Dequotazione della motivazione e provvedimento amministrativo (*) di Avvocato Antonio GUANTARIO 1. Considerazioni introduttive e oggetto dell’indagine. La legge 7 agosto 1990, n. 241, fra le importanti novità introdotte in tema di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti dell’Amministrazione, ha previsto la generalizzazione dell’obbligo della motivazione per tutti i provvedimenti amministrativi, tranne che per gli atti aventi carattere normativo e per quelli a contenuto generale. È apparsa subito evidente l’estrema novità del precetto contenuto nell’art. 3, in considerazione del lungo e tormentato dibattito sviluppatosi sul tema dell’obbligo di motivazione per quegli atti amministrativi che a tale obbligo non erano espressamente assoggettati da una specifica norma di legge (1). Nell’ordinamento giuridico vigente in epoca anteriore all’entrata in vigore della legge n. 241/90, infatti, un obbligo di motivazione ascrivibile a tutti, indistintamente, gli atti amministrativi non era normativamente previsto; sicché costituiva ius receptum il principio secondo cui l’atto amministrativo andava necessariamente motivato nell’ipotesi in cui tale obbligo fosse o imposto da un’esplicita disposizione di legge ovvero richiesto dalla intrinseca "natura dell’atto". La motivazione si configurava, di conseguenza, come elemento formale dell’atto il cui difetto, nel primo caso, dava luogo al vizio di violazione di legge e, nel secondo caso, a quello di eccesso di potere (2). Era dunque "la natura dell’atto" lo strumento concettuale utilizzato per l’individuazione dei provvedimenti amministrativi assoggettati all’obbligo di motivazione; obbligo che, pertanto, sebbene non previsto da alcuna disposizione di legge, traeva origine dall’orientamento giurisprudenziale consolidatosi nel convincimento che il difetto di motivazione integrasse un’ipotesi sintomatica di eccesso di potere amministrativo (3). L’impossibilità di ricondurre l’obbligatorietà della motivazione ad un principio generale indusse dottrina e giurisprudenza a sostenere che la questione dovesse risolversi caso per caso, considerando cioè i singoli atti, posto che non tutti gli atti incidono con pari intensità nella sfera giuridica dei terzi. Se ne concluse che l’esigenza di rendere trasparente l’operato dell’Autorità, esternando i motivi del provvedimento, dovesse porsi unicamente per quegli atti destinati, in maggiore misura, ad incidere negativamente nella sfera giuridica degli amministrati. "Sorse così e via via si consolidò in dottrina e giurisprudenza la teoria dell’obbligo secondo la natura dell’atto" (4). In tal modo, assoggettando all’obbligo di motivazione tutti gli atti autoritativi di natura discrezionale idonei a produrre effetti negativi – attuali o potenziali – nella sfera giuridica degli amministrati, davvero "pochi" erano, di fatto, i provvedimenti per i quali la motivazione potesse considerarsi non necessaria: "i provvedimenti vincolati; quelli dichiarativi non valutativi, le autorizzazioni positive, le concessioni di scarso rilievo, i provvedimenti ablatori obbligatori non discrezionali" (5). A questa stregua, l’introdotta generalizzazione dell’obbligo di motivazione, più che costituire un novum, è apparsa piuttosto la codificazione di un principio già pienamente operante (6). La novità, dunque, ad un primo esame, è sembrata consistere nel diverso trattamento assegnato alla motivazione, il cui difetto, da spia per la rilevazione sintomatica dell’eccesso di potere, si è annoverato tout court nella categoria della violazione di legge (7). Veniva, così, reciso lo storico cordone ombelicale che teneva saldamente ancorato il difetto di motivazione al genus della patologia dell’atto, sub species dell’eccesso di potere (8). Prendeva corpo, in sostanza, l’automatismo secondo cui il difetto di motivazione è senz’altro sussumibile nella categoria del vizio di violazione di legge, così precludendosi alla giurisprudenza qualunque possibilità ermeneutica di ricondurre quel vizio ad un’ipotesi sintomatica di eccesso di potere. Tale quadro, apparentemente schematico, si complica, tuttavia, non appena si pongono a confronto le contrastanti posizioni su cui si attestano, nella vigenza del citato art. 3 della legge n. 241/90, dottrina e giurisprudenza, su temi quali: a) rapporto tra obbligo generale di motivazione normativamente previsto e ammissibilità della motivazione "successiva"; b) contenuto effettivo della nozione di motivazione così come desumibile dall’espressione letterale adoperata dal legislatore nel citato art. 3. Traendo spunto da una decisione del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana (20 aprile 1993, n. 149 - Est.: Giacchetti) (9) – che, sia pure entro certi limiti, ha ritenuto ammissibile in linea di principio l’integrazione in corso di giudizio della motivazione del provvedimento impugnato – è stato acutamente evidenziato come, nel nostro sistema amministrativo, la sostanzializzazione del processo contrasti con la processualizzazione del procedimento di cui è espressione la legge n. 241/90. Di guisa che la tesi sostanzialistica (favorevole alla motivazione successiva) diviene accettabile solo alla condizione (tutta da dimostrare) che i vizi formali dell’atto amministrativo, tra cui la mancanza o l’insufficienza della motivazione, siano degradabili a mere cause di irregolarità (10). Per contro, da altro angolo prospettico è stato obiettato che l’art. 3 della legge n. 241/90 non esclude la "motivazione a formazione successiva" (11) e che, comunque, nell’ordinamento vigente "non sembra rinvenirsi alcuna norma che impedisca la sanatoria degli atti amministrativi nel corso del giudizio" (12). Parallelamente, è stato osservato che, al di là del nomen iuris adoperato, la norma, piuttosto che alla tradizionale nozione di motivazione, sembra fare riferimento alla "giustificazione" del potere (13). Si è anche rilevato che "... il contenuto prescrittivo del secondo alinea del primo comma dell’art. 3 citato nulla innovi, o quasi, ai principi precisati in dottrina con riferimento alla giustificazione" (14), mentre, dal riferimento "alle risultanze dell’istruttoria" se ne è dedotto che la giustificazione (= motivazione) "costituisce non un dato formale di carattere conoscitivo sovraimpresso sul provvedimento ..., bensì che essa esteriorizza il criterio della scelta – discrezionale o non discrezionale – ogni volta che l’istruttoria ponga in risalto interessi secondari diversi tra cui operare una scelta" (15). Altri hanno affermato, invece, che "si sia in presenza di un vero e proprio recupero di centralità della motivazione, intesa come discorso ragionato dell’Autorità volto a giustificare l’esercizio del potere" (16), ritenendo imposto all’Amministrazione "un vero e proprio obbligo di esternazione dei motivi che sostengono il provvedimento con la conseguenza che tale esternazione, e dunque la motivazione nel suo significato formale, diventano elementi essenziali dell’atto" (17). Le segnalate divergenze, richiamate nei loro termini essenziali, sono l’indice di un più generale contrasto su opzioni sistematiche in apicibus, contrasto che conduce ad una inevitabile divaricazione delle conclusioni sui temi nodali che la problematica della motivazione involge. Tale contrasto, peraltro, ha origini ben più remote rispetto all’introduzione del citato art. 3 dal momento che la dottrina, formatasi sul tema in epoca anteriore al 1990, già avvertiva come gli sforzi protesi ad esaltare il valore della legittimità sostanziale del provvedimento, pur formalmente sprovvisto di motivazione, non trovassero riscontro nella giurisprudenza maggioritaria "condensata in massime consolidate di ardua scalfitura" (18). Con ciò evidenziando che, nonostante il citato art. 3, rimangono irrisolti i problemi classici (19) della motivazione quali l’estensione (individuazione degli atti assoggettati al relativo obbligo), il contenuto, l’esternazione della stessa (con riguardo soprattutto alla c.d. motivazione per relationem) (20), l’ammissibilità o meno della motivazione successiva e, infine, ma non ultimo per importanza, l’ambito di reiterabilità dei provvedimenti annullati per difetto di motivazione. Tale ultimo aspetto, infatti, assume rilevanza primaria in relazione all’esigenza di tutela sostanziale del ricorrente che, nel tenore della novella del 1990, non sembra essere garantita dalla apparente (21) aumentata tutela processuale (22), derivante dalla, di certo più agevole, caducabilità del provvedimento sfornito di motivazione per violazione di legge. È un dato, invero, che a fronte della puntuale e copiosa attenzione dedicata alla generalizzazione dell’obbligo di motivazione introdotta dall’art. 3 della legge n. 241/90, non si è riservata una altrettanto estesa analisi alla nozione di motivazione proposta dalla medesima norma (23). Norma che, in verità, sembra delineare per la prima volta, in modo espresso, la fattispecie normativa della figura iuris, sino ad allora appannaggio esclusivo delle discordi ricostruzioni sistematiche dottrinarie, nonché delle decisioni giurisprudenziali più tese ad individuare la disciplina del caso concreto che non a risolvere intricati problemi teorici. Anche nella dottrina più recente si registra, in generale, la doglianza del mancato recepimento da parte della giurisprudenza successiva all’anno 1990 del "passaggio culturale e, dunque, applicativo della nuova normativa" (24), soprattutto nelle decisioni (25) concernenti la sufficienza della motivazione, nelle quali, è stato rilevato, "si afferma che l’obbligo di motivare i provvedimenti amministrativi si può ritenere sufficientemente assolto quando sia dato ricavare la ricostruzione dell’itinerario logico seguito dall’Amministrazione in attuazione di un potere discrezionale" (26). Sta di fatto che la dottrina, nell’interpretare il citato art. 3, si è divisa in due orientamenti: a) da una parte, l’opinione che ha ravvisato nell’art. 3 cit. la conferma (rectius, codificazione formale) di un principio sostanzialmente già vigente, in quanto progressivamente affermatosi in giurisprudenza; b) dall’altra, la posizione interpretativa che, accanto al carattere prevalentemente confermativo del principio esistente, ha ravvisato soprattutto un’innovazione del medesimo (27), interpretato in collegamento organico con le diverse prospettive della nuova legge, il cui punto focale è individuato nel rapporto tra la nozione di "motivazione necessaria" e il concetto di organizzazione procedimentale dell’Amministrazione (28). In forza di questo secondo orientamento, la generica affermazione dell’innovatività del precetto in tema di motivazione postula, in via programmatica, la necessità di depurare il concetto dal suo bagaglio storico – così come progressivamente elaborato in dottrina e giurisprudenza – per concludere che, in sede dommatica, l’innovazione normativa "è idonea ad invertire la direzione della interpretazione" ed escludere il fondamento (se non nei limiti di un mero rilievo, anche in termini di evoluzione storica, nella applicazione giurisprudenziale) della prospettiva ermeneutica delineata dal Giannini sulla progressiva dequotazione della motivazione (29). Ciò in quanto, si è osservato, "recepire la innovazione precettiva dell’art. 3 della legge n. 241 come una semplice conferma dei principi previgenti, contrasterebbe, in termini costruttivamente positivi, con la rilevante novità fondata sulla disciplina positiva del procedimento amministrativo" (30). L’approccio metodologico sotteso alla riferita opinione rivela, con tutta evidenza, una obiettiva carica svalutativa delle origini e dell’evoluzione storica della nozione di motivazione, in relazione al concreto atteggiarsi del sindacato di legittimità sotto forma di eccesso di potere. Tale carica svalutativa trova il suo culmine nel convincimento che, in realtà, l’orientamento giurisprudenziale consolidato contrasti con la diversa nozione di motivazione, postulata in sede di interpretazione dell’art. 3 cit. ed elaborata nella dichiarata "prospettiva di collegamento dell’obbligo di motivazione con il sindacato diffuso sull’azione amministrativa" (31). Senonché, la stessa dottrina, contraddittoriamente (32), al fine di salvaguardare il principio di efficienza dell’azione amministrativa – per il quale si ritiene inammissibile che l’Amministrazione, cui sia preclusa l’integrazione successiva della motivazione, debba sopportare l’effetto paralizzante del ricorso giurisdizionale – considera, "maggiormente coerente con il dettato della legge, ammettere l’integrazione postuma della motivazione con la conseguente cessazione della materia del contendere" (33). Preme sottolineare come la riferita opinione segnali al suo interno un notevole contrasto tra l’affermazione della rilevanza invalidante immediata del difetto di motivazione – ricostruito come non completa e/o coerente esposizione di tutti i fatti e ragioni giuridiche (motivazione in senso ampio) – e l’affermazione della sanabilità successiva del vizio mediante la motivazione successiva, che, a rigore, come è stato da altri evidenziato, si tradurrebbe nel "consentire che il provvedimento amministrativo possa nascere ab origine non motivato o insufficientemente motivato, circostanza questa che potrebbe offrire la strada ad una prassi dell’Amministrazione elusiva (parzialmente o totalmente) dell’obbligo di cui sopra" (34); operazione, questa, incompatibile con la generalizzata formalizzazione normativa del predetto obbligo. Alla luce di questa ultima considerazione la riflessione dommatica mostra un’involuzione che, a nostro avviso, trova riscontro emblematico nell’osservazione che l’enunciato testuale dell’art. 3 cit., prescrivendo che la motivazione debba contenere "i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione ¼ , in relazione alle risultanze dell’istruttoria", fornirebbe "¼ un argomento contrario alla distinzione tradizionale tra motivazione e giustificazione: "i presupposti di fatto" – com’è noto – costituirebbero infatti materia della seconda, e non, come invece afferma la norma in esame, della prima" (35). L’approccio interpretativo possibile nei confronti del dato testuale dell’art. 3 cit. è, pertanto, a nostro avviso, quanto meno bivalente: accanto alla prospettiva di chi ritiene superata la distinzione tradizionale tra motivazione e giustificazione – in quanto la norma riferisce al contenuto della motivazione i presupposti di fatto – va considerata la possibilità alternativa di ritenere che la norma abbia codificato, al contrario, proprio l’obbligo di giustificazione (36). Se la seconda prospettiva fosse, almeno in ipotesi, attendibile, la quaestio della motivazione successiva, ripetutamente sollevata dalla dottrina e dalla giurisprudenza, si convertirebbe in quella della "giustificazione" successiva così recando in sé, de plano, la soluzione dal momento che la dottrina ha da tempo chiarito che "la giustificazione successiva non può affatto dar luogo a quelle obiezioni cui dà luogo la motivazione successiva, dato che è molto più facile indagare l’esistenza di fatti preordinati ad un atto, e controllare la esattezza della loro esposizione, anziché l’esistenza dei motivi stessi" (37). La prospettiva ermeneutica che precede, ha, tuttavia, a nostro avviso, una portata ben più ampia. Ad una analisi attenta, infatti, non può sfuggire che, stando al dato testuale della norma in esame, si può dire che non esista, nel precetto posto dall’art. 3 della legge n. 241/90, la previsione dell’obbligo di esternare (formalmente) i motivi della decisione amministrativa. La motivazione troverebbe così la sua collocazione oggettiva – del tutto indipendentemente dalla sua esternazione "formale" – nel rapporto, che sia possibile istituire, fra i presupposti di fatto (fatto storico) (38) e la decisione amministrativa. A sua volta questo rapporto, che è oggettivo perché intercorre fra due termini oggettivi (presupposti di fatto e decisione), non può non rivelare, in modo del pari oggettivo, la intrinseca congruità e/o adeguatezza (o non) che spiega (o non) ciascun termine del rapporto in funzione dell’altro (39). Le considerazioni che precedono si troverebbero, peraltro, in linea, con quella perspicua giurisprudenza incline a "svalutare", per così dire, il ruolo della motivazione formale pur in vigenza, si noti, dell’art. 3 della legge n. 241/90. Appare, quindi, di dubbio fondamento la censura di quella parte della dottrina che ascrive alla giurisprudenza una sorta di disattenzione al "passaggio culturale e dunque applicativo della nuova normativa" (40). Questa ricostruzione, pur asseritamente orientata a destoricizzare la pregnanza dell’obbligo di motivazione, per renderlo coerente con il sistema di principi della legge n. 241/90, non ci sembra apporti elementi di novità all’evoluzione del dibattito, ove si consideri che rimane del tutto inesplorata la questione fondamentale della esigenza di effettività della tutela giurisdizionale (41) a fronte del potenziamento di un vizio (difetto di motivazione) nella sua prospettiva formalistica (violazione di legge). Se, come sostiene l’autore, l’obbligo di motivazione ex art. 3 cit. inverte "la direzione della interpretazione" ed esclude il fondamento della teorica della dequotazione (42), si dovrebbe ritenere affetto da violazione di legge il provvedimento carente di motivazione formale, ma ben sostenuto da motivi ricavabili dagli atti procedimentali. Una soluzione di questo tipo si innesta nel solco di una visione formalistica della tutela giurisdizionale, in palese controtendenza rispetto all’evoluzione del nostro sistema di giustizia amministrativa, proteso a trasformarsi da giudizio sull’atto a giudizio sul rapporto. Destoricizzare l’obbligo di motivazione, infatti, significherebbe recidere il cordone giuridico sostanziale che lega i motivi del provvedere al vizio di eccesso di potere; in altri termini renderebbe autoreferenziale l’obbligo di motivazione formale, scollegandolo, dunque, dall’obbligo sostanziale di fornire adeguati motivi del provvedere: motivi che si pongono come unico indice rivelatore di un corretto esercizio del potere discrezionale della P.A. (43). Privilegiare il "fatto manifestante" (44) (motivazione formale) rispetto al "fatto manifestato" (45) (motivo) non offrirebbe alcun nuovo apporto al difficile cammino che la trasformazione del processo amministrativo sta compiendo per rendere più effettiva la tutela giurisdizionale. La giurisprudenza, dal canto suo, stante la connaturale esigenza pratica di risolvere casi concreti, in un quadro di principi coerenti con le direttive di sistema, in controtendenza rispetto alla tesi della formalizzazione dell’obbligo di motivazione e della riconduzione alla categoria della violazione di legge di ogni ipotesi di sua inosservanza, ha inaugurato una stagione di decisioni classificabili, a nostro avviso, come "sostanzialistiche". Tali decisioni, in altri termini, hanno di mira la sostanza del conflitto tra ricorrente e P.A., preoccupandosi di verificare che i motivi di ricorso (a prescindere dalla censura di difetto di motivazione) consentano di pervenire ad una decisione che tenga pienamente conto del merito della vicenda (46) in vista di un risultato "certamente più vantaggioso di quello che il singolo interessato potrebbe conseguire da un mero annullamento formale per violazione da parte dell’Amministrazione dell’obbligo del clare loqui" (47). Abbiamo accennato in precedenza che questa giurisprudenza è stata duramente criticata da quella dottrina che riconnette alla violazione dell’obbligo della motivazione ex art. 3 cit. una automatica violazione di legge. A nostro avviso, al contrario, la cennata impostazione metodologica giurisprudenziale appare quantomai lungimirante, poiché all’eccepito vizio di difetto di motivazione dell’atto non attribuisce rilevanza, laddove le ragioni del provvedere possano comunque cogliersi dalla lettura degli atti del procedimento. Infatti, se dalla lettura degli atti del procedimento non si dovessero cogliere le ragioni del provvedere, ne sarebbe provato il difetto, che impingerebbe nell’eccesso di potere per mancato perseguimento dell’interesse pubblico; mentre, se si dovessero cogliere ragioni non conformi agli scopi di legge, sarebbe provato lo sviamento di potere. In ambedue i casi il difetto di motivazione formale verrebbe inevitabilmente assorbito e superato da vizi sostanziali di ben più pregnante portata (48). Le notazioni critiche svolte delineano, dunque, quale debba essere la prospettiva di indagine: dimostrare che il dettato normativo di cui all’art. 3 della legge n. 241/90, lungi dallo sconfessare il principio della dequotazione della motivazione, offra, al contrario, un addentellato di diritto positivo alla evoluzione del pensiero giurisprudenziale sostanzialista sviluppatosi sul tema del difetto di motivazione quale manifestazione dell’eccesso di potere, mirabilmente sintetizzato dapprima dal Giannini, nella locuzione "dequotazione della motivazione", e successivamente consolidatosi proprio sotto la vigenza dell’art. 3 cit. (49). Tuttavia, questa ipotesi interpretativa non può restare semplice enunciazione di un principio, ma deve dimostrarne la fondatezza ed approfondirne le conseguenze giuridiche. A tal fine tenteremo di porre in collegamento dommatico la tesi interpretativa proposta e le linee evolutive della teorica della motivazione mediante l’approfondimento del percorso storico che va dalla motivazione c.d. enunciativa alla sua "dequotazione". Percorso che si snoda di pari passo ed in intima connessione con l’evoluzione storica dell’eccesso di potere amministrativo. Emergerà così un’interessante sintonia tra l’insegnamento della dottrina (Iaccarino), che per prima ha ricostruito sistematicamente la figura iuris della motivazione, con la più recente giurisprudenza c.d. sostanzialista, dimostratasi sensibile tanto alla critica di scarsa utilità della sentenza di annullamento dell’atto per mero difetto di motivazione formale quanto ad una più estesa ammissibilità della c.d. motivazione successiva. 2. - Linee evolutive della teorica della motivazione: dalla motivazione enunciativa alla sua dequotazione. La ricostruzione storica dell’eccesso di potere sub specie di difetto di motivazione evidenzia che la motivazione degli atti amministrativi è collegata all’eccesso di potere sotto due profili: da un lato, per la sua funzione strumentale ad un pieno ed effettivo sindacato giurisdizionale e, dall’altro, per la sua funzione probatoria sull’esistenza dei motivi posti a base dell’atto. Funzione probatoria connessa al convincimento che i motivi non indicati nella motivazione possano denunciare che l’Amministrazione abbia qualcosa da nascondere e che, quindi, la mancanza o l’insufficienza della motivazione sia sintomo dei vizi occulti dell’atto (50). La dottrina più antica, nell’intendimento di tratteggiare a grandi linee lo sviluppo della giurisprudenza "sopra alcuni aspetti dell’eccesso di potere" (51), passando in rassegna la giurisprudenza di circa mezzo secolo (dal 1890 al 1930), così descriveva la motivazione: "Essa (...) costituisce la prova manifesta di un vizio dell’atto. Mi riferisco ai casi in cui l’Amministrazione dà, nella motivazione, sufficiente ragione di esso. Ma da queste ragioni si deduce, appunto, che l’atto è viziato: o perché tali ragioni denunziano dei criteri contrari alla legge o al pubblico interesse o perché le ragioni medesime testimoniano che la volontà dell’Amministrazione si è malamente formata o perché da tali ragioni appare il travisamento dei fatti, l’illogicità, la contraddizione, l’errore di diritto, lo sviamento di potere, ecc. Per quanto in pratica ciò non sia infrequente, in tutti questi casi non è corretto affermare che l’atto è viziato per difetto di motivazione. Diremo, invece, che la motivazione costituisce la prova del travisamento, dello sviamento, ecc." (52). Proseguendo, la stessa dottrina spiegava come il difetto di motivazione integrasse un sintomo del vizio nella causa (= vizio nei motivi) – eccesso di potere – in quanto "difetto di motivi che dà luogo a sospetto di arbitrio" (53), mostrando così di confondere e/o identificare motivi e motivazione. Nello stesso periodo (1933) C.M. Iaccarino era costretto ad evidenziare come la teoria della motivazione fosse in stretto rapporto con la teoria dell’eccesso di potere, "... inquantoché questo, che è spesso basato su un vizio relativo ai motivi, su errore voluto o non voluto, si rileva facilmente attraverso la motivazione che, come esposizione dei motivi, rende agevole vedere se essi rispondono ad esattezza oppure no. Poiché quindi l’una (la motivazione) è mezzo per dimostrare l’altro (l’eccesso di potere) questo rapporto di causa ad effetto ha qualche volta portato ad affermare addirittura come il vizio di motivazione, in quanto fa presumere il vizio dei motivi, costituisca di per se stesso eccesso di potere" (54). Lo stesso autore avvertiva che "spesso il non motivare un provvedimento può essere determinato dal desiderio di non far conoscere i veri suoi motivi, e poter così attenuare, se non proprio eliminare, i dubbi sulla sua legittimità. In questo caso l’uso della facoltà discrezionale di motivare o meno l’atto ha scopi diversi da quelli per cui tale discrezionalità è stata concessa, e ciò costituisce un vero e proprio detournement de pouvoir" (55). È interessante notare come, in entrambi i casi, si assegnasse al difetto di motivazione il valore indiziario e/o presuntivo di un arbitrio e/o di un vizio dei motivi nell’ambito dell’atto (56). Tale convincimento risultava influenzato dalla concezione volontaristica dell’atto amministrativo, di derivazione privatistica, che vedeva nella motivazione il "luogo" in cui si esternano i motivi (psicologici) posti a base dell’atto. Motivi considerati, a loro volta, quali elementi compositivi di una problematica più ampia: la prevalenza della volontà dichiarata sulla volontà formata (intenzione), nell’eventualità di una loro discordanza (57). Sul punto Iaccarino, pur non apportando un contributo particolare, non mancava di segnalare che "come manifestazione della volontà si può intendere non solo la manifestazione del momento dispositivo per così dire, ma anche la manifestazione del momento motivo" (58), limitandosi ad illustrare lo stato della questione e ad aderire all’orientamento della prevalenza, in diritto pubblico, della volontà interna (59). Di particolare interesse appare, tuttavia, a nostro avviso, l’osservazione critica rivolta dall’autore a quella dottrina che, facendo leva sulla specificità del diritto pubblico, accreditava la tesi della prevalenza dell’intenzione, proprio perché riscontrabile nella dichiarazione dei motivi (motivazione): osservava Iaccarino che "la questione risorge per altra via, nel caso di una manifestazione dell’intenzione, cioè dei motivi, poiché è ben possibile che vi sia discordanza tra la vera intenzione e l’intenzione manifestata" (60). Come è stato autorevolmente notato, "contro l’opinione dominante si può osservare ¼ che dicendo "volontà vera" resta sempre da definire che cosa più precisamente essa sia nei suoi rapporti con quella manifestata" (61), potendosi così condividere la lucida analisi del Betti secondo cui "la questione se la "volontà interiore" (perché questa è la volontà "vera") debba prevalere sulla dichiarazione, o la dichiarazione sulla volontà interiore, esprime un’alternativa inammissibile sul terreno del diritto, quindi è mal riposta. Perché la volontà delle parti non acquista rilevanza giuridica se non, per l’appunto, nella forma della dichiarazione o di comportamento: onde non può essere collocata sullo stesso piano di questa forma, né assumere un valore a sé stante, in antitesi con essa" (62). Probabilmente in argomento è mancata una consapevole riflessione dommatica che ponesse in luce le conseguenze cui siffatta zona d’ombra ha dato origine. Sul piano storico-effettuale, infatti, un primo interessante elemento di riflessione si ricava proprio dal legame tra motivazione ed eccesso di potere: se la motivazione, in quanto enunciazione dei motivi dell’atto, è il mezzo per esternare-dichiarare l’intenzione, cioè la volontà effettiva dell’atto; la stessa sarà anche unico e necessario mezzo per dimostrare l’eccesso di potere sotto forma di eventuali stati viziati della volontà. Ne derivava che un generale obbligo di motivazione, pur normativamente non previsto, trovasse il suo fondamento nell’essere la motivazione l’unico strumento attraverso cui esercitare il sindacato per eccesso di potere (63). Ne derivava, altresì, la sindacabilità del tratto discrezionale dell’atto in contemplazione "esclusiva" dell’esternazione formalizzata dei motivi (64), "onde più l’autorità amministrativa ampliasse la motivazione, più si ampliasse correlativamente l’ambito di conoscenza giudiziale" (65). Sicché, per un verso, l’atto amministrativo, unico punto di contatto tra Amministrazione ed amministrati (66), costituiva esclusivo parametro giuridico rilevante per l’esame dei processi decisionali, protagonista di ogni controllo e/o sindacato; per altro verso, l’attività procedimentale precedente all’emanazione dell’atto era considerata attività riservata all’ufficio e come tale sottoposta al segreto (67). Emblematica al riguardo l’opinione del Mortati secondo cui "in sostanza tutte le varie forme di eccesso di potere quali sono state elencate dalla dottrina sulla base della giurisprudenza del Consiglio di Stato (e cioè: assenza di qualsiasi motivo o di un specifico motivo di pubblico interesse, indicata di solito come mancanza o falsità della causa; illogicità; travisamento dei fatti, o contraddizione con i fatti; violazione del principio di eguaglianza) sono di norma accertabili solo attraverso gli elementi, la cui rilevazione è funzione della motivazione rendere possibile" (68). È sorprendente come questa posizione, pur così divaricata rispetto a quella del Presutti, che riteneva, invece, l’esame del dossier (atti del procedimento) sufficiente e idoneo strumento del sindacato per eccesso di potere, non fornisca alcuna riflessione critica a spiegazione di un sì forte contrasto. Analogamente, il radicarsi del principio giurisprudenziale del divieto di motivazione successiva, – derivante dalla considerazione del rischio che essa enunciasse motivi diversi da quelli effettivi (69) – si innesta sulla logica della prevalenza della c.d. volontà vera (intenzione effettiva) su quella dichiarata. Sta di fatto, tuttavia, che, in seguito, lo stesso Iaccarino, per sottrarre la motivazione successiva alla obiezione di una sua possibile falsità, ne affermasse sindacabile l’esattezza attraverso l’esame della c.d. motivazione implicita contenuta nella "giustificazione" dell’atto (70). Si assisteva, così, sul piano logicogiuridico, ad una sorprendente inversione: la motivazione successiva espressa assumeva valore e ruolo recessivi rispetto alla giustificazione, quale esposizione delle circostanze di fatto e di diritto da cui si inferiscono i c.d. motivi. Il punto posto in evidenza è di estrema importanza e sembra in qualche modo offrire riscontro alla problematica dei riflessi giuridici di un eventuale contrasto tra motivazione espressa e motivazione implicita, quale si ricava dalla giustificazione ovvero dalla documentazione (71). Nell’opinione di Iaccarino, quindi, più o meno consapevolmente, il "luogo" della volontà-intenzione vera, e cioè la motivazione espressa, viene mutato nella "giustificazione" da cui trarre la motivazione implicita (72) che è una "non motivazione" (73). La volontà vera, dunque, in questo caso, non emerge dalla enunciazione formale della motivazione, ma dai "fatti" e "atti" indicati nella giustificazione e/o preordinati alla manifestazione di volontà (74). Non è di poco momento considerare che Iaccarino concludeva la sua opera con la seguente definizione: "possiamo dire che la motivazione di un atto è la esposizione (anche implicita) dei motivi che lo hanno determinato in modo da consentire il sindacato sull’iter voluntatis dell’agente" (75). Come è stato acutamente osservato, la tesi sostenuta dallo Iaccarino "spostava per la prima volta il problema della motivazione dall’interno all’esterno dell’atto, anticipando singolarmente il tramonto dell’importanza teorica della motivazione" (76). La ricostruzione critica del pensiero di Iaccarino, in sostanza, al di là dell’apparente diversità di opinioni, sembra, pertanto, confermare i rilievi formulati dal De Valles sin dal 1909, il quale segnalava che la divergenza tra volontà reale e volontà dichiarata fosse ristretta in modesti confini, nel senso che per volontà reale deve intendersi non un concetto astratto bensì la "volontà reale che può dedursi dagli atti e documenti inerenti l’atto" (77). Di conseguenza il principio del predominio della volontà reale su quella dichiarata perdeva gran parte del suo valore, posto che divenivano irrilevanti per il diritto tutte quelle intenzioni dell’agente in nessun modo esteriorizzate negli atti preparatori. In altri termini, la problematica della prevalenza dei reali intenti su quelli dichiarati si trasformava in quella della prevalenza della volontà, quale obiettivamente emerge dall’intero procedimento, sui motivi formalmente dichiarati nell’atto. Sul punto è illuminante la limpida ricostruzione di M.S. Giannini (78), lì dove evidenzia come ad un certo punto, dopo la prima fase, di elaborazione dell’eccesso di potere come figura dai "contorni sfumati" e la seconda in cui la giurisprudenza legò strettamente l’eccesso di potere alla motivazione del provvedimento – richiedendo in sede processuale che la parte ricorrente dimostrasse l’infondatezza dei motivi esposti in motivazione, mediante l’introduzione di fatti idonei a provare l’esistenza di motivi diversi – prevalse, nel terzo stadio, l’opinione che ammetteva l’accertabilità dei motivi non dedotti in motivazione, purché rilevabili in altro luogo. In quest’ultima fase si è attuato il reale superamento della concezione della motivazione formalizzata nell’atto come unico tramite attraverso cui il giudice potesse conoscere dei vizi dell’atto. Superamento che, come si è visto, Iaccarino, con estrema lucidità, aveva anticipato in sede dommatica con la enucleazione della figura della motivazione implicita, quale giudizio logico da inferirsi dai fatti presupposti dell’atto e l’affermazione della prevalenza di quella sul giudizio conoscitivo meramente incentrato sulla motivazione enunciativa contestuale espressa, intesa come comunicazione formale dei motivi. 3. - Verifica della dequotazione della motivazione nell’art. 3 legge n. 241/90. Passando, ora, ad affrontare, in chiave ricostruttiva, la figura della motivazione così come si ricava dall’art. 3 della legge n. 241/90 è di particolare interesse notare come la norma, più che disciplinare il contenuto della motivazione, in realtà, per la prima volta nella storia del nostro ordinamento repubblicano, abbia introdotto la descrizione normativa del contenuto del provvedimento (79). Non è una disciplina sul "come" si motivi, ma su "cosa" debba motivarsi: "La motivazione deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’Amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria" (art. 3, comma 1, seconda parte, legge n. 241/90) (80). Infatti, il grande assente nella descrizione normativa del contenuto della motivazione è proprio il "motivo" (81). La norma ha qualificato motivazione ciò che, sul piano della distinzione logica tradizionale, è mera "giustificazione". È agevole considerare a questo punto come la descrizione normativa di ciò che la motivazione deve indicare (presupposti di fatto) coincida con le circostanze di fatto cui Iaccarino collegava la motivazione implicita, circostanze che si atteggiavano quale strumento di verifica della veridicità dell’eventuale motivazione successiva. "Si ha motivazione implicita quando l’accertamento dei motivi risulta agevole, piano e univoco, dalle circostanze di fatto che li producono" (82) in relazione ad un giudizio c.d. meccanico; date alcune premesse e alcune conseguenze, "il ragionamento non può essere diverso da quello che è supposto dalla legge o che si deve supporre sia il tipo medio di ragionamento in materia" (83). In sostanza la motivazione implicita, a differenza della motivazione espressa formale che sovrappone artificialmente, testualizzandolo, un rapporto di congruità tra scelta e situazione di fatto considerata, trae la sua genuinità dalla forza di autoevidenza che i fatti enunciati o documentati riflettono sulla bontà della scelta effettuata. Di qui la considerazione che la motivazione di cui all’art. 3 cit., risponda perfettamente alle prospettive dogmatiche tracciate da Iaccarino, evolutesi in giurisprudenza attraverso la casistica dell’eccesso di potere, e lucidamente riannodate dal Giannini, in sede di analisi critica, con la teorica della "dequotazione". Secondo la fine analisi storica del Giannini sulle origini giurisprudenziali del problema della motivazione (84), quale principale elemento di indagine su cui si esercitava il sindacato giurisdizionale dell’attività amministrativa, da una prima fase in cui si è registrata un’esaltazione della funzione della motivazione del provvedimento si è passati ad una revisione della posizione precedente, con una "dequotazione della motivazione in quanto tratto formale dell’esternazione del motivo" (85). In sostanza da un "obbligo di motivazione inteso in senso rigido, di motivazione come enunciato necessario del provvedimento discrezionale" (86), "per cui ciò che non fosse in motivazione non fosse nel provvedimento" (87), si passava ad una motivazione la cui verificazione giudiziale veniva effettuata "sulla base degli atti e dei risultati dell’intero procedimento" (88). Si ammettevano cioè, oltre alla motivazione, "altri elementi di integrazione dell’atto, anche non espressamente richiamati in motivazione" (89). Con la perdita di significato formale e vincolante degli enunciati della motivazione "ciò che balza in rilievo non è la motivazione (in senso largo), ma sono il motivo o presupposto nella loro realtà effettiva" (90); "conta ciò che si è fatto, non ciò che si è dichiarato di voler fare" (91), in quanto "al giudice non interessa più sapere che cosa l’Amministrazione ha esternato, in particolare quali motivi e come; interessa sapere che cosa con il provvedimento adottato, ha voluto e ha compiuto, e, per saperlo, ripercorre l’intero procedimento in quanto dimostrativo della genesi del provvedimento" (92). Le affermazioni del Giannini sono la sintesi dei principi consegnati in materia di eccesso di potere dall’evoluzione giurisprudenziale la quale, come acutamente osservato, nell’adottare come regola generale "il criterio che la verificazione giudiziale dei motivi del provvedimento ¼ dovesse farsi sulla base degli atti e dei risultati dell’intero procedimento" (93), diede origine all’indirizzo dottrinale inaugurato da F. Benvenuti. L’autore, prospettando la tesi secondo cui il vizio in questione dovesse oramai raffigurarsi come vizio della funzione amministrativa (94), veniva a compendiare l’indirizzo giurisprudenziale incline a collocare la prospettiva dei vizi di legittimità al di fuori dell’atto finale, proiettandoli sull’intero procedimento che sta a monte dell’atto stesso (95). Di qui poi l’affermazione della dequotazione della motivazione "in quanto tratto formale dell’esternazione del motivo" (96) e del tradursi della dogmatica della motivazione nell’analisi dei limiti del sindacato giurisdizionale sotto forma di eccesso di potere (97), che ha offerto alla dottrina più recente una traccia per l’approfondimento di un tema di difficile soluzione (98). In prosecuzione logica con la teorica della dequotazione, pur riscontrandosi sovente in dottrina l’affermazione che la mancanza o insufficienza della motivazione si risolva comunque nell’impossibilità di conoscere i motivi posti a fondamento del provvedimento (99), è stato autorevolmente precisato, però, che la mancanza di motivazione non dovrà intendersi, dunque, come impossibilità di conoscere i motivi attraverso l’esame del solo atto, ma come impossibilità di ricostruire dall’intero procedimento i motivi c.d. dedotti, vale a dire quelli ricavabili dalla motivazione aliunde, cioè da altri elementi del provvedimento (inteso come documento) o del procedimento necessario per la sua formazione (100). Senonché va avvertito che il richiamo (espresso o meno) all’atto procedimentale in cui i motivi siano esplicitati mediante enunciazione discorsiva, a sua volta, non risolve di per sé il problema che si era creduto di chiarire con il superamento della motivazione contestuale espressa del provvedimento amministrativo, quanto semplicemente lo sposta, perché rimarrebbe aperta la questione della artificialità della motivazione enunciativa in relazione alla sostanza della determinazione amministrativa (101): e cioè "¼ la possibilità, tutt’altro che eccezionale, che i motivi dichiarati dall’agente siano ben diversi da quelli posti effettivamente a base dell’atto stesso" (102), in contrapposto alla declamata funzione garantistica della motivazione enunciativa. Il rischio che l’esposizione formale dei motivi (contestuale e/o aliunde) sia artificiosa, in realtà, si supera allorquando il riferimento agli atti del procedimento valga come "documentazione" dei c.d. fatti "ufficialmente" noti all’Amministrazione (103), da cui inferire autonomamente (da parte di colui che sindaca) i motivi obiettivati (nel senso di obiettivamente ricostruibili rispetto a quelli formalmente enunciati) sottesi all’atto, inteso questo come estrinsecazione finale (sintesi) del potere (e/o dei poteri) esercitato (i) nell’arco procedimentale. Questa ricostruzione consente di porre la seguente definizione: la motivazione è l’obiettiva esternazione giuridica dei motivi, che prescinde dalla loro enunciazione formale nell’atto, in via contestuale ovvero per relationem, poiché in via logico-giuridica l’obbligo di motivazione è senz’altro preceduto dall’obbligo di adeguati motivi (elemento teleologico dell’atto: perseguimento dell’interesse pubblico concreto). Pertanto, sarebbe più corretto dire che l’obbligo di motivazione altro non sia che il riflesso (la forma giuridica necessaria) della rilevanza giuridica (obbligo) dei motivi, che si traduce in obiettiva esteriorizzazione (evidenza pubblica) dei motivi obbligatori. D’altro canto è stato perspicuamente sottolineato come la regola dell’evidenza pubblica "... si possa in realtà predicare di tutta l’attività amministrativa autoritativa come caratteristica del rilievo giuridico dei fini o interessi pubblici ..." (104). La migliore dottrina ha avvertito, infatti, che, lungi dal costituire elemento strutturale dell’atto, "ufficio della motivazione è quello di rendere giuridicamente rilevanti alcuni elementi concreti, dalla cui sussistenza dipende la conformità dell’atto all’ipotesi normativa (¼ ). Così, la mancanza di motivazione costituisce quasi il segno esteriore di un vizio sostanziale: precisamente, di quello stesso vizio che viene a profilarsi nel caso di accertata inconsistenza della ragione indicata dall’autorità nella motivazione dell’atto" (105). L’unico punto critico della tesi riportata è il postulato che si tratti pur sempre di motivazione enunciata nell’atto (c.d. puro testo formalizzato), quando, invece, nulla impedisce che la stessa non sia testo formalizzato nell’atto, ma esternazione ricavabile obiettivamente dall’intero procedimento (106). La giurisprudenza più avvertita, sia pure minoritaria, non ha mancato dal canto suo di sottolineare come "allo stato della evoluzione dottrinale e giurisprudenziale in tema di motivazione, quest’ultima va cercata nel procedimento più che nel provvedimento" (107). Ne deriva che non è un preteso e autonomo obbligo di motivazione formale ad imporre, sul piano logicogiuridico, gli approfondimenti sostanziali (istruttori) che la giurisprudenza esige in alcune situazioni (tipizzate come ipotesi di "motivazione rinforzata"), ma è l’obbligo sostanziale della sussistenza di adeguati motivi che fa venire ad emergenza giuridica l’esigenza di riconoscerli mediante l’esternazione: in un primo tempo ritenuta esternazione formalizzata nel provvedimento, in un secondo momento ricavata anche dagli atti e fatti del procedimento. Quelle regole particolari che la giurisprudenza suole riferire alla motivazione non costituiscono prescrizioni speciali e variabili secondo la categoria di atti, ma il "semplice riflesso del modo di determinazione normativa degli elementi da esternare" (108), nel senso che in considerazione della incidenza del provvedimento (positivo sfavorevole oppure negativo) su situazioni giuridiche ritenute particolarmente qualificate, la norma determina in modo più specifico le possibili ragioni dell’atto lesivo, circoscrivendo in limiti più ristretti la discrezionalità amministrativa (109). Dunque, quelli che vengono qualificati casi di motivazione rinforzata, in realtà, più correttamente, dovrebbero definirsi ipotesi di discrezionalità particolarmente limitata (110). Stando così le cose risulta, altresì, chiaro che alla dequotazione della motivazione espressa è collegato il preminente rilievo assegnato alla c.d. motivazione implicita contestuale e/o aliunde (ossia quella deducibile in via logica dalle circostanze di fatto presupposte al provvedimento ed esternate nella giustificazione ovvero evincibili dalla documentazione). Conseguentemente non appare infondato ritenere che l’enunciazione ex art. 3 cit., in realtà, privilegi la dimensione implicita della motivazione, la quale segna però una sorta di tramonto giuridico di quella enunciativa, in favore di un sindacato di legittimità che ha di mira gli aspetti sostanziali dell’esercizio della funzione, a detrimento dei meri vizi formali, inidonei ad offrire tutela piena, effettiva e, soprattutto, definitiva. Con la motivazione implicita, quindi, "la motivazione espressa viene ad essere sostituita dalla giustificazione, contestuale, esplicita od implicita, nel senso che da questa si prendono elementi per giungere a quella" (111). La ragionevolezza della tesi avanzata trova conforto nell’opinione della dottrina più antica (Presutti) che, con una modernità sorprendente, avvertiva che la motivazione "non in altro è necessario consista che nella esposizione delle circostanze di fatto, in vista delle quali l’Amministrazione emana l’atto. La dimostrazione del concatenamento logico fra questi fatti e l’oggetto del provvedimento in base alla norma giuridica, è perfettamente inutile. È cioè perfettamente inutile che nel provvedimento sia esposta l’argomentazione in base a cui si dimostri l’esattezza dell’accolta interpretazione della norma giuridica, e della fatta applicazione della norma alle circostanze di fatto. Ciò perché chi sindaca l’atto può, obbiettivamente considerando tali questioni e prescindendo onninamente dalla dimostrazione eventualmente contenuta nell’atto sottoposto al suo sindacato, vedere se effettivamente gli assunti presupposti di fatto giustificano la emanazione del provvedimento. Qualunque errore si contenga nella dimostrazione di questo nesso non potrà impedire di constatare che questo nesso vi è, se effettivamente sussiste" (112). Il non aver ricompreso nel contenuto della motivazione un esplicito obbligo di esposizione dei motivi è, a nostro avviso, sintomo di una ben precisa scelta del legislatore, che ha chiuso definitivamente con il concetto di motivazione strutturato in discorso enunciativo dei c.d. "motivi"; motivi che la dottrina ha, ormai, dimostrato essere depsicologizzati e, quindi, obiettivati nell’intero procedimento amministrativo. In proposito non si può fare a meno di ricordare come il Levi avesse colto, da un lato, l’evanescenza delle ragioni che muovono il funzionario a provvedere, e, dall’altro, la natura di mera ipostasi delle ragioni obiettive del provvedimento (113). Sempre secondo il Levi "non è dato addentrarsi in modo diretto nelle ragioni dell’agire altrui" (114) poiché, "... anche qualora l’agente estrinsechi ed esponga dette ragioni, è sempre lecito il dubbio se le sue affermazioni rispondono a verità ¼ , se cioè i motivi indicati siano quelli che hanno effettivamente sorretto la condotta" (115). Più esplicitamente il Levi, nell’indicare la volontà "obiettiva" dell’organo, quale fonte del provvedimento amministrativo, da un lato, spiega che "dinanzi a quest’ultima nozione, invero, ha perso gran parte del suo interesse, sia dommatico che positivo, la considerazione della volontà in senso puramente psicologico" (116), e, dall’altro, evidenzia il parallelismo tra nozione di volontà obiettiva e concetto di conoscenza ufficiale dell’organo amministrativo – ossia non la conoscenza effettiva dei dati da parte del funzionario, bensì la conoscenza presunta di quei fatti e prove "¼ che a vario titolo dovrebbero essergli noti ¼ " (117). L’oggettivazione della volontà, dunque, nel diritto pubblico, se inizialmente è stata sostanziata come identificazione della volontà reale con quella comunque formalmente esternata in un atto o documento del procedimento (118), oggi deve intendersi come un quid di immateriale, ma nondimeno oggettivo. Sembra, allora, che da una tipologia di esternazione simbolico-rappresentativa si sia passati alla tipologia del segno informale, segno che si sostanzia essenzialmente nei presupposti di fatto da cui il ragionamento giuridico si diparte. Per meglio comprendere il senso della distinzione tra motivazione formale enunciativa e motivazione come sintesi degli elementi giuridicamente rivelatori dei motivi è opportuno rifarsi al concetto d’oggettività materiale ed immateriale introdotto dal Falzea. Premesso, infatti, che il motivo corrisponde all’oggettività immateriale (significato), mentre la motivazione corrisponde all’oggettività materiale (segno) (119), è opportuno chiarire che la motivazione, unitamente al provvedimento amministrativo, rientra nella figura del comportamento manifestativo quale "fatto manifestante" che si scinde in dichiarazione in senso stretto e manifestazione in senso stretto ("comportamento che fa argomentare, secondo una regola di esperienza, la realtà ¼ dei fenomeni manifestati – detta significazione illativa"). Mentre le dichiarazioni si limitano ad evocare idee, le manifestazioni fanno argomentare fenomeni reali (120), sì da aversi nella vita pratica umana che le manifestazioni sono più serie e garantite perché consistono di comportamenti effettivi, e che le dichiarazioni sono più significanti perché si avvalgono della potenza del linguaggio (121). Tuttavia il diritto vive nella dimensione intersoggettiva e i suoi fenomeni diventano rilevanti nella misura in cui entrano in quella dimensione e assumono carattere di oggettività. Il significato soggettivo può diventare giuridico alla condizione che risulti oggettivamente fondato. Non bastano, perciò, alla rilevanza giuridica del significato soggettivo le attestazioni dell’autore della dichiarazione (leggasi: motivazione discorsivo-enunciativa), le quali non sono in grado di offrire una garanzia sicura, a prescindere dalle intenzionali alterazioni, su ciò che egli ha inteso realmente dichiarare. Al significato soggettivo non può che condurre una manifestazione in senso stretto. In conclusione: il significato oggettivo (apparente) si ricava dalla dichiarazione, il significato soggettivo (vero) dalla manifestazione. Esclusa la possibilità di una verificazione diretta del significato soggettivo, anche quest’ultimo è in ultima analisi una forma di significato oggettivo. Ciò che lo distingue dal significato oggettivo in senso più stretto è la circostanza che quest’ultimo si deduce unicamente dalla dichiarazione senza alcun riferimento alle idee e alle intenzioni del dichiarante, mentre il significato soggettivo si ricava da un insieme di fattori che accompagnano la dichiarazione e che sono presi in considerazione allo scopo di ricostruire le idee e le intenzioni del dichiarante. Sicché, qualora il significato soggettivo reale non riesca a farsi luce oggettivamente, attraverso il comportamento complessivo o la situazione complessiva, resta privo di rilevanza giuridica. Di qui, a nostro avviso, il superamento, già sul piano della loro ipotizzabilità logica, di tutte quelle figure sintomatiche dell’eccesso di potere legate al contrasto testuale tra discorso meramente enunciativo dei motivi e contenuto in senso tecnico-giuridico (dispositivo) del provvedimento. In quest’ottica vengono a cadere tutti gli ostacoli frapposti dalle diverse teorie sull’eccesso di potere, inclini ad inibire le potenzialità cognitorie del giudice amministrativo nel corso del giudizio di legittimità. Elemento comune a tali teorie è la convinzione che estendere l’obbligo di motivazione equivalga ad estendere l’area dell’impugnabilità e la casistica del vizio di legittimità (122) e che, così argomentando, possa ritenersi ampliata la tutela processuale. Non considerano, tuttavia, tali teorie che, limitandosi a rilevare l’esistenza di un c.d. sintomo di eccesso di potere e/o di un vizio formale, si finisce per omettere l’accertamento della reale esistenza o meno dei motivi, infliggendo al ricorrente un grave diniego sostanziale di giustizia, dal momento che, annullato l’atto per difetto di motivazione, l’Autorità amministrativa procedente potrebbe riadottarlo esternando i motivi effettivamente esistenti (123) e ricostruibili alla luce degli atti e dei fatti contenuti nel procedimento (124). Le concezioni di questo segno finiscono col privilegiare, in realtà, una nozione dell’eccesso di potere che va a sanzionare una malaccorta formulazione del discorso motivante che si palesi incongruo ed illogicamente articolato, a discapito dell’indagine sulla eventuale conformità sostanziale della misura adottata alla legge e all’interesse pubblico (125). Si ritiene, in altri termini, che siano ben precise esigenze di giustificazione del provvedimento di fronte all’opinione pubblica ad offrire ratio e fondamento alla postulata clausola generale per cui gli atti amministrativi non possano presentare esteriormente i caratteri dell’illogicità e dell’arbitrio (126): esigenze di giustificazione la cui violazione diviene, poi, sul piano teorico-dogmatico, centro di imputazione giuridica di numerose figure sintomatiche d’eccesso di potere, tutte traducibili nel difetto o nella inadeguatezza dell’enunciazione motivante (127). L’attribuzione alla motivazione del provvedimento della funzione, lato sensu, democratica, di mostrare al sindacato di opinione pubblica la decisione autoritativa (e segnatamente una delle sue più significative espressioni: la clausola di apparente logicità dell’esercizio delle funzioni pubbliche) si pone in insanabile contrasto con la ricostruzione dell’eccesso di potere che reputa irrilevante il c.d. vizio logico nel processo formativo del provvedimento, ove l’intrinseca legittimità sostanziale di quest’ultimo possa riconoscersi attraverso la situazione di fatto obiettivamente accertata (128). Il sindacato di opinione pubblica agli albori del sistema vigente di giustizia amministrativa coincideva con le tecniche indagatorie del sindacato giurisdizionale, di ispirazione essenzialmente formalistica (in ossequio al c.d. principio dell’atto formale), limitato ad un riscontro del tutto estrinseco sulla apparente obiettività e ragionevolezza dell’atto considerato. Tale coincidenza, però, si è progressivamente affievolita man mano che il sindacato giurisdizionale abbia acquisito maggiore capacità di penetrazione, oltre l’involucro formale dell’atto, nella sottostante realtà del rapporto amministrativo. Questo passaggio, presupponendo il principio della prevalenza del reale sull’apparente, rafforza la tendenza al progressivo scadimento del vincolo dell’Amministrazione a precise formalità esternative. Di qui la sostanziale antinomia logico-giuridica tra la natura del sindacato di opinione pubblica e l’istanza sostanzialistica che permea il sindacato giurisdizionale, "di cui costituisce segno tangibile la progressiva obliterazione del principio dell’atto formale, sempre più disatteso dalla recente giurisprudenza" (129). La dottrina, pur riconoscendo il c.d. tramonto del principio dell’atto formale, non offre ipotesi di soluzione alla rilevata antinomia e si limita a considerare come non ancora consumata la svalutazione del sindacato di legittimità condotto nelle forme del riscontro estrinseco sulla apparente logicità dell’esercizio delle funzioni pubbliche. E ciò viene sostenuto, facendo leva su un generico richiamo ai testi legislativi, che prevedono espressamente l’obbligo di motivazione, e sulle risultanze di quella giurisprudenza ben radicata nell’uso delle figure "sintomatiche" di eccesso di potere, nelle quali, si è visto, si esprime l’essenza del "vizio logico" della funzione di cui si vorrebbe contestare il rilievo (130). Questa posizione è criticabile in quanto, a nostro avviso, si riduce a dar conto dell’antinomia, senza preoccuparsi di saggiare la fondatezza o meno dell’atteggiamento giurisprudenziale che applica formalisticamente i c.d. sintomi di eccesso di potere. Tanto più che le esigenze del sindacato di opinione pubblica, cui sarebbe funzionale l’obbligo di motivazione, sono contraddette profondamente dal largo accoglimento in giurisprudenza della c.d. motivazione per relationem, "giacché il rinvio alle argomentazioni desumibili da atti non contestualmente esternati (né spesso in alcun modo resi pubblici) osta tecnicamente alla rilevazione positiva della razionalità ed adeguatezza della misura adottata" (131). A questo punto si pone un dilemma, delle due l’una: o la motivazione per relationem, in quanto incompatibile con l’esigenza del sindacato diffuso, è illegittima; oppure la ricostruzione dell’obbligo di motivazione in funzione del sindacato di opinione pubblica è infondata proprio per la sua incompatibilità con l’istituto giurisprudenziale della motivazione per relationem. È un dato incontrovertibile che la figura della motivazione per relationem costituisce, ormai, ius receptum (peraltro, codificata espressamente dall’art. 3 della legge n. 241/90), mentre il principio dell’obbligo di motivazione in funzione del sindacato di opinione pubblica non è fondato su dati di diritto positivo. Ciò nonostante, è singolare notare che la dottrina abbia accolto, quasi unanimemente, la tesi della funzione democratica della motivazione, senza farsi carico di superare le obiezioni appena espresse. Soltanto in tempi recenti si è registrata l’opinione discorde di chi ha affermato che non "¼ si vede come il controllo democratico possa essere esercitato su un atto che non è sottoposto a un regime di pubblicità generalizzata (come la pubblicazione sulla "Gazzetta Ufficiale"), ma è reso noto, in via di principio, ai soli destinatari" (132), non richiedendo il principio democratico, di per sé, la motivazione degli atti giuridici, posto che la decisione democratica si legittima in ragione del suo essere espressione della maggioranza, mentre la motivazione è, invece, funzione della legittimazione dell’esercizio di un potere che il cittadino subisce senza esserne partecipe (133). Ne discende che la giurisprudenza in materia di sintomi di eccesso di potere – traducibili nel difetto o nella inadeguatezza dell’enunciazione motivante – non potrà essere spiegata sul fondamento di un non ben dimostrato principio democratico della motivazione, idoneo soltanto a fornire una copertura dogmatica di dubbio fondamento. D’altro canto, in una fase storica in cui, sempre più, si afferma l’obiettiva necessità di assicurare tutela sostanziale effettiva al ricorrente, offrirgli, sul piano teorico e pratico, un mero appiglio formale e, quindi, rispondente ad una logica meramente cassatoria, non appare producente, ai fini di un potenziamento del profilo conformativo della sentenza amministrativa. È significativo che lo stesso Romano Tassone, nella vigenza dell’art. 3 della legge n. 241/90, abbia riconosciuto che "la motivazione del provvedimento non sembra necessaria ai fini del sindacato di legittimità, più agevolmente ed utilmente esplicabile dal giudice attraverso la consultazione del dossier in cui è formalmente rappresentato l’iter del decision-marketing process". Anche perché "nel momento in cui il processo amministrativo tende a perdere i propri connotati cassatori, sia attraverso l’estensione dei poteri istruttori del giudice, sia attraverso una sempre più accentuata trasformazione in giudizio sul rapporto anziché sull’atto, la posizione di un dovere generale di motivazione degli atti amministrativi non può coerentemente ritenersi funzionale al sindacato giudiziale, a pena di frenare l’ormai quasi compiuta evoluzione verso un riscontro pieno e diretto della legittimità dell’azione amministrativa" (134). In ogni caso, non può trascurarsi che, ammettere l’annullamento per meri vizi logici (alla stregua di meri errores in procedendo), sul piano sostanziale, non sortirebbe alcun rimedio efficace per il ricorrente che, comunque, almeno nei casi di lesione di interessi pretensivi, non fruirebbe degli effetti conformativi nascenti dal giudicato, per la semplice ragione che la sentenza amministrativa, di fronte a meri vizi formali, non potrebbe fissare alcuna disciplina diretta o indiretta del rapporto amministrativo (135). Sulla natura del vizio di eccesso di potere per difetto di motivazione, dottrina e giurisprudenza, avendo ormai piena consapevolezza della inutilità sostanziale del vizio, finiscono per confermarne la natura formale e l’ammissibilità della rinnovazione dell’atto annullato, munito della enunciazione motiva (136). Ciò nell’unanime e condiviso convincimento che il difetto di motivazione, inteso come carenza grafica del documento, sia inidoneo ad offrire tutela effettiva quanto meno nei casi di lesione di un interesse legittimo pretensivo. Altrettanto, a nostro avviso, può dirsi nei casi di ricorso proposto per la tutela di un interesse legittimo oppositivo. Come è noto, in tali ipotesi, l’eliminazione dell’atto, nella mera ottica processuale, pur sufficiente a restituire al ricorrente il bene della vita sacrificato dalla P.A. con l’atto impugnato (137) – sempre che l’esecuzione del provvedimento di poi annullato non abbia già prodotto sul piano fattuale modificazioni irreversibili (138) – non sottrae l’interesse oppositivo agli effetti del principio dell’irrinunciabilità del potere (139), in forza del quale la P.A. dovrà reiterare l’atto, munendolo di regolare motivazione, così come potrà spontaneamente adoperarsi per l’eliminazione del vizio in sede di autotutela, mediante sanatoria e/o riesercizio del potere in corso di causa (140). A tale proposito, non merita adesione l’obiezione (141) secondo cui, nel caso di interessi oppositivi fatti valere in sede giurisdizionale, la caducazione dell’atto per il mero vizio formale, ripristinando la situazione giuridica da questo modificata, costituisca "una utilità sostanziale apprezzabile in se stessa" per il ricorrente nell’eventualità che la P.A. non riemani l’atto per sopravvenute valutazioni, o perché divenuto concretamente non riadottabile come nel caso in cui il difetto o insufficienza dell’enunciato motivante "... ridondi in erroneità od inconferenza dei motivi indicati, e questi costituiscano le effettive ragioni del provvedere" (142). Ciò in quanto, non attenendo tale effetto alla sfera dei risultati del processo, ma al campo del normale esercizio del potere amministrativo, sarebbe una conseguenza pratica e meramente ipotetica dell’annullamento e non già un effetto giuridico del medesimo. Anzi, a ben vedere, l’unico effetto giuridico ipotizzabile ne rimarrebbe l’incontestabilità di eventuali vizi sostanziali, non sollevati nei termini dal ricorrente, che, a situazione immutata, dovrebbero obbligare la P.A. a riadottare l’atto annullato con il medesimo contenuto. Con riferimento al profilo ordinatorio della sentenza amministrativa di annullamento di un atto positivo sfavorevole (incidente su un c.d. interesse meramente oppositivo) è stato osservato che "annullato l’atto di espropriazione, il ricorrente può vedere forse in ciò la soddisfazione del suo interesse, ma, salvo il caso in cui sia stata travolta la stessa pubblica utilità, all’Amministrazione spetterà comunque il compito di trovare una via per realizzare l’opera" (143). In sintesi l’interesse materiale del privato non esce indenne dalla vicenda sopraesaminata, "giacché esigenze di certezza giuridica dei rapporti renderebbero conveniente per il regolamento dei propri interessi la preventiva conoscenza della sussistenza o meno di ragioni sostanziali di legittimità o illegittimità in ordine al fissaggio degli interessi operato dalla P.A. con il provvedimento, al fine di impedire quella gravosa situazione di pendenza derivante dalla possibilità che il bene, che si reputava scampato, venga successivamente sottratto alla propria sfera giuridica" (144). Non a caso, la dottrina e la giurisprudenza più sensibili alla richiesta di giustizia sostanziale che proviene dal processo, hanno efficacemente avvertito che "se il giudice si limita ad annullare l’atto, impugnato anche per motivi sostanziali, per i vizi meramente formali o per difetto di motivazione, senza penetrare in che senso questi vizi nascondano un’illegittimità sostanziale, compie un atto di denegata giustizia" (145). "L’annullamento da parte del giudice amministrativo degli atti impugnati per difetto di motivazione è soluzione residuale alla quale il giudice adito è legittimato a ricorrere solo quando non ha la possibilità di definire il merito della controversia, giacché, recando implicita la clausola di salvezza degli ulteriori provvedimenti da parte dell’Amministrazione con il solo limite del clare loqui, costringe quest’ultima a un defatigante rinnovo di attività procedimentale senza peraltro soddisfare compiutamente le ragioni di sostanza del privato ricorrente" (146). Dunque, inevitabilmente, la sempre più spiccata tendenza a condurre il processo amministrativo dal modello cassatorio a quello di accertamento del rapporto, investe le teorie formulate sull’eccesso di potere e si ripercuote sulla motivazione, la cui dogmatica, allora, va sì studiata in contemplazione delle modalità e strumenti del sindacato di legittimità, come, peraltro, già segnalato dal Giannini, ma, a nostro avviso, anche e soprattutto sulla scorta di una concezione dell’eccesso di potere amministrativo compatibile con il principio di effettività della tutela giurisdizionale ex art. 24 Cost. Detto principio, a sua volta, impone di privilegiare i profili accertativi della sentenza amministrativa anziché quelli meramente cassatori (147). Significativa, al riguardo, l’opinione di M. Nigro che ha così delineato il thema decidendum del processo amministrativo: "il ricorrente critica l’assetto conferito agli interessi, ne propone un altro e chiede al giudice di farlo proprio ed imporlo all’Amministrazione" (148). Puntualmente la dottrina più attenta ha segnalato che, con riguardo all’inquadramento della motivazione intrinsecamente contraddittoria, (motivazione perplessa), nell’ambito dei sintomi dell’eccesso di potere, la voluntas legis, con cui dette fattispecie confliggono, non è quella che il principio di ragionevolezza andrebbe rispettato nella redazione della motivazione, "ma più realisticamente, quella che il pubblico potere sia esercitato senza contraddizioni, incertezze, incongruenze e lacune conoscitive" (149). Ciò è tanto vero che, il più delle volte, l’apprezzamento giudiziale di sufficienza della motivazione è di fatto condizionato dal convincimento che il giudice si forma sulla reale rispondenza dell’atto alle sue finalità istituzionali e alla ragionevolezza o meno della scelta operata in concreto dall’Amministrazione. Trattasi, comunque, della dequotazione (150) di quell’aspetto, poi, realmente formale della motivazione, la cui conservazione non arreca alcun vantaggio sostanziale al ricorrente vittorioso. Il Giannini sottolineava, in fondo, che non si può continuare a seguire l’idea di una motivazione tutta enucleabile dal provvedimento. Pertanto, a nostro avviso, se si vuol essere conseguenziali al principio della procedimentalizzazione della volontà, si deve accogliere una concezione, per così dire, "procedimentale" della motivazione, enunclearla cioè dalle esteriorizzazioni emergenti negli atti preparatori del provvedimento, pur sempre nella misura in cui a loro volta documentino e/o enuncino circostanze di fatto rilevanti, od in atti e/o fatti che con esso abbiano una connessione (151). Questo ordine di idee sembra essere in linea con chi ha tracciato la distinzione tra processo decisionale e provvedimento (152), potendosi dire che "le scelte discrezionali attengono propriamente alla decisione, e non attengono quindi al provvedimento, il quale è, come tale, sempre uguale a se stesso, tanto nel caso che sia preceduto alla decisione tanto nel caso che sia direttamente applicativo della legge o di altri atti vincolanti. Il provvedimento, in questa prospettiva, assume il ruolo di "riepilogo" della decisione, se non soltanto della sua formalizzazione" (153). È possibile, ora, riguardare il tema della motivazione dal punto di vista del contenuto e dell’oggetto, così come si ricavano da una corretta interpretazione dell’art. 3, legge n. 241/90, che, fornendo la descrizione normativa del contenuto della motivazione, consente, in prima battuta, di desumere, per implicita presupposizione logica, il contenuto (154) del provvedimento, inteso come rappresentazione del fatto storico. Il contenuto del provvedimento, a sua volta, dovendo contenere l’individuazione e descrizione dei fatti da manifestarsi (i presupposti in relazione alle risultanze istruttorie), presuppone e impone, sul piano sostanziale, l’oggetto del provvedimento, offrendo, quindi, riprova della partecipazione dei presupposti di fatto alla fattispecie (155) normativa del provvedimento (156). Se oggetto del provvedimento sono i fatti e i presupposti, l’eventuale loro difetto o vizio si rifletterà sulla fattispecie dell’atto che, per il principio di convenienza dell’effetto giuridico al fatto (157), produrrà una mera illegittimità anziché l’inesistenza dell’atto stesso. Mentre, da altro angolo prospettico, se il contenuto della motivazione (nonché del provvedimento) altro non è che mera descrizione (fatto manifestante) di fatti storici, allora non si vedono ragioni valide per ritenere escluse le altre descrizioni emergenti dagli atti procedimentali dal novero dei fatti manifestativi. Di qui la necessità, per l’interprete, o per colui che è chiamato a sindacare in legittimità l’atto, in coerenza con il dettato dell’art. 3 cit., di ripercorrere l’iter procedimentale per ricostruire sia l’intera "manifestazione" (158) (contenuto del procedimento, atto finale compreso), sia l’intero fatto manifestato (l’oggetto del potere esercitato). Infatti, il contenuto della motivazione, che l’art. 3 cit. obbligatoriamente riferisce ai presupposti di fatto e alle ragioni giuridiche, in stretto collegamento e relazione "alle risultanze dell’istruttoria", non potrà che interpretarsi come codificazione di una direttiva interpretativa sostanziale, rivolta essenzialmente a desoggettivizzare l’esercizio del potere, vale a dire a sottrarre alla P.A. qualsiasi possibilità di filtrare i fatti mediante la mera affabulazione semantica. Si sottrarrà, in tal modo, all’Amministrazione la possibilità di plasmare i fatti attraverso l’uso sapiente e scaltro di formali espressioni letterarie (c.d. schermo motivazionale) (159), strumentali alla formale (dunque, apparente) valorizzazione o alla messa in ombra di alcuni fatti, entrati a far parte dell’istruttoria, a scapito di altri. In sostanza il legislatore, con il chiaro riferimento "alle risultanze dell’istruttoria", ha voluto mettere in evidenza che i presupposti di fatto (oggetto del provvedimento) sono tutti quelli emersi in istruttoria, proprio perché il concreto perseguimento del fine pubblico, la non irragionevolezza della scelta, anche in sede di sindacato di legittimità, dovranno e potranno in via oggettiva essere desunti dal rapporto di congruità tra quanto emerso in istruttoria (fatti c.d. "ufficialmente" noti) (160) e la decisione finale, a prescindere dalla corretta (o non) esternazione formale dell’iter logico seguito (161). In altri termini, la ragione sufficien-te (162) del provvedimento non dovrà ricavarsi dall’esternazione formale del valore che la P.A. attribuisce ad un certo fatto, ma, sul piano strettamente logico-oggettivo, sarà rivelata dal fatto stesso. Conseguenza di tanto è che le stesse figure sintomatiche dell’eccesso di potere non saranno, per così dire, eludibili con una motivazione formale successiva – come pure certe amministrazioni hanno tentato di fare – ma potranno essere superate soltanto attraverso la ricostruzione di idonei motivi oggettivati nel procedimento ed opportunamente evidenziati con una motivazione formale chiarificatrice, nonché con un atto difensivo di mera agevolazione interpretativa, ovvero attraverso la ricostruzione logico-interpretativa del giudice. È in questa logica che si inquadra l’intima valenza del diritto di partecipazione al procedimento previsto dalla legge n. 241/90 ed in particolare dall’art. 10, lett. b), secondo cui "i soggetti di cui all’art. 7 e quelli intervenuti ai sensi dell’art. 9 hanno diritto ¼ b) di presentare memorie scritte e documenti, che l’Amministrazione ha l’obbligo di valutare ove siano pertinenti all’oggetto del procedimento", da ricostruirsi come diritto dell’interessato a contribuire alla determinazione del "fatto" (presupposti), mediante la rappresentazione di interessi c.d. secondari. Tale partecipazione permette una "integrazione della conoscenza", che, una volta entrata a far parte del patrimonio di conoscenza dell’Amministrazione, si obbiettiva e viene assistito dalla garanzia della tutela giurisdizionale, "circa la quale problema delicato è soprattutto quello dei limiti del sindacato del giudice amministrativo sull’idoneità dell’intervento ad innescare il dovere "di tenerne conto" (163). È stato osservato che l’istante o interventore, con la propria attività di prospettazione di fatti o motivi, "può disporre e dispone del problema amministrativo" contribuendo a determinare la materia che dovrà essere sottoposta ad esame critico. Così operando egli non suscita questioni autonome o distinte, ma produce un mutamento in quel medesimo problema che l’Amministrazione sarebbe comunque tenuta ad affrontare siccome attinente al proprio compito, poiché "le informazioni pertinenti dell’interessato concorrono ad individuare in modo vincolante gli oggetti di un’indagine che si configura come "agire d’ufficio" per definizione doveroso; e che tale dovrebbe reputarsi anche in difetto d’una prescrizione esplicita come quella formulata nell’art. 10, lett. b), ultimo inciso, della legge (il dovere reso attuale da quelle informazioni sarebbe da ricollegare appunto alla stessa nozione dell’ufficio)" (164). Corollario della nostra proposta ricostruttiva è che ogni fatto entrato a far parte dell’acquisizione procedimentale, da qualsiasi parte provenga, sostanzia i c.d. fatti ufficialmente noti in cui si oggettiva (o non) l’interesse pubblico concreto. È proprio l’ingresso del fatto nel procedimento a fargli acquisire rilevanza giuridica e renderlo, dunque, limite e misura del sindacato sotto forma di eccesso di potere, a prescindere dalla più o meno estesa e/o corretta formulazione letteraria della motivazione. Di qui la conferma della codificazione della dequotazione dei tratti formali della motivazione e la totale aderenza ad essa dell’orientamento giurisprudenziale c.d. sostanzialista (165). 4. - Dequotazione e ricaduta sul principio del divieto di motivazione successiva. Ulteriore effetto della dequotazione è l’incompatibilità logico-giuridica della figura della motivazione successiva intesa come mera esternazione grafica di ragioni non ricavabili dal testo del provvedimento, in quanto priva di rilevanza giuridica ex se. Difatti, ai fini del sindacato sotto forma di eccesso di potere, posto che i motivi sostanziali si obiettivizzano a prescindere dalle enunciazioni formali, l’eventuale enunciazione formale, a posteriori, di valutazioni di opportunità, non potrà sottrarre l’atto all’eventuale censura, ove fondata, di eccesso di potere per sviamento e/o difetto dei motivi; così come una motivazione successiva che si appalesi viziata, non potrà inficiare l’atto impugnato che, pur in assenza di formalizzazione espressa, sia sostenuto da motivi legittimi. Al riguardo non è irragionevole ipotizzare che la giurisprudenza possa finire per dequalificare a tal punto la natura della motivazione successiva da considerarla irrilevante (166). La motivazione successiva, infatti, ha potuto vantare una sua dignità contenutistica fino a quando il giudice amministrativo ha considerato la motivazione formale come "schermo motivazionale". In tale prospettiva, pertanto, risultava utile anche una successiva esternazione che, al pari della motivazione contestuale, si offrisse quale "schermo" postumo, cui estendere il sindacato per eccesso di potere, così limitando, al tempo stesso, la possibilità di censura dell’atto per assenza di motivazione. Viceversa, con l’abbandono della concezione della motivazione formale come "schermo", e il contestuale riconoscimento del potere istruttorio del G.A. di acquisire e conoscere gli atti del procedimento, per verificarne la ponderazione degli interessi, è divenuta irrilevante (o quanto meno si è fortemente svalutata) anche la portata della motivazione successiva ai fini del sindacato di eccesso di potere. Pertanto, la declaratoria di inammissibilità della motivazione successiva, in realtà, si sostanzia nella affermazione della oggettiva irrilevanza della stessa ai fini del sindacato sotto forma di eccesso di potere e riproduce integralmente gli effetti che si riconnettono al carattere di artificialità della motivazione in cui gli eventuali motivi viziati o assenti non possono essere rispettivamente sostituiti o integrati da un mero discorso motivante formale. Ciò fornisce una linea guida in sede di ricostruzione del dibattito concernente la questione della sanabilità dell’atto, affetto dal vizio del difetto di motivazione, in corso di giudizio. Invero, ha senso parlare di "sanabilità" dell’atto in relazione al difetto di motivazione ove quest’ultimo venga classificato come vizio formale, ossia vizio esternativo. Al contrario, ove il difetto di motivazione, come ci sembra più corretto, venga qualificato come mero dato sintomatico di una difettosa ponderazione dell’interesse pubblico (difetto di motivi e/o manifesta irragionevolezza della scelta) (167), l’esternazione successiva di un semplice discorso motivante non sarebbe, comunque, idonea a sanare un vizio di natura sostanziale. In tale evenienza, infatti, occorrerebbe una nuova istruttoria da cui emerga l’effettiva sussistenza di motivi di interesse pubblico. Del pari, ove il discorso motivante successivo sia in grado di dimostrare che il sospetto di difettosa ponderazione dell’interesse pubblico possa essere fugato da elementi ricavabili dal dossier procedimentale, più che di motivazione successiva dovrebbe parlarsi di discorso chiarificatore – avente ad oggetto motivi già dedotti dalla P.A. e, pertanto, già nel libero dominio dei soggetti processuali – che funga da traduzione di un giudizio logico in affabulazione semantica (168). La stessa giurisprudenza, invero minoritaria, espressasi a favore della c.d. motivazione successiva (o, se si preferisce, della integrazione della motivazione in corso di giudizio), ha dato origine ad un dibattito che ha registrato posizioni fortemente contrapposte, ma che, a nostro avviso, appare caratterizzato, ab origine, da eccessiva astrattezza. Detto dibattito si è, infatti, sviluppato senza che, da parte della giurisprudenza, sia stata preliminarmente delineata la nozione di motivazione successiva accolta in sentenza e senza che ne sia stata verificata la possibile rilevanza ai fini decisionali. La cennata astrattezza ha impedito di procedere ad una corretta lettura del fenomeno. Difatti, la giurisprudenza favorevole alla motivazione successiva, ove correttamente interpretata, rivela una ratio decidendi che presuppone l’assoluta incompatibilità logica della motivazione successiva, intesa come esternazione postuma di motivi già ricostruibili dagli atti, con il principio della dequotazione. È importante considerare, infatti, che la formula "motivazione successiva" sul piano logico può riguardarsi sotto tre diversi profili: a) successiva esternazione grafica di motivi già ricavabili dagli atti del procedimento [c.d. motivi dedotti, sia pure non espressamente (169)] ovvero di motivi non riscontrabili negli atti del procedimento [c.d. integrazione postuma dei motivi non dedotti neppure implicitamente (170)]; b) integrazione della motivazione mediante la produzione in giudizio di scritti difensivi (171); c) produzione in giudizio di atti del procedimento da cui sia possibile ricavare in via logica la motivazione (172). È importante, inoltre, tenere presente che queste ipotesi impongono un autonomo approfondimento delle obiezioni mosse genericamente alla figura della "motivazione successiva", con particolare riferimento alla specifica nozione volta a volta presupposta. Non è condivisibile, infatti, come si verificherà in seguito, la tralaticia posizione giurisprudenziale che nega la possibilità di integrazione della motivazione in corso di giudizio mediante la produzione di scritti difensivi, documenti e/o atti procedimentali o atti successivi integrativi, avvalendosi dell’aprioristico principio del c.d. divieto di motivazione successiva. Poiché, in questo caso, gli scritti e/o gli atti non introducono motivi nuovi (quindi, successivi), ma si limitano a mettere in luce (secondo una logica di mera chiarificazione) quelli già evincibili (e quindi controllabili) da quegli atti procedimentali, già acquisiti al giudizio, che siano preordinati, presupposti e/o connessi al provvedimento impugnato (173). Affatto diversa è poi l’ipotesi della rinnovazione del procedimento in corso di causa, sfociante in atti di riesercizio della funzione che, come sarà illustrato, postulano una rinnovata istruttoria e ponderazione dell’interesse pubblico. Del pari necessario, ai fini di un più chiaro codice di linguaggio, è avere ben presente l’ambivalenza del significato che viene attribuito all’espressione "divieto di motivazione successiva". Giurisprudenza e dottrina, infatti, utilizzano il divieto di motivazione successiva sia come motivo di illegittimità che come causa di irrilevanza dell’atto integrativo. Ditalché l’atto integrativo nel primo caso è ritenuto processualmente e sostanzialmente produttivo di effetti giuridici, a prescindere da ogni considerazione sul suo contenuto di mera esternazione formale di motivi già ricavabili in via logica dagli atti del procedimento ovvero di esternazione di motivi nuovi e non tenuti presenti dall’Amministrazione. Nel secondo caso, l’atto integrativo, essendo irrilevante, comporta, per il giudice, il divieto ex officio di tenerne conto ai fini del sindacato di eccesso di potere, indipendentemente da una espressa impugnazione da parte del ricorrente. La distinzione concettuale è utile al fine di una corretta interpretazione delle decisioni in subiecta materia, nonché al fine di isolare quelle che, in realtà, più che alla esternazione formale successiva in sé (intesa come mero atto), hanno riguardo al suo contenuto. A questa stregua, tuttavia, ne esce svalutata la pretesa carica innovativa delle più importanti decisioni giurisprudenziali presentate come favorevoli alla ammissibilità della motivazione successiva (e perciò stesso in apparente controtendenza all’orientamento consolidato del "divieto"). Da tali decisioni, osservato il contesto del caso di specie preso in esame, emerge con evidenza trattarsi, in realtà, di ipotesi di successiva esternazione grafica di motivi già rilevabili (perché presenti) negli atti del procedimento. In sostanza non essendovi enunciazione di motivi nuovi, ma mera descrizione di un fatto, queste ipotesi sono riconducibili alla nozione di giustificazione successiva (174). L’ambivalente attribuzione di significati al cennato divieto di motivazione successiva, così come elaborato dalla giurisprudenza, porta con sé l’ambivalenza dei possibili riflessi processuali in caso di sua violazione. A) Ritenere giuridicamente irrilevante (175) (tamquam non esset) la motivazione successiva – sia che il difetto di motivazione venga inteso come mera carenza grafica, sia che venga inteso come assenza di motivi e sintomo di sviamento) (176) – produce l’effetto di precludere al giudice di conoscere i motivi che hanno indotto l’Amministrazione ad emanare l’atto, poiché da questa dedotti soltanto nel corso del giudizio (177); sul piano processuale ciò postula l’assoluta irrilevanza del termine per impugnare l’atto integrativo. B) Ritenere l’atto integrativo invalido produce l’effetto processuale dell’obbligo di impugnativa da parte dell’interessato. Ditalché, se non impugnato, detto atto si consolida, spiegando effetti diversi sul vizio di eccesso di potere a seconda che sia fatto valere come vizio formale (difetto di motivazione inteso come mera carenza grafica) ovvero come vizio sostanziale (difetto di motivi dedotti nel provvedimento e nel procedimento, da cui indurre lo sviamento e/o la manifesta illogicità-irragionevolezza), trattandosi di censure (formale e sostanziale) profondamente diverse tra loro (178). In questa seconda ipotesi (efficacia invalidante della violazione del divieto) la motivazione successiva (atto integrativo), nei confronti del vizio formale di difetto di motivazione, assume i caratteri dell’atto amministrativo di sanatoria (179). Esso, al pari di ogni atto amministrativo, dispiega efficacia prescindendo dalla sua legittimità, così da profilarsi la necessità, per il ricorrente che denunci il difetto di motivazione, di impugnare con motivi aggiunti anche l’atto integrativo, sotto pena di rilevanza obbligatoria della motivazione successiva e conseguente sopravvenuta carenza di interesse a ricorrere anche per l’atto principale. Mentre, nel caso di vizio sostanziale (eccesso di potere per sviamento), l’atto integrativo fa sorgere l’obbligo, per il giudice amministrativo, di valutare se la motivazione successiva sia sostanzialmente irrilevante nei confronti della censura mossa dal ricorrente (che resta, pertanto, fondata) ovvero la smentisca (destituendola, così, di fondamento) (180). Sul piano processuale, l’efficacia invalidante comporta, in ogni caso, la stretta osservanza del termine decadenziale, a pena di sopravvenuta carenza di interesse ad ottenere la caducazione di un atto medio tempore integrato o modificato. Da un attento esame della giurisprudenza sarà possibile enucleare, di volta in volta, la ricostruzione interpretativa seguita in sede decisionale. Nella fattispecie concreta esaminata dalla, ormai famosa, decisione del T.A.R. Veneto, Sez. I, 10 giugno 1987, n. 648 (181), la ditta ricorrente aveva contestato il provvedimento di esclusione dalla gara di appalto deducendo unicamente il vizio di difetto di motivazione. Senonché l’Amministrazione, in corso di causa, adottava una delibera dichiarando espressamente di voler integrare il provvedimento impugnato esternandone le ragioni e indicandole nella mancanza di fiducia sulla capacità della ditta che, vincitrice di una precedente gara, aveva realizzato un progetto rivelatosi scarsamente funzionale. La ditta ricorrente, anziché proporre motivi aggiunti o nuovo ricorso estendendo le proprie censure alla motivazione che l’Amministrazione aveva esternato a posteriori, si limitava ad eccepire l’irrilevanza dell’atto integrativo, invocando genericamente il noto principio dell’inammissibilità dell’integrazione ex post della motivazione. Nell’analizzare il caso, il Collegio introduceva la distinzione tra integrazione della motivazione (nel senso di introduzione di motivi e/o ragioni sopravvenuti) e integrazione della "esternazione" della motivazione (nel senso di illustrazione-dimostrazione di "ragioni preesistenti e tenute in considerazione") per concludere che nel caso di specie non era vietato all’Amministrazione di provare l’inesistenza del vizio della funzione, indotto in via sintomatica e/o presuntiva dal sollevato difetto di motivazione formale, attraverso la produzione in giudizio di documenti, anteriori rispetto al provvedimento impugnato, comprovanti la effettività della preesistenza e legittimità di validi motivi di esclusione della ditta ricorrente dalla gara. Si desume, quindi, che nella prospettiva seguita dal T.A.R. Veneto, il difetto di motivazione sia stato ricostruito come sintomo di difetto di motivi (vizio della funzione) superabile mediante l’esibizione degli atti che hanno preceduto il provvedimento contestato, dai quali emergano i motivi non enunciati (c.d. principio della effettiva teleologia procedimentale) (182). Ne deriva che la successiva integrazione formale della esternazione della motivazione (rectius, dei motivi), più che produrre un effetto sanante sull’asserito vizio sostanziale della funzione (in realtà non necessario, attesa la provata sussistenza della preventiva ponderazione e legittimità dei motivi di esclusione), ha svolto un ruolo di mera chiarificazione delle autonome risultanze desumibili da un fatto probatorio autonomo ed autosufficiente (gli atti depositati in giudizio dall’Amministrazione). Non è di poco momento considerare che, in realtà, il giudice ha ritenuto infondata l’implicita censura di eccesso di potere mercè l’esame diretto degli atti prodotti, in corso di causa, dalla P.A. a comprova della corretta valutazione preventiva delle ragioni idonee a fondare l’impugnato atto di esclusione dalla gara. Ciò vuol dire che la formale integrazione della esternazione della motivazione non ha svolto alcun ruolo giuridico autonomo nel giudizio sulla legittimità sostanziale dell’atto di esclusione. Nell’economia della decisione il giudice, più che dare credito alla esternazione successiva della motivazione, ha escluso l’eccesso di potere mediante l’esame diretto degli atti del procedimento che, sebbene esibiti soltanto nel corso del giudizio, dimostravano la preesistenza della esplicitazione dei motivi che era, invece, mancata nel provvedimento successivamente adottato (183). La correttezza dell’impostazione seguita è corroborata, secondo il T.A.R. Veneto, dalla considerazione del venir meno, ad atto integrato, dell’interesse del ricorrente ad una decisione che non tenesse conto degli sviluppi processuali, dal momento che "all’Amministrazione dopo la sentenza non sarebbe precluso di riproporre l’atto con la motivazione che già allo stato la sorregge" (184). In altre parole, secondo tale giudice, un’ottica processuale statica, che guardi all’atto piuttosto che alla funzione, non produce un accrescimento delle garanzie e dei risultati perseguibili in sede processuale, ma una loro contrazione, posto che l’annullamento del provvedimento impugnato, visto come obiettivo, "lascia all’Amministrazione tanto più margine di movimento quanto minore è il sindacato della funzione che il provvedimento stesso consente e quanto minore è il contenuto in termini di accertamento costitutivo e di indirizzo vincolante che il giudice è in grado di esprimere in ordine alla pretesa sostanziale" (185). Nell’ambito della dottrina (186) che si è occupata della sentenza testé analizzata manca, a nostro avviso, una confutazione plausibile dell’affermazione di principio resa dal T.A.R. Veneto, architrave della impostazione sostanzialistica dell’intera decisione, secondo cui non è "assiomatico il collegamento tra l’immutabilità dell’atto e la pienezza delle garanzie di difesa del cittadino", non essendovi, in realtà, "nessun principio che in qualche modo stabilisca che i poteri dell’Amministrazione debbano restare paralizzati in dipendenza dell’esercizio da parte dei cittadini dei rimedi di tutela amministrativa e giurisdizionali contro precedenti provvedimenti amministrativi". La considerazione che non è precluso all’Amministrazione di riproporre l’atto con motivazione identica a quella risultante dall’integrazione successiva, svuota di fondamento la critica secondo cui il difetto di motivazione non possa leggersi, semplicemente, come sintomo di eccesso di potere, ma vada "¼ interpretato come violazione di quella norma implicita che impone all’Amministrazione di predisporre gli strumenti necessari all’attuazione del sindacato di legittimità" (187). Secondo la dottrina in commento "il concetto di motivazione, come tramite di rilevazione del vizio sostanziale, è infatti superato qualora si attribuisca all’esposizione dei motivi il valore di requisito formale condizionante la legittimità dell’atto in termini di violazione di legge" (188). Essa si basa sul non condivisibile assunto che la sanatoria in corso di processo del vizio formale di difetto di motivazione incida negativamente sulle potenzialità difensive del ricorrente. Non considera, tuttavia, la sostanziale inutilità di un processo che, pur vedendo il ricorrente vittorioso, non possa impedire alla P.A. di rieditare l’atto inserendovi quella motivazione ritenuta non sanante solo perché esternata in corso di giudizio. Non considera, altresì, la non trascurabile utilità (in termini di effettività della tutela) di un processo che, ammettendo l’immediata proponibilità di motivi aggiunti ovvero di autonomo ricorso avverso l’eventuale atto integrativo della motivazione (ovvero avverso l’eventuale atto di riesercizio del potere), consentirebbe di anticipare in un unico giudizio (estendendone l’oggetto) un più esteso sindacato della funzione. Ne risultano, così, ampliati i limiti oggettivi del giudicato e, di conseguenza, ridotti i margini di riadozione dell’atto, da parte dell’Amministrazione, dopo la sentenza. Nella citata pronuncia del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana n. 149/1993 (189) è stato affrontato il tema della motivazione successiva con riguardo alla integrazione postuma mediante l’esibizione in giudizio di tre pareri, già acquisiti dalla P.A., e di cui solo uno veniva citato nel provvedimento impugnato; pareri, peraltro, richiamati dalla difesa erariale nel corso del giudizio. Sul punto, il ricorrente, mediante motivi aggiunti, aveva sollevato due tipi di censure: una formale e generale, incentrata sull’inammissibilità dell’integrazione postuma; l’altra, sostanziale e specifica, di sviamento (ribadita in appello), posto che, dalla integrazione postuma, sostanziantesi nel contenuto della difesa erariale, sarebbe emerso che il reale motivo del diniego si fondasse su considerazioni attinenti alla repressione dei fenomeni mafiosi e fosse, perciò, diverso dal fine dichiarato di "riservare la banda di frequenza interessata ad istituti, enti ed attività con maggiore rilievo sociale". Il giudice di appello, in via preliminare, escludeva lo sviamento in quanto riteneva prive di "un’autonoma e determinante efficacia causale" le considerazioni addotte ex post da parte della difesa erariale a sostegno del diniego impugnato; diniego idoneamente motivato, secondo il Consiglio, dalle ragioni espresse nel parere richiamato per relationem. Con riguardo, invece, alla censura formale di inammissibilità dell’integrazione postuma della motivazione, lo stesso giudice perveniva, alla conclusione che, trattandosi solo di un vizio formale di difetto di motivazione, l’Amministrazione potesse "validamente integrare, anche in corso di giudizio, la motivazione del provvedimento impugnato in sede giurisdizionale, con conseguente eventuale cessazione della materia del contendere in ordine al dedotto vizio" (190). Il principio desumibile dalla sentenza discende dalla considerazione del giudizio di rilevanza, espresso dal giudice, sulla motivazione successiva, ai fini dell’accoglimento o meno della censura formalmente denominata dal ricorrente "eccesso di potere per difetto di motivazione", ma che, a ben vedere, si risolveva nel censurare "la motivazione indicata nel parere del settembre 1985" come ""apparente" e sul piano sostanziale priva di contenuto, in quanto in particolare, essa non contiene riferimento alcuno né alla indicazione di quegli "istituti, enti ed attività con maggiore rilievo sociale" che dovrebbero utilizzare la banda di frequenza, né alla sussistenza di richieste da parte di tali enti che non sia stato possibile soddisfare per sovraffollamento sulla banda stessa". Dunque, più che di difetto (assenza) di motivazione, nella specie si è trattato di una censura di difetto di presupposti giustificativi del potere di diniego esercitato ovvero di eccesso di potere per manifesta illogicità e/o irragionevolezza della scelta sottesa al diniego. Tale ricostruzione è stata, poi, confermata dallo stesso giudice, lì dove, nel dichiarare infondato il motivo di ricorso in esame, ha fatto riferimento espresso alla ragione giustificativa del provvedimento (formalmente censurata con il vizio di difetto di motivazione), asserendo "che non poteva ritenersi né illogica né carente, nulla rilevando la circostanza che in atto non vi fossero altri potenziali utilizzatori". Ne discende che il giudice di appello, nel caso esaminato, abbia ritenuto ammissibile la motivazione successiva, nell’ambito di un’ipotesi di c.d. motivi dedotti, da intendersi, dunque, come successiva esternazione grafica di motivi già ricavabili dal procedimento; ed ha, altresì, ritenuto che tale forma di integrazione postuma non sia ex se illegittima, ma sia suscettibile di impugnativa laddove il suo contenuto presti il fianco a censure sostanziali (già sviluppate o introdotte ex novo) di eccesso di potere per sviamento, per manifesta illogicità e/o irragionevolezza. A differenza del T.A.R. Veneto, il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana, avendo disconosciuto un’autonoma e determinante efficacia causale sul provvedimento delle considerazioni prospettate ex post, sembra aver attribuito giuridica irrilevanza alla motivazione successiva. Ciò, peraltro, in un contesto in cui la premessa sostanziale della decisione era che non esistesse un obbligo di motivazione, sicché, la motivazione successiva del caso di specie, essendo destinata a sanare una violazione inesistente, assumeva tutti i caratteri della c.d. motivazione facoltativa da cui trarre elementi idonei a dimostrare il buon fondamento (e/o la non manifesta irragionevolezza) della scelta operata, attaccata con la censura di eccesso di potere. Ma, a ben guardare, nell’economia della decisione esaminata, la motivazione successiva non ha neanche tale utilità teleologica, in quanto, in via preliminare, il giudice aveva precisato che le giustificazioni addotte ex post non rivestono una autonoma e determinante efficacia causale. L’approfondimento dei due arresti giurisprudenziali conferma l’assunto di partenza secondo cui il dibattito in argomento rischia di arenarsi sul piano dell’astrattezza ove non si distingua, in via dommatica, tra giustificazione successiva e motivazione successiva. La riflessione sviluppatasi sul tema della motivazione successiva sembra oscillare tra due poli: il primo, favorevole alla figura, nell’intento di evitare l’emanazione di sentenze inutili e la duplicazione dei ricorsi (fenomeni fisiologici in un sistema che conserva intatto il potere della P.A. di disporre sul merito del rapporto sostanziale che la contrappone al privato ricorrente, anche dopo la sentenza di annullamento per difetto di motivazione); il secondo, contrario, in forza dell’idea di fondo che una reale tutela sostanziale del ricorrente si accordi ad un’esigenza di accrescimento e non di contrazione delle garanzie e dei risultati perseguibili in sede processuale. Occorre precisare, tuttavia, che il dibattito in materia, ancora una volta, non mette a fuoco la distinzione tra motivazione successiva intesa come esternazione grafica di motivi dedotti (già ricavabili dal procedimento) e motivazione successiva come esternazione di motivi non dedotti (nuovi). Più in particolare, le principali ragioni a sostegno della inammissibilità della motivazione successiva sono le seguenti: a) l’eliminazione della motivazione enunciativa, in quanto surrogata dalla intrinseca giustificabilità dell’atto, annienterebbe la caratteristica peculiare della polifunzionalità della motivazione (intesa come strumento di conoscenza per il ricorrente, per la comunità dei cittadini ai fini del sindacato di opinione pubblica, e al giudice che non sempre può avvalersi della cognizione diretta) (191); b) la necessità di assicurare il rispetto del principio costituzionalmente garantito di parità delle parti nel processo amministrativo, non può giustificare una posizione privilegiata all’Amministrazione tale da consentirle di "aggiustare il tiro" una volta che siano state proposte le varie censure. Il ricorrente avrebbe, in sostanza, impugnato un atto che potrebbe rivelarsi, poi, pienamente legittimo allorché l’Amministrazione adducesse i motivi posti a suo fondamento, in precedenza non dedotti (192); c) l’esistenza, sul piano processuale, del principio della non sanabilità in corso di causa degli atti impugnati (193). La principale critica cui si espongono i primi due argomenti è che il divieto di integrazione della motivazione e la conseguente pronuncia di natura meramente cassatoria, non precludono all’Amministrazione di reiterare lo stesso provvedimento con la medesima motivazione, questa volta contestuale (194). Inoltre, è stato osservato che sono argomenti di per sé sufficienti per ritenere non violato il principio di parità delle parti nel processo amministrativo: a) la possibilità di proporre ricorso per motivi aggiunti od autonomo ricorso (a seconda che si tratti di atto meramente integrativo o di atto formalmente autonomo) avverso il provvedimento con il quale viene integrata la motivazione (195); b) ovvero (nell’ipotesi in cui il provvedimento sopravvenuto determini la cessazione della materia del contendere) la facoltà per il ricorrente di agire per il risarcimento dei danni nei confronti del funzionario responsabile. In ordine al principio di insanabilità dell’atto in corso di causa si è obiettato, infine, che nell’ordinamento vigente non vi sono norme contrarie alla sanatoria; anzi, dall’art. 6 della legge 18 marzo 1968, n. 249, che consente di sanare con efficacia retroattiva l’atto viziato di incompetenza relativa – ancorché quest’ultimo sia oggetto di ricorso giurisdizionale o amministrativo pendente – utilizzando l’argomento a simili, si è desunta la vigenza dell’opposto principio della generale sanabilità (196). Del resto, la stessa giurisprudenza amministrativa, sia pure non unanimemente, riconosce in generale il potere della P.A. di procedere alla convalida e/o rinnovazione dei propri atti nel corso del giudizio. Ciò, peraltro, è coerente con il principio generale che l’autorità di amministrazione attiva (a differenza dell’autorità di controllo) non esaurisce il proprio potere con l’emissione dell’atto; né, comunque, la proposizione di un ricorso contro l’atto emesso può precludere all’autorità stessa di esercitare quel potere, specie allorché (come avviene nel caso di difetto di motivazione) sia stato esercitato in maniera incompleta. Approfondendo quest’ultimo profilo, che si lega al tema dell’indefettibilità e continuità della funzione amministrativa, in stretta applicazione del principio di economia dei mezzi giuridici, va evidenziato che, secondo il filone giurisprudenziale sostanzialista, "Il principio del diritto all’annullamento dell’atto da parte del ricorrente che ha ragione deve essere armonizzato con quello di indefettibilità e continuità della funzione amministrativa, nonché con quello di economia dei mezzi giuridici, con riferimento diretto al divieto di integrazione motivazionale, attuato attraverso scritti difensivi provenienti dall’Amministrazione intimata, ma non al caso della motivazione integrativa derivante da successivi atti di riesercizio della funzione" (197). È stato chiarito che le fattispecie procedimentali di riesame, derivate da un provvedimento cautelare sollecitatorio del giudice, devono essere assimilate, sul piano ontologico, agli atti di rinnovazione del procedimento, che possono essere discrezionalmente posti in essere in sede di autotutela relativamente ad un atto impugnato. In un caso di specie, deciso dal T.A.R. Campania, Sez. I, 9 novembre 1995, n. 402 (198), era accaduto che il provvedimento di revoca impugnato in sede giurisdizionale, seguito da specifico ordine impartito dal giudice alla P.A. di riesame del "rapporto controverso tenendo conto anche delle censure di ricorso e compiendo tutti gli atti istruttori" ritenuti necessari, fosse stato successivamente confermato nel contenuto con rinnovata motivazione. Senonché il ricorrente impugnava il provvedimento di conferma sollevando la censura di inammissibile ampliamento della carente motivazione del provvedimento confermato e già impugnato. Il T.A.R. Campania dichiarava infondata la censura fissando il principio che il giudice "¼ – non potendo sostituire le proprie valutazioni a quelle degli organi competenti – ben può imporre, nel rispetto dei principi che indirizzano lo svolgimento della funzione giurisdizionale, ulteriori adempimenti istruttori, ovvero ordinare il riesame della fattispecie alla luce delle censure dedotte in ricorso a seconda dei casi e delle necessità". Nell’ipotesi della rinnovazione del procedimento, che porti al riesame degli atti alla luce dei rilievi introdotti dal ricorrente, con esito di conferma del precedente provvedimento, non si realizza un inammissibile ampliamento della motivazione del provvedimento impugnato, "in quanto in tale fase ciò che conta è la fondatezza sul piano sostanziale sia delle ragioni originarie addotte; e sia di quelle eventualmente emerse in seguito ad ulteriori accertamenti istruttori ¼ Il nuovo provvedimento non costituisce pertanto uno sviatorio tentativo dell’Amministrazione di correggere un precedente provvedimento, ma è una nuova manifestazione di volontà, emanata su ordine del giudice amministrativo in seguito ad un’istruttoria interamente rinnovata". In altro caso deciso dal Consiglio di Stato (199), la rinnovazione in corso di giudizio dell’atto impugnato si è avuta su iniziativa dell’Amministrazione, la quale ha ritenuto opportuno esercitare i suoi poteri di autotutela, poiché in sede di rilascio di nulla osta regionale all’apertura di grande struttura commerciale, l’atto era affetto dal vizio di difetto di motivazione. Senonché la Regione, avvedutasi del vizio formale, decideva in corso di causa di annullare d’ufficio l’atto viziato e contestualmente di rinnovare l’esercizio del potere mediante emanazione di nuovo nulla osta debitamente motivato. Alla censura specifica sollevata dal ricorrente-controinteressato, secondo cui l’intento perseguito dall’Amministrazione sarebbe stato di realizzare surrettiziamente i presupposti e gli effetti della convalida dell’atto viziato, al di fuori dei limiti consentiti dall’unica ipotesi normativamente prevista ex art. 6 della legge n. 249/68 – così alterando il rapporto di parità tra le parti del processo – il giudice di appello replicava che "l’Amministrazione può rinnovare l’atto in corso di giudizio quando è stato impugnato per mero vizio di forma", in quanto, se così non fosse, "sarebbe costretta ad attendere l’annullamento dell’atto per rinnovare solo a quella data il procedimento e per finalmente emanare un secondo atto emendato dal vizio formale, con intollerabile appesantimento della sua azione e frustrazione delle aspettative degli interessati". Detta possibilità di rinnovazione per vizi di forma si riteneva "coerente con il principio di efficienza ex art. 97 Cost. e con l’effettività della tutela della pretesa dedotta in giudizio". Ulteriore espressione dell’orientamento favorevole all’integrazione della motivazione in corso di giudizio, in osservanza del principio di autotutela, è contenuta in una recente decisione del T.A.R. Lazio (200) secondo cui sarebbe illogico non riconoscere alla P.A., quando abbia riscontrato l’illegittimità del proprio operato (e benché sia pendente al riguardo un giudizio), il potere-dovere di intervenire per porvi rimedio, allo scopo di circoscrivere, così, la propria eventuale responsabilità e limitare possibili danni per l’erario (201). Ciò soprattutto dopo che, la recente caduta della preclusione di principio alla risarcibilità dell’interesse legittimo (202), ha esposto la pubblica Amministrazione alla potenziale responsabilità civile per l’illegittimità dei suoi atti (ove, beninteso, sussista il concorso degli ulteriori elementi, oggettivi e soggettivi, idonei a convertirle in veri e propri "fatti illeciti"). Non è sembrato dubbio, invero, che il principio del neminem laedere implichi, per tutti i soggetti di diritto, privati e pubblici, un onere di attivarsi per far cessare la situazione di illiceità originata e suscettibile di produrre ulteriori conseguenze pregiudizievoli. Diversamente, verrebbe violato il principio (un tempo invocato, sotto ben diverso profilo) della parità tra le parti del processo, posto che la pendenza del ricorso impedirebbe all’Amministrazione, pur assoggettata al paritario principio del neminem laedere, di assumere iniziative di diligenza a difesa dei propri interessi anche patrimoniali (oltre che della legalità). Ulteriore argomento a favore si è tratto dalla legge 21 luglio 2000, n. 205, che, modificando l’art. 21 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, ha previsto in termini generali che "Tutti i provvedimenti adottati in pendenza del ricorso tra le stesse parti, connessi all’oggetto del ricorso stesso, sono impugnati mediante proposizione di motivi aggiunti". Si è sostenuto, da parte del medesimo giudice, che una siffatta innovazione, tendente a far confluire all’interno del giudizio tutti gli atti connessi al suo "oggetto", non andrebbe vista soltanto come uno strumento di economia processuale. La sua portata impone innanzi tutto di rivedere la tradizionale identificazione dell’oggetto del giudizio amministrativo con il singolo provvedimento impugnato. Difatti, il presupposto logico che ha reso possibile l’estensione, all’interno del giudizio pendente, dell’impugnativa ai provvedimenti sopravvenuti, mediante semplici motivi aggiunti, risiede nell’aver, il legislatore del 2000, rimodellato l’oggetto del processo amministrativo intorno alla pretesa sostanziale fatta valere dal ricorrente (203). Ebbene, questa nuova norma comporta che l’adozione di un ulteriore provvedimento, inteso ad emendare un vizio dell’atto oggetto di gravame, non pone più, automaticamente, fine al relativo giudizio (strutturato, innovativamente, come giudizio sul rapporto), ma ne estende l’oggetto abilitando l’interessato ad integrare la sua originaria impugnativa mediante motivi aggiunti. Viene meno, pertanto, il pericolo che il provvedimento di autotutela con funzioni di sanatoria vanifichi il diritto costituzionale di azione e di difesa in giudizio. D’altra parte, ove l’Amministrazione incorsa in un vizio di legittimità suscettibile di sanatoria intenda avvalersi di tale facoltà, non sembra possa esserle opposto un "diritto" dell’interessato ad ottenere, ad ogni costo, l’annullamento giurisdizionale del provvedimento viziato. E questo tanto più in un processo amministrativo incentrato, ormai, sulla pretesa sostanziale del ricorrente, in cui, quindi, l’accertamento, istituzionalmente devoluto al giudice, deve investire, più che l’isolato aspetto della legittimità formale di un singolo provvedimento, il grado di fondatezza delle aspettative e delle correlative pretese che costituiscono la materia del singolo rapporto di diritto amministrativo. Nella vigenza della legge attuale, pertanto, il ricorrente, in pendenza del giudizio, così come ben può continuare a beneficiare di un rinnovato esercizio del potere amministrativo in una direzione a lui favorevole – con l’esito della cessazione della materia del contendere – simmetricamente, dovrà accettare gli effetti di un nuovo provvedimento, diretto semplicemente ad emendare un vizio del precedente atto. Del resto, se si ammette la possibilità per l’Amministrazione di un riesame della legittimità del proprio atto in pendenza del giudizio, appare problematico limitare le conseguenze di tale riesame secundum eventum: accordare, cioè, alla P.A. la possibilità di intervenire a difesa della legittimità e degli interessi pubblici quando ciò richieda un atto di ritiro, e disconoscerle la stessa possibilità, in presenza di vizi sanabili, quando il riesame potrebbe essere concluso con una semplice riforma della precedente determinazione (204). A quanto detto si aggiunga che la stessa sanatoria e/o rinnovazione del procedimento, in presenza di un vizio conclamato e difficilmente superabile in sede giudiziaria, sarebbe imposta a fortiori dalla necessità di evitare una probabile condanna risarcitoria che faccia proprio leva sul comportamento omissivo, negligente, colposo e/o doloso. Dalla lettura della giurisprudenza citata si ricava il principio che, in realtà, la mera pendenza di un’impugnativa non possa arrestare l’esercizio del potere di Amministrazione attiva della P.A., che, per vero, e ciò non è mai stato considerato abbastanza, neppure il giudicato può arrestare. In tal caso non di mera sanatoria di vizio formale si tratta, quanto di emanazione di nuovi provvedimenti sulla scorta di nuove valutazioni (ponderazioni) dell’interesse pubblico (motivi nuovi). Se così è non si vede perché si debba ridurre il tema della motivazione successiva (e/o integrativa) alla mera sanatoria processuale del difetto di motivazione formale, quando invece dalle risultanze giurisprudenziali emerge una dimensione sostanziale del fenomeno di portata più ampia e assolutamente autonoma, nel cui ambito ciò che viene in rilievo preminente è il riesercizio della funzione e non già una successiva enunciazione formale della motivazione (205). In conclusione, sulla scorta della nostra ricostruzione ermeneutica dell’art. 3 della legge n. 241/90, i risultati conseguiti dimostrano che il contrasto tra previsione espressa dell’obbligo di motivazione ex art. 3 della citata legge n. 241/90, da un lato, e la teorica della dequotazione dei tratti formali della motivazione, unitamente alla ritenuta ammissibilità della motivazione successiva, dall’altro, così come rilevato nei suoi termini essenziali nelle considerazioni introduttive, è smentito. Non solo, detta smentita è coerente con la evoluzione storica dell’istituto della motivazione in relazione al sindacato di legittimità per eccesso di potere, nella cui scia devono collocarsi la legge n. 241/90 e la sua interpretazione. Antonio GUANTARIO avvocato ([email protected]) Note (*) Il presente scritto è stato pubblicato nella rivista "Nuova Rassegna", 2002, n. 21, pagg. 2230-2281, (anche nella versione Nuova Rassegna "on line", in www.nuovarassegna.it/). (1) Per una valida esposizione del dibattito sull’obbligo di motivazione ved. L. Vandelli, Osservazioni sull’obbligo di motivazione degli atti amministrativi, in "Riv. trim. dir. proc. civ."., 1973, pag. 1595. (2) Cfr., da ultimo, A. Romano Tassone, Motivazione dei provvedimenti amministrativi e sindacato di legittimità, Giuffrè, Milano, 1987, pag. 13. Ved. però G. De Fina, La motivazione dei provvedimenti amministrativi, in "Riv. It. Sc. Giurid.", 1971, pag. 105, secondo cui "¼ l’obbligatorietà della motivazione – se ritenuta – non può che farsi discendere dalla norma, sebbene non espressa, in base ad una interpretazione estensiva o analogica: con la conseguenza, che anche per gli atti per cui la motivazione non è legislativamente richiesta expressis verbis, il difetto di motivazione ¼ costituendo trasgressione di un adempimento formale, dovrebbe integrare il vizio di violazione di legge e non quello di eccesso di potere". (3) Volendo richiamare brevemente una valida schematizzazione dell’elaborazione giurisprudenziale in subiecta materia, gli atti amministrativi che richiedevano una motivazione per la loro stessa natura erano i seguenti: a) atti della funzione consultiva; b) atti decisori; c) atti negatori; d) atti che sacrificano posizioni giuridiche dei privati; e) atti di scelta comparativa; f) atti di ritiro; g) atti difformi dal parere obbligatorio, così P. Virga, Il provvedimento amministrativo, Giuffrè, Milano, 1972, pagg. 209 e ss.; ved. anche M.S. Giannini, Motivazione dell’atto amministrativo (voce), in "Enc. Dir.", vol. XXVII, 1977, pag. 263, il quale individua sei categorie di atti in cui ricorre la c.d. motivazione necessaria: "a) i provvedimenti negativi, in pratica di ogni specie; b) i provvedimenti di secondo grado, quali annullamenti, conferme, riforme, revoche; c) i provvedimenti che la giurisprudenza chiama "restrittivi della sfera giuridica del privato", nozione invero non del tutto chiara, ma in concreto comprensiva dei provvedimenti ablatori personali, reali od obbligatori, sempreché discrezionali, nonché dei provvedimenti sanzionatori; d) i provvedimenti positivi, risultanti da procedimenti aventi istruttoria complessa, come le autorizzazioni, le concessioni, gli atti organizzativi; e) i provvedimenti dichiarativi valutativi, come per esempio le dichiarazioni di bene culturale". (4) G. De Fina, La motivazione..., cit., pag. 13. A conforto di quanto affermato nel testo l’autore nella nota 10 richiama l’opinione conforme dei maggiori trattatisti: G. Zanobini, Corso di diritto amministrativo, I, Giuffrè, Milano, pag. 283; C. Vitta, Diritto amministrativo, I, pagg. 144-145; R. Alessi, Sistema istituzionale del diritto amministrativo italiano, Giuffrè, Milano, 1958, pag. 286; A.M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, Jovene, Napoli, 1957, pag. 274; G. Landi-G. Potenza, Manuale di diritto amministrativo, Giuffrè, Milano, 1960, pag. 240. (5) Così M.S. Giannini, op. cit., pag. 263. Cfr. anche dello stesso autore, L’atto amministrativo. Corso di diritto amministrativo anno accademico 1963-1964 (Appunti delle lezioni a cura di un gruppo di studenti), pagg. 62-74. (6) Cfr. V. Italia-M. Bassani (a cura di), Procedimento amministrativo e diritto di accesso ai documenti, Giuffrè, Milano, 1991, pagg. 44 e ss.; G. Corso-F. Teresi, Procedimento amministrativo e accesso ai documenti (Commento alla legge 7 agosto 1990 n. 241), Maggioli, Rimini, 1991, pagg. 55 e ss. Contra, ved. però A. Andreani, Idee per un saggio sulla motivazione obbligatoria dei provvedimenti amministrativi, in "Riv. trim. dir. proc. amm.", 1993, n. 1, pag. 3. (7) Parla di "attrazione del vizio della motivazione, nella violazione di legge" G. Sala, L’eccesso di potere amministrativo dopo la legge 241/90: un’ipotesi di ridefinizione, in "Riv. trim. dir. amm.", 1993, n.2, pag. 181. Si veda anche P. M. Vipiana, Introduzione ai vizi di legittimità dell’atto amministrativo, Cedam, Padova, 1997, pagg. 231-232, secondo cui "con il disposto dell’art. 3 della legge n. 241 del 1990, i difetti inerenti alla motivazione dell’atto amministrativo sembrano sempre più attratti nell’orbita del vizio di violazione di legge, quantunque il vizio di eccesso di potere sia sempre ampiamente invocabile e venga, in effetti, invocato dai giudici amministrativi ¼ Invero, il difetto assoluto di motivazione, in base al citato art. 3, integra un caso di violazione di legge". Contra, G. Bergonzini, Difetto di motivazione del provvedimento amministrativo ed eccesso di potere a dieci anni dalla legge 241 del 1990, in "Riv. trim. dir. amm.", 2000, n. 2, pagg. 203-204) secondo il quale "il difetto di motivazione si configura diversamente a seconda che nella motivazione del provvedimento manchi l’indicazione dei presupposti giustificativi oppure quella delle valutazioni discrezionali effettuate. Nella seconda eventualità il difetto di motivazione, pur dopo l’entrata in vigore della legge n. 241, considerate le modalità con cui il relativo sindacato continua ad essere ordinariamente svolto dal giudice amministrativo, appare ancora inteso come sintomo di eccesso di potere; e non possono venire perciò condivise quelle opinioni secondo cui, dopo detta legge, il difetto di motivazione andrebbe sempre riportato all’ambito della violazione di legge". Secondo R. Scarciglia, La motivazione dell’atto amministrativo. Profili ricostruttivi e analisi comparatistica, Giuffrè, Milano, 1999, pagg. 7-8, l’impostazione del sindacato giurisdizionale, saldamente ancorato alla valutazione del difetto di motivazione quale vizio di eccesso di potere, tende a venir meno, "anche ove si tenga conto delle approfondite indagini della dottrina tese alla trasformazione del sindacato sull’eccesso di potere in una indagine sulla violazione di legge, per l’atteggiarsi ex lege della motivazione quale elemento essenziale dell’atto". (8) Quanto affermato nel testo si riferisce esclusivamente alla classificazione del vizio derivante dalla violazione dell’obbligo di motivazione e non anche al contenuto sostanziale della stessa. Ved. invece A. Andreani, Idee per un saggio..., cit., pag. 9, secondo cui "la previsione formale scritta di un obbligo di motivazione "destoricizza" la pregnanza del precetto con le sue diverse sfaccettature (obbligatorietà, contenuto, sufficienza, validità, apparenza ecc.) ed impone di renderlo coerente con il sistema di istituti consolidati (o ridefiniti da leggi nuove) in cui il precetto stesso si innesta e trova collocazione". Si veda anche M. Di Giorgio, Innovazioni in tema di motivazione dei provvedimenti amministrativi e sindacato giurisdizionale, in "Riv. trim. proc. amm.", 1998, n. 3, pag. 608, che sulla scia di A. Andreani, afferma che la "nuova impostazione della legge n. 241/90, necessariamente destoricizza la giurisprudenza del Consiglio di Stato fino al 1990; pur non potendosi negare tra le due costruzioni un rapporto di sussidiarietà ed integrazione". (9) Cons. giust. amm. reg. siciliana, 20 aprile 1993, n. 149, ne "Il Foro it.", 1993, III, col. 616 ss., con nota redazionale. Questa decisione ha dato spunto ad un dibattito dottrinale specifico in tema di motivazione successiva: G. Virga, Integrazione della motivazione nel corso del giudizio e tutela dell’interesse alla legittimità sostanziale del provvedimento impugnato, in "Riv. trim. proc. amm.", 1993, n. 3, pagg. 507 ss.; A. Zito, L’integrazione in giudizio della motivazione del provvedimento: una questione ancora aperta, in "Riv. trim. proc. amm.", 1994, n. 3, pagg. 577 e ss.; S. Giacchetti, Fontanazzi giuridici: l’integrazione in corso di giudizio del provvedimento impugnato, in "Riv. trim. proc. amm.", 1995, n. 1, pagg. 19 e ss. (10) A. Zito, L’integrazione in giudizio della motivazione ¼ , cit., pag. 584. Per la tesi dell’irregolarità cfr. A. Romano Tassone, Contributo sul tema dell’irregolarità degli atti amministrativi, Giappichelli, Torino, 1993, pag. 102, secondo cui "¼ nell’immediato futuro è facile prevedere che quelle formalità, richieste proprio e soltanto in funzione della legittimazione del provvedimento nei confronti dell’opinione pubblica, vengan in gran parte ritenute mere condizioni di regolarità dell’atto amministrativo, e che la loro violazione non conduca quindi all’invalidità dell’atto stesso. È questo il caso, ad esempio, della prescrizione dell’art. 3 della legge n. 241/1990, che impone la motivazione di tutti i provvedimenti amministrativi, anche di quelli vincolati o di particolare semplicità. Tale disposizione, fortemente contestata come causa di inutile intralcio all’attività amministrativa, sembra particolarmente prestarsi ad una sorta di "derubricazione", almeno per le ipotesi i cui il dovere di motivazione non era prima normalmente riconosciuto dalla giurisprudenza". (11) S. Giacchetti, Fontanazzi giuridici ¼ , cit., pag. 22. (12) G. Virga, Integrazione della motivazione ¼ , cit., pagg. 526-527. (13) Così G. Virga, op. cit., pag. 533, che evidentemente si richiama alla ben nota definizione di giustificazione introdotta da C.M. Iaccarino, Studi sulla motivazione..., con speciale riguardo agli atti amministrativi, Soc. editrice del "Foro italiano", Roma, 1933, pag. 88: "esposizione delle circostanze di fatto e di diritto che hanno dato luogo ai motivi". (14) A. Andreani, Idee per un saggio..., cit., pag. 17. (15) Op. loc. ult. cit., pag. 18; sostanzialmente conforme G. Mezzapesa, Il divieto di integrazione in corso di giudizio della motivazione: un principio ancora saldo nel nostro ordinamento giuridico, in "Riv. trim. proc. amm.", 1996, n. 2, pagg. 382 e ss. (16) A. Zito, L’integrazione in giudizio ¼ , cit., pag. 585. (17) A. Zito, L’integrazione in giudizio ¼ , cit., pag. 585. (18) A. Romano Tassone, Motivazione dei provvedimenti¼ , cit., pag. 2. (19) La dottrina, in prosecuzione logica con le risultanze conseguite prima dell’entrata in vigore della legge n. 241/90, ha richiamato l’attenzione sul mutamento dei termini del dibattito in tema di motivazione imposto dalla novella del 1990, ponendo al centro dell’analisi il problema dei requisiti della motivazione (estensione e profondità che il discorso motivante deve possedere), dovendosi ritenere ormai superati e risolti dal legislatore sia l’aspetto dell’obbligo di motivazione che quello sul concetto di motivazione (A. Romano Tassone, Legge sul procedimento e motivazione del provvedimento amministrativo. Prime osservazioni, in "Scritti in onore di P. Virga", II, 1994, pagg. 1589-1590). (20) Cfr., in tal senso, G. Corso-F. Teresi, Procedimento amministrativo ¼ , cit., pag. 58. (21) Usiamo intenzionalmente il termine "apparente" in quanto, come si vedrà più avanti, gli sviluppi della nostra ipotesi ricostruttiva vanno in senso opposto. (22) Cfr. M.S. Giannini, Motivazione¼ , cit., pag. 268. (23) La dottrina più recente ha senza mezzi termini osservato che il concetto di motivazione "se pur cristallizzato dal legislatore nell’art. 3, legge 241/90, resta a tutt’oggi uno degli oggetti misteriosi della riforma del 1990" (così L. Tarantino, Wittgenstain, Mortati, e l’integrazione della motivazione in giudizio, in "Urbanistica e appalti", 2002, n. 8, pag. 942). (24) Così M. Di Giorgio, Innovazioni in tema di motivazione dei provvedimenti amministrativi e sindacato giurisdizionale, in "Riv. trim. dir. proc. amm.", 1998, n. 3, pag. 609. (25) Per il Consiglio di Stato "¼ la garanzia di adeguata tutela delle proprie ragioni non viene meno per il fatto che nel provvedimento finale non risultino chiaramente e compiutamente esplicitate le ragioni sottese alle scelte, allorché le stesse possano essere agevolmente colte dalla lettura degli atti afferenti alle varie fasi in cui si articola il procedimento" (così Cons. Stato, Sez. IV, 29 aprile 2002 n. 2281, in www.giustizia-amministrativa.it; anche in "Urbanistica e appalti", 2002, n. 8, pag. 935; Cons. Stato, Sez. IV, 9 ottobre 2000, n. 5346, in "Rass. Cons. Stato", 2000, n.10, pag. 2167; Cons. Stato, Sez. IV, 26 gennaio 1998, n. 66, ne "Il Foro amm.", 1998, n. 1, pag. 32), posto che la funzione propria della motivazione può ritenersi assicurata allorquando è idonea, al di là della sinteticità, a consentire all’interessato di ricostruire l’iter logico seguito dall’Amministrazione e quindi a valutare ed eventualmente contestare la ragionevolezza delle scelte (Cons. Stato, Sez. IV, 18 gennaio 1996, n. 56, ne "Il Foro amm.", 1996, n. 1, pag. 85; Idem, 6 maggio 1996, n. 569, ne "Il Foro amm.", 1996, n. 5, pag. 1475). Tuttavia l’orientamento in parola non impedisce al Supremo Consesso di accogliere la censura di difetto di motivazione allorquando "non v’è alcun elemento che leghi logicamente, ancor prima che giuridicamente, le generali considerazioni svolte nella parte motiva con quella dispositiva oggetto di contestazione" e nessuno dei richiami operati nel provvedimento impugnato "dà conto di come essi abbiano concretamente ed effettivamente, secondo un necessario rapporto logico-giuridico di causa/effetto, influito sulla decisione oggetto di impugnativa" (così Cons. Stato, Sez. IV, 29 aprile 2002, n. 2281, cit.). (26) M. Di Giorgio, Innovazioni ..., cit., pag. 611. (27) A. Andreani, Idee per un saggio ..., cit., pagg. 4-5. (28) A. Andreani, Idee per un saggio ..., cit., pagg. 10-11. Sembra aderire a questa impostazione R. Scarciglia, La motivazione ¼ , cit., pagg. 304-305. (29) Così A. Andreani, Idee per un saggio ..., cit., pag. 9. Secondo G. Mezzapesa, Il divieto di integrazione ¼ , cit., pag. 388, l’art. 3 della legge n. 241/90 introduce una disciplina "rigidamente formalistica sulla necessità e sufficienza della motivazione che determina una chiara involuzione rispetto all’orientamento sostanzialista verso cui invece sembra orientarsi la dottrina più recente e da cui il principio di una impossibilità di una integrazione successiva della motivazione sembra discendere come logico corollario". Contra, ved. A. Romano Tassone, Legge sul procedimento e motivazione ..., cit., passim, in particolare pag. 1606, che espressamente afferma che "la legge sul procedimento amministrativo nel suo complesso ¼ tende a ridurre nettamente la rilevanza della motivazione del provvedimento ai fini di tale sindacato". Secondo G. Corso, Motivazione dell’atto amministrativo (voce), in "Enc. dir.", IV aggiornamento, 2001, pag. 775, col. sin. "La prospettiva di una "dequotazione" della motivazione, ossia di una perdita di rilevanza dell’esternazione in dipendenza di una crescente attenzione della giurisprudenza alle ragioni sostanziali quali risultano anche dagli atti preparatori, è stata smentita". (30) A. Andreani, Idee per un saggio ..., cit., pag. 10. (31) M. Di Giorgio, Innovazioni ..., cit., pag. 613. (32) Infatti, lo stesso A. Romano Tassone, pur essendo il maggiore teorico della motivazione in funzione del sindacato di opinione pubblica, è contrario all’ammissibilità della motivazione successiva (Motivazione dei provvedimenti ..., cit., pag. 397). (33) M. Di Giorgio, Innovazioni ..., cit., pag. 618. (34) A. Zito, L’integrazione in giudizio ..., cit., pag. 579. (35) Così A. Romano Tassone, Legge sul procedimento e motivazione ¼ , cit., pag. 1597. (36) In tal senso sembra Cons. Stato, Sez. IV, 30 marzo 1998, n. 504, in "Rass. Cons. Stato", 1998, n. 3, pag. 377 e ss., secondo cui "deve infatti ritenersi necessaria e sufficiente alla luce dei parametri ispiratori della legge n. 241/90, la indicazione, nel provvedimento di controllo, della c.d. giustificazione, ovvero della esternazione dei presupposti di fatto e la individuazione delle norme giuridiche". (37) C.M. Iaccarino, Studi sulla motivazione ..., cit., pag. 90. (38) Cfr. F. Paparella, Studi sulla presupposizione nel diritto pubblico, Edizioni Levante, Bari, 1974, pagg. 140 e ss., secondo cui "il condizionamento dell’ordinamento positivo alla produzione di un effetto giuridico è posto tuttavia in essere, quando si verifica, da un fatto della vita reale, che prospetta la propria tipica struttura in forme esterne peculiari ed imprevedibili", il cui trapasso dalla astratta tipicità alla originale e vivente concretezza "richiede per ciò l’esternazione, in una dichiarazione del soggetto, della rappresentazione del modo di essere storico del fatto"; "il fatto storico rappresentato è l’oggetto del negozio ed entra a sua volta a far parte della fattispecie negoziale". (39) Sostanzialmente in questo senso E. Presutti, I limiti del sindacato di legittimità, Società editrice libraria, Milano, 1911, pag. 124, secondo cui la motivazione "non in altro è necessario consista che nella esposizione delle circostanze di fatto, in vista delle quali l’Amministrazione emana l’atto. La dimostrazione del concatenamento logico fra questi fatti e l’oggetto del provvedimento in base alla norma giuridica, è perfettamente inutile. È cioè perfettamente inutile che nel provvedimento sia esposta l’argomentazione in base a cui si dimostri l’esattezza dell’accolta interpretazione della norma giuridica, e della fatta applicazione della norma alle circostanze di fatto. Ciò perché chi sindaca l’atto può, obbiettivamente considerando tali questioni e prescindendo onninamente dalla dimostrazione eventualmente contenuta nell’atto sottoposto al suo sindacato, vedere se effettivamente gli assunti presupposti di fatto giustificano la emanazione del provvedimento. Qualunque errore si contenga nella dimostrazione di questo nesso non potrà impedire di constatare che questo nesso vi è, se effettivamente sussiste". Per una ipotesi di motivazione, invece, intesa come dimostrazione di concatenamento logico tra decisione assunta e atti e fatti emergenti dal procedimento cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 16 marzo 1999, n. 287, in "Rass. Cons. Stato", 1999, n. 3, I, pag. 370, secondo cui "La verifica della logicità "estrinseca" dell’esercizio del potere amministrativo si incentra sulla motivazione del provvedimento, per cui ai fini della sua sufficienza non basta la mera verosimiglianza del ragionamento espresso, ma occorre che sia evidenziato un nesso di conseguenzialità e proporzione delle varie conclusioni con gli atti effettivamente acquisiti al procedimento e con le premesse fattuali emergenti da ciascuno di essi". Innovazioni ¼ , cit., pag. 609. (40) In questo senso M. Di Giorgio, (41) L’indirizzo interpretativo volto a promuovere il "polo dell’effettività della giustizia amministrativa" fa leva su alcune disposizioni chiave della Costituzione (artt. 24, 113, 97 Cost.): cfr. M.S. Giannini, Problemi attuali della giustizia amministrativa, in "Riv. Trim. dir. proc. amm.", 1984, n.2, pag. 167; V. Bachelet, La giustizia amministrativa nella costituzione italiana, Giuffrè, Milano, 1966; E. Capaccioli, Per l’effettività della giustizia amministrativa (Saggio sul giudicato amministrativo), in Capaccioli, Diritto e processo, in Scritti vari di diritto pubblico, Cedam, Padova, 1978; G. Abbamonte, Sentenze di accertamento e oggetto del giudizio amministrativo di legittimità e di ottemperanza, in Studi in onore di M.S. Giannini, Giuffrè, Milano, 1988, vol. I, pagg. 3 e ss. (42) A. Andreani, Idee per un saggio ¼ , cit., pag. 4. (43) È opportuno precisare che l’obbligo della P.A. di esercitare i suoi poteri discrezionali in vista dell’interesse pubblico non deriva dalla previsione della categoria dell’eccesso di potere. È vero il contrario. È dall’obbligo generico della P.A. di perseguire l’interesse pubblico che il Consiglio di Stato francese ricavò il principio che stornare il potere dal proprio scopo concretasse un detournement de pouvoir, quale specie di eccesso di potere (cfr. A. Azzena, Natura e limiti dell’eccesso di potere amministrativo, Giuffrè, Milano, 1976, pag. 32, nota 32). Oggi l’art. 1 legge n. 241/90 così dispone: "L’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ¼ ". Secondo G. Sala, L’eccesso di potere ¼ , cit., pag. 181, "la codificazione del principio di nominatività, nell’art. 1, legge n. 241/90, pare offrire un ulteriore, anche se per la verità non necessario – non essendosi mai dubitato che l’attività amministrativa dovesse perseguire i fini determinati dalla legge –, avallo normativo all’idea che anche la più antica delle manifestazioni dell’eccesso di potere, lo sviamento, fosse in realtà riconducibile alla violazione di legge, rinvenendosi sostanzialmente in esso una distonia tra fattispecie reale e fattispecie legale, la carenza del presupposto giustificativo del potere". (44) Si accoglie la definizione di A. Falzea, Manifestazione – teoria generale – (voce), in "Enc. Dir.", vol. XXV, Varese, 1975, pag. 442, secondo cui "il fatto manifestante è tale perché contiene in sé il riferimento ad un fatto diverso" e si offre nella sua materiale presenza alla osservazione sensibile. (45) Cfr. A. Falzea, Manifestazione ¼ , cit., pag. 442, per il quale "il fatto manifestato entra in gioco esclusivamente in virtù del riferimento contenuto nel fatto manifestante". Il primo "è indicato per allusione o richiamo mentre non è materialmente presente e non è osservabile coi sensi". La sua dimensione "è quella della immaterialità". (46) Così T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. I, 20 dicembre 1997, n. 2298, ne "Il Foro amm.", 1998, n. 1, pag. 117. (47) Cons. Stato, Sez. IV, 22 dicembre 1998, n. 1866, in "Rass. Cons. Stato", 1998, n. 12, I, pag. 1925; Idem, Cons. Stato, Sez. IV, 26 gennaio 1998, n. 66, ne "Il Foro amm.", 1998, n. 1, pag. 32. (48) Secondo l’analisi puntuale di E. Presutti, I limiti del sindacato ¼ , cit., pag. 134, nota 2, "se le circostanze di fatto, assunte nel caso concreto a causa del provvedimento, non potevano legittimarlo, il provvedimento è viziato da eccesso di potere, non da mera violazione di legge, consistente nell’inadempimento dell’obbligo fatto dal diritto obbiettivo di motivare e di motivare in modo logicamente e giuridicamente sufficiente". (49) Ovviamente, detta giurisprudenza si presenta come paradossale per chi non si pone nell’ottica evolutiva del sistema di giustizia amministrativa proteso a valorizzare gli aspetti sostanzialistici e di effettività della tutela giurisdizionale e si attarda nell’accogliere concezioni interpretative del dettato normativo scollegate dalle linee di tendenza sostanziali del sistema. (50) Ved. N. Pappalardo, L’eccesso di potere "amministrativo" secondo la giurisprudenza del Consiglio di Stato, in Studi per il centenario del Consiglio di Stato, Roma, 1932, pag. 434; si confronti anche G. Treves, Vizio della motivazione ed eccesso di potere, in "Temi Emiliana", 1935, pag. 8. (51) Così N. Pappalardo, L’eccesso di potere ..., cit., pagg. 482-483, al quale si rinvia per l’esame della giurisprudenza più risalente sul tema. Vedi anche G. De Cesare, Problematica dell’eccesso di potere amministrativo, Padova, 1973, pagg. 73 e ss. Per alcune decisioni che indicano quale sintomo di eccesso di potere l’assenza o l’insufficiente motivazione vedi Cons. Stato, Sez.IV, 25 ottobre 1907, n.441, in "Giust. amm.", 1907, 1, pag. 411; Idem, 17 luglio 1925, n. 686, ne "Il Foro amm.", 1925, I, 1, pag. 328. (52) N. Pappalardo, L’eccesso di potere ..., cit., pagg. 481 e 482. (53) N. Pappalardo, L’eccesso di potere ..., cit., pag. 486, il quale, a sua volta, riprende la formula da una decisione del Consiglio di Stato del 1902: Cons. Stato, 12 settembre 1902, n. 436, in "Giust. amm.", 1902, I, pag. 423. La dottrina recente, ricostruendo in chiave storicistica l’evoluzione del rapporto tra motivazione e sindacato giurisdizionale, ha individuato tre periodizzazioni giurisprudenziali a cui sono riconducibili tendenze diverse tra loro: a) fase anteriore alla riforma Crispi; b) fase concernente il periodo che va dall’ultimo ventennio del secolo scorso al primo decennio di questo secolo; c) fase concernente il secondo e terzo decennio del secolo (A. Romano Tassone, Motivazione dei provvedimenti ¼ , cit., pagg. 131 e ss.). È stato dimostrato che l’attività consultiva del Consiglio di Stato prima della riforma Crispi non aveva mai avvertito un interesse particolare per i profili motivatori del provvedimento oggetto di sindacato (A. Romano Tassone, Motivazione dei provvedimenti ¼ , cit., pagg. 131 e ss.). Anche nei primi anni della sua attività giurisprudenziale la Sez. IV del Consiglio di Stato più che censurare il difetto di motivazione formale si limitava a verificare se l’atto fosse sostenuto da "motivi" giustificativi, affidandosi spesso agli elementi integrativi di giudizio desumibili dagli atti comunque acquisiti al fascicolo. Pertanto, sembra potersi fondatamente ritenere che "nulla quindi legava motivazione ed eccesso di potere nel primo ventennio di attività della Sez. IV" (A. Romano Tassone, Motivazione dei provvedimenti ¼ , cit., pagg. 159-160). Anche nel primo decennio del secolo, tranne casi isolati, la giurisprudenza appariva restia ad affermare un obbligo generale di motivazione (A. Romano Tassone, op. ult. cit., pag. 160). Ved. il parere del Consiglio di Stato, Ad. gen., 3 febbraio 1908, (pubblicato in "Giur.", 1908, col. 253 e ss., con nota di F. Cammeo), nella cui motivazione si afferma che "la giurisprudenza di questo Collegio, sia consultiva, sia contenziosa, è costante nel ritenere necessaria alla legittimità delle decisioni amministrative l’indicazione dei loro motivi, mercè i quali soltanto si può dimostrare che il provvedimento ha suo fondamento nella legge e non proviene da arbitrio ¼ " (ved. col. 260). Tuttavia l’autorevole annotatore del parere critica recisamente siffatta affermazione di principio sul rilievo che "la giurisprudenza prevalente ritiene che debbano essere motivate le decisioni su ricorso ¼ Ma neppure questo principio è incontroverso in giurisprudenza ¼ Circa gli altri provvedimenti non presi su ricorso, ma in sede di Amministrazione, si possono citare decisioni nel senso che occorra di regola la motivazione, ma sono per lo più, anche se formulate in generale, decisioni di specie ¼ Vi sono invece decisioni che dicono l’opposto: per esempio: Consiglio di Stato, Sez. IV, 30 giugno 1905, n.11, (in "Giur. It.", 1905, III, 376, approvazioni tutorie della G.P.A. ¼ col. 256)". A ciò fa da contrapposto, invece, l’ascesa di un forte fermento dottrinale che cominciava a porsi il problema. Soltanto nel secondo e terzo decennio del secolo il Consiglio di Stato manifestava la tendenza diffusa a collegare l’eccesso di potere sotto forma di sviamento al difetto di motivazione in quanto sintomo dei vizi occulti dell’atto; ed è in questo periodo che si affermava il principio secondo cui l’obbligo della motivazione discendesse, oltre che dalla legge, dalla c.d. "natura dell’atto" (A. Romano Tassone, op. ult. cit., pag. 172; vedi G. De Cesare, op. cit., pag. 68 e ss.; cfr. anche A. Azzena, Natura e limiti dell’eccesso di potere amministrativo, cit., pag. 107, in nota, secondo cui "in tema di motivazione non prescritta non sembra esservi dubbio che in giurisprudenza essa venisse intesa come indice di un comportamento arbitrario della pubblica Amministrazione"). Formula quest’ultima alquanto empirica, ma idonea in realtà a ricomprendere la gran parte dei provvedimenti discrezionali (cfr. M.S. Giannini, Motivazione ¼ , cit., pag. 263). Per una rassegna giurisprudenziale ragionata, risalente agli anni ’50, ma tuttora valida, ved. R. Juso, Tratti caratteristici della giurisprudenza sulla "motivazione" degli atti amministrativi, in "Riv. trim. dir. pubbl.", 1959, pagg. 667-671. (54) C.M. Iaccarino, Studi sulla motivazione ¼ , cit, pagg. 21-23. Sul punto G. Treves, Vizio della motivazione ¼ , cit., col. 12, avvertiva che occorre "tener distinta l’esposizione dei motivi difettosi dai motivi stessi, come l’effetto dalla causa o il mezzo di prova dell’esistenza di un fatto dal fatto stesso". (55) Cfr. C.M. Iaccarino, Studi sulla motivazione ..., cit., pag. 23, nota 10. (56) Siffatta affermazione si è radicata sul convincimento che "poiché i motivi illegittimi espressi corrispondono normalmente a quelli effettivi la motivazione può rappresentare un indizio di eccesso di potere" (così G. Treves, op. cit., col. 11); per l’affermazione che la motivazione normalmente corrisponde ai veri motivi cfr. L. Raggi, Motivi e motivazione dell’atto amministrativo, in "Giur. it.", 1941, col. 163. (57) Cfr. C.M. Iaccarino, Studi sulla motivazione ..., cit., pag. 24, nota 12, lì dove l’autore si preoccupa di avvertire che "il determinare il valore della motivazione e dei motivi nei confronti dell’atto amministrativo ¼ è un aspetto del problema della prevalenza della volontà dichiarata o della volontà formata". (58) Cfr. C.M. Iaccarino, Studi sulla motivazione ..., cit., pag. 26, nota 12. In proposito cfr. M.S. Giannini, L’interpretazione dell’atto amministrativo e la teoria giuridica generale dell’interpretazione, Giuffrè, Milano, 1939, pag. 321, in nota 19, secondo cui "non è la motivazione di per sé che circoscrive la volontà dell’agente, ma il fatto che, disponendo la legge la rilevanza del motivo, giuridicamente tale volontà risulta più definita di quella dell’agente i cui motivi sono irrilevanti di fronte al diritto". (59) C.M. Iaccarino, Studi sulla motivazione ..., cit., pag. 26, nota 12. (60) C.M. Iaccarino, Studi sulla motivazione ..., cit., pag. 25, nota 12. (61) Cfr. M.S. Giannini, L’interpretazione ..., cit., pag. 288. (62) Cfr. E. Betti, Interpretazione della legge e degli atti giuridici. Teoria generale e dogmatica, Milano, 1949, pag. 287. (63) In tal senso ved. L. Ragnisco, Il rifiuto di approvazione dei contratti della pubblica Amministrazione e la motivazione degli atti amministrativi, ne "Il Foro it.", 1909, III, col. 11-12. Contra, ved. E. Presutti, I limiti del sindacato di legittimità, Società editrice libraria, Milano, 1911, pag. 129, nota 2. Esaminando gli orientamenti della dottrina, è interessante notare come già nel 1902 il Pacinotti segnalasse che "¼ le forme amministrative ¼ tendono anche a garantire l’esplicazione dell’attività dei controlli amministrativi ¼ : basta ora richiamare, a cagion d’esempio, l’obbligo imposto alle amministrazioni pubbliche di motivare i provvedimenti, perché, tenuta presente l’esperibilità ¼ di ricorsi per eccesso di potere la accennata finalità appaia in piena evidenza" (G. Pacinotti, Saggio di studi sui negozi giuridici di diritto pubblico, estratto da Arch. Giur (Serafini), XII, n. 2, Modena, 1902, pag. 48). Lo stesso autore riteneva che i motivi posti a base dell’atto da parte dell’autorità procedente fossero sindacabili, rifacendosi alla fase preparatoria del provvedimento rinvenibile nel fascicolo dell’Amministrazione (G. Pacinotti, op. cit., pag. 48. In precedenza ved. A. Codacci Pisanelli, L’eccesso di potere nel contenzioso amministrativo, in "Giust. amm.", 1892, IV, pag. 29, da cui è possibile ricavare la medesima idea stante il ruolo privilegiato che l’autore assegnava ai poteri istruttori del Consiglio di Stato). Non molto difformi appaiono le conclusioni del Cammeo il quale nel 1908 riconosceva che la motivazione espressa fosse il mezzo più efficace per rilevare l’eccesso di potere derivante da irregolarità negli intimi motivi di un atto (F. Cammeo, nota a parere Consiglio di Stato, Ad. gen., 3 febbraio 1908, cit., pag. 255). Tuttavia l’illustre autore negava recisamente l’esistenza di un obbligo generale di motivazione, insistendo sulla assenza di una norma espressa in tal senso (a ciò non ritenendo idoneo l’art. 3 legge abolitiva del contenzioso amministrativo in quanto norma specifica e particolare) e facendo leva sul carattere processuale della norma che individuava l’eccesso di potere come vizio, per argomentarne l’inderivabilità di una norma sulla forma degli atti amministrativi (F. Cammeo, nota a parere Consiglio di Stato, Ad. gen., 3 febbraio 1908, cit., pagg. 254-255). L’impostazione del Cammeo venne criticata dal Ragnisco che, collegando alla non manifestabilità dei motivi una presunzione di arbitrarietà dell’agire della pubblica Amministrazione, ammoniva a non confondere il potere discrezionale con l’agire libero stante il vincolo teleologico a ben amministrare incombente sull’Amministrazione (L. Ragnisco, Il rifiuto di approvazione ¼ , cit, col. 11-12). Detto convincimento era sostenuto dal rilievo che se la storia dell’eccesso di potere fondava su appezzamenti illogici o irrazionali, ne doveva conseguire un obbligo di motivazione di tutti i provvedimenti amministrativi, in quanto il cittadino di fronte ad un atto amministrativo non corredato da motivazione, non avrebbe avuto alcuno strumento per dimostrare la consistenza dell’eccesso di potere. Contra, cfr. E. Presutti, I Limiti del sindacato di legittimità, cit., pag. 129, nota 2, lì dove affermava che l’obbligo di motivazione non potesse desumersi dalla sindacabilità dell’atto sotto il profilo dell’eccesso di potere. Secondo l’autore questa tesi era un sofisma perché l’assenza di motivazione non impediva il sindacato per eccesso di potere, atteso che il giudice aveva i mezzi per poter conoscere quali fossero i motivi dell’atto. (64) Ved. M.S. Giannini, Motivazione ¼ , cit., pag. 265, dove si evidenzia come al fondo di molti problemi giurisprudenziali stesse il convincimento che la motivazione del provvedimento costituisse limite alla conoscenza dell’atto da parte del giudice. Ved., anche, F. Benvenuti, L’istruzione nel processo amministrativo, Cedam, Padova, 1953, pag. 117, il quale nel suo lavoro tiene a precisare che "mentre da un lato quella rappresentazione di fatti e motivi cui la motivazione dà luogo non è necessariamente la rappresentazione di tutti i fatti e i motivi connessi con l’atto, ma solo di quelli necessari e sufficienti per la sua interpretazione ¼ , pur implicando la disposizione da parte dell’Amministrazione di fatti di cui si può e si deve tener conto nel processo, tuttavia non costituisce necessariamente un vincolo alla disponibilità processuale dei fatti secondari, talchè ci si trovi nel processo a dover dipendere da una scelta già operata con efficacia processuale". (65) M.S. Giannini, Motivazione¼ , cit., pag. 265; cfr. P.G. Lignani, La disciplina del procedimento e le sue contraddizioni, in "Riv. trim. dir. proc. amm.", 1992, n. 3, pag. 582, il quale ritiene che l’estensione dell’obbligo di motivazione estenda l’area dell’impugnabilità del provvedimento. (66) Per l’opinione che l’Amministrazione pubblica fosse caratterizzata dalla separatezza dal mondo esterno e dei cittadini cfr. G. Berti, Il rapporto amministrativo, 1977, pagg. 44 e ss.; M. Nigro, È ancora attuale una giustizia amministrativa, ne "Il Foro it.", 1983, V, col. 250 e ss. In generale cfr. l’ampia analisi di M. Bombardelli, Decisione e pubblica Amministrazione (la determinazione procedimentale dell’interesse pubblico), Giappichelli, Torino, 1996, passim, segnatamente pagg. 48 e segg. (67) Ved. M. Bombardelli, Decisione ¼ , cit., pag. 43, nota 106. (68) C. Mortati, Obbligo di motivazione e sufficienza della motivazione degli atti amministrativi, in "Giur. it.", 1942, III, col. 19. (69) C.M. Iaccarino, Studi sulla motivazione ..., cit., pag. 74. (70) C.M. Iaccarino, Studi sulla motivazione ..., cit., pag. 83, secondo cui "contribuiscono ad assicurare la esattezza della motivazione successiva e danno mezzo di esercitare un sindacato su di essa, da un lato i fatti che si assumono posti a base del provvedimento, la indicazione dei fatti ¼ può valere come motivazione implicita, e dall’altro gli atti preordinati alla manifestazione di volontà, da cui si possono dedurre i motivi che verosimilmente hanno determinato quella manifestazione di volontà. E se pure questi elementi non siano tali da poter mettere in essere una vera e propria motivazione implicita successiva aliunde, tuttavia potranno sempre valere come indizi per ricostruire quel che sarebbe stata la motivazione di un atto se fosse stata emanata dalla stessa persona organo che ha emanato la parte dispositiva, o come mezzi per poter saggiare la esattezza dei motivi che siano stati successivamente messi a base dell’atto". (71) La figura della motivazione implicita porta con sé un nodo, costituito dall’obiezione della dubbia corrispondenza tra motivi reali e quelli dedotti, in quanto, appunto, dedotti "ad opera di chi interpreta o applica l’atto, cioè ad opera di persona diversa da quella che ha posto in essere la volontà" (C.M. Iaccarino, Studi sulla motivazione ..., cit., pag. 87). Obiezione superata nella teorica in esame dal rilievo che "gli elementi per formare tale motivazione sono infatti forniti dallo stesso soggetto volente, quindi non v’è sostituzione di attività nel creare i motivi, ma solo nel dire quali sono" (C.M. Iaccarino, op. ult. cit., pag. 87). Trattasi in fondo di un giudizio logico per vedere quale possa essere la motivazione dell’atto dati quei fatti; viceversa nel caso della motivazione espressa "è, possibile solo un giudizio conoscitivo, in cui la parte logica è limitata solo alla interpretazione della esposizione dei motivi, ma non è estesa fino alla ricerca di quelli che potrebbero essere i motivi" (C.M. Iaccarino, op. ult. cit., pag. 70, nota 42). Ad avviso di chi scrive, però, l’interrogativo legittimo, e forse più avvincente, a cui l’illustre autore non ha riservato un’attenzione pari alla sua profondità di analisi, ma che si impone per l’importanza della risposta, è lo stabilire quali siano i riflessi giuridici in termini di legittimità dell’atto amministrativo determinati dall’eventuale contrasto tra le risultanze del giudizio conoscitivo compiuto sui motivi espressamente esposti in motivazione e la motivazione implicita quale risultanza del giudizio logico sviluppato dall’interprete (e/o da colui che sindaca l’atto) sulle circostanze di fatto dedotte nella giustificazione e/o ricavate dalla c.d. documentazione. Non potrà negarsi, infatti, che ogni provvedimento amministrativo espressamente motivato, in quanto contenente anche una "giustificazione" ovvero supportato dalla documentazione (si dà per implicito il riferimento anche alla giustificazione c.d. aliunde, ossia quella ricavabile dagli atti del procedimento preordinato all’emanazione del provvedimento finale), sollevi il problema posto e ne esiga una soluzione. È un dato che il rapporto tra motivazione implicita e motivazione espressa rivesta estrema importanza nell’ambito del sindacato di legittimità sotto forma di eccesso di potere, soprattutto quale criterio di spiegazione della sua evoluzione giurisprudenziale. A ben riflettere, però, se, come è stato detto, anche la stessa motivazione contestuale, al pari di quella successiva, può enunciare motivi diversi da quelli effettivamente posti a base dell’atto, varranno gli stessi rimedi che l’autore aveva indicato per sollevare la motivazione successiva dal sospetto di possibile falsità: vale a dire ammettere la sindacabilità della sua esattezza mediante la motivazione implicita contestuale e/o aliunde (si confronti il pensiero di R. Iannotta in nota a Cons. Stato, Sez. V, 15 gennaio 1987, n. 13, ne "Il Foro amm.", 1987, n. 1-2, pag. 103, secondo il quale "l’esclusione della motivazione come modo di essere dell’estetica dell’atto dovrebbe indurre a superare il criterio della necessaria contestualità della motivazione, in quanto questa può essere individuata in apprezzamenti, valutazioni, indagini compresi nei procedimenti. Del resto la contestualità della motivazione non esclude la necessità della verifica dei dati (tecnici, storici, ambientali) che possono spiegare la scelta (discrezionale) operata dall’Amministrazione"). (72) Al di là della terminologia usata dallo Iaccarino, per motivazione implicita crediamo volesse intendere "motivo": se la motivazione implicita è una non motivazione, ossia non enunciazione, quale referente del termine "implicita" non rimane che il motivo. (73) Iaccarino osserva che "spesso la circostanza di fatto o di diritto vien fatta valere come motivo" (Studi sulla motivazione ..., cit., pag. 259), rilevando come "intanto ¼ può sopperire alla mancanza dell’enunciazione del motivo in quanto inequivocabilmente quella circostanza dia luogo a quel motivo o a un motivo di quella circostanza dia luogo a quel motivo o a un motivo di quel genere, per cui presuntivamente lo si deve ritenere esistente e in quel modo, anche non formulato espressamente" (Studi sulla motivazione ..., cit., pag. 260). (74) Infatti, C.M. Iaccarino, Studi sulla motivazione ..., cit., pagg. 261-262, nelle conclusioni del suo lavoro espressamente affermava l’esistenza di un principio generale che rendeva obbligatoria la motivazione successiva degli atti amministrativi ponendo, dunque, l’obbligo "di non motivare contestualmente e contemporaneamente; ma di fornire la motivazione (o tali elementi che la facciano dedurre) quando ciò sia reso necessario. C’è quindi un obbligo generale di motivazione gli atti amministrativi: ma, diremo così con una formula empirica, solo in caso di uso. Abbiamo visto come ciò non sia anormale poiché né è completamente nuovo per il nostro diritto, né in pratica arreca conseguenze dannose che possano essere arrecate anche da una motivazione contestuale, specialmente se la motivazione successiva è implicita, in quanto contenuta in una giustificazione o documentazione successiva. In genere, tranne disposizione espressa di legge, e tranne che lo richieda la natura dell’atto, la motivazione può essere implicita, cioè può anche desumersi dalla giustificazione, pure quando questa sia aliunde (documentazione)". Secondo M.S. Giannini, L’interpretazione dell’atto amministrativo ¼ , cit., pag. 281, non è affatto vero che l’intenzione sia sempre rilevante attraverso la motivazione, posto che quest’ultima "è un momento da porre dal lato della manifestazione, non dell’intenzione, e inoltre è un’estrinsecazione dei motivi, non un’asseverazione solenne della verità dei motivi stessi". (75) C.M. Iaccarino, Studi sulla motivazione ..., cit., pagg. 263-264. (76) Così G. De Fina, La motivazione dei provvedimenti amministrativi, in "Riv. It. Sc. Giurid.", 1971, pag. 31. (77) A. De Valles, La validità degli atti amministrativi, ristampa anastatica dell’ed. 1916,Cedam,Padova, 1986, pagg. 142-143. (78) M.S. Giannini, Diritto amministrativo, Giuffrè, Milano, 1988, pag. 751. (79) Rilevava M.S. Giannini, nella non più recente voce Atto amministrativo, in "Enc. Dir.", vol. IV, 1959, Milano, pag. 157, che "L’atto amministrativo si trova menzionato in testi normativi di diritti positivi vigenti: in Italia, gli artt. 4 e 5 legge 20 marzo, 1865, n. 2248 all. E), sul contenzioso amministrativo, T.U. 20 giugno 1924, n. 1054, sul Consiglio di Stato, e altri secondari. Non risulta invece che ne esistano definizioni positive (n.d.r.: la sottolineatura è nostra): la relativa teoria è quindi opera di dottrina e di giurisprudenza, in particolare della dottrina tedesca e italiana e della giurisprudenza francese". (80) Per quanto concerne le "ragioni giuridiche" seguiamo la definizione di E. Presutti, I limiti del sindacato ¼ , cit., pag. 135, nota 2, il quale parla di "accolta interpretazione della norma giuridica e della sua retta applicazione alle circostanze di fatto". Tuttavia, secondo l’autore, "tali argomentazioni possono essere errate: ma se l’interpretazione della norma, obbiettivamente considerata è retta, se è esatta l’applicazione della norma alle circostanze di fatto, la sentenza come l’atto restano fermi, malgrado il vizio dell’argomentazione". In generale la dottrina, recependo principi giurisprudenziali consolidati, è concorde nel ritenere che "l’atto amministrativo deve essere qualificato in relazione al concreto potere esercitato, quale risulta dall’intero contesto del suo contenuto sostanziale e dal complessivo comportamento dell’Amministrazione" (così P. Virga, Il provvedimento amministrativo, Milano, 1972, pag. 321); corollario indiscusso di detto principio è che la mancanza del richiamo agli articoli di legge "non comporta invalidità, quando la identificazione della natura del provvedimento è ugualmente possibile sulla base di elementi intrinseci ed estrinseci"; del pari, se il richiamo alle norme di legge è erroneo, l’errore materiale in cui è incorsa l’autorità nel citare l’articolo di legge è irrilevante "se non vi è alcun dubbio circa la natura del potere esercitato" (P. Virga, op. loc. ult. cit.). (81) La legge n. 241/90 soltanto nell’art. 11, comma 4, parla di sopravvenuti "motivi" di pubblica utilità a proposito di accordi procedimentali. (82) C.M. Iaccarino, Studi sulla motivazione ¼ , cit., pag. 87. (83) C.M. Iaccarino, Studi sulla motivazione ¼ , cit., pag. 86. (84) M.S. Giannini, Motivazione ¼ , cit., pagg. 261 e ss. (85) M.S. Giannini, op. ult. cit., cit., pag. 262. (86) M.S. Giannini, op. ult. cit., cit., pag. 264. (87) M.S. Giannini, op. ult. cit., pag. 265. (88) M.S. Giannini, op. ult. cit., pag. 266. (89) M.S. Giannini, op. ult. cit., pag. 266. (90) M.S. Giannini, op. ult. cit., pag. 266. (91) M.S. Giannini, op. ult. cit., pag. 266. Cfr. anche M. Nigro, Problemi veri e falsi della giustizia amministrativa dopo la legge sui tribunali regionali, in "Riv. trim. dir. pubbl.", 1972, n. 4, pag. 1839, il quale pone in risalto la tensione della giurisprudenza a spingere il sindacato di legittimità sotto forma di eccesso di potere ad essere revisione dell’intero arco dell’esercizio del potere anziché un controllo sull’atto. Per meglio comprendere questa frase del Giannini ci sembra possa tornare utile e chiarificatore un parallelismo con l’opinione del Levi secondo cui "... l’ordinamento esige non che la scelta dell’organo amministrativo sia in concreto dettata dalla considerazione dell’interesse pubblico, bensì che il provvedimento emanato risulti conforme alla decisione o alle decisioni che obiettivamente appaiono indirizzate a soddisfare tale interesse; se si ammette questo, si vede senz’altro come, anche per il diritto, sia una mera eventualità che l’interesse pubblico abbia realmente ispirato la scelta del funzionario: in altri termini, che ne sia stato il reale motivo o fine. In verità, si richiede soltanto che il provvedimento sia tale che l’interesse pubblico specifico possa averlo determinato, anche se in astratto questo poteva giustificarne uno o più altri entro il margine libero della legge" (F. Levi, L’attività conoscitiva della pubblica Amministrazione, Giappichelli, Torino, 1967, pag. 299). (92) M.S. Giannini, op. ult. cit., pag. 266. (93) M.S. Giannini, op. ult. cit., pag. 266. (94) M.S. Giannini, op. ult. cit., pag. 266. L’indirizzo dottrinale accennato nel testo, come è noto, è quello tracciato da F. Benvenuti, L’eccesso di potere amministrativo per vizio della funzione, in "Rass. dir. pubbl.", 1950, I, pag. 47 secondo cui l’eccesso di potere che si manifesta attraverso sintomi è una causa estrinseca di invalidità dell’attività amministrativa, ogni qualvolta vi sia "deviazione di quella attività dalle norme sulla funzione, giuridicamente disciplinata, in cui deve esercitarsi". L’elaborazione del Benvenuti ha tratto origine dallo studio di quei casi in cui la giurisprudenza riconosceva l’eccesso di potere partendo dalla considerazione di una manifestazione sintomatica (F. Benvenuti, L’eccesso .., cit., pag. 3) al dichiarato fine di proporre una tesi idonea a "giustificare sia la individuazione operata dal giudice amministrativo di tali situazioni, sia l’uso che egli ne fa come ragione di invalidazione degli atti amministrativi e pertanto l’ampia interpretazione giurisprudenziale della categoria" (F. Benvenuti, L’eccesso ..., cit., pag. 47). Da questo angolo visuale è chiaro che il riferito condizionamento esercitato dall’evoluzione giurisprudenziale in tema di eccesso di potere sulla teorica formulata dal Benvenuti debba intendersi come obiettiva sollecitazione della giurisprudenza a offrire una compiuta sistemazione dommatica alle c.d. situazioni sintomatiche di eccesso di potere, finalizzata a superare il convincimento che il valore delle medesime situazioni fosse fondato "su di una norma che sarebbe stata introdotta dal giudice stesso praeter legem" (F. Benvenuti, L’eccesso¼ , cit., pag. 43). È un dato di costante rilevazione l’approccio metodologico della dottrina che ha approfondito la nozione di "eccesso di potere amministrativo", fondato sul convincimento che ad essa non possa riconoscersi il valore attribuitole dalla giurisprudenza, "poiché non è ammissibile che questa possa attribuire qualificazioni giuridiche non risultanti dalla legge" (così A. Azzena, Natura e limiti..., cit., pag. 8), potendosi ricavare il significato dell’espressione "eccesso di potere" "da alcune delle norme che con essa indicano un motivo di annullamento" (A. Azzena, Natura e limiti..., cit., pag. 65). (95) Cfr. G. De Fina, La motivazione dei provvedimenti amministrativi, cit., pag. 32. (96) Il Giannini (Motivazione¼ , cit., pag. 260) preferisce definire la motivazione in senso stretto come "esternazione del motivo anziché come dichiarazione del motivo" in quanto non necessariamente la motivazione in senso proprio e la giustificazione fanno parte della dichiarazione, ne costituiscono cioè articolazione logica individuale, ma possono incorporarsi sia in altre dichiarazioni, sia manifestazioni che non hanno specie di dichiarazioni, collegate funzionalmente all’atto. (97) M.S. Giannini, Diritto amministrativo, vol. II, Giuffrè, Milano, 1988, pagg. 698-699. (98) Il riferimento è all’importante opera di A. Romano Tassone, Motivazione dei provvedimenti¼ , cit., dove il tema della dequotazione della motivazione, sia pure nell’ambito della critica all’orientamento sostanzialista, viene affrontato sulla scorta di una ricostruzione del pensiero del Giannini, a nostro avviso, non completamente aderente alle sue obiettive risultanze. Dati i limiti del presente lavoro non ci addentreremo nell’esposizione ragionata delle nostre critiche, riservandoci di farlo in un lavoro successivo e di più ampio respiro. Ciò che più rileva, però, è che il Romano Tassone, inserendosi nel solco teorico indicato dal Giannini, ha compiuto un’ampia ricostruzione dommatica dei limiti del sindacato di legittimità sotto forma di eccesso di potere, quale lavoro propedeutico e preliminare alla sua proposta di ridefinizione della dogmatica della motivazione. (99) A. Azzena, Natura e limiti..., cit., pag. 318. (100) A. Azzena, Natura e limiti..., cit., pag. 313. (101) Sul punto è fondamentale la riflessione di G. De Fina per il quale le argomentazioni addotte in dottrina a sostegno della motivazione come requisito della procedura amministrativa necessario per il corretto esercizio della funzione "si riducono ad un circolo vizioso esasperando il carattere garantistico della motivazione proprio mentre se ne rivela la sua mera artificialità in relazione alla sostanza della determinazione amministrativa" (La teleologia degli atti nel rapporto autorità-libertà, Cedam, Padova, 1974, pag. 197, in nota 109). (102) G. De Fina, La motivazione dei provvedimenti amministrativi, cit., pag. 11. Si veda anche L. Calzoni, Motivazione, sindacato sui motivi, formazione procedimentale dell’atto, ne "Il Foro amm.", 1982, n. 6, pag. 1001, secondo cui "... non si può non osservare che l’aver esternato i motivi della decisione, nulla dice quanto all’effettiva esistenza dei motivi stessi: come si può infatti controllare ex post che i motivi addotti non siano fittizi, che non siano una semplice invenzione dell’Amministrazione?". (103) Ved. l’acuta analisi di F. Levi, op. cit., pag. 500, che pone sullo stesso piano sia i fatti conosciuti che quelli acquisiti al procedimento anche se non valutati dall’organo che provvede. (104) F.P. Pugliese, Il procedimento amministrativo tra autorità e contrattazione, in "Riv. trim. dir. pubbl.", 1971, n. 4, pagg. 1486-1487, in nota 20. (105) F. Ledda, Il rifiuto¼ , cit., pag. 225. (106) Il Ledda, infatti, per giustificare l’obbligo di motivazione e il corrispondente divieto della motivazione successiva fa riferimento al principio dell’atto formale, ossia al principio che "qualunque modificazione unilaterale del rapporto tra autorità e libertà deve "essere" fissata formalmente in un atto, che esprima nei termini di una puntuale proposizione giuridica la soluzione di un conflitto attuale o potenziale di interessi" (Il rifiuto ..., cit. pag. 216); ammettendo la possibilità della motivazione successiva "¼ si ridurrebbe di molto la portata della garanzia offerta al cittadino, poiché la proposizione giuridica relativa al caso concreto raggiungerebbe la sua completa espressione formale in un momento posteriore a quello in cui, con la statuizione autoritativa e normalmente esecutoria, si determina la lesione dell’interesse individuale" (Il rifiuto ..., cit., pagg. 217-218). A questa considerazione può, a nostro avviso, replicarsi che prima del principio dell’atto formale esiste, ormai, il principio del procedimento formale, e che, pertanto, nulla esclude che le garanzie riconnesse all’atto formale possano riconnettersi al procedimento. Riteniamo, infatti, che offra molte più garanzie l’evidenza pubblica dei motivi obiettivabili dal procedimento che quella artificiale offerta dalla motivazione formale. (107) Così Cons. Stato, Sez. V, 31 maggio 1983, n. 202 (Est.: Baccarini), pag. 8 (motivazione inedita). (108) F. Ledda, Il rifiuto ¼ , cit., pag. 226, in nota 122. (109) È stato osservato che, in realtà, la motivazione è stata ritenuta non necessaria ovvero sufficiente in tutti quei casi in cui l’interesse leso del privato non era munito di una positiva qualificazione "protettiva". Essa, a sua volta, pur non costituendo ostacolo assoluto alla concreta realizzazione dell’interesse pubblico concreto, avrebbe potuto dar luogo ad una tutela condizionata ad una valutazione della pubblica Amministrazione, la cui struttura è data dal parametro valutativo della prevalenza proporzionale dell’interesse pubblico su quello privato "qualificato" che deve essere adeguatamente esternato (così F.P. Pugliese, Il procedimento amministrativo tra autorità e contrattazione, in "Riv. trim. dir. pubbl.", 1971, n. 4, pag. 1489 in nota). Cfr. anche A. Romano Tassone, Motivazione dei provvedimenti ¼ , cit., pag. 84, nota 142, che, riferendosi allo specifico obbligo di motivazione imposto dalla giurisprudenza alle previsioni di piano (o di variante) contrastanti con un piano di lottizzazione già approvato, pone in evidenza come qui l’esigenza della motivazione si ricolleghi non alla lesione dell’interesse del privato né al carattere discrezionale del provvedimento (caratteristiche queste presenti anche nelle ipotesi ritenute non soggette ad uno specifico obbligo di motivazione), "bensì semplicemente alla apparente contraddittorietà della decisione rispetto alle valutazioni precedenti". (110) Quanto affermato nel testo è in connessione con il pensiero di G. De Fina, La motivazione dei provvedimenti amministrativi, cit., pagg. 100 e ss., in particolare pag. 113, che espressamente ritiene l’insussistenza del difetto di motivazione come categoria giuridica di illegittimità sotto forma di eccesso di potere (il vizio di motivazione rimane assorbito dal vizio di ponderazione), nel senso che, ove l’obbligo di motivazione non sia contemplato da una espressa norma che sanzioni espressamente il difetto-vizio di esternazione documentale, la censura di difetto di motivazione postulerà il cattivo uso del potere discrezionale per una sostanziale manchevolezza di ponderazione dei correagenti interessi; pertanto il difetto di motivazione potrà essere soltanto un indizio (indice) del difetto di ponderazione ai fini dell’annullamento dell’atto per il vizio di eccesso di potere, indizio peraltro, liberamente valutabile dal giudice, in quanto privo, processualmente, di una efficacia probatoria particolare. (111) C.M. Iaccarino, Studi sulla motivazione ..., cit., pag. 87. (112) E. Presutti, Il sindacato¼ , cit., pag. 124. (113) F.Levi, L’attivit༠, cit., pag. 195, nota 99. (114) F.Levi, L’attivit༠, cit., pag. 281. (115) F.Levi, L’attività.., cit., pag. 283. (116) F.Levi, L’attività ¼ , cit., pag. 500, nota 80. (117) F.Levi, L’attivit༠, cit., pag. 500, ed in particolare nota 80. (118) Il Giannini nel 1939, Interpretazione ¼ , cit., pag. 282, rilevava che dicendosi volontà vera restava da definire che cosa più precisamente essa fosse nei suoi rapporti con quella manifestata. A nostro avviso questo rilievo mostra l’infondatezza della distinzione tra volontà vera e manifestata in diritto amministrativo, dove è più corretto parlare di "volontà esternata", comprendendo in essa quei tratti desumibili comunque dal procedimento. (119) A. Falzea, Manifestazione (teoria gen.), cit., pagg. 466-467. (120) A. Falzea, Manifestazione (teoria gen.), cit., pag. 470. (121) Ibidem. (122) Ved. P.G. Lignani, La disciplina del procedimento e le sue contraddizioni, in "Riv. trim. dir. proc. amm.", 1992, n. 3, pag. 582. (123) Ved. F. Benvenuti, Eccesso ¼ , cit., pag. 21, che in sede di analisi del vizio di eccesso di potere si rappresenta l’ipotesi plausibile che, in presenza di un difetto logico nella motivazione inteso come sintomo dell’eccesso, l’Amministrazione potrebbe riprodurre il provvedimento eliminando semplicemente il sintomo, modificandone formalmente l’espressione dei motivi. (124) Secondo G. Bergonzini, Difetto di motivazione ..., cit., pagg. 211-212, nota 68, ove il giudice accerti la falsità della motivazione (ossia la non rispondenza a verità dei motivi dichiarati), purché i reali motivi (emersi o meno nel corso del giudizio) corrispondano allo scopo della legge ovvero non siano inconciliabili con le finalità per le quali il potere sarebbe potuto essere esercitato, "non è preclusa la reiterazione dello stesso provvedimento per i motivi, legittimi, prima non dichiarati". (125) Si è acutamente osservato che le ipotesi di eccesso di potere, nelle figure sintomatiche di esso elaborate dalla dottrina, pur riconducibili in linea generale al novero dei motivi di annullamento che attengono al contenuto vero e proprio del provvedere, esigono che se ne valuti la variabile portata di ciascuna in ordine a quest’ultimo (F. Satta, L’esecuzione del giudicato amministrativo di annullamento, in "Riv. trim. dir. proc. civ.", 1967, pag. 992), posto che "la valutazione degli effetti della decisione sull’attività amministrativa anteriore al provvedimento, e quindi rilevante ai fini della sua rinnovazione, non può essere determinata in astratto, semplicemente fissando lo sguardo sull’espressione "eccesso di potere". Occorre ¼ cioè scendere all’interno della motivazione della sentenza e del procedimento e da essi, dal motivo o dai motivi per cui, in relazione a quel procedimento, si è annullato, fissare il punto da cui il vizio della funzione, il vizio dei motivi prende corpo, e da cui quindi tutta l’attività amministrativa deve considerarsi caduta" (F. Satta, L’esecuzione del giudicato amministrativo¼ , cit., pag. 996). La stessa ricostruzione dommatica dell’eccesso di potere, è stato notato (F. Ledda, Potere, tecnica e sindacato giudiziario sull’Amministrazione pubblica, in "Riv. trim. dir. proc. amm.", 1983, n. 4, pag. 438), sembra essersi troppo irrigidita sulla eccessiva teorizzazione delle c.d. fattispecie sintomatiche, la cui rilevazione "rappresenta un utile surrogato del necessario accertamento dei fatti" (F. Ledda, Potere, tecnica e sindacato giudiziario ¼ , cit., pag. 438, nota 161) che, per un verso, non si sottrae ad una ineluttabile "deriva formalistica", e, per altro ancora, sconta "... l’astuzia dell’Amministrazione, divenuta esperta nello schivare quei vizi sintomatici, mettendo così al riparo i suoi provvedimenti, anche se viziati nella sostanza" (così M. E. Schinaia, Il controllo del giudice amministrativo sull’esercizio della discrezionalità della pubblica Amministrazione, in "Riv. trim. dir. proc. amm.", 1999, n. 4, pag. 1108). Le notazioni cennate rivestono, a nostro avviso, estremo interesse perché sollevano il problema, forse sin troppo trascurato, di discernere nell’ambito del vizio di eccesso di potere, così come costruito dalla elaborazione giurisprudenziale, gli aspetti eminentemente "sostanziali" da quelli che tali non sono (per la tesi dell’insufficienza del controllo esterno ancorato a criteri di mera logica formale ved. F. Ledda, Potere, tecnica e sindacato giudiziario ¼ , cit., pagg. 422-423), atteso che soltanto nell’ipotesi di vizio sostanziale (violazione di legge di tal genere e, nella più parte dei casi, anche eccesso di potere) "l’annullamento è pacificamente accompagnato da effetti ulteriori, variamente individuati nella disciplina del rapporto o nella preclusione di adottare altro provvedimento affetto da quel medesimo vizio" (P. Stella Richter, L’aspettativa di provvedimento, in "Riv. trim. dir. pubbl.", 1981, pag. 19. Per un analogo ordine di idee, cfr. M. Clarich, L’effettività della tutela dell’esecuzione delle sentenze del giudice amministrativo, in "Riv. trim. dir. proc. amm.", 1998, n. 3, pagg. 547-548). Come la dottrina ha rilevato, in tema di sindacato sui c.d. "vizi logici", un sindacato solo estrinseco o comunque parziale sul processo logico, limitato cioè ad alcuni dei suoi momenti, non consente di escludere che ulteriori vizi d’altri momenti del medesimo processo valgano a compensarlo e di accertare, quindi, la conformità o meno del suo risultato alla realtà (A. Azzena, Natura e limiti..., cit., pag. 261), tanto che l’irregolarità del processo logico rileva solo se è tale da condurre a una conclusione inesatta (A. Azzena, Natura e limiti..., cit., pagg. 179 e ss.). È stato anche aggiunto che "come il rispetto della logica non garantisce la ragione stessa della scelta, non tutti i vizi logici valgono ad escluderla: essi potranno risultare privi di rilievo rispetto alla materia trattata, per la soverchiante importanza di elementi effettivamente utilizzati nel procedimento anche se non indicati nella motivazione; ed in questi casi l’annullamento dell’atto conclusivo sarebbe da considerare inutile e pregiudizievole per gli interessi sostanziali in gioco" (F. Ledda, Problema amministrativo e partecipazione al procedimento, in "Riv. trim. dir. amm.", 1993, n. 3, pag. 161). In uno scritto precedente lo stesso autore aveva già avvertito che "il solo fatto che enunciati ed asserzioni siano coerenti sotto il profilo di logica formale non vale certo a garantire l’accettabilità della soluzione accolta" (F. Ledda, L’attività amministrativa, ne Il diritto amministrativo degli anni ’80, Milano, 1987, pag. 91). Rovesciando la prospettiva, la conclusione del procedimento conoscitivo può anche essere diversa dalla reale situazione esistente (o che deve essere realizzata) in fatto, pur essendo frutto di una deduzione esatta in quanto conforme al principio che ad essa presiede, in quanto "l’esattezza della deduzione non costituisce di per se solo la garanzia della conformità della conclusione alla realtà, potendo esplicare un’influenza negativa in proposito l’erroneità delle premesse" (A. Azzena, Natura e limiti..., cit., pag. 163, il quale riprende la nota tesi del Calogero, La logica del giudice e suo controllo in Cassazione, Cedam, Padova, 1937, pagg. 48 e 293. Si veda anche F. Ledda, Potere, tecnica ¼ , cit., pagg. 422-423, che sottolinea come il "sindacato esterno ancorato a criteri di logica formale non può di per sé stesso considerarsi sufficiente: neanche il più attento vaglio critico del ragionamento svolto dall’Amministrazione può equivalere a una verifica diretta dell’apprezzamento tecnico, e consentire un appagante risposta in ordine alla questione concernente l’adeguatezza del criterio assunto a base del medesimo, nonché la correttezza delle operazioni condotte in sede amministrativa. Talvolta sotto il manto di un’argomentazione ineccepibile nel suo aspetto logico – formale possono celarsi errori di valutazione tecnica talmente gravi, da inficiare radicalmente la soluzione del problema". Ved. anche P.M. Vipiana, Introduzione al principio di ragionevolezza ..., cit., pagg. 72 e ss. che, sul piano logico, distingue tra ragionevolezza in senso oggettivo (attinente al conseguimento delle corrette conclusioni da certe premesse) e ragionevolezza in senso soggettivo (attinente alla predisposizione delle premesse). (126) Ved. A. Romano Tassone, Motivazione dei provvedimenti ¼ , cit., pagg. 80 e ss., segnatamente pag. 84, nota 143, il quale, pur riconoscendo espressamente che il vizio dell’esternazione, anche nell’ipotesi dell’eccesso di potere per illogicità manifesta, non implichi di necessità l’eguale invalidità della decisione, è costretto a ricostruire teleologicamente l’obbligo di motivazione come obbligo imposto in vista dell’esigenza di legittimare, di fronte alla generalità dei cittadini, il provvedimento, pur di mantenersi coerente con l’idea che le figure di eccesso di potere a vario titolo incentrate sulla illogicità, perplessità, intrinseca contraddizione del provvedimento, in realtà, sanzionino "l’inidoneità del materiale giustificativo offerto a fondare nella collettività organizzata il convincimento circa la razionalità ed adeguatezza del provvedimento, inidoneità ravvisata nella perplessità e nell’arbitrio evidenziati dal discorso motivante" (A. Romano Tassone, op. ult. cit., pagg. 85-86). Per la tesi che la motivazione sia una formalità esternativa tendente a dimostrare alla comunità dei cittadini la correttezza e non arbitrarietà della decisione assunta cfr. anche A. Romano Tassone, Contributo sul tema della irregolarità degli atti amministrativi, Giappichelli, Torino, 1993, pag. 84. (127) Coerentemente con la sua impostazione il Romano Tassone, Motivazione dei provvedimenti ¼ , cit., pag. 86, nota 146, finisce per attribuire alle c.d. figure sintomatiche di eccesso di potere un’autonomia sostanziale che le rende altrettante autonome cause di illegittimità, svincolate da qualsivoglia relazione sintomatica con alcunché, e che si con cretano nella violazione dei principi deontologici della discrezionalità amministrativa (secondo la terminologia di G. Guarino, Atti e poteri amministrativi, Giuffrè, Milano, 1994, pagg. 239 e ss.). Il richiamo a Guarino, tuttavia, a nostro avviso, non pone in evidenza che probabilmente quest’ultimo non intendeva teorizzare valenza sostanziale ai c.d. "principi deontologici", ma limitarsi ad offrire un quadro descrittivo effettuale dell’evoluzione giurisprudenziale in subiecta materia. (128) A. Romano Tassone, op. ult. cit., pag. 88, dove si richiama A. Azzena, Natura e limiti..., cit., pagg. 172 e ss. (129) A. Romano Tassone, op. ult. cit., pag. 94. (130) Ved. A. Romano Tassone, Motivazione dei provvedimenti ¼ , cit., pag. 93. (131) A. Romano Tassone, op. ult. cit., pag. 121. (132) G. Corso, Motivazione dell’atto amministrativo (voce), in "Enc. Dir.", Aggiornamento, 2001, pag. 786. Si veda anche S. Giacchetti, Fontanazzi giuridici ¼ , cit., pag. 21, il quale sottolinea che di controllo diffuso "... può parlarsi solo in relazione a provvedimenti a conoscenza diffusa (nessun controllo diffuso c’è sul rilascio di una patente automobilistica o di una licenza di pesca), e quindi solo in relazione a provvedimenti sottoposti a misure di pubblicità legale. Ma tali provvedimenti sono – di regola – o privi del tutto di motivazione (atti normativi, atti di approvazione di graduatorie, ecc.) o assistiti da una motivazione di ordine più o meno latamente politico, che come tale non consente – di regola – sindacato di legittimità ed è comunque estranea – ved. art. 3 della legge n. 241 – alla problematica in esame (deliberazioni del CIPE, strumenti urbanistici ed altri atti generali non normativi); e sono comunque un’esigua minoranza del complesso dell’attività provvedimentale". (133) In tal senso G. Corso, Motivazione dell’atto amministrativo (voce), cit., pag. 787. (134) A. Romano Tassone, Legge sul procedimento ¼ , cit., pagg. 1593-1594. (135) G. Greco, L’accertamento autonomo del rapporto nel giudizio amministrativo, Giuffrè, Milano, 1980, pag. 193; ved. anche A. Piras, Interesse legittimo e giudizio amministrativo, vol. II, Giuffrè, Milano, 1962, pag. 454, che addirittura ritiene coperto il deducibile in favore della P.A. Ved. Anche F. Benvenuti, Eccesso ..., cit., pag. 21, che, nel criticare la ricostruzione del valore giuridico dei sintomi di eccesso di potere, quali causa di annullamento dell’atto, fondata sul valore logico loro attribuibile, sottolineandone a detta stregua il valore di categoria di annullamento meramente strumentale, ha obiettato che ciò "condurrebbe a ritenere che l’Amministrazione potrebbe riprodurre il proprio provvedimento eliminando semplicemente il sintomo, ma non anche il vizio, come ad es. in una ipotesi di difetto logico nella motivazione, qualora rinnovi l’atto modificandone formalmente la espressione dei motivi". Si confronti, anche, la tesi di G. Sala, L’eccesso di potere ..., cit., pag. 277, secondo cui "la conferma che il vizio logico è rilevante non come sintomo, ma quale elemento patologico in sé può evincersi dalla constatazione che l’eliminazione del vizio logico ¼ può portare alla legittima emanazione di un atto dal medesimo contenuto, accettabile se il processo decisionale non appare più abnorme rispetto ai comuni criteri di giudizio: conseguenza normale di un sindacato non di merito, di giustizia della decisione, ma della sua normalità regolarità". (136) Cfr. A. Romano Tassone, Motivazione dei provvedimenti¼ , cit., pagg. 399 e ss., in particolare pag. 405. (137) Si confronti F. Ledda, Il rifiuto di provvedimento amministrativo, Giappichelli, Torino, 1964, pagg. 219-220. (138) Emblematica al riguardo la fattispecie di creazione giurisprudenziale della occupazione c.d. acquisitiva che si è formata proprio sul duplice presupposto strutturale dell’atto di esproprio annullato dal giudice amministrativo e della intervenuta irreversibile trasformazione del bene adibito dalla P.A. ad utilizzazione pubblica. (139) Sull’irrinunciabilità del potere cfr. M. Clarich, Giudicato e potere amministrativo, Cedam, Padova, 1989, pag. 233. Si vedano anche E. Cannada Bartoli, L’inapplicabilità degli atti amministrativi, Giuffrè, Milano, 1950, pag. 94 e F. Bassi, Contributo allo studio delle funzioni dello Stato, Giuffrè, Milano, 1969, pag. 105. (140) Per un esempio recente di rinnovazione in corso di causa del provvedimento amministrativo viziato dal difetto di motivazione, cfr. Cons. Stato, Sez. V, 2 marzo-20 luglio 1999, n. 847, in "Guida al Diritto-Il Sole-24 Ore", 1999, n. 36, pag. 111, secondo cui "l’Amministrazione può rinnovare l’atto in corso di giudizio quando è stato impugnato per mero vizio di forma. Se così non fosse, l’Amministrazione sarebbe costretta ad attendere l’annullamento dell’atto per rinnovare solo a quella data il procedimento e per finalmente emanare un secondo atto emendato dal vizio formale, con intollerabile appesantimento della sua azione e frustrazione delle aspettative degli interessati". (141) Cfr. A. Zito, L’integrazione in giudizio ¼ , cit., pag. 591, che si rifà alla nota tesi di F. Ledda, Il rifiuto ..., cit., pagg. 219-220. (142) A. Romano Tassone, Motivazione dei provvedimenti ..., cit., pag. 402. (143) E. Ferrari, La decisione giurisdizionale amministrativa: sentenza di accertamento o sentenza costitutiva?, in "Riv. trim. dir. proc. amm.", 1988, n. 4, pag. 605. (144) G. De Fina, La motivazione dei provvedimenti amministrativi, in "Riv. It. Sc. Giurid.", 1971, pag. 108. (145) V. Caianiello, Diritto processuale amministrativo, Utet, Torino, 1988, pag. 763; ma vedi già dello stesso autore, Lineamenti del processo amministrativo, Utet, Torino, 1979, 2a ed., pag. 321. (146) Cons. Stato, Sez. IV, 28 maggio 1993, n. 569, in "Rass. Cons. Stato", 1993, I, pag. 630. (147) Per una interessante proposta sul come dovrebbe essere impostato praticamente il profilo accertativo ved. G. Greco, Per un giudizio di accertamento compatibile con la mentalità del giudice amministrativo, in "Riv. trim. dir. proc. amm.", 1992, n. 3, pagg. 481 e ss. (148) M. Nigro, Processo amministrativo, voce dell’"Enc. Giur. It.", Treccani, pag. 6. (149) G. Bergonzini, Difetto di motivazione ..., cit., pagg. 205-206. Contra, P.M. Vipiana, Introduzione allo studio del principio di ragionevolezza ¼ , cit., pagg. 96-97, secondo cui in seguito all’entrata in vigore del citato art. 3 della legge n. 241/90 "¼ il provvedimento dev’essere motivato, anche riguardo all’osservanza del principio di ragionevolezza ¼ Fra le indicazioni che dovrebbero essere presenti in motivazione non potrebbe non venir annoverato un richiamo, sebbene sintetico, all’osservanza, nella specie, del principio di ragionevolezza, nelle sue varie componenti: pertanto il principio di ragionevolezza rileva oggi sull’ampiezza del contenuto motivazionale ed i riferimenti al rispetto del principio costituiscono probabilmente una condicio sine qua non dell’assolvimento dell’obbligo di motivazione, sotto il profilo della completezza dell’enunciato motivazionale". (150) La "dequotazione" della motivazione di cui parla Giannini non è la dequotazione dell’esternazione scritta del provvedimento amministrativo e non legittima l’interpretazione fornita dal Romano Tassone, che sembrerebbe presupporre in Giannini l’accettazione del postulato della prevalenza della volontà vera rispetto a quella dichiarata. (151) Ved. già A. De Valles, La validità, cit., pag. 142 e ss., il quale parlava di volontà reale che può dedursi dagli atti e documenti inerenti all’atto. Cfr. M.S. Giannini, L’interpretazione¼ , cit., pagg. 280 e ss.; C.M. Iaccarino, Studi sulla motivazione¼ , cit., pagg. 24 ss. (152) F. Ledda, La concezione dell’atto amministrativo e dei suoi caratteri, in Diritto amministrativo e giustizia amministrativa nel bilancio di un decennio di giurisprudenza (a cura di U. Allegretti, A. Orsi Battaglini, e D. Sorace), II, Rimini, 1987, pag. 784, e pagg. 792 ss. (153) F. G. Scoca, La teoria del provvedimento dalla sua formulazione alla legge sul procedimento, in Le Trasformazioni del diritto amministrativo (Scritti degli allievi per gli anni ottanta di M. S. Giannini), a cura di S. Amorosino, Giuffrè, Milano, 1995, pagg. 290-291. (154) Sul contenuto del provvedimento si veda R. Lucifredi, L’atto amministrativo nei suoi elementi accidentali, Giuffrè, Milano, 1963, ed in particolare pag. 32, che offre una ricostruzione ampia della nozione, distinguendo, sul piano logico, il contenuto tecnico-giuridico (parte dispositiva) e il contenuto come elemento obiettivo dell’intero provvedimento, "sì da includervi pur quelle parti di atto che, come le enunciative, come le motivazioni, non rientrano negli elementi formali, e neppure possono confondersi colla parte dispositiva dell’atto". (155) Fondamentale sul concetto di fattispecie D. Rubino, La fattispecie e gli effetti giuridici preliminari, Giuffrè, Milano, 1939. Sul passaggio dal fatto "causa" alla funzione mediatrice del fatto cfr. A. E. Cammarata, Il significato e la funzione del fatto nell’esperienza giuridica, in "Formalismo e sapere giuridico", Giuffrè, Milano, 1963, pag. 267 (anche in "Annali dell’Università di Macerata", V, 1929). Di estremo interesse anche G. Guarino, Potere giuridico e diritto soggettivo, in "Rass. dir. pubbl.", 1949, I, pagg. 238 e ss.; R. Scognamiglio, Fatto giuridico e fattispecie complessa, in "Riv. trim. dir. proc. civ.", 1954, pagg. 348 e ss.; A. Cataudella, Note sul concetto di fattispecie giuridica, in "Riv. trim. dir. proc. civ.", 1962, pagg. 433 e ss.; A. Cataudella, Fattispecie (voce), in "Enc. Dir.", vol. XVI, 1967, pag. 392, dove afferma che la tesi del Cammarata rappresenta la tesi "più avanzata che sia dato logicamente prospettare". Di particolare interesse è la originale ricostruzione dommatica di F. Paparella che ha dimostrato come la teorica del fatto, dal punto di vista della funzione, e la teorica del fatto qualificato formalmente dalla norma, comunque, non spieghino la sua articolazione strutturale, posto che questo fatto descritto dall’ordinamento non si trova mai nell’ordinamento così com’esso è nella vita (Studi sulla presupposizione ¼ , cit., pag. 48). D’altro canto la stessa concezione dell’effetto giuridico come valore realmente condizionato (A. Falzea, Efficacia giuridica (voce), in "Enc. Dir.", vol. XIV, 1965, pagg. 570 e ss.) postula l’esistenza di una esigenza proveniente da una situazione della vita, ed è rispetto ad essa che si pone la necessità del valore (dell’effetto della scelta dell’ordinamento rispetto ad un interesse). Ciò posto l’autore descrive il fatto che interessa il diritto come fatto a struttura tipica (ossia la convergenza di due o più interessi in ordine allo stesso bene che li soddisfa) (Studi sulla presupposizione ¼ , cit., pag. 58). Questo fatto, è tipico, è giuridicamente rilevante perché costituisce il problema del diritto, il problema che il diritto deve risolvere, dando la sua adesione all’uno o all’altro interesse (Studi sulla presupposizione ¼ , cit., pag. 60). Ed è questa tipicità, questo essere giuridicamente rilevante per sé che consente di superare e annullare lo iatus logico che divide il fatto materiale da quello giuridico (Studi sulla presupposizione ¼ , cit., pag. 62). L’annullamento dello iatus si giustifica in ragione del fatto tipico, "perché quando il fatto tipico materialmente si pone è fatto giuridico a causa di questo suo porsi tipicamente" e condiziona l’ordinamento a dar vita all’effetto giuridico (Studi sulla presupposizione ¼ , cit., pag. 66), ponendo "... effettivamente in essere un reale condizionamento assiologico in ordine alla produzione dell’effetto giuridico da parte dell’ordinamento positivo" (Studi sulla presupposizione ¼ , cit., pag. 70). Dal condizionamento si passa poi al collegamento di un determinato effetto al fatto tipico da parte dell’ordinamento positivo (Studi sulla presupposizione ¼ , cit., pag. 71), che ricollega l’effetto giuridico attraverso l’individuazione fattane mediante le circostanze di individuazione previste dalla norma giuridica, integrate dalla indicazione di altre circostanze materiali offerta dai soggetti interessati, costituendo, quest’ultimo, esercizio di un potere conferito dall’ordinamento positivo (Studi sulla presupposizione ¼ , cit., pag. 72). Per attribuire rilievo giuridico alla presupposizione Paparella sostiene che essa, pur non essendo prevista dalla norma e non facendo parte della fattispecie, è elemento costitutivo del fatto a struttura tipica che condiziona l’ordinamento a produrre l’effetto giuridico, che si individua e ricollega mediante le circostanze di individuazione indicate dal soggetto e dall’ordinamento. (156) Per la costruzione del provvedimento amministrativo come fattispecie normativa di specie della più generale figura dell’atto normativo cfr. F. G. Scoca, Contributo sul tema della fattispecie precettiva, Perugia, 1979. (157) Così A. Falzea, Efficacia giuridica (voce), in "Enc. Dir.", vol. XVI, 1965, pagg. 456 e ss.; secondo l’illustre autore "... il principio di adattabilità dice appunto che ogni norma di legge contiene oltre il suo rigido modello formale un criterio sostanziale più elastico di orientamento dell’efficacia e che nei limiti volta per volta più o meno ampi in cui è consentito lo scarto del criterio sostanziale dal modello formale l’effetto deve potersi adattare alle variazioni della fattispecie. Il regime delle anomalie dei negozi e in genere degli atti giuridici può ritenersi una immediata applicazione del principio di adattabilità, così come il regime dell’interpretazione e l’esigenza di conservazione a cui esso si ispira". (158) Secondo A. Falzea, Manifestazione ¼ , cit., pag. 470, manifestazione in senso lato è "ogni fatto che manifesta un fatto diverso". Lo stesso autore spiega che la manifestazione in senso stretto, invece, "è un comportamento che fa argomentare, secondo una regola di esperienza, la realtà – più o meno probabile – dei fenomeni manifestati" (op. cit., pag. 470). (159) Cfr. F. Bassi, L’eccesso di potere per difetto di motivazione, in Scritti per M. Nigro, vol. III, 1991, Giuffrè, Milano, pagg. 73-74. (160) Ved. l’acuta analisi di F. Levi, L’attività conoscitiva ..., cit., pag. 500, che pone sullo stesso piano sia i fatti conosciuti che quelli acquisiti al procedimento anche se non valutati dall’organo che provvede. (161) Per la non condivisibile tesi che il riferimento "alle risultanze dell’istruttoria" imponga un obbligo di formale esternazione provvedimentale della realtà effettivamente emersa e valutata nel procedimento cfr. L. Torchia, Procedimento e processo dopo la legge 241: tendenze e problemi, in La trasparenza amministrativa a due anni dalla legge 7 agosto 1990, n. 241, Atti del Convegno di Siena 30 ottobre 1992, Mondo Economico – allegato 27 febbraio 1993, pag. 39. Il nostro dissenso si spiega in ragione della visione formalistica che detto obbligo integra, inidoneo a fornire tutela sostanziale al soggetto inciso negativamente dal provvedimento, che per cogliere l’effettiva portata delle scelte e la loro sostanziale legittimità (o non) dovrà comunque riportarsi all’interno del procedimento. Si veda anche A. Valorzi, Dalla procedura amministrativa al processo giurisdizionale, Cedam, Padova, 1999, pag. 175, il quale all’espresso rinvio "alle risultanze dell’istruttoria" collega l’allargamento della cognizione giurisdizionale, al di là dell’atto finale impugnato, all’intera procedura. Tuttavia, secondo l’autore, "la cognizione giudiziale può dirsi realmente rivolta alla funzione, potendo contemplare nell’insieme il procedimento in senso sostanziale sia attraverso la rappresentazione ufficiale contenuta nella motivazione (che deve dar conto delle acquisizioni della procedura che gradualmente coprono il passaggio tra istruttoria e decisione), sia attingerlo direttamente agli atti del fascicolo, compresi memorie e documenti "art. 10, lett. b) prodotti dai soggetti intervenuti". È evidente come questa tesi non consideri che attingere direttamente agli atti del fascicolo costituisce l’aspetto essenziale della teorica della dequotazione, e che, quindi, la più o meno corretta e/o sufficiente rappresentazione ufficiale, contenuta nella motivazione, delle acquisizioni della procedura, rimane assorbita nella sua rilevanza dalla preponderanza delle oggettive risultanze degli atti del procedimento. (162) Secondo A. Schopenhauer, La quadruplice radice del principio di ragion sufficiente, trad. dal tedesco dell’edizione originale del 1813 di A. Vigorelli, Guerini e Associati, Milano, 1990, pag. 137, "... ogni decisione – sia propria che altrui – presuppone sempre una ragione sufficiente". "Il motivo è dunque, per il carattere empirico, la ragione sufficiente dell’agire. Però le condizioni che diventano appunto motivi dell’agire non vanno concepite come causa di tale agire, considerato come effetto, perché l’azione non risulta da tali motivi, bensì dal carattere empirico da essi sollecitato, il quale non è immediatamente percepibile, ma deve a sua volta venir ricostruito e desunto solo sulla base delle azioni" (La quadruplice.., cit., pag. 144). F. Levi, L’attività conoscitiva ¼ , cit., pag. 554, identifica l’interesse pubblico specifico, o concreto, in quel particolare fatto che, tra gli altri fatti acquisiti al "caso", assurge al rango di ragione sufficiente del provvedimento amministrativo. (163) E. Casetta, Profili della evoluzione dei rapporti tra i cittadini e pubblica Amministrazione, in "Riv. trim. dir. amm.", 1993, n. 1, pag. 10. Sull’obbligo di ponderazione degli interessi cfr. S. Cognetti, La tutela delle situazioni soggettive tra procedimento e processo. Le esperienze di pianificazione urbanistica, Perugia, 1987, nonché L’obbligo di ponderazione degli interessi nei processi di pianificazione in Germania (R.F.T.), Comunicazione, in "Atti XXXII Congresso di Varenna", Giuffrè, Milano, 1986, pagg. 292 e ss. (164) F. Ledda, Problema amministrativo..., cit., pagg. 142-143. (165) La dottrina più antica nel commentare una decisione del Consiglio di Stato secondo cui i motivi del provvedimento, ai fini del sindacato di eccesso di potere, potessero desumersi da atti o provvedimenti precedenti (Cons. Stato, Sez. V, 6 giugno 1924, in "Giur. it.", 1924, III, col. 182 e ss., con nota di F. Cammeo) così affermava: "Il principio che ai fini del sindacato sull’eccesso di potere, si possano ricercare i motivi di un provvedimento non espressamente motivato, dalle circostanze che lo precedono od accompagnano, è costante e tocca uno dei punti più delicati della teoria dell’eccesso e della relativa prova" (F. Cammeo, nota a sentenza Cons. Stato, Sez. V, 6 giugno 1924, cit.). (166) Un’ipotesi di tal genere è data da quanto accaduto con la decisione del Cons. giust. amm. reg. sic., 20 aprile 1993, n. 149 (Pres.: Scarcella – Est.: Giacchetti), ne "Il Foro it.", 1993, III, col. 616 e ss.; il Collegio, infatti, pur riconoscendo in linea generale l’ammissibilità della motivazione successiva, così concludeva: "poiché peraltro, come già rilevato, tale integrazione non è stata determinante ai fini dell’esito del giudizio, dovendo la pretesa dell’appellante essere respinta a prescindere dall’integrazione stessa, non sussistono i presupposti per porre a carico dell’Amministrazione le spese di lite, che possono invece compensarsi tra le parti". (167) Si segue la ricostruzione dommatica unitaria dell’eccesso di potere proposta da E. Casetta, Attività e atto amministrativo, in "Riv. trim. dir. pubbl.", 1957, pagg. 313-314, che risolve la figura interamente nello sviamento, qualificando i sintomi come mezzi necessari per dimostrarne l’esistenza, che comprovano il vizio nell’atto soltanto quando permettano di dissipare ogni dubbio circa la mancata corrispondenza degli interessi propri dell’atto con quelli che la fattispecie normativa concreta involge. L’elaborazione giurisprudenziale e la letteratura sull’eccesso di potere sviluppatesi dopo il lavoro di A. Codacci Pisanelli, L’eccesso di potere nel contenzioso amministrativo, in "Giust. amm.", 1892, IV, pagg. 1 e ss.) sono, si può dire, sconfinate. L’elaborazione giurisprudenziale (per un’utile rassegna sulla giurisprudenza dei primi decenni, N.Pappalardo, L’eccesso di potere ¼ , pagg. 429 e ss.) accanto al fenomeno dello sviamento è venuta introducendo e sviluppando altre figure come ad esempio quelle di "travisamento dei fatti", di "illogicità manifesta", di "manifesta ingiustizia", di "contraddittorietà immotivata fra più atti", di "difetto di motivazione" ecc. (per una classificazione completa, Gasparri, Eccesso di potere (dir. amm.), in "Enc. Dir.", vol. XIV, pagg. 128 e ss.). In generale hanno qualificato l’eccesso di potere come vizio della causa dell’atto amministrativo: Cammeo, La violazione delle circolari come vizio di eccesso di potere, in "Giur. It.", 1912, III, col. 107; Pappalardo, op. ult. cit., pagg. 542 e ss.; Resta, La natura giuridica dell’eccesso di potere come vizio degli atti amministrativi, in "Ann. Univ. Macerata", 1932, pag. 176 (dello stesso autore, La legittimità degli atti giuridici, in "Riv. trim. dir. pubbl.", 1955, pagg. 35 e ss.); Borsi, La giustizia amministrativa, Padova, 1941, pag. 52. Hanno ravvisato, invece, nell’eccesso di potere un vizio dei motivi dell’atto: Forti, I "motivi" e la "causa" negli atti amministrativi, ne "Il Foro It.", 1932, III, col. 297; Giannini, Lezioni di diritto amministrativo, Milano, 1950, pag. 391. Concorde Alessi, Intorno ai concetti di causa giuridica, illegittimità, eccesso di potere, Giuffrè, Milano, 1934, pagg. 110 e 71 e ss., secondo cui l’eccesso sarebbe essenzialmente caratterizzato da un "vizio di potestà" dell’atto in relazione allo stato viziato dei motivi. Una terza posizione ritiene che l’eccesso di potere consista in realtà nel vizio del giudizio di apprezzamento messo a base dell’atto discrezionale: così Rovelli, Lo sviamento di potere, in Raccolta di scritti di dir. pubbl., in onore di Giovanni Vacchelli, 1935, pag. 462; A.M. Sandulli, Il procedimento amministrativo, Giuffrè, Milano, 1959, pagg. 323 e ss. Una originale ricostruzione dell’eccesso di potere si deve a F. Benvenuti, Eccesso di potere amministrativo¼ , pagg. 3 e ss., il quale ha creduto di risolvere il problema costruendo i "sintomi" come violazioni di norme generali sulla funzione amministrativa (principio di giustizia sostanziale, principio di ragionevolezza dell’agire amministrativo e principi della stessa organizzazione), svincolandoli dall’essere funzionali allo sviamento. Contra, però, E. Casetta, Attività ..., cit., pagg. 313-314, per il quale l’eccesso di potere va ricondotto ad unità concettuale sub specie di sviamento, essendo i sintomi mezzi di rilevazione dello stesso e non cause autonome di annullamento. Si veda anche A. Azzena, Natura e limiti dell’eccesso di potere ¼ , cit., pagg. 331-332, che, diversamente dal Benvenuti, attribuisce alle figure sintomatiche il valore di vere e proprie prove presuntive del vizio di merito da cui l’illegittimità deriva (sul punto C. Camilli, Considerazioni sui "sintomi" dell’eccesso di potere, in "Rass. dir. pubbl.", 1965, n. 4, pagg. 1038 e ss.). (168) Sul punto appare interessante la decisione del T.A.R. Marche, 2 febbraio 1995, n. 53, in "Rass. T.A.R.", 1995, I, pagg. 1775 e ss., che è in perfetta sintonia con quanto da noi sostenuto: "¼ Il Collegio considera che, secondo un recente indirizzo giurisprudenziale (Cons. Stato, Sez. VI, 9 marzo 1992, n. 174) è ammessa, in corso di giudizio, la giustificazione del potere esercitato, potendosi ritenere che, fermo il principio per cui il provvedimento non può ricevere integrazione di motivazione attraverso gli scritti difensivi dell’Amministrazione il comportamento della stessa potrebbe contribuire, se non ad integrare, a chiarire la motivazione dello stesso provvedimento, dovendosi a tal fine distinguere tra motivazione vera e propria e giustificazione del potere. La giustificazione del potere consiste non solo nella indicazione delle norme che sovraintendono ad esso, quanto nella indicazione del tipo di potere esercitato e dei presupposti di esso. Nel caso in esame, il provvedimento impugnato ha indicato il potere esercitato, cioè quello di valutare, con riferimento alle proprie esigenze organizzative e funzionali, se concedere o no la predetta aspettativa, ed ha pure indicato, genericamente, i presupposti di diritto e di fatto di tale potere. Dunque, ad avviso del Collegio ed in adesione all’indirizzo giurisprudenziale testè ricordato, la relazione acquisita può essere considerata quale atto inteso non ad integrare, ma a chiarire la già esistente motivazione dell’impugnato provvedimento, cioè diretto a giustificare uno dei presupposti del potere esercitato". (169) È questa, a nostro avviso, la fattispecie concreta esaminata nella sentenza del T.A.R. Veneto, Sez. I, 20 giugno 1987 (pres. Rosini), n. 648, ne "Il Foro amm.", 1988, n. 5, pagg. 1439 e ss., in particolare pag. 1442 dove si precisa che "nella specie non trattasi di integrazione della motivazione ma della sua "esternazione" poiché l’atto non fa riferimento ad elementi motivatori additivi sopravvenuti quanto a ragioni presenti e tenute in considerazione, ancorchè non esplicitate ...". (170) È questa l’ipotesi di motivazione successiva ritenuta inammissibile da A. Azzena, Natura e limiti ..., cit., pagg. 311 e ss. (171) Questa ipotesi in sé è generica in quanto dovrebbe essere precisata ulteriormente suddividendosi in due specie: scritti difensivi meramente descrittivi e/o chiarificatori delle risultanze dell’istruttoria; scritti difensivi introduttivi di argomenti e/o fatti nuovi non ricavabili dall’istruttoria procedimentale. (172) Ved. A. Azzena, Natura e limiti ..., cit., pagg. 312-313. (173) Si vedano, infatti, le importanti osservazioni di M.S. Giannini, Motivazione ..., cit., pag. 267, ed in particolare in nota 24, lì dove spiega che il divieto di integrazione della motivazione da parte del difensore in giudizio non necessariamente comporti sostituzione di questi all’Amministrazione, "in quanto il provvedimento può essere collegato ad altri provvedimenti, a comportamenti, a prassi, che non sono enunciati in alcun atto del procedimento di formazione, ma che, se tuttavia esistono, e se ne dimostra il collegamento, non danno luogo ad alcuna sostituzione del difensore all’autorità". (174) C.M. Iaccarino, Studi ¼ , cit., pag. 90. (175) Parla di esclusione di rilevanza della eventuale motivazione successiva dell’atto F. Ledda, Il rifiuto ¼ , cit., pag. 215. (176) In questo senso, a nostro avviso, deve leggersi l’interessante ordinanza del T.A.R. Sicilia, Sez. Catania, 20 settembre 1997, n. 2408, in "Guida al diritto-Il Sole-24 Ore", 1997, n. 48, pagg. 89 e ss., che occupandosi di un ricorso fondato sulla censura di difetto di motivazione dell’impugnato annullamento di ufficio di una delibera di approvazione della graduatoria di un concorso, ha ritenuto inidonea nella fase cautelare (e dunque tamquam non esset) la delibera di Giunta municipale di autorizzazione a resistere in giudizio che contestualmente confermava ed integrava in ogni sua parte l’atto impugnato con rinnovato supporto motivazionale, ad integrare l’ipotesi di improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse processuale. Per l’orientamento opposto, invece, si confronti T.A.R. Veneto, Sez. I, 10 giugno 1987, n. 648, ne "Il Foro amm.", 1988, n. 5, pagg. 1439 e ss., secondo cui il ricorrente che abbia impugnato l’atto deducendo unicamente il vizio di difetto di motivazione, a fronte di un’integrazione della motivazione mediante emanazione di atto ad hoc in corso di giudizio, ha l’onere di impugnazione, sotto pena della cessazione della materia del contendere, anche quest’ultimo con nuovo ricorso ovvero con motivi aggiunti "in quanto non è ravvisabile ¼ alcun tipo di interesse, né sostanziale né processuale ad ottenere la caducazione di atti già modificati ovvero a conseguirla sotto profili che sono stati medio tempore rimossi, ancorché senza mutare il tenore della statuizione lesiva". (177) È questa la tesi di A. Azzena, Natura e limiti ..., cit., pag. 312. (178) Sul punto il Consiglio di Stato ha espresso una chiara posizione statuendo che "deve considerarsi censura nuova, inammissibile in appello, l’allegazione di eccesso di potere per difetto di motivazione (di carattere prevalentemente formale) rispetto a quella (di natura essenzialmente sostanziale) dell’eccesso di potere per sviamento, formulata in primo grado" (Cons. Stato, Sez. V, 5 marzo 1982, n. 184, ne "Il Foro amm.", 1982, I, pag. 392 con nota di R. Iannotta). (179) Questa è la tesi seguita dal T.A.R. Veneto, Sez. I, dec. 20 giugno 1987, n. 648, ne "Il Foro amm.", 1988, n. 5, pagg. 1439 e ss. Per la dottrina in tal senso ved. G. Virga, Integrazione ¼ , cit., pag. 527. (180) Per questo orientamento ved. T.A.R. Veneto, Sez. I, 20 giugno 1987, n. 648 (Pres.: Rosini), cit. (181) Ne "Il Foro amm.", 1988, n. 5, pagg. 1439 e ss. (182) Si adotta la terminologia di G. De Fina, La teleologia degli atti nel rapporto autorità-libertà, Cedam, Padova, 1974, pag. 195, che distingue "tra l’effettiva teleologia procedimentale espressiva dell’avvenuto esercizio della funzione, e la sua ricognibilità attraverso ogni strumento o mezzo giuridico utilizzabile: tra cui anche, ma non indispensabilmente, l’impiego della motivazione nel contesto formale dell’atto". Si veda Cons. Stato, Sez. IV, 27 ottobre 1981, n. 787, ne "Il Foro amm.", 1981, I, pagg. 1915-1916, per un precedente che espressamente ha riconosciuto che le delibere della Giunta regionale del Piemonte con cui veniva stabilita la durata della sanzione amministrativa di chiusura di un pubblico esercizio non potevano essere viziate da eccesso di potere per difetto di motivazione in ordine alla determinazione del quantum temporale della sanzione stessa: le delibere in questione infatti dimostravano che la Giunta regionale era pervenuta ai provvedimenti sanzionatori sulla base di un’adeguata conoscenza della situazione di fatto risultante da un ampio, preciso e motivato rapporto del veterinario provinciale dal quale emergeva tutta la consistenza del pericolo alla salute pubblica che la recidiva condotta dei due commercianti aveva cagionato. Ha ritenuto pertanto il Consiglio di Stato che proprio in considerazione della gravità di tali fatti l’entità della sanzione irrogata risultava giustificata e motivata da una precisa conoscenza e da una corretta valutazione dei fatti. Da un esame diretto degli atti del procedimento il giudice amministrativo ha potuto escludere il sintomo di difetto dei motivi (vizio della funzione) a cui aveva dato causa il difetto di motivazione. (183) Già in altra sentenza il T.A.R. Veneto (Sez. I, 16 febbraio 1987, n. 161, ne "Il Foro amm.", 1988, n. 1-2, pag. 189) aveva chiarito che il vizio di mancanza o insufficienza della motivazione sia ascrivibile alla figura dell’eccesso di potere "solo in quanto sintomatizzi un difetto o di valutazione delle circostanze di fatto o di ponderazione degli interessi coinvolti" e che "il vizio non sta nella mancanza della motivazione intesa come esternazione dei motivi dell’atto, questa mancanza essendo soltanto un sintomo che lascia presumere il suaccennato vizio della funzione, e che l’Amministrazione può provare il contrario esibendo gli atti che hanno preceduto il provvedimento contestato, dai quali emergano motivi non enunciati". (184) In questo passaggio il T.A.R. Veneto usa il termine "motivazione" impropriamente, volendo significare, invece, "motivo"; infatti, se il presupposto causale della rinnovazione dell’atto annullato è il difetto di motivazione, non avrebbe senso il riferimento alla motivazione che già sorregge l’atto, se non avendo di mira l’oggetto della motivazione, vale a dire il motivo. (185) T.A.R. Veneto, Sez. I, 20 giugno 1987, n. 648, cit. (186) Si tratta di due note a sentenza rispettivamente di S. D’Alessandro, Obbligo di motivazione del provvedimento amministrativo e interesse sostanziale del ricorrente, ne "Il Foro amm.", 1988, n. 12, pagg. 3722 e ss., e di P. Bartot, La motivazione tra vizio formale e tutela sostanziale, in "Riv. trim. proc. amm.", 1989, pagg. 470 e ss. (187) P. Bartot, La motivazione tra vizio formale ¼ , cit., pag. 479. (188) P. Bartot, La motivazione tra vizio formale ¼ , cit., pag. 479. (189) Cons. giust. amm. reg. sic., 20 aprile 1993, n. 149 (Pres.: Scarcella – Est.: Giacchetti), ne "Il Foro it.", 1993, III, col. 616 e ss. (190) In ordine al regime delle spese processuali conseguente a siffatta modalità di sopravvenuta cessazione della materia del contendere, il giudice, posto il principio generale che le spese di giudizio dovessero ricadere sulla P.A., derivando la causa della cessazione da fatto imputabile alla medesima, in concreto, le compensava tra le parti, ritenendo non determinante l’esaminata integrazione successiva della motivazione ai fini dell’esito del giudizio. (191) A. Romano Tassone, Motivazione dei provvedimenti ¼ , cit., pag. 25 e pagg. 52 e ss., ed, in particolare, pagg. 70-97; conformi P. Bartot, La motivazione tra vizio formale ..., cit., pagg. 473 e ss.; A. Zito, L’integrazione in giudizio ¼ , cit., pag. 583. (192) È questa la nota tesi di A. Azzena, Natura e limiti ..., cit., pag. 311; anche se occorre precisare che l’autore non considera motivazione successiva vietata l’esternazione di motivi comunque già dedotti implicitamente, vale a dire riscontrabili negli atti del procedimento. Una variante della tesi di Azzena è quella proposta da P. Bartot, La motivazione tra vizio formale ..., cit., pag. 480, secondo cui la motivazione successiva incide sulle potenzialità difensive della parte ricorrente. (193) Da ultimo cfr. T.A.R. Lazio, Sez. I, 16 gennaio 2002, n. 398, in "Urbanistica e appalti", 2002, n. 8, pagg. 936 e ss., con nota di L. Tarantino, Wittgenstain, Mortati, e l’integrazione della motivazione in corso di giudizio; Cons. Stato, Sez. VI, 26 luglio 2000, n. 7578, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, Sez. V, 13 novembre 1990, n. 770, in "Rass. Cons. Stato", 1990, I, pag. 1235. (194) G. Virga, op. cit., pag. 525. Si veda anche M. Clarich (Giudicato ¼ , cit., pag. 235, in nota 246) che per l’ipotesi dell’atto amministrativo annullato, fondato su fatti costitutivi del potere effettivamente esistenti, ma sfornito di motivazione, non osta alcuna preclusione alla reiterazione del medesimo che questa volta sia esente da vizi, "e tanto varrebbe, almeno in quest’ipotesi, ammettere l’integrazione della motivazione in corso di giudizio". (195) In generale la tesi dell’illegittimità costituzionale di quelle fattispecie normative che, da un lato, prevedono un potere discrezionale, e, dall’altro, omettono la contestuale previsione di un obbligo di motivazione, per lesione del diritto costituzionale alla piena tutela giurisdizionale dei propri diritti e interessi legittimi nei confronti della P.A non ha trovato seguito nella giurisprudenza della Corte costituzionale. È stato sostenuto che la concreta possibilità di ricorrere al sindacato giurisdizionale di legittimità sui provvedimenti a carattere discrezionale, mancando la previsione formale dell’obbligo di motivazione, resterebbe limitata a casi estremi e marginali, in violazione dell’art. 113 Cost. La Corte costituzionale nell’affrontare la tematica in materia di omessa previsione normativa dell’obbligo di motivazione nell’art. 26 legge 12 novembre 1955, n. 1137 ("Avanzamento degli ufficiali dell’Esercito, della Marina e dell’Aereonautica"), in relazione al giudizio delle commissioni superiori di avanzamento ufficiali dell’Esercito (Corte cost., 7 aprile 1988, n. 409, in "Giur. it.", 1990, I, 1, col. 561 ss.), da un lato, ha escluso che quello della motivazione negli atti amministrativi costituisca un principio costituzionalmente garantito (Corte cost., 7 aprile 1988, n. 409, cit., col. 565), e, dall’altro, pur riferendosi la decisione al giudizio di avanzamento degli ufficiali, ha sottolineato come la giurisprudenza amministrativa abbia elaborato una serie di regole e criteri per l’individuazione dell’ambito e dei limiti del sindacato giurisdizionale, in quanto reso possibile dalla disciplina sostanziale (Corte cost., 7 aprile 1988, n. 409, cit., col. 567). Si è ritenuto possibile, infatti, assoggettare al sindacato del giudice gli scrutini di avanzamento, sia sotto il profilo della disparità di trattamento, che sotto il profilo della logicità, per verificare se i punteggi siano stati assegnati con criteri più restrittivi nei confronti dell’ufficiale non promosso pur in presenza di note caratteristiche assolutamente identiche (Corte cost., 7 aprile 1988, n. 409, cit., col. 567). In definitiva la Corte costituzionale ha ritenuto infondata la censura di violazione dell’art. 113 Cost., proprio obiettando che il rimedio dell’eccesso di potere consente un sindacato che va oltre la (e prescinde dalla) stessa motivazione formale enunciativa ovvero argomentativa. (196) G. Virga, op. cit., pag. 527. L’autore in nota 32 indica la giurisprudenza e la dottrina sia a favore che contro la tesi della possibilità per l’autorità di Amministrazione attiva di procedere alla convalida dei propri atti in corso di giudizio. In linea generale cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 18 dicembre 1979, n. 1196, in "Rass. Cons. Stato", 1979, I, pag. 1814, che in occasione dell’applicazione dell’art. 6 legge 18 marzo 1968, n. 249 (sulla sanabilità del vizio di incompetenza con effetto ex tunc), ha precisato che "... questa normativa non appare né iniqua, né lesiva del diritto di difesa, costituzionalmente garantito, ed anzi risulta opportuna in quanto permette il ristabilimento dell’ordine giuridico violato senza bisogno della intermediazione della pronuncia del giudice amministrativo". (197) T.A.R. Campania Napoli, Sez. I, 29 marzo 1999, n. 907, ne "Il Foro amm.", 1999, pag. 2655. (198) Pubblicata ne "Il Foro amm.", 1996, pagg. 2043 e ss. (199) Cons. Stato, Sez. V, 2 marzo-20 luglio 1999, n. 847, in "Guida al Diritto-Il Sole-24 Ore", 1999, n. 36, pag. 108. (200) T.A.R. Lazio, Sez. I, 16 gennaio 2002, n. 398, cit. (201) Per un precedente in cui si riconosce la risarcibilità dei danni cagionati ai privati con provvedimenti illegittimi per difetto di motivazione cfr. Cass. civ., Sez. III, 6 ottobre 1997, n. 9700, ne "Il Foro it.", 1998, III, col. 351. (202) Cass. civ., sez. un., 22 luglio 1999, n. 500, in "Giust. civ.", 1999, I, pag. 2261; ne "Il Foro it.", 1999, I, pag. 2487, 3201; in "Giur. it.", 2000, pag. 21. (203) In tal senso ved. già Cons. giust. amm. reg. sic., 26 febbraio 1987, n. 61, e 4 novembre 1995, n. 343. (204) Non è inutile rilevare che la decisione del T.A.R. Lazio è intervenuta in presenza di una fattispecie concreta involgente non un vizio di difetto di motivazione formale, ma un vizio sostanziale. Trattavasi di provvedimento sanzionatorio su pubblicità ingannevole che non aveva chiarito (né era possibile comprenderlo dagli atti del procedimento) quali aspetti specifici della pubblicità, in concreto, fossero ingannevoli. (205) Nell’ordinamento statunitense esiste l’istituto del "remand", dove lo stesso giudice, a processo in corso, sollecita l’intervento dell’Amministrazione sulle questioni emerse in giudizio (cfr. G. Lombardo, Il controllo giudiziale dell’azione amministrativa negli Stati Uniti: considerazioni sulla "hard look doctrine", in "Riv. trim. dir. amm.", 1994, pagg. 554-555). In Italia il c.d. "remand" è stato utilizzato particolarmente dai giudici amministrativi di primo grado quale tecnica processuale con cui "si investe nuovamente l’Amministrazione della questione già portata al vaglio del giudice amministrativo attraverso l’impugnazione del primo provvedimento amministrativo adottato, perché la stessa faccia luogo ad una riedizione del potere ovviamente immune dai profili di illegittimità di tipo istruttorio, procedimentale o anche sostanziale prima facie riscontrati nella sede della cognizione cautelare ed alla luce, quindi, delle deduzioni esposte in ricorso, così come fatte proprie ed esternate dal giudice della cautela nelle espresse indicazioni contenute nella parte motiva dell’ordinanza cautelare" (così R.Garofoli, La tutela cautelare degli interessi negativi.Le tecniche del remand e dell’ordinanza a contenuto positivo alla luce del rinnovato quadro normativo, in www.giustizia-amministrativa.it).