Giornate di Diritto Indù (Induismo, società e religione - L’Induismo ed i suoi precetti: il diritto indù) Lez.2: L’Induismo ed i suoi precetti: il diritto indù 1. Definiamo innanzitutto il diritto indù il diritto della comunità che, in India e in altri paesi del sud-est asiatico o in Africa, aderisce all'induismo. Abbiamo visto come si può correttamente affermare che l'induismo corrisponda più che alla adesione ad un dogma ad una certa concezione del mondo e del modo in cui gli uomini debbono comportarsi per conformarsi, necessariamente, ad esso. Si tratta di un comportamento necessitato nel senso che il mondo, il cosmo, è così com’è, è predeterminato e l’uomo non deve far altro che riconoscere il suo posto ed addattarvisi. L'induismo, dunque raccomanda ai suoi fedeli un certo modo di vivere. Questa ortoprassi è legata alla posizione sociale del fedele (nel senso in cui l’abbiamo intesa ieri) ed i suoi precetti finiscono per assumere, in grande misura, il ruolo che in altre società è devoluto alle regole giuridiche. L'immensa maggioranza degli abitanti dell'India aderisce a questa dottrina, soprattutto in materia di statuto personale; tuttavia un vasto settore delle relazioni sociali, almeno sotto un profilo formale, è retto oggi in India da regole di portata nazionale (ispirate alle concezioni inglesi). Le fonti del diritto indù come “ordinamento positivo” 2. Se proviamo ad intendere il diritto indù come ordinamento di diritto positivo, troviamo che le regole sul comportamento umano sono esposte nei trattati denominati dharmaśāstra, e sono suddivisibili in tre diverse categorie corrispondenti ai motivi che possono determinare il comportamento: virtù (o giustizia, o compimento della legge), interesse e piacere. - Nel primo caso vi sono gli śāstra che riportano la scienza del dharma ed insegnano all'uomo come deve comportarsi per essere giusto; - altri śāstra insegnano al scienza dell’artha (le attività della vita pratica e quindi anche la politica) - altri śāstra infine sviluppano la scienza del kama (l'amore e il piacere sessuale) Il complesso di questi tre fini dell'esistenza, armonicamente contemperati e convenientemente perseguiti, conducono alla liberazione (mokṣa) dalle rinascite e dal dolore dell'esistenza. In qualche modo possiamo intravvedere una certa analogia con il diritto canonico che afferma esplicitamente come fine ultimo perseguito dall’ordinamento la salus animarum. Dharma, artha e kama sono tutti legittimi, e l'ordine naturale delle cose richiede che l'uomo di tutti e tre tenga conto; ciascuno però deve agire secondo le regole del gruppo sociale (varna) cui appartiene. Il brahmano si sforzerà di vivere seguendo il più possibile il dharma; Dirigenti e commercianti cercheranno soprattutto l’utile, il guadagno, secondo l’artha; Le donne, che non hanno un futuro oltre la morte, terranno conto innanzitutto del kama. La circostanza che nella concezione indù si riconosca al dharma una certa superiorità, non comporta per ciò solo che artha e kama debbano necessariamente piegarsi alle esigenze del dharma. Il termine dharma ha una notevole ampiezza semantica e può venire tradotto, a seconda del contesto, come «religione», «legge», «diritto», «giustizia», «dovere», «prerogativa». Esso può essere tradotto come diritto se non ci limitiamo alla sua ristretta definizione moderna come insieme di leggi civili e penali ma lo consideriamo includere tutte le regole di comportamento, compreso il comportamento morale e religioso, che una comunità riconosce come vincolanti per i suoi membri È corretto affermare che il dharma, piuttosto che un diritto il è un “modello”, che permette deroghe e che accetta compromessi, nello spirito di realismo e più ancora di tolleranza che caratterizza l'induismo. Il dharma è fondato sulla credenza che esiste un ordine dell'universo, inerente alla natura delle cose, necessario alla conservazione del mondo: gli dei stessi non ne sono che i guardiani. Il dharma racchiude infatti nel suo insieme l'etica umana. Non distingue tra doveri religiosi e obblighi propriamente giuridici. Per esempio indica agli indù la penitenza cui debbono soggiacere quando hanno peccato e le occasioni in cui debbono offrire sacrifici; impone loro leggi in materia di elemosina e di ospitalità; obbliga i sovrani a visitare i templi e a garantire la sicurezza pubblica. L'idea occidentale di “diritto soggettivo” è totalmente estranea al dharma e al pensiero indù. Il dharma è imperniato sull'idea di doveri, non su quella di diritti; insegna a ciascuna come deve comportarsi se intende essere un uomo buono e se si preoccupa dell'aldilà. I doveri così imposti variano secondo la condizione di ciascuno e anche secondo l'età; sono particolarmente stretti per le classi superiori. Esistono indipendentemente da ogni meccanismo che ne assicuri la sanzione. L'autorità del dharma non si basa neppure sulla consuetudine. Il suo prestigio deriva dalla venerazione nutrita per coloro che ne hanno espresso i comandamenti, saggi dei tempi che furono, che hanno saputo illustrare la buona pratica e hanno avuto una visione incontestabile dell'ordine divino. Dharmaśāstra e nibandha 3. Il dharma si trova esposto in trattati chiamati dharmaśāstra. I più celebri furono scritti in versi: sono segnatamente le leggi di Manu, quelle di Yājnavalkya e quelle di Narada, che si pensa siano state redatte tra il I secolo a. C. ed il III o IV secolo della nostra era. Ciò che deve essere considerato come opera di dharma, che perciò fa testo, è stato stabilito dalla tradizione. I dharmaśāstra, riconosciuti come tali, costituiscono un tutto, in qualunque epoca siano sati redatti; per conoscere il dharma bisogna prendere in considerazione il loro insieme. La sua conoscenza non può essere tratta da un'opera in particolare, per prestigiosa che essa sia; i śastra si chiariscono gli uni con gli altri e si completano gli uni con gli altri. A questo fine di chiarimento provvede un'altra categoria di opere, i nibandha. I nibandha hanno il compito di illuminare il senso spesso oscuro dei dharmaśāstra, di renderli intellegibili alle persone colte, di risolvere così certe apparenti contraddizioni tra i diversi dharmaśāstra. Alcuni nibandha comprendono l'insieme del dharma, altri non si occupano che di una particolare istituzione. I loro autori sono talora noti e talora ignoti. La datazione di queste opere si situano tra l'XI e la fine del XVII secolo. Il dharma è uno solo e non può essere conosciuto se non considerando l'insieme dei dharmaśāstra. Ma esiste un numero abbastanza elevato di dharmasāstra e i nibandha sono numerosissimi. In una regione può darsi che se ne conosca o se ne preferisca uno solo, in un'altra regione un altro; taluni gruppi sociali vivono sotto l'autorità di un particolare nibandha, altri sotto l'autorità di un altro. Nel diritto indù si riconoscono due scuole principali, la scuola del Mitaksara e la scuola del Dayabhaga. Queste scuole, con le rispettive distinzioni e sottodistinzioni, in concreto fanno riferimento a determinate aree geografiche, sebbene diano vita a statuti personali che seguono gli individui dovunque essi si trovino: la scuola del Dayabhaga prevale nel Bengala e nell'Assam, la scuola del Mitaksara nel resto dell'India e nel Pakistan. Dharma e consuetudine 4. La vita, in questo mondo, non potrebbe essere regolata esclusivamente dal dharma. Se è vero che solo il dharma esprime la verità eterna, per determinare la condotta degli uomini devono essere tenuti presenti altri elementi: l'utile (artha) e il piacere (kama). Il saggio contempera nel suo agire la virtù con l'interesse ed il piacere, e d'altronde non ci si può attendere che gli uomini vivano in modo perfettamente conforme al dharma nel periodo di decadenza (kali) che è quello della nostra epoca, che è considerata decadente alla luce della cosmologia induista. La consuetudine a svolgere un ruolo importante ed il dharma ammette tanto la consuetudine contra legem quanto quella praeter legem: secondo Yàjnavalkya come secondo Manu bisogna astenersi dal seguire la regola di condotta voluta dai testi se essa è condannata e aborrita dalla gente. Tuttavia le regole consuetudinarie, nate da situazioni contingenti di tempo e di luogo, non hanno rapporti con il volere divino che è alla base del dharma. Rappresentano un semplice fatto, e non vale la pena di studiarlo, e ancor meno di tentare di reperirvi la base di una scienza vera e propria. La realtà è dunque che le consuetudini sono più o meno dominate da una dottrina, l'induismo, la quale pone regole di condotta, ma non arriva a stabilire e riconoscere nel comportamento consuetudinario una effettiva radice kharmica, per cui le consuetudini sono, in misura variabile, modificate, orientate o interpretate. È consequenziale che le consuetudini siano molto diversificate. Ogni casta o sottocasta segue regole consuetudinarie sue proprie; le assemblee (panchayat) di casta risolvono su piano locale ogni difficoltà ed ogni litigio basandosi sull'opinione pubblica. L'assemblea, che decide all'unanimità, dispone di efficaci mezzi di pressione; la sanzione più temibile è la scomunica, che fa dell'individuo un isolato in una società in cui non si concepisce la vita al di fuori di un gruppo. Un'altra fonte del diritto positivo indù, capace di supplire eventualmente alla consuetudine, è infine costituita dalla ragione e dall'equità. I dharmaśāstra invitano l'individuo ad agire ed il giudice a decidere secondo la propria coscienza, secondo la giustizia, secondo l'equità, se nel caso non si imponga loro un'altra regola di diritto stretto. Anche le leggi di Manu raccomandano di rimettersi, nei casi dubbi, alla “soddisfazione interna” Legislazione e giurisprudenza. 5. In tema di fonti di diritto positivo, osserviamo che la legislazione e precedenti giudiziari non sono considerati fonti di diritto dal dharma e dalla dottrina indù. Il principe può legiferare. Tuttavia l'arte del governo e le istituzioni di diritto pubblico dipendono dall’artha, e non dal dharma. Il dharma chiede che si obbedisca agli ordini legittimi del principe ma, per sua natura, si sottrae alle offese di quest'ultimo. Legislazioni e ordini del principe non possono avere alcuna influenza sul dharma. Esse sono misure dettate dall'opportunità e a carattere temporaneo; giustificate dalle circostanze del momento, saranno modificate con il mutare delle circostanze stesse. D'altro canto i giudici, in presenza di una legge, non dovranno applicarla strettamente: bisogna concedere loro un ampio potere discrezionale perché possano conciliare, nei limiti più larghi possibili, giustizia e governo. Anche la giurisprudenza, così come la legislazione, non può essere considerata vera fonte di diritto. L'organizzazione della giustizia dipende, come la legislazione, dall’artha. Le decisioni dei tribunali possono essere giustificate dalle circostanze. Il dharma è solo una guida: rientra nell'ordine naturale delle cose che i giudici se ne allontanino, se buone ragioni impediscano loro di conformarvisi, con il solo limite di non violare un principio fondamentale del dharma. Dato questo empirismo, la decisione del giudice indù non deve mai essere considerata come un precedente obbligatorio: la sua autorità è limitata al problema in questione, e non si giustifica se non nell'ambito delle circostanze particolari, che hanno determinato la decisione del giudice. Dottrina moderna 6. Il dharma riunisce le regole giuridiche e le esprime in modo totalmente diverso da quello proprio del diritto occidentale e del diritto musulmano. Prescrizioni rituali e giuridiche sono mescolate le une alle altre nei dharmaśāstra. Numerose regole rilevanti per il diritto dovevano quindi essere ricercate in “libri” che, a giudicare dal titolo, parevano riguardare la religione più che il diritto. Il libro che riguardava più particolarmente il diritto, come lo si intende in Occidente, si chiamava vyavahara. Iniziava con la trattazione dell'amministrazione della giustizia e della procedura, e continuava prevedendo 18 categorie di liti nel campo del diritto privato e del diritto penale. Occasionalmente, i dharmaśāstra comprendevano anche regole di diritto pubblico, ma la scienza del governo si trovava fuori di essi, e formava oggetto di un'altra scienza, trattata negli athaśāstra. Gli autori moderni che trattano di diritto indù, influenzati da concezioni occidentali, non ritengono più di esporre il dharma, ma il diritto positivo applicabile oggi agli indù. Essi escludono dalle loro opere tutto ciò che secondo il concetto occidentale appartiene al campo religioso ed escludono pure tutte le branche del diritto che ha finito per essere regolato in India da un diritto territoriale, applicabile a tutti gli indiani, indipendentemente dalla loro religione. Il diritto indù qual comprende principalmente le seguenti rubriche: filiazione, incapacità, adozione, matrimonio e divorzio, proprietà familiari, successioni ab intestato, successioni testamentarie, fondazioni religiose, damdupat, convenzioni benami e indivisione perpetua. Queste rubriche non lasciano trasparire l'originalità di fondo del diritto indù ma basta aprire un libro di diritto indù per scoprire all'interno di ogni singola rubrica numerosi termini per i quali si pone un problema anche di mera traduzione in quanto corrispondono a nozioni sconosciute in Occidente. (ad esempio il diritto indù prevede otto tipi di matrimonio e la parola testamento è sconosciuta al sanscrito, peraltro da questo mero elenco di rubriche si evince che in origine il diritto indù si occupava di ogni aspetto della vita del fedele [=damdupat: disciplina sulla accumulazione degli interessi in caso di prestito]). Nel corso della sua storia il diritto indù ha interagito con altri diritti. Cronologia del diritto indù La dominazione musulmana 8. Sotto la dominazione musulmana, stabilitasi nel Nord e nel centro dell'India nel XVI secolo, i tribunali applicarono sempre e solo il diritto islamico. Il diritto consuetudinario indù continuò ad essere applicato dalle panchayat di casta, ma non poté svilupparsi e vedere rafforzata la propria autorità dall'azione degli organismi, giudiziari o amministrativi, dello Stato. Rimase cosi come fenomeno che interessa la religione, la convenienza e i costumi, affermandosi invece debolmente come diritto. La dominazione britannica. E tale era la situazione quando, nel XVIII secolo, la dominazione britannica si sostituì — prima in linea di fatto, poi di diritto — a quella del Gran Mogol. In conformità del principio che ha sempre dominato la loro politica, i nuovi conquistatori dell'India non tentarono di imporre ai loro nuovi sudditi il diritto inglese. Essi intesero applicare alle popolazioni dell'India, soprattutto in materia di diritto privato, le regole che erano loro familiari. Lo stabilirsi della dominazione inglese però ebbe ugualmente un'influenza notevole sull'evoluzione del diritto indù. Tale influenza si manifestò in due direzioni: Innanzitutto si manifestò in modo positivo, facendo uscire il diritto indù dalla clandestinità, e riconoscendone ufficialmente il valore e l'autorità, contrariamente a quanto accadeva sotto la dominazione islamica: diritto indù e diritto islamico furono posti sullo stesso piano, quando i giudici britannici dovettero decidere controversie che imponessero l'applicazione di tali ordinamenti. La dominazione britannica, se in ciò fu favorevole al progresso del diritto indù, fu d'altra parte fatale, da un diverso punto di vista, al diritto indù tradizionale. Essa determinò una profonda trasformazione di tale diritto; e soprattutto produsse il risultato di limitarlo alla regolamentazione di taluni rapporti, mentre settori sempre più importanti della vita sociale furono assoggettati ad un diritto nuovo di natura territoriale, applicabile a tutti gli abitanti dell'India senza tener conto della loro appartenenza religiosa. Va anche precisato peraltro che, in assenza di un vero e proprio sistema di diritto penale, sotto la dominazione britannica, era applicata anche agli indù, quale legge di polizia la legge penale islamica di cui erano primi destinatarie le popolazioni di fede islamica. Il ricorso ai “pundit” 9. Il desiderio di rispettare le regole del diritto indù fu contrastato dall'ignoranza in cui i nuovi signori dell'India versavano, all'inizio della loro dominazione, riguardo al diritto indù. Gli Inglesi, al principio, crederono erroneamente che il dharma fosse il diritto positivo indiano. Le opere che ne trattavano erano scritte in una lingua che essi non conoscevano, il sanscrito, e la loro complessità li disorientava. Per trarsi d'imbarazzo, progettarono a diverse riprese una codificazione. In attesa ch'essa fosse compiuta, si ricorse ad un espediente. Si decise che i giudici avrebbero utilizzato esperti, ossia i pundit, che avrebbero loro indicato, sulla base dei dharmaśātra e dei nibandha, la soluzione applicabile alla controversia. Così, fino al 1864, il ruolo del giudice fu solo quello di conferire forza esecutiva alla decisione che i pundit gli indicavano come quella che doveva essere adottata nella controversia. Ricorso ad altre tecniche I pundit sono stati vivamente criticati. Sono stati accusati di essere venali, di avere mal interpretato i testi del diritto indù e di aver anche commesso alcuni falsi. In verità, il principio stesso su cui era fondata l'applicazione dei diritto indù e il potere dato ai pundit era errato: non si poteva trarre dai soli libri sacri la soluzione delle controversie, poiché le regole esposte in tali libri rappresentano solo un permettere una grande ideale; nella loro applicazione flessibilità per tenere conto bisogna anche delle consuetudini e dell'equità. È il giudice che deve assumere su di sé la responsabilità e l’autorevolezza della decisione. I giudici britannici non si sentirono a loro agio finché loro compito fu solo quello di dare forza esecutiva alle decisioni dei pundit. Successivamente furono pubblicate in quantità sufficiente traduzioni dei libri del dharma, quando esistettero ugualmente libri di diritto, e in specie raccolte di giurisprudenza relative al diritto indù scritte in inglese, il sistema seguito fino allora parve sorpassato. Ciò era ancora più vero in quanto la scienza proprio allora rivelava e denunciava l'errore che era stato commesso, equivocando sul carattere e sull'autorità del dharma. Ciononostante, quale rimedio conveniva adottare? La soluzione non fu dappertutto identica. Le province e le corti erano allora largamente indipendenti le une dalle altre. Nel nord e nel centro si raccolsero le consuetudini delle popolazioni e ci si accinse ad applicarle; invece nel sud, nella giurisdizione della Corte di Madras, ci si mantenne nell'errore precedente, pensando che, tutto considerato, le popolazioni sembravano esservisi ben adattate e che la sicurezza dei rapporti giuridici imponeva di conformarsi ai precedenti. La deformazione subita dal diritto indù 10. Il modo in cui il diritto indù fu applicato, nell'uno e nell'altro caso, ha suscitato molte critiche. I giudici, se volevano seguire le regole del dharma, erano molto mal attrezzati per farlo. Un terzo o al massimo la metà dei dharmaśāstra è stato tradotto in inglese, ed i giudici non potevano avere che una conoscenza molto settoriale di un sistema che doveva essere valutato nella totalità delle sue fonti. Si sanzionarono così molte regole che non erano mai esistite o erano cadute in desuetudine. Se poi volevano applicare le consuetudini, i giudici si esponevano ad accettare con troppa facilità, come fedeli descrizioni delle consuetudini, le affermazioni di opere, scritte da europei, che non avevano sempre visto o compreso in tutta la loro complessità le concezioni e consuetudine indù. L'infinita varietà ed il carattere di queste consuetudini non poterono essere comprese da giuristi abituati all'idea di una legge comune. I giudici britannici, d'altra parte, in conformità dei metodi loro propri, attribuirono ai precedenti giudiziari un'autorità che la tradizione indù non riconosceva per nulla. Talvolta, coscientemente, giunsero a modificare il diritto indù poiché erano urtati dalle sue soluzioni, e senza rendersi sempre conto che quelle soluzioni potevano anche funzionare in modo non ingiusto all'interno della società indù. Le necessità di usare una terminologia inglese, che mal si adattava ad esprimere i concetti del diritto indù, fu un'altra causa di distorsione per questo diritto. Per effetto di questi diversi fattori il diritto indù, nel periodo della dominazione inglese, si è deformato in maniera abbastanza considerevole. Alcune regole sulla prova del diritto inglese sono state importate ed hanno modificato le condizioni di applicazione del diritto indù. 11. Idee tratte dall'equity inglese sono state ugualmente applicate per regolare i rapporti tra membri di una comunione familiare di beni o lo statuto delle fondazioni di carità indù; nel primo caso esse hanno deformato la nozione indù di benami, e nel secondo hanno potuto deformare il concetto indù di fine caritativo o esigere il verificarsi di circostanze che non erano necessarie, secondo il diritto indù, per la liberalità dharman . Queste deformazioni sono servite a ridurre una diversità di regole consuetudinarie locali che appariva un male agli indù stessi. D'altra parte esse hanno sovente contribuito ad una evoluzione talora ritenuta benefica poiché modernizzava il diritto indù pur rispettandone lo spirito. I giuristi indù menzionano a questo proposito, per approvarli, taluni sviluppi operati dalla giurisprudenza in materia di comunione familiare o relativamente al principio che impone ai figli di pagare i debiti contratti giustamente dal padre. In queste materie, i tribunali seppero rispettare le idee fondamentali del diritto indù, pur addolcendo, per considerazioni di buona fede e di equità, quanto la regolamentazione tradizionale poteva presentare di troppo assoluto e superato. Storicamente appariva giusto e necessario che nel diritto indù si producesse una evoluzione; i tribunali talora non fecero altro che riconoscere il valore di consuetudini nuove, in circostanze perfettamente compatibili con il punto di vista del diritto indù; riconobbero così la validità del testamento fatto da un indù, quando la pratica del testamento, del tutto sconosciuta al diritto indù antico, si diffuse. Limitazione del campo di applicazione del diritto indù. 12. La dominazione britannica non ha avuto come unico risultato quello consistente nel deformare — nei limiti in cui si ritenne applicabile — il diritto indù. Oltre a ciò, lo confinò in alcuni campi. L'induismo, che dà ad ogni azione umana un valore spirituale, tende a regolare la vita sociale in tutti i suoi aspetti; può proporre principi di condotta per ogni situazione immaginabile. Tuttavia nella realtà solo certe categorie di rapporti, quelli che interessavano una società essenzialmente agricola e rurale, erano oggetto di una regolamentazione elaborata, allorché la dominazione britannica si stabilì in India. Esistevano numerose regole relative all'organizzazione della famiglia o delle caste, al regime delle terre o a quello delle successioni. Nelle altre materie, il diritto indù era poco sviluppato. Non fare onore ai propri debiti, per esempio, era considerato dal dharma solo un peccato: il diritto non prevedeva sanzioni precise in caso di inadempienza del debitore. La dominazione britannica ha troncato lo sviluppo originale che il diritto indù avrebbe potuto avere, impedendogli di estendersi a rapporti di tipo nuovo, dovuto all'evoluzione sociale. Il diritto indù venne applicato dalle corti solo in taluni campi particolari: successioni, matrimoni, caste, usi e istituzioni legate alla religione. Al di fuori di questi campi, come vedremo, si sviluppò e applicò in India un altro sistema giuridico. Avrebbe potuto essere diversamente? È lecito dubitarne. Nelle Presidenze di Bombay, Calcutta e Madras si ammise che il diritto indù dei contratti doveva essere applicato quando il convenuto era indù. Il principio così stabilito però non ebbe in pratica un grande risultato; il più delle volte le parti preferirono sottoporre il loro rapporto al diritto inglese, che comportava maggiore certezza, e anche l'interpretazione del diritto hindu fu spesso fatta all'inglese da giudici estranei alla civiltà indiana. Legislazione britannica. 13. Gli indù stessi giunsero a desiderare riforme in un diritto che rispondeva ormai imperfettamente alle loro consuetudini di vita. Il modo normale di compiere queste riforme avrebbe dovuto essere, sembra, quello di ricorrere alla legislazione. Le autorità britanniche però intervennero solo con molte riserve nel campo in cui il diritto indù era stato confinato. Dai tempi del dominio britannico furono promulgate; in questo campo solo leggi di portata limitata. Si abolirono talune regole legate al sistema delle caste, o volte a sancire l'incapacità della donna, che erano giunte ad urtare molti elementi evoluti della popolazione indù. Così nel 1870 lo Hindu Wills Act regolò i testamenti fatti dagli indù. Nessuna codificazione generale, però, è stata redatta per esporre nel suo insieme e per modernizzare il diritto indù; tale lavoro era stato progettato nel 1833, ma il progetto fu abbandonato nel 1861. Un'opera legislativa più importante fu portata a termine, fin dai tempi della dominazione britannica, nei settori in cui non si applicava più il diritto indù e tuttavia, al di fuori delle grandi leggi intervenute, era ancora possibile per taluni aspetti tenere conto di concezioni proprie del diritto indù. Le corti di Bombay e di Calcutta poterono così continuare, dopo la promulgazione del'Indian Contract Act del 1872, a sanzionare la regola detta damdupat, secondo la quale gli interessi non possono in alcun caso ascendere ad una somma superiore al capitale dovuto; è vero che la corte di Madras giudicò che questa regola doveva essere considerata abrogata, ma una legge del 1938 la rimise in vigore a Madras nella materia dei debiti delle aziende agricole. 14. L'indipendenza. L'indipendenza dell'India, ottenuta nel 1947, ha modificato i dati del problema e prodotto nuovi sviluppi nel campo del diritto indù. Sul piano giudiziario le diverse High Courts stabilite nell'India britannica erano soggette, prima dell'indipendenza, al solo controllo — straniero e lontano — del comitato giudiziario del Privy Council; le corti degli Stati principeschi (Baroda, Travancore, Cochin, Mysore, Hyderabad) erano pienamente sovrane e sfuggivano a questo controllo. Dopo l'indipendenza una nuova Corte suprema si è posta a capo della gerarchia di tutte le Corti insediate in India. È suo diritto confermare o modificare le decisioni emesse ai tempi della dominazione britannica: così può essere compiuta una certa opera di modificazione e di unificazione del diritto indù. Sul piano legislativo, è stata costituita una commissione legislativa per studiare, su un piano generale, quali riforme legislative dovevano essere apportate al diritto dell'India, compreso il diritto della comunità indù. Questa commissione ha agito in profondità. Non esiste alcun principio importante di diritto “ortodosso” indù che non sia stato intaccato o rinnovato dalla legislazione o dai codici. La Costituzione stessa ha ripudiato il sistema delle caste; il suo art. 15 proibisce ogni discriminazione fondata sul pretesto della casta. Tutta la materia del matrimonio e del divorzio è stata profondamente riformata dal Hindu Marriage Act del 1955 e poi modificata nel 1964) (vd. Ultimoparagrafo). Tre parti di un Codice indù, di cui la legge sul matrimonio costituisce la prima parte, sono state votate dal Parlamento: la parte relativa alla minore età ed alla tutela (Hindu Minority and Guardianship Act, 1956), quella relativa alle adozioni ed all'obbligo alimentare (Hindu Adoptions and Maintenance Act, 1956), e quella relativa alle successioni (Hindu Succession Act, 1956). La legge sulle successioni, coronando un movimento che. aveva già ispirato un certo numero di disposizioni, si sforza di assicurare la devoluzione delle successioni conforme al presunto ordine affettivo del defunto, ordine in cui trovano posto anche le donne: secondo l'antico diritto indù la successione avveniva esclusivamente a favore di chi poteva, secondo la religione, procurare vantaggi di ordine spirituale al defunto, e questa direttiva ideologica conduceva in generale ad escludere le donne. Gli inconvenienti del sistema erano limitati in un'epoca in cui i beni, salvo eccezioni, erano proprietà della famiglia; il declino della comunità familiare dei beni ha reso ineludibile una modifica del diritto. Riforme di grande portata sono intervenute anche in materia di comunità familiare di beni. Già nel 1930 si è dichiarato che i salari sarebbero appartenuti individualmente a chi li aveva guadagnati. Altre riforme seguirono. Dal 1936 la parte di proprietà familiare è devoluta individualmente ai singoli eredi o legatari, tra cui figura la vedova del de cuius. Nei vari Stati dell'India, leggi di riforma agraria hanno d'altro canto tentato, dal 1950, di ridurre i latifondi, pur evitando un'eccessiva frammentazione della proprietà fondiaria. Carattere dell'evoluzione. 15. Il diritto indù ha subito ai nostri giorni profonde riforme. Resta un diritto applicabile solo alla parte indù della popolazione dell'India; ma le consuetudini incompatibili con esso sono state abolite. V'è in ciò un primo e importante cambiamento rispetto al passato. D'altra parte le riforme adottate sono sostanziali. Il che non significa che siano condannabili rispetto all'ortodossia. Il dharma è stato elaborato ad uso di gruppi sociali pervenuti a diversissimi livelli di civiltà; esso infatti non pretese mai di essere altro che un diritto ideale, destinato a reggere la condotta umana e, per sua stessa natura, si adatta ad ogni sorta di compromesso provvisorio dovuto alla consuetudine o alla legislazione. Se anche i governi dell'India si sono allontanati notevolmente da questo modello giuridico, tuttavia non hanno tralasciato di proclamare in ogni occasione il loro attaccamento ai principi stessi della civiltà indù. Attraverso tutti i cambiamenti permane il desiderio di rimanere fedeli alla tradizione, e per questo il diritto indù resta una delle concezioni fondamentali dell'ordine sociale esistente nel mondo contemporaneo. Diritto indù o diritto dell'India? 16. Una trasformazione radicale è tuttavia compiuta allorché, invece di concepire il diritto nell'ambito della società induista, lo si colloca nel quadro delle frontiere geografiche dell'India. Questa mutazione è stata operata, come vedremo, in molti campi, in cui oggi bisogna parlare, invece che di diritto indù, di diritto indiano. L'art. 44 della Costituzione ha previsto la generalizzazione di tale sistema, con l'elaborazione di un codice civile comune a tutti i cittadini indiani. Non di meno, come si è visto, fino ad oggi si è seguito un altro metodo: fino ad oggi gli sforzi sono stati tesi a modernizzare ed unificare il diritto indù. Non di meno non è impossibile che gradualmente si arrivi a realizzare la promessa della Costituzione per mezzo di riforme che su questioni particolari abrogheranno o modificheranno i diritti di statuto personale per sostituirvi un diritto comune. Sembra che alcune leggi possano dare inizio ad un movimento di tal genere, prevedendo e regolando rapporti tra Indiani di religioni diverse, che la religione degli uni e degli altri non autorizzava. Lo Special Marriages Act del 1954 così dichiara validi agli effetti di legge i matrimoni eventualmente conclusi tra indù da una parte e musulmani od altri non indù dall'altra. L'adozione di questa legge è chiaro indizio della rivoluzione ideologica avvenuta nel corso di un secolo; infatti, sir Henry Maine cent'anni fa aveva redatto il progetto di una legge di questo tipo, ma lo si era dovuto abbandonare per l'opposizione unanime che aveva suscitato, “vescovi, pundit, rabbini, mobed e mullah essendosi trovati per una volta pienamente d'accordo”. Non è impossibile che giunga così a svilupparsi un diritto interpersonale, costituente un nuovo tipo di ius gentium applicabile nel settore fino ad oggi riservato a statuti personali distinti. Qualunque sia l'evoluzione futura, il diritto indù resta oggi, per l'immensa maggioranza degli indiani, l'unico corpo giuridico che interessa la loro vita privata. È quello che regge il loro statuto personale, e tale espressione è intesa nel senso più ampio. Lo statuto personale non comprende solo le relazioni extrapatrimoniali ma abbraccia anche aspetti importanti del diritto patrimoniale, si tratti del diritto successorio o dello statuto della comunione familiare dei beni. Il diritto indù penetra per questa via nel diritto degli affari. Se per esempio un'iniziativa viene portata a termine dai membri di una famiglia, senza che vi sia associato alcun membro estraneo ad essa, come accade sovente, non saranno applicabili le regole del diritto commerciale indiano, reperibili nel'Indian Partnership Act; i rapporti tra soci saranno regolati dal diritto indù, poiché essi derivano dal loro statuto personale e non li si considera derivati da un contratto. D'altra parte, non occorre insistere sull'importanza rappresentata dalla comunione familiare dei beni, dal punto di vista del credito, in un paese in cui, in via di principio, solo la famiglia può essere proprietaria; è però vero che i casi di comunione familiare dei beni divengono sempre più rari. Diritto nuovo e costumi tradizionali. 17. Quanto ci si può domandare, soprattutto, è in qual misura il diritto statuale rifletta oggi la realtà sociologica indiana. Il legislatore può, con un tratto di penna, abolire il regime delle caste, autorizzare il matrimonio tra caste, sostituire ai punchayat tradizionali di casta il punchayat di villaggio. La sua opera, necessaria allo sviluppo del paese, non può dall'oggi al domani mutare, abitudini e modi di vedere, radicati da secoli e legati a credenze religiose. La stragrande maggioranza degli indù, che vivono nelle campagne, continuano a vivere come vissero i loro antenati; sono amministrati e giudicati, al di fuori degli organismi ufficiali, dalle istituzioni che essi hanno sempre conosciuto. Un'opera di legislazione non è sufficiente; si impone una paziente opera di rieducazione. Il suo successo è legato allo sviluppo di una economia moderna in India; è evidente qui la difficoltà di uscire da un circolo vizioso, in quanto tale sviluppo viene notevolmente frenato dalle strutture, dalle credenze e dai comportamenti, creati da una tradizione immemorabile tuttora venerata. Il matrimonio 18. Il matrimonio, considerato come un sacramento dalla religione indù, è stato presentato dal diritto indù tradizionale come una donazione, che i genitori della donna facevano di questa al marito; la donna, oggetto del contratto, non doveva acconsentire al matrimonio; il matrimonio era indissolubile e la poligamia autorizzata. Il diritto indù nuovo ha ripudiato tutte queste regole: la poligamia è proibita; la legge prevede il divorzio, e anche la possibilità di concedere una pensione alimentare al coniuge divorziato; esige che ambedue gli sposi consentano personalmente al matrimonio, come se si trattasse di un contratto, e fissa un'età matrimoniale minima per l'uomo come per la donna; riduce anche il numero degli impedimenti al matrimonio. Il diritto indù ha dunque subito una vera rivoluzione. Non di meno la nuova legge resta applicabile ai soli indù e non a tutti i cittadini dell'India e vi sono conservate alcune regole tradizionali del diritto indù. Nell'induismo il matrimonio viene visto come sacramento (samskàra) e rappresenta il più importante passaggio rituale, oltre che sociale, nella vita di un indù, Il carattere sacramentale del matrimonio è inteso nel senso che attraverso il compimento di una serie di riti i due sposi vengono uniti in modo indissolubile ed eterno. Nel periodo vedico il matrimonio viene concepito nel quadro dell'orizzonte dello rta come riproduzione sul piano microcosmico dell'unione degli elementi macrocosmici. Nel periodo classico il matrimonio viene visto come uno dei doveri fondamentali di un indù. In particolare il matrimonio nel sistema dell’āśramadharma segna il passaggio allo stadio del gārhasthya, la vita del capofamiglia, verso cui esiste una forte pressione sociale. Pertanto il matrimonio segna un cambiamento di status, per l'uomo ma anche per la donna per la quale anzi si ritiene che il matrimonio costituisca l'unico grande passaggio rituale. Il matrimonio veniva e viene vissuto come una questione di famiglia, intesa in senso ampio, più che come fatto individuale. L'importanza del matrimonio deriva anche e soprattutto dall'importanza della progenie sia sul piano sociale che su quello religioso. 19. Nel diritto indù tradizionale venivano distinte otto forme di matrimonio, che hanno lasciato molti dubbi agli interpreti, visto che contemplano anche matrimonio attraverso un rapporto sessuale imposto. Bisogna a questo proposito considerare che il vivāha, il termine sanscrito per matrimonio, è probabilmente un concetto più ampio con cui ci si riferisce a diversi tipi di unione. Inoltre nel definire le otto forme di matrimonio gli interpreti semplicemente si sono basati sull'osservazione e istituzionalizzazione di quanto era dato, loro osservare nella pratica sociale, suggerendo alcuni tipi di unione e sconsigliandone o biasimandone altri. Infatti, per le caste più alte è suggerito il matrimonio nella forma del kanyādāna, in cui è presente l'idea del dono fatto dal padre della sposa al marito sulla base di meriti spirituali. Proprio l’elemento del dono nel kanyādāna ha fatto pensare all'esistenza di elementi contrattuali nel matrimonio indù tradizionale, pur rimanendo prevalente l'aspetto sacramentale. È stato anche osservato che nelle caste basse in realtà è stato sempre prevalente l'aspetto contrattuale su quello sacramentale. Nel diritto indù moderno il matrimonio conserva alcuni elementi del carattere sacramentale e ne acquista altri di carattere contrattuale. Maggiore importanza è data al consenso e minore importanza è data all'aspetto dell'indissolubilità del matrimonio, essendo adesso possibile il divorzio, sentito però a livello sociale come un evento riprovevole, cosa che paradossalmente spinge in alcuni casi piuttosto all'uxoricidio. 20. A parte le otto forme di matrimonio, nel diritto indù esistono più tipi di matrimonio con riti ed effetti diversi, con molte varianti a livello locale. In generale, bisogna osservare anche che il matrimonio indù non richiede nessuna forma di collaborazione o di intervento del potere pubblico e viene vissuto come fatto totalmente autoregolato a livello comunitario. Traccia di questo atteggiamento si ritrova nel diritto matrimoniale attuale in India, dove solo recentemente si è cominciato a parlare di registrazione obbligatoria. L'induismo è sempre stato caratterizzato dalla coesistenza di una pluralità di modi di celebrazione del matrimonio. Il matrimonio indù è normalmente costituito da una serie complessa di riti coordinati. Il momento rituale che viene considerato tipico e fondamentale è il saptapadi, vale a dire il compimento di sette passi da parte degli sposi dinanzi al fuoco rituale, recitando formule beneauguranti a ogni passo (forma successiva al periodo vedico). Ciononostante, il saptapadi non è mai stato richiesto per la celebrazione di tutti i matrimoni indù e non è mai stato la forma principale di celebrazione del matrimonio in tutte le aree dell'India. Il matrimonio, normalmente molto complesso sia sul piano rituale sia su quello dell'impegno economico e sociale, può anche assumere caratteri ampiamente informali. A parte le varianti locali, si consideri ad esempio che il secondo matrimonio della vedova, ammesso ma non favorito, può consistere in poco più che nel manifestare l'intenzione di sposarsi. Ancora oggi i riti per la celebrazione del matrimonio indù sono molto differenziati, sia su base geografica che su base comunitaria. 21. Il legislatore indiano avrebbe potuto semplificare questo quadro largamente consuetudinario indicando una forma di celebrazione del matrimonio, o anche una serie definita di forme, ma non l'ha fatto, rispettando in questo senso la rilevanza delle consuetudini tipica del modello indù. In altri termini, il legislatore ha rinunciato all'ambizione di entrare in ogni aspetto della disciplina lasciando riproponendo in molto al controllo sociale, una versione moderna l'idea caratterzzante il diritto tradizionale indù, centrato sul concetto di dharma, in base al quale ogni individuo e ogni comunità deve vivere secondo le regole che riconosce, senza che un'autorità superiore, nell'antichità il sovrano e nell'India indipendente il parlamento, possa decidere in via generale le regole da seguire. 22. L'art. 7 déll'Hindu Marriage Act dispone che il matrimonio indù può quindi essere celebrato in accordo con i riti consuetudinari e le cerimonie di una delle parti. La norma opera un rinvio alle regole osservate nelle comunità delle parti. La varietà è notevole. Ciò non significa naturalmente che i nubendi abbiano libertà di scegliere. La regola infatti esiste ed ha carattere consuetudinario. Una descrizione completa delle forme di celebrazione del matrimonio nel diritto indù dovrebbe considerare i riti di tutte le comunità. L'art. 7 fa riferimento al saptapadi, i sette passi davanti al fuoco rituale, che, come abbiamo visto, costituisce una delle forme di celebrazione più diffuse e sicuramente quella che ha maggiore rilevanza culturale, essendo espressamente contemplata nei testi del dharmaśāstra. A questo proposito, una prima osservazione è che con l'art. 7 una forma di matrimonio del di ritto tradizionale viene a essere espressamente recepita dal diritto ufficiale statale indiano. Una seconda considerazione è che l'art. 7 non prescrive il compimento del saptapadi, rendendo in tal modo generale una norma maggioritaria a scapito di altre forme di celebrazione, ma si limita a stabilire che nel caso in cui le consuetudini seguite dagli sposi prevedano il saptapadi, il matrimonio si ritiene perfezionato al momento del compimento del settimo passo. Ora, una tale precisazione è stata fatta perché poteva effettivamente verificarsi una situazione di incertezza sul momento a cui riconnettere tutti gli effetti giuridici del matrimonio, ad esempio nel caso di interruzione del matrimonio mentre gli sposi avevano compiuto solo i primi passi. Di contro va anche osservato che in alcune sentenze o anche in alcune opere di dottrina sul diritto indù è stato affermato il carattere essenziale del saptapadi per la validità del matrimonio, forzando il tenore letterale della norma e cercando di compiere l'operazione di generalizzazione, e quindi di uniformazione, che il legislatore chiaramente aveva rinunciato a fare. Questa vicenda mostra come la tensione tra uniformità e diversità non debba essere considerata limitandosi alla sola analisi del formante legislativo ma debba essere rintracciata anche negli altri formanti del diritto, in particolare in quello giurisprudenziale. 23. Il matrimonio indù, come abbiamo detto, viene vissuto come un rito religioso e sociale che non richiede nessun intervento di nessun potere pubblico. In base allo Hindu Marriage Act il matrimonio può essere registrato, ma la sua registrazione non è condizione di validità. E stato osservato da alcuni studiosi che la non obbligatorietà della registrazione è uno degli elementi che permettono la diffusione dei matrimoni di bambini e che quindi l'introduzione del sistema di registrazione obbligatoria permetterebbe di fare fronte a questa e ad altre violazioni dei diritti umani. Anche in questo caso però, bisogna considerare diversi aspetti del problema. Se il legislatore del 1955 non ha previsto la registrazione come condizione di validità del matrimonio, ciò è dipeso dalla consapevolezza che in un contesto come quello indiano, date le dimensioni demografiche, l'arretratezza culturale di vaste sfere della popolazione e i notevoli problemi di organizzazione amministrativa, il sistema avrebbe potuto portare a situazioni di ingiustizia. È lecito almeno ipotizzare che, anche in presenza dell'obbligatorietà della registrazione, molti matrimoni indù non sarebbero registrati. Ciò dipenderebbe dalla tendenza, tipica delle concezione indigene del diritto, ad amministrare la propria sfera giuridica facendo ricorso il meno possibile all'amministrazione statale, almeno in materie di questo tipo. In una situazione del genere le tutele offerte dal diritto statale potrebbero paradossalmente diminuire, non essendo riconosciuto un matrimonio sentito come perfettamente valido sul piano sociale. Una delle conseguenze della non, obbligatorietà della registrazione è che le corti devono accertare normalmente l'esistenza del matrimonio in giudizio, principalmente in base a prove testimoniali, e questo è un elemento di incertezza giuridica. Il quadro normativo sta cambiando e in alcuni stati è già prevista la registrazione obbligatola. La poligamia 24. Per quel che riguarda i requisiti del matrimonio, anche questi possono variare considerevolmente nelle diverse epoche storiche, nelle diverse componenti dell'induismo, soprattutto in base alla casta, e anche nelle diverse zone dell'India. La monogamia rappresenta il modello ideale nell'induismo. Ciononostante sembra sia sempre esistita una poligamia indù, così diffusa da poter essere vista come la vera regola di fatto. La diffusione dell'unione poligamica in ambito indù può giustificarsi con la tendenza a gerarchizzare le diverse unioni (cfr. il film: tienila come amante). Per quanto il matrimonio monogamico sia quello preferibile, realisticamente ci si rende conto che altre unioni possono essere utili e debbano quindi essére ammesse. Tra le diverse possibili unioni che si verificano nella pratica vengono selezionate come accettabili quelle che, pur non corrispondendo al modello ideale, sono meritevoli di tutela. L'esempio principale si ha nel caso della sterilità della moglie. In un caso del genere, dato il dovere di generare una discendenza, si ammette la possibilità di avere un'altra moglie, senza che sia necessario divorziare dalla prima. Se questo vale sul piano culturale, sul piano sociologico è stato osservato chela poligamia è sempre stata diffusa soprattutto nelle caste alte, come testimonianza di potere economico e prestigio sociale. Si ipotizza anche che la poligamia sia stata introdotta nel diritto indù solo a seguito dell'invasione musulmana, ma questa ipotesi viene considerata ideologica e priva di solide basi scientifiche. Le riforme del diritto indù degli anni '50 hanno vietato la poligamia e hanno stabilito la nullità del matrimonio poligamico. In tal modo, è stato generalizzato il modello ideale dell'induismo, senza considerare la poligamia informale. Ma ciò ha creato ulteriori problemi. Di fatto, l'esistenza di pratiche sociali poligamiche non viene cancellata da una legge dello stato. Quel che è accaduto è che per non essere condannati per poligamia molti uomini hanno cominciato a negare l'esistenza o la validità di uno dei matrimoni, cosa molto facile per la grande varietà di riti che possono essere richiesti per la valida celebrazione di un matrimonio indù e per l'assenza di un obbligo di registrazione. Bisogna anche osservare che il sistema delle leggi personali fa sì che un indiano musulmano possa avere un'unione poligamica, mentre ciò non è possibile per un indiano indù, anche se di fatto la poligamia è sempre stata diffusa anche all'interno delle comunità indù. Il matrimonio dei minori 25. Per quel che riguarda l'età necessaria per contrarre matrimonio, nel diritto tradizionale sono ammessi i matrimoni di bambini, e quindi i matrimoni anche di persone che abbiano appena raggiunto la pubertà o anche più giovani. Ciò indifferentemente per uomini e donne, anche se le donne rappresentano la categoria maggiormente coinvolta e danneggiata dal fenomeno. Questa pratica è sempre stata diffusa, sebbene in misura molto variabile a seconda dei diversi contesti e delle diverse aree geografiche. Le sue origini sono discusse ma non stupisce che l'età per il matrimonio sia bassa in società antiche o tradizionali. Lo stesso fenomeno è osservabile in altre tradizioni, incluse quella ebraica e quella islamica. Dal punto di vista teorico, quel che è importante è non solo la presenza del fenomeno ma anche la sua legittimazione all'interno di una tradizione giuridica. Una delle spiegazioni che vengono addotte è che questa pratica, ritenuta estranea alla tradizione indù originaria, si sia diffusa nel periodo delle invasioni musulmane al fine di costituire le unioni tra indù il prima possibile. Altra spiegazione può essere ravvisata nella logica delle caste. Se il matrimonio è un passaggio necessario nella vita di un indù, e se un buon matrimonio deve superare tutta una serie di requisiti dal punto di vista della casta e del ceto sociale, allora anticipare al massimo il momento del matrimonio può essere una strategia per risolvere queste questioni nel modo più efficace possibile. In linea generale, comunque, la finalità del matrimonio di bambini è quella di limitare le relazioni sessuali extraconiugali, inserendole precocemente nel contesto lecito del matrimonio. 26. Gli inglesi cercarono di intervenire su questa pratica attraverso alcune norme penali, in particolare l'art. 375 del codice penale e il ChiliMarriage RestraintAct del 1929, ma non arrivarono a collegare conseguenze di natura civilistica al matrimonio di bambini, che restava valido. Anche l’Hindu Marriage Act, e quindi il diritto indù ufficiale, ha vietato questa pratica stabilendo l'età minima per contrarre il matrimonio a ventuno anni per gli uomini e a diciotto per le donne. In caso di violazione di questa regola non è espressamente stabilita l'invalidità del matrimonio e l'opinione dominante è che il matrimonio resti valido. E comunque prevista una sanzione, che può essere sia pecuniaria che detentiva. La situazione è cambiata solo di recente con il Child Marriage Prohibition Act del 2006, che per la prima volta prevede l'annullabilità in generale per il matrimonio dei minori, e la nullità per alcuni casi particolarmente gravi, come quello in cui il matrimonio è collegato alla sottrazione del minore. Rimane comunque importante la possibilità di un conflitto tra una norma di diritto indù ufficiale, che vieta il matrimonio tra bambini una norma di diritto indù non ufficiale, che invece lo ritiene legittimo. 27. Altro requisito del matrimonio è quello della capacità di intendere e di volere. Nel diritto tradizionale, questo requisito era tenuto in considerazione ma il consenso poteva essere prestato anche da un tutore. Di fatto, questo requisito, anche nel diritto indù moderno, vuole principalmente escludere i casi di matrimonio contratto per errore o per inganno, mentre non è ugual mente tutelata la piena consapevolezza delle conseguenze del proprio atto. Tutte le culture pongono dei limiti alla possibilità di sposarsi entro certi gradi di parentela. Nel diritto indù la relazione deve essere esogamica. Esistono due sistemi per escludere l'endogamia. Uno si basa sulla parentela, l'altro sulla relazione di sapinda, che ha principalmente natura rituale. Nel secondo caso, il concetto chiave è che la collaborazione di due soggetti in alcune attività rituali equivalga alla parentela, anche in assenza di vincoli di sangue. I due sistemi comunque tendono a coincidere. 28. Dal punto di vista del diritto tradizionale, i matrimoni interreligiosi e i matrimoni intercasta sono proibiti. In particolare sono visti con enorme sfavore i matrimoni in cui si ha unione tra un uomo di casta bassa e una donna di casta alta. Su questo punto però non esistono regole realmente nette, e in molti casi la questione viene posta in termini di maggiore o minore desiderabilità e non in termini di divieto-assoluto. Nel diritto indù moderno ufficiale non possono collegarsi conseguenze a differenze di casta tra gli sposi, cosa che contrasterebbe con i principi costituzionali. Quindi un matrimonio tra due persone di casta diversa sarà perfettamente valido. Per quel che riguarda i matrimoni interreligiosi, questi sono sempre stati visti con sfavore nel diritto indù tradizionale, cosa che d'altra parte è facile da comprendere. È interessante osservare che dal punto di vista del diritto indù ufficiale un matrimonio tra un indù e una persona appartenente a un'altra religione non è un matrimonio indù. In questo limitato senso il diritto indù esclude che uno dei due nubendi possa non essere indù. Bisogna però osservare innanzitutto che buddhisti, jainisti e sikh vengono considerati indù e, in secondo luogo, che ciò non significa che due persone di religione diversa non possano sposarsi. Essi dovranno però fare ricorso a un diverso regime matrimoniale, che è quello fissato nello Special Marriage Act (1954). È anche degno di nota il fatto che la conversione di uno degli sposi ad altra religione rappresenti causa di scioglimento del matrimonio. Come si è visto, il matrimonio è il momento fondamentale nella vita di un indù e comporta un importante cambiamento di status sia per l'uomo che per la donna. I doveri coniugali del marito nel diritto tradizionale sono doveri di protezione della moglie, doveri di fedeltà, doveri di sostentamento, doveri di coabitazione. Questi doveri sono sostanzialmente conservati nel diritto moderno, ma non vi è enfasi sul dovere di protezione, che è invece il dovere fondamentale nel pensiero tradizionale, e, più in generale, essi sono inseriti in un quadro formale di uguaglianza dei coniugi. Per la donna il matrimonio segna un passaggio decisivo perché nella concezione indù la moglie entra nella famiglia del marito. Da ciò deriva tutta una serie di conseguenze sul piano patrimoniale e sul piano dei rapporti con gli altri membri della famiglia dello sposo, in un contesto in cui la famiglia non ha ancora assunto carattere nucleare. Questi aspetti cooperano nel determinare il contesto in cui matura la violenza sulle donne connessa alla dote. 29. Nel modello ideale del matrimonio indù esiste un principio di indissolubilità. L'introduzione del divorzio è stata una delle principali novità del 1955. Bisogna però segnalare che il divorzio era già ampiamente riconosciuto dal diritto indù tradizionale, almeno in alcune zone e in alcune caste. A questo proposito si può evidenziare un altro caso di riconoscimento delle regole consuetudinarie, infatti, il diritto statale ammette forme di divorzio consuetudinario affianco alla forma prevista per legge.