Ragione e infinito Enrico Berti Quelli che seguono sono stralci di un intervento del filosofo Enrico Berti, pubblicato all’interno del libro “La Ragione esigenza di infinito” (Ed. Mondadori Università, a cura di Giorgio Vittadini), una selezione degli interventi del Meeting 2006 e rivisti dagli autori. Enrico Berti aveva partecipato all’incontro “La ragione all’infinito”, giovedì 24 agosto 2006. Docente di Storia della Filosofia all’Università degli Studi di Padova, Enrico Berti, partendo da uno studio sistematico di Aristotele, ha cercato di reperire le tracce di una sua presenza nel pensiero moderno e contemporaneo. Il problema è se l’uomo è capace dell’infinito. Io credo che l’uomo, cioè la ragione – per «uomo» infatti intendo ciò che l’uomo può fare con le sue sole capacità naturali, prescindendo da eventuali aiuti o illuminazioni che gli possono venire da altra fonte – non sia in grado di capire l’infinito, se per capire si intende abbracciare ed esaurire l’infinito, perché ciò sarebbe contraddittorio, in quanto renderebbe finito l’infinito. Tuttavia la ragione è capace di comprendere la necessità dell’infinito, cioè di comprendere che un infinito ci deve essere. In filosofia una posizione di questo tipo è tradizionalmente chiamata «metafisica». Purtroppo alla parola «metafisica» sono stati dati molti significati, anche peggiorativi, ma il suo significato originario, quello che questa parola acquistò con i primi grandi rappresentanti della filosofia occidentale, cioè con Platone e con Aristotele, era appunto quello di essere una filosofia la quale riconosce con la ragione la necessità che vi sia qualche cosa che trascende l’esperienza, cioè che va oltre il mondo della nostra esperienza, e che questo è il principio da cui l’intera realtà dipende. A questo risultato giunsero filosofi come Platone e Aristotele, vissuti quattro secoli prima del cristianesimo, i quali non avevano perciò avuto nessun sentore di una rivelazione, non solo cristiana, ma nemmeno dell’Antico Testamento, eppure con la loro ragione umana riuscirono a comprendere tale necessità. Questo, secondo me, è già un segno, un segno molto importante, che ci viene dalla storia, il quale dimostra come la ragione umana sia capace, come ho detto, non di capire, non di esaurire l’infinito, ma di riconoscerne la necessità. (…) Ebbene, la mia tesi è che la filosofia, con la sola ragione, è in grado di comprendere la necessità di Dio. Non di conoscere l’essenza di Dio, non di penetrarne i misteri, non di conoscerne le intenzioni, ma di comprendere che, senza questo principio, l’intera realtà non si spiega. Non esiste infatti altra risposta possibile a quella domanda radicale che investe ogni cosa, da cui nasce la filosofia. Questa è la meraviglia. Io ho avuto la fortuna di avere un maestro, Marino Gentile, nell’Università di Padova, il quale ci insegnava che la filosofia è «un domandare tutto che è tutto domandare». Cosa vuol dire «domandare tutto»? Domandare la ragione di tutto, cioè il fondamento ultimo. Ma questo domandare deve essere di per sé tutto domandare, cioè nient’altro che domandare; non deve avere presupposti, non deve contenere risposte precostituite e magari fatte passare di sottobanco; deve essere pura e integrale criticità, pura e integrale problematicità. In questo modo la filosofia si rende conto che la realtà nella sua totalità non si spiega da sé, è una grande domanda, è un grande problema, la cui sola risposta possibile è qualche cosa che trascende questa realtà. A ciò sono arrivati i grandi filosofi greci. (…) nell’ambito del pensiero contemporaneo le filosofie aperte alla trascendenza sono una minoranza, rappresentano una posizione minoritaria. Tuttavia non dobbiamo essere troppo pessimisti in questo senso, perché intanto ho l’impressione che da qualche decennio non esista più, o non sia più così radicata, una pregiudiziale antimetafisica che si era venuta sviluppando con il positivismo e che poi anche nella prima metà del Novecento continuava a permeare larga parte della filosofia contemporanea. Da questo punto di vista la filosofia analitica – più che a Wittgenstein penso a tutti gli sviluppi del suo pensiero che si sono avuti nell’area angloamericana, cioè nella filosofia di lingua inglese, la quale è pur sempre una delle componenti più importanti della cultura contemporanea – non è più così pregiudizialmente ostile alla metafisica. I filosofi analitici infatti ammettono e coltivano l’ontologia, cioè la ricerca intorno all’essere dei singoli enti. (…) Il pericolo, secondo me, insito nella filosofia analitica è che, quando si chiede quali siano le ragioni ultime, la natura ultima delle cose, ciò su cui tutto si fonda, ebbene molti filosofi analitici ritengono che a questa domanda debba rispondere la scienza, la fisica, o la biologia. Ecco allora che, a mio modo di vedere, negli ultimi anni ha preso corpo in maniera sempre più preoccupante una nuova filosofia – perché di filosofia si tratta e non di scienza – che qualcuno chiama naturalismo, ma che si potrebbe chiamare evoluzionismo o neo-darwinismo, cioè quella filosofia la quale ritiene che la teoria scientifica dell’evoluzione, risalente a Darwin, sia in grado di risolvere tutti i problemi ed escluda perciò qualsiasi ricorso a un principio trascendente. (…) Io credo che nei prossimi decenni il grande scontro filosofico, per parlare in termini agonistici, si giocherà tra questa visione metafisica da un lato e dall’altro non – ripeto – l’autentica teoria scientifica di Darwin, la quale è scientifica e che come tale va riconosciuta e rispettata, ma l’uso, anzi l’abuso, che di essa viene fatto da certi scienziati pseudo-filosofi, in nome appunto del naturalismo, come posizione capace di escludere qualunque spiegazione trascendente. (…) Infine è importante, quando si parla della ragione, ricordarsi che c’è anche il desiderio e non contrapporre la ragione al desiderio, ma vederli come due facce di una medesima realtà. La ragione è una forma di conoscenza, è la più alta forma di conoscenza a cui l’uomo possa giungere; ma ci sono anche forme di conoscenza inferiori, le conoscenze attraverso i sensi: vedere, toccare, udire, sono le conoscenze sensibili. L’altro lato del soggetto umano, diciamo così, dell’uomo, oltre l’aspetto conoscitivo, è l’aspetto pratico, cioè il desiderio. E come ci sono desideri a livello sensibile, la fame, la sete, tutto ciò che ci fa desiderare beni materiali, così c’è anche il desiderio razionale, cioè l’altra faccia della ragione, a livello non più sensibile, bensì a livello razionale. Questa è una faccia inseparabile dalla ragione, per cui, ogniqualvolta si analizzano le tendenze e le capacità della ragione, bisogna ricordarsi di fare poi la stessa analisi a proposito del desiderio, ed è interessante vedere come ci sia una convergenza perfetta tra la ragione sul piano conoscitivo e il desiderio, ma il desiderio razionale, sul piano pratico. Cosa vuol dire desiderio razionale? Come dice san Tommaso, questo è il desiderio del bene vero, cioè di ciò che è veramente bene per l’uomo, non di ciò che sembra soltanto un bene e che poi si rivela non essere tale, o comunque non essere sufficiente ad appagare il desiderio dell’uomo. Io credo che a proposito del desiderio, inteso in questo senso, si possa dire la stessa cosa che abbiamo detto prima della ragione, cioè che esso è rivolto verso l’infinito, se per infinito intendiamo il bene vero, cioè ciò che può veramente appagare il desiderio dell’uomo. (…) La filosofia, secondo me, è questo. Non dico che la filosofia non dà risposte, ma essa mostra la necessità di una risposta e, poi, i contenuti di questa risposta la filosofia, secondo me, non è in grado di spiegarli completamente. Di fronte al problema del male, al problema della morte, non è che la filosofia ci possa garantire la vita eterna, o la liberazione dal male, però ci fa capire che ci deve essere una liberazione, una soluzione, perché la realtà in cui noi viviamo – e questa sì che la filosofia è in grado di conoscerla – non basta a se stessa, non si spiega da sé, non può essere considerata essa la risposta, essa il principio, la soluzione dei problemi. Non è che in questo modo la filosofia conduca alla fede, perché poi l’atto di fede rimane una scelta libera, che uno può compiere e può anche non compiere. Si può dire che la fede in parte è un dono, in parte è anche un merito, perché è una virtù, è la prima delle virtù teologali – fede, speranza, carità – quindi è anche una virtù. Però, se non le si crea uno spazio, è difficile che possa nascere. La fede ha bisogno di spazio, ha bisogno che non ci siano impedimenti, che non ci siano ostacoli, e la filosofia, secondo me, può rimuovere gli ostacoli, che sono le varie forme di idolatria, cioè sono quegli -ismi che si presentano come se fossero loro la risposta ultima. La filosofia può fare posto alla fede, creare lo spazio per la fede, il che non vuol dire suscitarla, non vuol dire produrla (questo è un altro discorso); ma, se non c’è lo spazio, se si rimane prigionieri dell’idolatria, è difficile che possa nascere la fede, è difficile che questa possa germogliare. Anche nella Fides et ratio1 c’è più di una volta questa idea, della funzione che la filosofia ha di aprire alla fede. Che cosa vuol dire «aprire»? Aprire non vuol dire condurre, nel senso di produrre, ma, appunto, aprire, fare spazio, in modo che la fede possa entrare nell’anima, perché, se le porte sono chiuse, è difficile che essa vi entri. Io vedo le cose così anche per quanto mi riguarda personalmente, per cui l’essere filosofo non lo vedo in contrasto con l’essere credente: non è che io cerco nella filosofia le risposte ultime, però, se non c’è questa apertura, data dalla filosofia, non ci può essere nemmeno la fede. Naturalmente non pretendo che questa posizione valga per tutti. Noi filosofi, purtroppo, non ci accontentiamo del buon senso, non ci accontentiamo di quello che ci raccontano, vogliamo vederci chiaro con la nostra testa, siamo pieni di dubbi, abbiamo questa disgrazia, questa malattia del dubitare continuo, e quindi facciamo questo mestiere che serve per eliminare certi ostacoli, per aprire certi spazi. Poi ciascuno farà le scelte che vorrà, ma bisogna che almeno ci sia la possibilità di scegliere. 1 Giovanni Paolo II, Fides et ratio. Lettera enciclica ai Vescovi della Chiesa cattolica circa i rapporti tra fede e ragione, Libreria Editrice Vaticana, Roma 1998.