, in "Guida al diritto-Il Sole-24 Ore", 1997, n. 48, pagg. 89 e ss., che
occupandosi di un ricorso fondato sulla censura di difetto di motivazione dell’impugnato annullamento di
ufficio di una delibera di approvazione della graduatoria di un concorso, ha ritenuto inidonea nella fase
cautelare (e dunque tamquam non esset) la delibera di Giunta municipale di autorizzazione a resistere in
giudizio che contestualmente confermava ed integrava in ogni sua parte l’atto impugnato con rinnovato
supporto motivazionale, ad integrare l’ipotesi di improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di
interesse
processuale.
Per l’orientamento opposto, invece, si confronti T.A.R. Veneto, Sez. I, 10 giugno 1987, n. 648, ne "Il Foro
amm.", 1988, n. 5, pagg. 1439 e ss., secondo cui il ricorrente che abbia impugnato l’atto deducendo
unicamente il vizio di difetto di motivazione, a fronte di un’integrazione della motivazione mediante
emanazione di atto ad hoc in corso di giudizio, ha l’onere di impugnazione, sotto pena della cessazione
della materia del contendere, anche quest’ultimo con nuovo ricorso ovvero con motivi aggiunti "in quanto
non è ravvisabile ¼ alcun tipo di interesse, né sostanziale né processuale ad ottenere la caducazione di
atti già modificati ovvero a conseguirla sotto profili che sono stati medio tempore rimossi, ancorché senza
mutare
il
tenore
della
statuizione
lesiva".
(177) È questa la tesi di A. Azzena, Natura e limiti ..., cit., pag. 312.
(178) Sul punto il Consiglio di Stato ha espresso una chiara posizione statuendo che "deve considerarsi
censura nuova, inammissibile in appello, l’allegazione di eccesso di potere per difetto di motivazione (di
carattere prevalentemente formale) rispetto a quella (di natura essenzialmente sostanziale) dell’eccesso
di potere per sviamento, formulata in primo grado" (Cons. Stato, Sez. V, 5 marzo 1982, n. 184, ne "Il Foro
amm.",
1982,
I,
pag.
392
con
nota
di
R.
Iannotta).
(179) Questa è la tesi seguita dal T.A.R. Veneto, Sez. I, dec. 20 giugno 1987, n. 648, ne "Il Foro amm.",
1988, n. 5, pagg. 1439 e ss. Per la dottrina in tal senso ved. G. Virga, Integrazione ¼ , cit., pag. 527.
(180) Per questo orientamento ved. T.A.R. Veneto, Sez. I, 20 giugno 1987, n. 648 (Pres.: Rosini), cit.
(181)
Ne
"Il
Foro
amm.",
1988,
n.
5,
pagg.
1439
e
ss.
(182) Si adotta la terminologia di G. De Fina, La teleologia degli atti nel rapporto autorità-libertà, Cedam,
Padova, 1974, pag. 195, che distingue "tra l’effettiva teleologia procedimentale espressiva dell’avvenuto
esercizio della funzione, e la sua ricognibilità attraverso ogni strumento o mezzo giuridico utilizzabile: tra
cui anche, ma non indispensabilmente, l’impiego della motivazione nel contesto formale dell’atto". Si veda
Cons. Stato, Sez. IV, 27 ottobre 1981, n. 787, ne "Il Foro amm.", 1981, I, pagg. 1915-1916, per un
precedente che espressamente ha riconosciuto che le delibere della Giunta regionale del Piemonte con
cui veniva stabilita la durata della sanzione amministrativa di chiusura di un pubblico esercizio non
potevano essere viziate da eccesso di potere per difetto di motivazione in ordine alla determinazione del
quantum temporale della sanzione stessa: le delibere in questione infatti dimostravano che la Giunta
regionale era pervenuta ai provvedimenti sanzionatori sulla base di un’adeguata conoscenza della
situazione di fatto risultante da un ampio, preciso e motivato rapporto del veterinario provinciale dal quale
emergeva tutta la consistenza del pericolo alla salute pubblica che la recidiva condotta dei due
commercianti aveva cagionato. Ha ritenuto pertanto il Consiglio di Stato che proprio in considerazione
della gravità di tali fatti l’entità della sanzione irrogata risultava giustificata e motivata da una precisa
conoscenza e da una corretta valutazione dei fatti. Da un esame diretto degli atti del procedimento il
giudice amministrativo ha potuto escludere il sintomo di difetto dei motivi (vizio della funzione) a cui aveva
dato
causa
il
difetto
di
motivazione.
(183) Già in altra sentenza il T.A.R. Veneto (Sez. I, 16 febbraio 1987, n. 161, ne "Il Foro amm.", 1988, n.
1-2, pag. 189) aveva chiarito che il vizio di mancanza o insufficienza della motivazione sia ascrivibile alla
figura dell’eccesso di potere "solo in quanto sintomatizzi un difetto o di valutazione delle circostanze di
fatto o di ponderazione degli interessi coinvolti" e che "il vizio non sta nella mancanza della motivazione
intesa come esternazione dei motivi dell’atto, questa mancanza essendo soltanto un sintomo che lascia
presumere il suaccennato vizio della funzione, e che l’Amministrazione può provare il contrario esibendo
gli atti che hanno preceduto il provvedimento contestato, dai quali emergano motivi non enunciati".
(184) In questo passaggio il T.A.R. Veneto usa il termine "motivazione" impropriamente, volendo
significare, invece, "motivo"; infatti, se il presupposto causale della rinnovazione dell’atto annullato è il
difetto di motivazione, non avrebbe senso il riferimento alla motivazione che già sorregge l’atto, se non
avendo
di
mira
l’oggetto
della
motivazione,
vale
a
dire
il
motivo.
(185)
T.A.R.
Veneto,
Sez.
I,
20
giugno
1987,
n.
648,
cit.
(186) Si tratta di due note a sentenza rispettivamente di S. D’Alessandro, Obbligo di motivazione del
provvedimento amministrativo e interesse sostanziale del ricorrente, ne "Il Foro amm.", 1988, n. 12, pagg.
3722 e ss., e di P. Bartot, La motivazione tra vizio formale e tutela sostanziale, in "Riv. trim. proc. amm.",
1989,
pagg.
470
e
ss.
(187)
P.
Bartot,
La
motivazione
tra
vizio
formale
¼
,
cit.,
pag.
479.
(188)
P.
Bartot,
La
motivazione
tra
vizio
formale
¼
,
cit.,
pag.
479.
(189) Cons. giust. amm. reg. sic., 20 aprile 1993, n. 149 (Pres.: Scarcella – Est.: Giacchetti), ne "Il Foro
it.",
1993,
III,
col.
616
e
ss.
(190) In ordine al regime delle spese processuali conseguente a siffatta modalità di sopravvenuta
cessazione della materia del contendere, il giudice, posto il principio generale che le spese di giudizio
dovessero ricadere sulla P.A., derivando la causa della cessazione da fatto imputabile alla medesima, in
concreto, le compensava tra le parti, ritenendo non determinante l’esaminata integrazione successiva
della
motivazione
ai
fini
dell’esito
del
giudizio.
(191) A. Romano Tassone, Motivazione dei provvedimenti ¼ , cit., pag. 25 e pagg. 52 e ss., ed, in
particolare, pagg. 70-97; conformi P. Bartot, La motivazione tra vizio formale ..., cit., pagg. 473 e ss.; A.
Zito,
L’integrazione
in
giudizio
¼
,
cit.,
pag.
583.
(192) È questa la nota tesi di A. Azzena, Natura e limiti ..., cit., pag. 311; anche se occorre precisare che
l’autore non considera motivazione successiva vietata l’esternazione di motivi comunque già dedotti
implicitamente, vale a dire riscontrabili negli atti del procedimento. Una variante della tesi di Azzena è
quella proposta da P. Bartot, La motivazione tra vizio formale ..., cit., pag. 480, secondo cui la
motivazione
successiva
incide
sulle
potenzialità
difensive
della
parte
ricorrente.
(193) Da ultimo cfr. T.A.R. Lazio, Sez. I, 16 gennaio 2002, n. 398, in "Urbanistica e appalti", 2002, n. 8,
pagg. 936 e ss., con nota di L. Tarantino, Wittgenstain, Mortati, e l’integrazione della motivazione in corso
di giudizio; Cons. Stato, Sez. VI, 26 luglio 2000, n. 7578, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato,
Sez. V, 13 novembre 1990, n. 770, in "Rass. Cons. Stato", 1990, I, pag. 1235.
(194) G. Virga, op. cit., pag. 525. Si veda anche M. Clarich (Giudicato ¼ , cit., pag. 235, in nota 246) che
per l’ipotesi dell’atto amministrativo annullato, fondato su fatti costitutivi del potere effettivamente
esistenti, ma sfornito di motivazione, non osta alcuna preclusione alla reiterazione del medesimo che
questa volta sia esente da vizi, "e tanto varrebbe, almeno in quest’ipotesi, ammettere l’integrazione della
motivazione
in
corso
di
giudizio".
(195) In generale la tesi dell’illegittimità costituzionale di quelle fattispecie normative che, da un lato,
prevedono un potere discrezionale, e, dall’altro, omettono la contestuale previsione di un obbligo di
motivazione, per lesione del diritto costituzionale alla piena tutela giurisdizionale dei propri diritti e
interessi legittimi nei confronti della P.A non ha trovato seguito nella giurisprudenza della Corte
costituzionale. È stato sostenuto che la concreta possibilità di ricorrere al sindacato giurisdizionale di
legittimità sui provvedimenti a carattere discrezionale, mancando la previsione formale dell’obbligo di
motivazione, resterebbe limitata a casi estremi e marginali, in violazione dell’art. 113 Cost. La Corte
costituzionale nell’affrontare la tematica in materia di omessa previsione normativa dell’obbligo di
motivazione nell’art. 26 legge 12 novembre 1955, n. 1137 ("Avanzamento degli ufficiali dell’Esercito, della
Marina e dell’Aereonautica"), in relazione al giudizio delle commissioni superiori di avanzamento ufficiali
dell’Esercito (Corte cost., 7 aprile 1988, n. 409, in "Giur. it.", 1990, I, 1, col. 561 ss.), da un lato, ha
escluso che quello della motivazione negli atti amministrativi costituisca un principio costituzionalmente
garantito (Corte cost., 7 aprile 1988, n. 409, cit., col. 565), e, dall’altro, pur riferendosi la decisione al
giudizio di avanzamento degli ufficiali, ha sottolineato come la giurisprudenza amministrativa abbia
elaborato una serie di regole e criteri per l’individuazione dell’ambito e dei limiti del sindacato
giurisdizionale, in quanto reso possibile dalla disciplina sostanziale (Corte cost., 7 aprile 1988, n. 409, cit.,
col. 567). Si è ritenuto possibile, infatti, assoggettare al sindacato del giudice gli scrutini di avanzamento,
sia sotto il profilo della disparità di trattamento, che sotto il profilo della logicità, per verificare se i punteggi
siano stati assegnati con criteri più restrittivi nei confronti dell’ufficiale non promosso pur in presenza di
note caratteristiche assolutamente identiche (Corte cost., 7 aprile 1988, n. 409, cit., col. 567). In definitiva
la Corte costituzionale ha ritenuto infondata la censura di violazione dell’art. 113 Cost., proprio obiettando
che il rimedio dell’eccesso di potere consente un sindacato che va oltre la (e prescinde dalla) stessa
motivazione
formale
enunciativa
ovvero
argomentativa.
(196) G. Virga, op. cit., pag. 527. L’autore in nota 32 indica la giurisprudenza e la dottrina sia a favore che
contro la tesi della possibilità per l’autorità di Amministrazione attiva di procedere alla convalida dei propri
atti in corso di giudizio. In linea generale cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 18 dicembre 1979, n. 1196, in "Rass.
Cons. Stato", 1979, I, pag. 1814, che in occasione dell’applicazione dell’art. 6 legge 18 marzo 1968, n.
249 (sulla sanabilità del vizio di incompetenza con effetto ex tunc), ha precisato che "... questa normativa
non appare né iniqua, né lesiva del diritto di difesa, costituzionalmente garantito, ed anzi risulta opportuna
in quanto permette il ristabilimento dell’ordine giuridico violato senza bisogno della intermediazione della
pronuncia
del
giudice
amministrativo".
(197) T.A.R. Campania Napoli, Sez. I, 29 marzo 1999, n. 907, ne "Il Foro amm.", 1999, pag. 2655.
(198)
Pubblicata
ne
"Il
Foro
amm.",
1996,
pagg.
2043
e
ss.
(199) Cons. Stato, Sez. V, 2 marzo-20 luglio 1999, n. 847, in "Guida al Diritto-Il Sole-24 Ore", 1999, n. 36,
pag.
108.
(200)
T.A.R.
Lazio,
Sez.
I,
16
gennaio
2002,
n.
398,
cit.
(201) Per un precedente in cui si riconosce la risarcibilità dei danni cagionati ai privati con provvedimenti
illegittimi per difetto di motivazione cfr. Cass. civ., Sez. III, 6 ottobre 1997, n. 9700, ne "Il Foro it.", 1998,
III,
col.
351.
(202) Cass. civ., sez. un., 22 luglio 1999, n. 500, in "Giust. civ.", 1999, I, pag. 2261; ne "Il Foro it.", 1999,
I,
pag.
2487,
3201;
in
"Giur.
it.",
2000,
pag.
21.
(203) In tal senso ved. già Cons. giust. amm. reg. sic., 26 febbraio 1987, n. 61, e 4 novembre 1995, n.
343.
(204) Non è inutile rilevare che la decisione del T.A.R. Lazio è intervenuta in presenza di una fattispecie
concreta involgente non un vizio di difetto di motivazione formale, ma un vizio sostanziale. Trattavasi di
provvedimento sanzionatorio su pubblicità ingannevole che non aveva chiarito (né era possibile
comprenderlo dagli atti del procedimento) quali aspetti specifici della pubblicità, in concreto, fossero
ingannevoli.
(205) Nell’ordinamento statunitense esiste l’istituto del "remand", dove lo stesso giudice, a processo in
corso, sollecita l’intervento dell’Amministrazione sulle questioni emerse in giudizio (cfr. G. Lombardo, Il
controllo giudiziale dell’azione amministrativa negli Stati Uniti: considerazioni sulla "hard look doctrine", in
"Riv. trim. dir. amm.", 1994, pagg. 554-555). In Italia il c.d. "remand" è stato utilizzato particolarmente dai
giudici amministrativi di primo grado quale tecnica processuale con cui "si investe nuovamente
l’Amministrazione della questione già portata al vaglio del giudice amministrativo attraverso
l’impugnazione del primo provvedimento amministrativo adottato, perché la stessa faccia luogo ad una
riedizione del potere ovviamente immune dai profili di illegittimità di tipo istruttorio, procedimentale o
anche sostanziale prima facie riscontrati nella sede della cognizione cautelare ed alla luce, quindi, delle
deduzioni esposte in ricorso, così come fatte proprie ed esternate dal giudice della cautela nelle espresse
indicazioni contenute nella parte motiva dell’ordinanza cautelare" (così R.Garofoli, La tutela cautelare
degli interessi negativi.Le tecniche del remand e dell’ordinanza a contenuto positivo alla luce del
rinnovato quadro normativo, in www.giustizia-amministrativa.it).