Tumori maligni dell`apparato digerente, del fegato, delle vie biliari e

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CAPITOLO 45
Michele Reni
Tumori maligni
dell’apparato
digerente,
del fegato,
delle vie biliari
e del pancreas
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Tumori dell’esofago
Definizione
I tumori dell’esofago sono lesioni neoplastiche localizzate
nel tratto del tubo digerente compreso tra la cartilagine
cricoide e la giunzione gastroesofagea. L’esofago viene
convenzionalmente suddiviso in un tratto cervicale (dalla
cartilagine cricoide all’ingresso nella cavità toracica) e in
uno toraco-addominale, a sua volta diviso in terzi: il terzo
superiore si estende dall’ingresso nella cavità toracica alla
carena, il terzo medio dalla carena alle vene polmonari inferiori e il terzo inferiore dalle vene polmonari alla giunzione
gastroesofagea. Si distinguono pertanto tumori dell’esofago
cervicale e del terzo superiore, medio e inferiore.
Il carcinoma dell’esofago rappresenta una delle forme tumorali gravate dalla maggiore mortalità nell’ambito delle
neoplasie solide, con un rapporto incidenza/mortalità
vicino all’unità.
Epidemiologia
Il carcinoma dell’esofago costituisce circa il 5% di tutti i
tumori maligni ed è il terzo tumore più comune nel tratto
gastroenterico e tra i primi dieci tumori più comuni a
livello mondiale. Negli ultimi trent’anni si è osservato un
aumento dell’incidenza di queste neoplasie di circa 6 volte, quasi esclusivamente legato all’aumento degli adenocarcinomi del terzo inferiore dell’organo e non attribuibile
al miglioramento delle metodiche diagnostiche.
Esistono notevoli differenze geografiche in termini di
incidenza: dai 5-10 casi/100.000 persone/anno negli Stati
Uniti (razza bianca), in Giappone, parte dell’Europa e Canada si sale a 10-50 in India, Sri Lanka, Sudafrica, Svizzera
e Francia, ai 150-160 in Zimbabwe, 350-360 in Sudafrica
e a 550/100.000 abitanti in Kazakhstan.
Il carcinoma esofageo colpisce soprattutto il sesso maschile, con un rapporto che oscilla tra 2:1 e 4:1 rispetto
al sesso femminile, e la fascia d’età è compresa tra la sesta
e l’ottava decade di vita.
Eziologia e fattori di rischio
L’eziologia del carcinoma esofageo è sconosciuta. Sono
state individuate alcune condizioni associate a un aumentato rischio di sviluppare una neoplasia esofagea. Il
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fumo e il consumo di bevande alcoliche sono i principali fattori di rischio per le forme squamocellulari, con
un aumento del rischio relativo che varia da 5-10 volte
a 100 volte, in base alla quantità di sigarette e alcolici
e all’associazione dei due fattori di rischio, che ha un
effetto moltiplicativo. Il ridotto consumo di frutta e
verdura e il diminuito apporto di ␤-carotene, di vitamina E e selenio raddoppiano il rischio di sviluppare
un carcinoma squamocellulare. L’irritazione cronica
della mucosa esofagea, i danni provocati da sostanze
caustiche, il refl usso gastroesofageo, l’ernia hiatale e
l’esofago di Barrett (rischio relativo aumentato di 40
volte) sono i principali fattori di rischio per gli adenocarcinomi. Inoltre, l’obesità, l’acalasia (rischio relativo
di 16-30 volte), la tilosi (malattia genetica autosomica
dominante caratterizzata da ipercheratosi al palmo delle mani e alla pianta dei piedi e da leucoplachia orale),
una precedente radioterapia mediastinica o mammaria
e la presenza di alcune lesioni precancerose come, per
esempio, i papillomi sono associati a una maggiore
incidenza di neoplasie esofagee maligne. Alcuni fattori
dietetici, come il consumo di cibi o bevande particolarmente caldi (riso fra i cinesi, tè fra gli anglosassoni) o
di bevande fermentate, potrebbero in parte giustificare
le differenze geografiche ed etniche dell’incidenza. Va
anche ricordata l’associazione del carcinoma esofageo
con la sindrome di Plummer-Vinson (correlata all’anemia sideropenica; si veda il Capitolo 48), specialmente
nei Paesi scandinavi, dove questa patologia è particolarmente frequente.
Patogenesi
I carcinomi dell’esofago originano dalla proliferazione
incontrollata di cloni cellulari caratterizzati da difetti
della regolazione del ciclo cellulare. La maggior parte
delle mutazioni colpisce la regolazione del ciclo cellulare a livello del punto di restrizione G1, che viene eluso
mediante l’iperespressione di ciclina D1 (presente nel
40-60% dei carcinomi esofagei e nel 30% delle lesioni
preneoplastiche) o l’inattivazione di p16 (20-70% dei
casi). Il 20-60% delle neoplasie esofagee presenta viceversa deficit di espressione di Rb. Spesso, e soprattutto in
relazione all’esposizione al fumo di tabacco, coesistono
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Parte 7 - ONCOLOGIA MEDICA
mutazioni di p53 (50-80% dei casi). L’iperespressione del
recettore del fattore di crescita dell’epidermide (EGFR,
Epidermal Growth Factor Receptor) è presente nel
30-70% dei casi.
Nel 60-100% dei carcinomi esofagei sono state riscontrate delezioni di 3p che potrebbero essere responsabili
dell’inattivazione del gene oncosoppressore FHIT (Frail
Histidine Triad), coinvolto nella regolazione dei processi
di progressione del ciclo cellulare e di apoptosi. Le mutazioni puntiformi o l’ipermetilazione del promotore del
gene sono presenti nel 50-90% delle neoplasie esofagee.
Le mutazioni di FHIT sono peraltro correlate all’esposizione al fumo di tabacco. La quasi totalità delle neoplasie
esofagee presenta anche un’aberrante espressione della
telomerasi, condizione rara o assente nel tessuto esofageo
sano e nelle lesioni preneoplastiche.
Il gene TOC (Tylosis Oesophageal Cancer), mutato nelle
persone affette da tilosi con maggior rischio di sviluppare
un carcinoma esofageo, risulta frequentemente deleto
anche nelle forme sporadiche.
L’irritazione cronica della mucosa esofagea, causata da vari
fattori come danni da sostanze caustiche, prolungata permanenza di particelle di cibo (acalasia, Plummer-Vinson,
diverticolosi), reflusso gastroesofageo, potrebbe avere un
ruolo nella patogenesi di queste neoplasie.
Anche il virus oncogeno HPV (Human Papilloma Virus)
potrebbe essere coinvolto nella patogenesi del 15-30% dei
carcinomi esofagei nelle sole aree endemiche dell’Asia e
del Sudafrica. Il gene infatti codifica per due proteine, E6
ed E7, che sequestrano il prodotto dei geni oncosoppressori Rb e p53.
Anatomia patologica
I due principali istotipi sono il carcinoma squamocellulare,
predominante nel terzo esofageo prossimale e medio, e
l’adenocarcinoma, di più frequente riscontro nel tratto
distale e a livello della giunzione gastroesofagea. Negli
studi clinici non sembrano esistere differenze significative di comportamento tra i due istotipi. Negli Stati Uniti,
l’adenocarcinoma è l’istotipo prevalente (60%), mentre
nella maggior parte degli altri Paesi del mondo è più comune il carcinoma squamocellulare.
Dal punto di vista macroscopico si distinguono forme
vegetanti (di tipo polipoide, stenosanti, con tendenza a
provocare fenomeni ulcerativi e necrotici con possibile
formazione di fistole) e forme infiltranti, che provocano
stenosi anulare dell’esofago. I carcinomi esofagei tendono
a essere ben differenziati e associati ad aree contigue o non
contigue di carcinoma in situ e a una diffusa disseminazione linfatica sottomucosa.
Sono stati individuati alcuni istotipi rari, come il carcinoma
squamocellulare con aspetti sarcomatosi o adenoido-cistici
e i carcinomi mucoepidermoidi. Tuttavia queste forme
hanno la stessa presentazione clinica e la stessa storia naturale degli istotipi più comuni.
I carcinomi a piccole cellule rappresentano circa l’1% dei
tumori esofagei, sono prevalentemente localizzati al terzo
medio e inferiore e hanno un’evoluzione più aggressiva
metastatizzando precocemente ad altri organi.
Tra le forme mesenchimali, prevale il leiomiosarcoma
(1%) del terzo inferiore dell’organo, che si presenta come
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una massa voluminosa e con spiccata tendenza alla necrosi e al sanguinamento. Ancora più rari sono i linfomi
e i melanomi.
Fisiopatologia
L’assenza di una sierosa attorno all’organo e la presenza
di un ricco reticolo linfatico sottomucoso, che comunica con i dotti linfatici localizzati negli strati muscolari
drenando attraverso la parete dell’organo ai linfonodi
adiacenti o al dotto linfatico, rappresentano un terreno
favorevole per un’estesa infiltrazione neoplastica locale
e linfonodale regionale. La storia clinica della malattia è
pertanto caratterizzata da problemi correlati all’alterata
motilità dell’organo e all’infiltrazione o alla formazione
di tragitti fistolosi con organi circostanti, come il nervo
laringeo ricorrente, la trachea, i grossi bronchi, l’aorta, il
mediastino, il diaframma, la pleura, il pericardio.
Le manifestazioni cliniche del carcinoma esofageo possono
inoltre variare in funzione della sede interessata, della tendenza alla crescita vegetante o infiltrante, dell’invasione
delle strutture circostanti. Nelle neoplasie del tratto prossimale prevalgono scialorrea, tosse “esofagea” (stizzosa),
disfonia con voce bitonale da paralisi del ricorrente e disfagia; nelle neoplasie distali prevalgono i disturbi dispeptici,
singhiozzo molesto e, nelle fasi avanzate, disfagia.
Infine, anche se al momento della diagnosi non sono presenti metastasi, l’evidenza e la storia clinica della neoplasia suggeriscono la presenza costante di micrometastasi.
Il carcinoma esofageo può metastatizzare per via linfatica,
coinvolgendo i linfonodi cervicali e sovraclaveari (neoplasie del terzo superiore), i linfonodi tracheobronchiali (neoplasie del terzo medio), i linfonodi celiaci e della piccola
curvatura dello stomaco (neoplasie del terzo inferiore),
con conseguenti problemi di sintomatologia nella sede
interessata. Anche la metastatizzazione per via ematogena
è frequente e riguarda prevalentemente fegato, polmoni
e, più raramente, scheletro e peritoneo. Epatomegalia,
dispnea, dolori ossei o ascite possono essere presenti nella
fase molto avanzata della malattia.
Manifestazioni cliniche
I carcinomi esofagei si localizzano più frequentemente a
livello dei restringimenti fisiologici dell’esofago. All’esordio
il quadro clinico è in genere caratterizzato da disturbi di
modesta entità che consistono in disfagia intermittente,
limitata ai cibi solidi o ai boli voluminosi, pirosi che insorge
subito dopo la deglutizione, bruciore retrosternale dopo
ingestione di liquidi caldi. La disfagia tende a essere ingravescente, riguardando in un secondo tempo anche l’ingestione di liquidi, e condiziona un calo ponderale anche consistente. Il corteo sintomatologico è inoltre caratterizzato da
odinofagia, eruttazioni, raucedine, tosse stizzosa, scialorrea,
rigurgito, vomito alimentare, dolore retrosternale continuo
o subcontinuo, talvolta irradiato al dorso e, in genere, associato all’estendersi del processo neoplastico nel mediastino
alle strutture periesofagee, disfonia, singhiozzo.
Emorragie massive con ematemesi e, talora, melena non
sono frequenti (5%), mentre è praticamente costante
uno stillicidio cronico, in grado nel tempo di provocare
un’anemia sideropenica.
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CAPITOLO 45 - TUMORI MALIGNI DELL’APPARATO DIGERENTE, DEL FEGATO, DELLE VIE BILIARI E DEL PANCREAS
Nelle fasi avanzate possono essere presenti manifestazioni
sistemiche caratterizzate da anoressia, inappetenza verso
tutti i cibi, calo ponderale e progressivo deterioramento
delle condizioni generali, fino alla cachessia.
L’esame obiettivo è assai poco significativo. A parte la
compromissione dello stato generale che si instaura progressivamente nel tempo, è possibile, talvolta, la palpazione di tumefazioni linfonodali nelle stazioni cervicali
e sovraclaveari, talora solo a sinistra con positività del
cosiddetto segno di Troisier.
Diagnosi
È importante la raccolta di un’anamnesi accurata e focalizzata alle informazioni relative ai fattori predisponenti
lo sviluppo di neoplasie esofagee e, in particolare, al fumo
di tabacco, all’abuso di alcolici, al reflusso sintomatico,
alla pregressa diagnosi di esofago di Barrett e alla storia
di precedenti neoplasie della testa-collo. Occorre anche
raccogliere informazioni relative a pregressi interventi
chirurgici su stomaco e colon, in quanto potrebbero condizionare le scelte della chirurgia ricostruttiva in caso di
esofagectomia.
Gli esami di laboratorio non sono di grande utilità per la
diagnosi. L’anemia sideropenica è frequente e la ricerca
di sangue occulto nelle feci quasi sempre positiva. Non
ci sono marcatori tumorali specifici.
L’esame radiologico dell’esofago con solfato di bario dimostra la riduzione del diametro del lume esofageo, i
cui contorni sono caratterizzati da irregolarità e rigidità, spesso associate a segni indiretti della neoplasia
(spasmi esofagei più frequenti al di sopra del tumore e
arresto dell’onda peristaltica); frequente è la presenza
di una dilatazione del tratto a monte. Questa metodica
diagnostica, nell’era dell’endoscopia moderna, è sempre
meno utilizzata.
L’esofagogastroduodenoscopia è un esame imprescindibile
in quanto permette: 1) la localizzazione precisa della neoplasia rispetto all’arcata dentaria; 2) l’osservazione diretta
delle sue caratteristiche, come il grado di ostruzione, la
profondità di infiltrazione della parete dell’organo, la presenza di lesioni satelliti o sincrone, la presenza di lesioni
linfonodali regionali; 3) un intervento di emostasi in caso
di emorragie; 4) il posizionamento di un’endoprotesi per
palliare la disfagia e l’esecuzione di prelievi bioptici e
brushing della lesione. I risultati di questa metodica sono
strettamente operatore-dipendenti. La biopsia presenta un
rischio di emorragia o di perforazione e non sembra in
grado di fornire un uguale livello di affidabilità diagnostica rispetto all’indagine citologica, risultando positiva
soltanto nel 65% circa dei casi. Viceversa, l’esame citologico, se correttamente eseguito, consente di ottenere un
risultato diagnostico in oltre il 95% dei casi.
La broncoscopia è indicata per le neoplasie del tratto prossimale dell’organo per studiare l’eventuale infiltrazione di
bronchi e trachea e la presenza di tragitti fistolosi.
La tomografia computerizzata (TC) di torace, addome e
pelvi con somministrazione di mezzo di contrasto ha
una rilevanza fondamentale per la corretta pianificazione
diagnostico-terapeutica, dato che l’eventuale presenza di
metastasi condiziona l’esecuzione di altri esami diagnostici e la scelta delle strategie di trattamento. La TC ha un’ac-
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curatezza per l’individuazione delle metastasi polmonari
ed epatiche e per la valutazione dell’infiltrazione aortica o
tracheobronchiale superiore al 90%. Viceversa, la capacità
di valutare la situazione loco-regionale della malattia, in
termini di profondità di invasione della parete esofagea e
di interessamento linfonodale, è limitata (50-70%).
La tomografia a emissione di positroni con fluorodesossiglucosio (FDG-PET) ha un ruolo complementare alle altre
metodiche di stadiazione in situazioni particolari. La PET
è in grado di dimostrare metastasi non osservate con la
TC (falsi negativi) nel 15% dei pazienti e la negatività di
lesioni sospette per secondarismi alla TC (falsi positivi) nel
10% dei pazienti. Complessivamente, la PET determina
un cambiamento della strategia terapeutica nel 20% dei
casi e può quindi fornire indicazioni preziose nei pazienti
potenzialmente resecabili. Questo esame può essere utile
per il monitoraggio della risposta alla chemioterapia e
alla radioterapia.
Alcune tecniche chirurgiche minimamente invasive, come
la laparoscopia e la toracoscopia, consentono di individuare
micrometastasi non segnalate dalle altre procedure di
stadiazione e di risparmiare la morbidità correlata a una
laparotomia nel 10-15% dei pazienti. Queste tecniche
non sono tuttavia ampiamente utilizzate in quanto esse
stesse gravate da morbidità, prolungamento della degenza
ospedaliera e costi elevati.
Nella tabella 45.1 sono riportati la classificazione e lo
stadio TNM per il tumore esofageo.
Tabella 45.1 Classificazione TNM per il tumore esofageo
T – Tumore primitivo
Tumore in situ
Tis
Invasione neoplastica della lamina propria o della
T1
sottomucosa
Invasione neoplastica della muscolaris propria
T2
Invasione neoplastica dell’avventizia
T3
Invasione neoplastica delle strutture adiacenti
T4
N – Linfonodi regionali
Nessuna diffusione neoplastica ai linfonodi
N0
Presenza di metastasi ai linfonodi regionali
N1
M – Metastasi a distanza
Nessuna metastasi a distanza
M0
Presenza di metastasi nei linfonodi celiaci (per i tumori
M1a
del terzo inferiore) o cervicali (terzo superiore)
Presenza di metastasi ad altri organi
M1b
Stadio in base al sistema TNM
T1N0M0
I
T2N0M0
IIA
T3N0M0
T1N1M0
IIB
T2N1M0
T3N1M0
III
T4NqualsiasiM0
TqualsiasiNqualsiasiM1a
IVA
TqualsiasiNqualsiasiM1b
IVB
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Parte 7 - ONCOLOGIA MEDICA
Terapia
Il decorso di questa malattia è progressivo e ingravescente e la prognosi è infausta con una sopravvivenza
globale a 5 anni inferiore al 10%.
La diagnosi di carcinoma esofageo viene infatti spesso
effettuata quando la malattia si trova in una fase già
avanzata.
La scarsità di studi con disegno appropriato rende difficile raggiungere un consenso sulla strategia ottimale
per ciascun singolo stadio di malattia.
Stadio I
La chirurgia radicale rappresenta il trattamento standard e non è richiesta nessuna terapia adiuvante. La
resezione esofagea (esofagectomia) può impedire la
progressione delle lesioni preneoplastiche a carcinoma invasivo, è curativa per i tumori T1 ed è in
grado di migliorare il controllo loco-regionale della
malattia per i tumori che infiltrano la sottomucosa,
la parete dell’organo e i linfonodi. Si tratta di una
chirurgia estremamente impegnativa, con elevati rischi di complicanze anche mortali che sono funzione
dell’esperienza del centro e del chirurgo, potendo
variare dall’8% dei centri che eseguono 19 o più esofagectomie all’anno al 20% dei centri che eseguono
solo 2 interventi all’anno. L’intervento chirurgico
ottimale consiste nell’asportazione di un tratto di
esofago esteso per almeno 8-10 cm a monte e a valle
dei limiti macroscopici della neoplasia. Infatti, in
quasi il 50% dei casi, isole di tessuto tumorale sono
presenti a 5 cm e più di distanza dai limiti macroscopici della neoplasia.
Le neoplasie dell’esofago cervicale richiedono una
laringoesofagectomia, ma la radicalità è ottenibile
in una minoranza di pazienti a causa della crescita
infiltrativa nei confronti delle strutture adiacenti.
Nel complesso, la sola chirurgia non è in grado di modificare in modo rilevante la storia naturale della malattia. Considerato l’elevato prezzo biologico correlato
e il fatto che circa tre quarti dei pazienti presentano
una malattia localmente avanzata (stadi IIB e III) alla
diagnosi, negli ultimi anni si è assistito al proliferare
di studi di terapia combinata di chemio- e radioterapia, con l’obiettivo di migliorare la prognosi.
Stadi II-III
Il trattamento di questi stadi della malattia è controverso. Le varie opzioni a disposizione sono la chirurgia
seguita o preceduta da un trattamento chemioterapico
sistemico o chemio-radioterapico o radioterapico,
oppure la chemio-radioterapia esclusiva.
La chemio-radioterapia preoperatoria seguita dall’esofagectomia ha lo scopo di: 1) ottenere una riduzione della
massa neoplastica facilitando l’intervento chirurgico
nei pazienti con neoplasia localmente avanzata; 2)
rimuovere la malattia chemio-radio-resistente residua
dopo il trattamento di induzione; 3) aumentare il tasso di resezioni complete con margini circumferenziali negativi; 4) trattare la malattia micrometastatica.
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Nonostante non sia stata osservata una differenza
statisticamente significativa di sopravvivenza, sulla
base dei dati riportati e delle meta-analisi, che hanno
dimostrato un aumento della sopravvivenza a 2 anni
del 13% e una riduzione del rischio relativo di morte, la
comunità scientifica ha adottato il trattamento chemioradioterapico seguito dalla chirurgia come standard
negli stadi IIB e III, soprattutto per gli adenocarcinomi
dell’esofago distale e della giunzione gastroesofagea.
Il trattamento chemio-radioterapico aumenta però le
complicanze e la mortalità perioperatoria dal 4 al 9%
e deve perciò essere eseguito solo in centri specializzati
e nei confronti di pazienti selezionati.
Il ruolo della chemio-radioterapia postoperatoria è controverso. La somministrazione della chemioterapia
postoperatoria è di difficile attuazione a causa del lento recupero postoperatorio, soprattutto nei pazienti
sottoposti a chemio-radioterapia neoadiuvante, meno
del 40% dei quali è in grado di completare il programma terapeutico.
La chemio-radioterapia esclusiva ottiene sopravvivenze
mediane e a 5 anni rispettivamente di 14-20 mesi e del
20-27%, che sembrerebbero sovrapponibili a quelle
della sola chirurgia (11-16 mesi e 20%). Analogamente,
le recidive locali sono del 39-45% rispetto al 61% osservato con la sola chirurgia. Alcuni studi hanno analizzato
l’utilità dell’intervento chirurgico dopo chemio-radioterapia senza osservare particolari vantaggi, soprattutto
nei pazienti con una risposta obiettiva ottenuta durante
la prima parte del trattamento non chirurgico.
Stadio IV
La chemioterapia sistemica rappresenta il trattamento
di prima scelta per la malattia metastatica. La valutazione dell’attività dei singoli farmaci è resa difficile
dall’eterogeneità delle casistiche analizzate e degli
schemi di somministrazione dei farmaci. Il trattamento della malattia metastatica ha una finalità palliativa
e la scelta dello schema terapeutico deve tenere conto
dell’impatto della tossicità iatrogena sulla qualità di
vita del paziente. Il farmaco più attivo è considerato
il cisplatino, che viene pertanto quasi sempre incorporato negli schemi chemioterapici di combinazione.
Le combinazioni di due o più farmaci sono in grado di
produrre una maggiore percentuale di risposte obiettive al prezzo di una più elevata tossicità. Gli schemi più
attivi si basano sull’impiego del cisplatino associato
a 5-fluorouracile (35% di risposte) oppure a vinorelbina (34% di risposte). L’associazione del cisplatino
con il paclitaxel o con l’irinotecan ha ottenuto rispettivamente il 43-50% e il 51-57% di risposte. Le
associazioni di tre farmaci (cisplatino, 5-fluorouracile
ed epirubicina oppure paclitaxel) ottengono il 50%
circa di risposte.
Devono essere infine ricordate le manovre terapeutiche attuate con finalità palliative per consentire
l’alimentazione, quali la dilatazione endoscopica,
il posizionamento di protesi, la laserterapia, la brachiterapia intraluminale, gli interventi di diversione
alimentare (digiunostomia).
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CAPITOLO 45 - TUMORI MALIGNI DELL’APPARATO DIGERENTE, DEL FEGATO, DELLE VIE BILIARI E DEL PANCREAS
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Tumori gastrici
Definizione
I tumori dello stomaco sono neoplasie localizzate nel
tratto del tubo digerente compreso tra la giunzione
gastroesofagea e il piloro. Nel presente capitolo si tratterà
esclusivamente delle neoplasie di origine epiteliale, che
rappresentano oltre il 90% delle neoplasie maligne dello
stomaco.
Epidemiologia
Nonostante la riduzione di incidenza, il carcinoma gastrico rappresenta tuttora la seconda più comune causa
di morte per tumore nel mondo. Questa tendenza è prevalentemente legata a modificazioni dell’alimentazione,
della catena di preparazione e conservazione del cibo e
ad altri fattori ambientali. La riduzione di incidenza è
limitata ai tumori distali dello stomaco (antro e corpo),
mentre si è osservato un aumento dei tumori dello stomaco prossimale e della giunzione gastroesofagea, che sono
biologicamente più aggressivi e più difficili da trattare. Il
declino è stato più rapido nelle donne rispetto agli uomini. L’incidenza varia considerevolmente nelle varie regioni
del mondo ed è più elevata in Cina, Giappone, Europa
orientale e America Latina, dove si osservano da 30 a 85
nuovi casi/100.000 abitanti/anno. È invece molto più rara
negli Stati Uniti, in Israele e Kuwait, dove si osservano 4-8
nuovi casi/100.000 abitanti/anno.
L’incidenza maschi/femmine è di circa 1,6:1 ed è maggiore
tra le classi sociali più basse. Circa il 60% dei pazienti ha
un’età superiore a 65 anni. L’incidenza per età aumenta
rapidamente da 1,5/100.000 persone/anno in pazienti con
meno di 30 anni a 40/100.000 persone/anno nella fascia di
età compresa tra 45-64 anni, per raggiungere i 140/100.000
persone/anno nei pazienti con più di 75 anni.
Eziologia e fattori di rischio
La causa del carcinoma gastrico è sconosciuta e probabilmente multifattoriale. Le due varianti istologiche,
intestinale e diffusa, hanno verosimilmente una diversa
eziologia. Infatti, la variante intestinale tende a originare da lesioni precancerose (si veda oltre), negli uomini
più spesso che nelle donne, negli anziani più spesso che
nei giovani, e predomina nelle aree geografiche in cui
il cancro gastrico è endemico, suggerendo un’eziologia
prevalentemente ambientale. Viceversa, la forma diffusa
è più comune nelle aree geografiche a bassa incidenza,
nelle donne e nei giovani ed è più spesso correlata alla
familiarità, suggerendo un’importante componente genetica.
Sono state individuate varie condizioni associate a un
aumentato rischio di sviluppare il tumore allo stomaco. I
fattori ambientali, culturali e metabolico-nutrizionali hanno
certamente un ruolo rilevante. Gli emigrati da Paesi a
elevata incidenza verso altri a incidenza bassa presentano una diminuzione della frequenza della malattia
intorno alla seconda-terza generazione, soprattutto se
intervengono cambiamenti nelle abitudini alimentari.
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Questa osservazione suggerisce che l’esposizione ad alcuni fattori ambientali intervenga precocemente nella vita,
ma che altri fattori ambientali e culturali continuino a
influenzare la predisposizione a sviluppare un cancro.
È di recente osservazione, per esempio, che la presenza
nell’acqua potabile o nel cibo di nitroguanidina o di
metilacetilnitrosurea è in grado di provocare l’insorgenza
di cancro gastrico nell’animale da esperimento. Questi
nitrocomposti (nitrosamine) possono formarsi anche
nell’uomo in seguito alla conversione di nitrati, contenuti negli alimenti, in nitriti che interagiscono quindi
nello stomaco con amine secondarie o terziarie formando nitrosamina ad attività cancerogena. In Giappone il
consumo di pesce salato richiede per la conservazione
discrete quantità di nitrati (come anche tutti i cibi affumicati); in Cile esistono abbondanti depositi di nitrati
la cui concentrazione può essere elevata negli alimenti
e nell’acqua. Si ritiene che circa il 66-75% del rischio
associato al cancro gastrico potrebbe essere ridotto con
un maggiore consumo di frutta e vegetali nella dieta e
con una minore assunzione di cibi salati. La possibilità
di refrigerare, che consente il consumo di frutta e verdura per tutto l’anno, e la riduzione dell’uso del sale e
dell’affumicamento come conservanti hanno contribuito
alla riduzione del rischio di sviluppare i tumori dello
stomaco. Anche l’assunzione di vitamina C e ␤-carotene
potrebbe avere un ruolo protettivo. Un elevato indice
di massa corporea e un elevato consumo calorico sono
associati a una maggiore frequenza di adenocarcinomi
del cardias. Il reflusso gastroesofageo raddoppia il rischio
di sviluppare tumori del cardias e il fumo di sigaretta lo
aumenta di 2,4 volte. Viceversa, l’uso di acido acetilsalicilico e di farmaci antinfiammatori non steroidei riduce il
rischio, suggerendo un ruolo eziologico di fattori infiammatori e infettivi. Batteri anaerobi, che spesso colonizzano
lo stomaco già affetto da gastrite atrofica e metaplasia
intestinale, sono in grado di trasformare nitrati e nitriti
in nitrosamine. Studi epidemiologici hanno chiaramente
dimostrato l’esistenza di un’associazione tra infezione da
Helicobacter pylori (Hp) e carcinoma gastrico (il rischio
è più alto di 3-6 volte). Tale associazione sembra essere
ristretta al tumore di tipo intestinale a localizzazione distale e non sembra essere correlata allo sviluppo di ulcera
peptica che di frequente si riscontra in questi soggetti. Il
meccanismo preciso dell’infezione da Hp nella carcinogenesi gastrica non è chiaro, per quanto si ritenga che sia
in relazione all’insorgenza di gastrite cronica atrofica indotta da tale microrganismo. D’altra parte, considerando
che l’Hp è presente in oltre il 50% delle persone in alcune
parti del mondo e che il carcinoma gastrico si sviluppa
soltanto nel 5% dei portatori, si suppone che l’insorgenza di una neoplasia conclamata richieda l’intervento di
altri fattori, genetici o di altra natura, come il fumo di
tabacco, l’età, il sesso e la dieta. Anche la virulenza del
tipo di Hp potrebbe avere un ruolo. Tra l’altro l’effetto
della prevenzione o del trattamento dell’infezione da
Hp sul rischio di sviluppo di carcinoma dello stomaco
non è conosciuto, a differenza di quanto avviene per il
linfoma gastrico Hp-correlato.
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Parte 7 - ONCOLOGIA MEDICA
Un ruolo eziologico è sicuramente rivestito dai fattori
genetici. Il cancro dello stomaco è infatti particolarmente
frequente in alcune famiglie (storicamente rilevante il
caso della famiglia Bonaparte: Napoleone, suo padre Carlo
e suo nonno Giuseppe morirono tutti a causa di questa
malattia così come alcuni fratelli e sorelle). I pazienti
con carcinoma del colon-retto non poliposico ereditario
(sindrome di Linch di tipo II), una rara sindrome autosomica dominante, presentano un elevato rischio di cancro
dello stomaco.
L’incidenza della malattia nei familiari dei soggetti che ne
sono affetti è più alta di 2-3 volte rispetto alla popolazione
generale. Nell’ambito di una stessa nazione, inoltre, sono
spesso particolari gruppi etnici a essere più frequentemente colpiti di altri (neri americani, popolazione di origine
celtica).
Altri fenomeni sembrano ulteriormente avvalorare l’importanza dei fattori genetici; per esempio, l’incidenza della malattia tra i soggetti di gruppo sanguigno A è maggiore
del 10-20% che nella restante popolazione, mentre tra i
portatori di questa neoplasia non si trovano praticamente
individui “Lewis-negativi”, che nella popolazione generale rappresentano circa il 7%.
Sono state identificate anche alcune lesioni precancerose.
L’osservazione protratta (oltre 10 anni) di pazienti con
gastrite cronica atrofica ha dimostrato che, nell’8-10% dei
casi, si sviluppa un carcinoma gastrico. La gastrite atrofica è caratterizzata dalla scomparsa della componente
ghiandolare e dalla presenza, in oltre il 40% dei casi, di
metaplasia intestinale e di fenomeni rigenerativi aberranti
della mucosa, localizzati soprattutto nella regione antrale. L’importanza di questa lesione precancerosa deriva
dall’elevata incidenza nella popolazione, dato che sarebbe
presente nel 20-25% dei soggetti giovani apparentemente
sani e nel 50-60% delle persone anziane.
Il rischio di cancro gastrico è 2-3 volte maggiore nei pazienti affetti da anemia perniciosa, il 6% dei quali sviluppa
una neoplasia nel corso della vita. Anche in questo caso
la condizione predisponente consiste nella presenza di
metaplasia intestinale.
I polipi adenomatosi gastrici sono lesioni precancerose; infatti, l’1,5% circa di tutti i pazienti con disturbi gastrici è
affetto da polipi, che costituiscono il 10% di tutti i tumori
dello stomaco. Il rischio della degenerazione neoplastica
maligna è presente solo per gli adenomi, i quali si localizzano soprattutto nella regione antrale e pilorica e sono
particolarmente frequenti in corso di gastrite atrofica,
specialmente se associata ad anemia perniciosa. I polipi
possono essere peduncolati o sessili; in questi ultimi la
degenerazione neoplastica è più frequente. Il rischio è
minore nelle poliposi multiple, che sono costituite quasi
sempre da polipi iperplastici. Infine, la probabilità di una
degenerazione maligna si innalza con l’aumento delle
dimensioni del polipo (in particolare se il diametro supera
i 2 cm).
La frequenza della degenerazione neoplastica dell’ulcera
gastrica è assai variabile nelle differenti casistiche (in media 10% dei casi). Le ulcere di piccole dimensioni sembrano degenerare meno frequentemente rispetto a quelle
di dimensioni maggiori. Le ulcere situate nelle regioni
prepilorica e cardiale degenerano più frequentemente
rispetto a quelle localizzate altrove.
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Gli studi più recenti suggeriscono che la degenerazione
maligna di un’ulcera benigna sia un evento estremamente
raro e che quasi sempre si tratta in realtà di neoplasie gastriche in stadio molto precoce, con aspetto ulcerato.
È stato anche osservato che il rischio del carcinoma gastrico aumenta nel tempo (10-20 anni) dopo un intervento
di resezione gastrica parziale secondo Billroth II per ulcera
peptica.
Patogenesi
Come per il carcinoma del colon-retto, delezioni alleliche
dei geni MCC, APC e del gene della proteina oncosoppressiva p53 sono state descritte in una percentuale variabile
di pazienti con cancro gastrico. Per contro, a differenza
di quanto avviene per il carcinoma del colon e del pancreas, molto raramente si riscontrano mutazioni a carico
dell’oncogene K-RAS.
Sono state identificate alterazioni a carico dei prodotti di
alcuni geni coinvolti nella regolazione del ciclo cellulare,
nella cascata dei segnali attivata dai fattori di crescita,
nell’attività telomerasica, nell’angiogenesi e nella struttura della matrice extracellulare. Per esempio, la perdita di
p-27, che interviene nella regolazione del ciclo cellulare,
è stata identificata in tumori gastrici in stadio avanzato.
L’EGFR è iperespresso in circa un quarto dei tumori gastrici, mentre c-erb-B2 è amplificato nel 10% circa dei
casi. Sono state inoltre segnalate alterazioni a carico dei
fattori coinvolti nei processi di angiogenesi come il VEGF
(Vascular Endothelial Growth Factor).
In ogni caso, sono necessari nuovi studi per poter meglio
definire il significato di tali caratteristiche molecolari
nell’eziopatogenesi di questa malattia.
Anatomia patologica
L’adenocarcinoma rappresenta più del 90% dei tumori
dello stomaco. Più rari sono il carcinoma squamocellulare,
l’adenoacantoma, i tumori carcinoidi, i leiomiosarcomi e
i linfomi non Hodgkin.
In rapporto agli aspetti macroscopici, sono stati proposti
diversi sistemi classificativi. Tra i principali, la classificazione di Borrmann divide i carcinomi gastrici in cinque
tipi sulla base dell’aspetto macroscopico: il tipo I sono i
tumori polipoidi; il tipo II le lesioni ulcerative circondate da
bordi sopraelevati; il tipo III comprende lesioni ulcerative
infiltranti la parete gastrica; il tipo IV sono i tumori diffusamente infiltranti e il tipo V quelli non classificabili. La
forma polipoide è una proliferazione vegetante con aspetto
“a cavolfiore” all’interno dello stomaco. Può raggiungere
anche dimensioni ragguardevoli. La forma ulcerativa si
distingue dalle ulcere benigne per quanto riguarda la localizzazione, assai frequente sulla grande curvatura, e le
dimensioni, potendo superare i 4 cm di diametro. La forma
infiltrativa è caratterizzata da uno sviluppo intramurale che
può limitarsi allo spessore della mucosa o infiltrare la parete
a tutto spessore fino alla completa rigidità di quest’ultima.
In questo gruppo va compresa anche la cosiddetta “linite
plastica”, in cui si riscontra un notevole incremento di
tessuto connettivo con deformazione di tutta la cavità
gastrica o di parte di essa (stomaco “a borsa di cuoio” nel
primo caso, stomaco “a clessidra” nel secondo).
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CAPITOLO 45 - TUMORI MALIGNI DELL’APPARATO DIGERENTE, DEL FEGATO, DELLE VIE BILIARI E DEL PANCREAS
La classificazione più utilizzata è quella di Lauren, che distingue due forme principali, quella intestinale e quella
diffusa, sulla base dell’istologia, cui corrispondono diverse
eziologia ed epidemiologia. La variante intestinale, più
frequente, colpisce più spesso soggetti di età avanzata, si
associa alla gastrite e alla metaplasia intestinale, è costituita
da cellule ben differenziate che tendono a formare elementi
ghiandolari ben distinti e a diffondere in modo circoscritto.
La variante diffusa interessa anche soggetti di giovane età,
non è associata alla metaplasia intestinale e presenta una
scarsa coesione cellulare, con una spiccata tendenza a infiltrare in modo diffuso la sottomucosa e a metastatizzare.
Il termine carcinoma in situ viene utilizzato per le forme in
cui la proliferazione neoplastica è limitata alla sola tonaca
mucosa e si ritiene che questo sia uno stadio costante
nello sviluppo di ogni neoplasia.
Negli ultimi anni è stata definita una particolare entità
anatomoclinica, denominata early gastric cancer, che ha
trovato la sua caratterizzazione soprattutto in Giappone,
dove gli screening di massa hanno permesso l’identificazione di carcinomi limitati esclusivamente alla mucosa e alla
sottomucosa. Con il progredire delle tecniche diagnostiche,
l’incidenza del cancro precoce è aumentata dal 5 al 30%.
Tutte le zone dello stomaco possono essere colpite; in ordine decrescente: regioni pilorica e antrale (50% dei casi),
piccola curvatura (20%), regione cardiale (9%), grande
curvatura (7%).
Fisiopatologia
I carcinomi dello stomaco tendono, nel 60-90% dei casi, a
penetrare in profondità nella parete gastrica fino a raggiungere e superare la sierosa e infiltrare per contiguità le strutture circostanti. Anatomicamente, lo stomaco è localizzato
tra il diaframma e il lobo epatico sinistro, cranialmente a
colon trasverso, mesocolon e grande omento, ventralmente e medialmente a milza, pancreas, rene e surrene sinistro
e flessura splenica del colon. Ne consegue che i tumori
prossimali possono infiltrare il diaframma, la milza o il lobo epatico sinistro; quelli a origine dalla grande curvatura
tendono a invadere l’ilo splenico e la coda pancreatica e
quelli più distali interessano il colon trasverso.
Inoltre, il carcinoma gastrico tende almeno nel 50% dei
casi a diffondere per via linfatica a esofago e duodeno
lungo l’estesa rete linfatica intramurale o sottosierosa, o,
attraverso i dotti linfatici intratoracici, alla regione sovraclaveare sinistra (linfonodo di Virchow – segno di Troisier)
e ascellare sinistra (linfonodo di Irish), oppure, attraverso
i linfatici del legamento epatoduodenale e falciforme, ai
tessuti sottocutanei periombelicali (nodi di sorella Mary
Joseph). Infine, sono frequenti e precoci la diffusione per
via ematogena, che interessa primariamente il fegato dato
che il sangue refluo venoso transita attraverso il sistema
portale, e la colonizzazione delle sierose (nella donna,
localizzazione a entrambe le ovaie attraverso il peritoneo,
tumore di Krukenberg).
Manifestazioni cliniche
Il carcinoma gastrico può decorrere per lungo tempo
asintomatico o con sintomatologia lieve e aspecifica, così da ostacolare una diagnosi tempestiva; si stima che
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trascorrano in media 6-8 mesi tra la comparsa dei primi
sintomi e la prima osservazione da parte del medico. Il
ritardo diagnostico corrisponde al tempo che intercorre
tra l’esordio clinico e l’inoperabilità della neoplasia. Nella
maggior parte dei casi i primi sintomi sono rappresentati
da generici disturbi digestivi: vago senso di fastidio e di
peso epigastrico, rigurgiti, eruttazioni, sazietà precoce, digestione prolungata. In circa il 25% dei casi i sintomi iniziali possono simulare un’ulcera gastrica con tipico dolore
ritmato con i pasti. Talora, in assenza di disturbi a carico
dell’apparato digerente, compaiono sintomi di carattere
generale: astenia, febbre, perdita di peso, anoressia generica o specifica per un determinato alimento (soprattutto
la carne, sarcofobia), perdita di desiderio del fumo.
È meno frequente, ma non eccezionale, che l’esordio sia
rappresentato da un episodio emorragico con ematemesi
e/o melena; raramente nelle forme ulcerative l’inizio può
essere contrassegnato da un episodio di perforazione gastrica. Talvolta, precedendo anche di molti mesi qualsiasi
altro sintomo, l’esordio è rappresentato da anemia, più
spesso di tipo microcitico (sideropenica).
Nei tumori localizzati in prossimità dell’orifizio cardiale,
prevalgono disfagia e dolore retrosternale di tipo oppressivo, mentre in quelli prepilorici il quadro clinico può
esordire con sintomi di ostruzione pilorica.
Talvolta, infine, la neoplasia può essere rivelata solo attraverso il riscontro delle metastasi.
In fase più avanzata sono frequenti dispepsia, anoressia,
nausea, perdita di peso, astenia, anemizzazione, comparsa
di edemi discrasici soprattutto ai malleoli, febbre, diarrea,
ittero, dolori ai quadranti addominali inferiori, stipsi,
ascite, occlusione intestinale, dolori ossei. In circa il 40%
dei pazienti è possibile riscontrare una massa epigastrica,
epatomegalia, tumefazioni linfonodali e ovariche.
Inoltre possono essere osservate, per quanto in modo
non frequente, varie sindromi paraneoplastiche tra le
quali si ricordano: anemia emolitica microangiopatica,
glomerulopatia membranosa, rapida comparsa di cheratosi seborroica (segno di Leser-Trelat), achantosis nigricans,
coagulopatia intravascolare disseminata con possibile
trombosi arteriosa e/o venosa (sindrome di Trousseau) e,
assai di rado, dermatomiosite.
Diagnosi
Tra gli esami di laboratorio, l’antigene carcinoembriogenico
(CEA, Carcino Embryonic Antigen) è meno di frequente
elevato che nelle neoplasie del colon-retto. La probabilità
di riscontrare livelli patologici è in funzione dello stadio
della malattia, essendo del 40-50% nel carcinoma gastrico
metastatico e del 10-20% nei soggetti con malattia resecabile.
Nonostante la bassa specificità, il CEA può essere utile, quando inizialmente elevato, per il monitoraggio della malattia,
in quanto le sue variazioni correlano con la risposta al trattamento o con la progressione/recidiva di malattia. Anche
l’␣-fetoproteina e il CA 19-9 sono elevati in circa il 30% dei
pazienti con tumore dello stomaco, ma, come il CEA, il loro
incremento si registra soprattutto nei casi di malattia estesa
e, perciò, anch’essi non sono utili per la diagnosi precoce.
L’anemia sideropenica per stillicidio occulto e per alterato
assorbimento del ferro è presente in circa il 50% dei pazienti; l’anemia può essere macrocitica in caso di associazione
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Parte 7 - ONCOLOGIA MEDICA
con anemia perniciosa e gastrite atrofica. La ricerca del
sangue occulto nelle feci è positiva in circa il 50% dei casi;
la presenza di un significativo aumento di fosfatasi alcalina
o ␥-GT può essere indice di metastasi epatiche o ossee; i
livelli di albumina sierica possono essere ridotti a causa
della protidodispersione da parte della mucosa gastrica
coinvolta dalla neoplasia.
La gastroscopia consente la visualizzazione diretta della mucosa gastrica e il prelievo bioptico per la diagnosi
istologica con una sensibilità del 96-98% ed è, pertanto,
la metodica diagnostica fondamentale delle neoplasie
gastriche.
L’ecoendoscopia, consentendo la valutazione degli strati
profondi della parete gastrica, può rivelarsi utile per identificare precocemente neoplasie diffuse che potrebbero altrimenti sfuggire all’analisi condotta con altre metodiche.
L’accuratezza è del 90% per la definizione dello stadio T e
del 75% per la valutazione dello stadio N (si veda oltre).
La TC addomino-pelvica (o total-body) contribuisce a definire l’estensione del tumore primitivo e a identificare
l’eventuale presenza di metastasi ai linfonodi loco-regionali o ad altri organi. L’impiego delle TC spirali multidetettore, multifase, ha consentito di migliorare l’accuratezza dell’indagine. In ogni caso, la limitata sensibilità della
TC nell’individuare le metastasi peritoneali rappresenta
la base razionale per l’uso della laporoscopia di staging nei
pazienti candidati alla gastrectomia, allo scopo di evitare
un inutile intervento chirurgico maggiore.
Sono disponibili relativamente pochi dati sul ruolo della
FDG-PET nella stadiazione del cancro gastrico. Alcuni
aspetti della biologia tumorale potrebbero limitarne il ruolo in questa neoplasia. Il glucose transporter-1, importante
per il trasporto di FDG all’interno delle cellule tumorali, è
spesso assente nei tipi più frequenti di carcinoma gastrico,
contribuendo a un elevato tasso di esami falsi negativi.
Nella tabella 45.2 sono riportati la classificazione e lo
stadio TNM per il tumore gastrico.
Tabella 45.2 Classificazione TNM per il tumore gastrico
T – Tumore primitivo
Tumore in situ
Tis
Invasione neoplastica della lamina propria o della
T1
sottomucosa
Invasione neoplastica della muscolaris propria
T2a
Invasione neoplastica della sottosierosa
T2b
Penetrazione neoplastica attraverso la sottosierosa
T3
(peritoneo viscerale)
Invasione neoplastica delle strutture adiacenti
T4
N – Linfonodi regionali
Nessuna diffusione neoplastica ai linfonodi
N0
Metastasi a 1-6 linfonodi regionali
N1
Metastasi a 7-15 linfonodi regionali
N2
Metastasi a più di 15 linfonodi regionali
N3
M – Metastasi a distanza
Nessuna metastasi a distanza
M0
Presenza di metastasi a distanza
M1
Stadio in base al sistema TNM
T1N0M0
IA
T1N1M0
IB
T2a/bN0M0
T1N2M0
II
T2a/bN1M0
T3N0M0
T2a/bN2M0
IIIA
T3N1M0
T4N0M0
T3N2M0
IIIB
T4N1-3M0
IV
T1-3N3M0
Ogni T ogni NM1
Terapia
La gravità della prognosi è strettamente correlata
alla notevole difficoltà di una diagnosi precoce. Infatti, lo stadio della neoplasia rappresenta il fattore
prognostico più importante e la sopravvivenza a 5
anni è superiore al 90% per lo stadio IA, poco più
dell’80% per il IB, 55% per il II, 35% per il IIIA e
10% per il IIB e il IV. Le probabilità di guarigione
restano in sostanza affidate a una diagnosi precoce
e alla possibilità di attuare un intervento chirurgico
radicale. Il carcinoma gastrico di tipo intestinale ha
una prognosi più favorevole, dopo resezione chirurgica, rispetto al carcinoma di tipo diffuso (sopravvivenza a 5 anni rispettivamente del 25% e 15%). La
prognosi è peggiore nelle forme poco differenziate e
in quelle in cui sono presenti alterazioni di carattere genetico. La sopravvivenza a 5 anni dall’exeresi
chirurgica cambia anche in funzione della sede della
neoplasia ed è del 20-25% per i pazienti con tumore
distale, del 10% per quelli con tumore prossimale e
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meno del 5% per quelli in cui la malattia interessa
tutto lo stomaco. La peggior prognosi dei pazienti
con neoplasia a localizzazione prossimale può essere
espressione di una maggiore aggressività clinica, o di
caratteristiche istologiche più indifferenziate o anche
di maggiori difficoltà tecniche per un’exeresi radicale
in cui, cioè, sia possibile ottenere margini liberi da
malattia sufficientemente ampi.
Stadio I
In casi selezionati di early gastric cancer, senza infiltrazione oltre alla mucosa, non ulcerati e con diametro
inferiore a 3 cm, l’intervento può essere limitato a
una resezione mucosa per via endoscopica o a una
gastrotomia con escissione locale della neoplasia.
In tutti gli altri casi, l’intervento chirurgico di scelta
è la gastrectomia radicale subtotale, che prevede la
rimozione di circa l’80% dello stomaco (con margini di resezione ad almeno 5 cm dai limiti visibili
della neoplasia), dell’omento, della prima porzione
del duodeno e del tessuto linfatico contenuto nel
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CAPITOLO 45 - TUMORI MALIGNI DELL’APPARATO DIGERENTE, DEL FEGATO, DELLE VIE BILIARI E DEL PANCREAS
legamento epatoduodenale, nel legamento gastroepatico e nel legamento gastrocolico. Per le neoplasie
più prossimali, gli interventi di scelta sono invece la
gastrectomia totale o la resezione gastrica prossimale, che però è gravata da una maggiore incidenza di
disturbi postoperatori (anoressia, dumping, bruciore
retrosternale). La gastrectomia rappresenta un intervento chirurgico tecnicamente complesso, le cui
morbidità e mortalità sono strettamente correlate
all’esperienza del chirurgo e del centro. Non sono
necessarie terapie complementari.
Stadi II-III
Anche per gli stadi II e III la chirurgia, secondo le modalità precedentemente descritte, rappresenta la modalità
terapeutica principale. L’estensione della resezione linfonodale è controversa. Nella resezione D1 è necessaria
la rimozione dei linfonodi lungo la piccola e grande
curvatura; l’intervento è considerato adeguato se nel
campione sono rinvenuti almeno 15 linfonodi. Nella
resezione D2 è effettuata la rimozione integrale della
borsa omentale attraverso la dissezione dello strato
frontale del mesocolon traverso, con isolamento completo dei peduncoli vascolari dello stomaco. Gli studi
randomizzati effettuati in Europa non sono riusciti a
dimostrare alcun beneficio di sopravvivenza per la resezione D2 rispetto alla D1. Tuttavia, le elevate morbidità
e mortalità osservate nel braccio sperimentale di questi
studi hanno sollevato qualche perplessità sui risultati
e il potenziale ruolo terapeutico della resezione più
estesa non è completamente chiarito. Sono allo studio
altre tecniche, come quella del linfonodo sentinella,
che possano consentire di pianificare l’estensione della
resezione linfonodale su base individuale.
L’intervento chirurgico, per quanto radicale, si traduce in una probabilità di guarigione definitiva
piuttosto bassa, con un elevato rischio di recidiva
sia locale sia a distanza. Da ciò deriva il tentativo di
migliorare i risultati mediante l’utilizzo di terapie
complementari. I trattamenti postoperatori consentono di limitare la tossicità associata ai soli pazienti
con più elevato rischio di recidiva, selezionati sulla
base della stadiazione patologica. Numerosi studi randomizzati di fase III e diverse meta-analisi non hanno
finora fornito dati conclusivi per raccomandare l’uso
routinario della chemioterapia adiuvante al di fuori di
studi clinici. La chemioterapia primaria o neoadiuvante
aumenta le probabilità di una resezione R0 e offre il
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vantaggio di trattare pazienti in migliori condizioni
generali rispetto alla chemioterapia adiuvante e di
curare l’eventuale micromalattia metastatica presente. Lo studio MAGIC, condotto nel Regno Unito, ha
dimostrato un vantaggio in termini di sopravvivenza
libera da progressione e di sopravvivenza globale per i
pazienti trattati con tre cicli di chemioterapia primaria secondo lo schema ECF (epirubicina, cisplatino,
5-fluorouracile), chirurgia e altri tre cicli di chemioterapia adiuvante nei confronti dei pazienti trattati con
sola chirurgia. Questa strategia rappresenta pertanto
una valida opzione per il trattamento del carcinoma
gastrico agli stadi II-III.
Dato l’elevato rischio di disseminazione peritoneale,
la chemioterapia e la chemioipertermia intraperitoneali sono anche oggetto di studio, ma non esistono
a oggi dati sufficienti per raccomandarne l’uso nella
pratica clinica.
Stadio IV
La finalità del trattamento dei pazienti con carcinoma gastrico allo stadio IV è puramente palliativa.
È stato dimostrato che la chemioterapia migliora
la sopravvivenza e la qualità di vita rispetto alla
miglior terapia di supporto. Numerosi chemioterapici (fluoropirimidine, cisplatino e analoghi, antracicline, taxani, irinotecan ecc.), quando usati
da soli, sono in grado di ottenere risposte obiettive
nel 10-20% dei pazienti trattati. I trattamenti di
combinazione ottengono tassi di risposta superiori
al 40%. Le sopravvivenze mediane degli studi condotti si attestano tra i 9 e gli 11 mesi, senza nessuna
evidente superiorità di uno schema sull’altro. In
generale, le opzioni terapeutiche disponibili sono numerose e gli schemi a tre farmaci ottengono
i risultati migliori. La scelta del trattamento, in
considerazione della finalità palliativa, deve però
tenere conto dell’età del paziente, delle condizioni
generali, delle comorbidità, del rischio di tossicità
e del costo. Come in altre malattie, sono in corso
studi sulla targeted therapy, diretta contro bersagli
molecolari critici per la crescita, la progressione e
la metastatizzazione del carcinoma gastrico. I risultati preliminari con gli antiangiogenetici e con
gli anticorpi anti-EGFR sono promettenti, ma, per
poterne meglio apprezzare il rapporto rischi/benefici, è necessario ovviamente attendere l’esecuzione
di studi di fase III.
Tumori dell’intestino tenue
I tumori dell’intestino tenue presentano aspetti diagnostici e terapeutici problematici, perché costituiscono un
gruppo di neoplasie piuttosto eterogeneo e si presentano
con una sintomatologia vaga e aspecifica rendendo difficoltosa una diagnosi tempestiva. Infatti, è raro che ne
venga riconosciuta la presenza prima che si manifestino
delle complicanze rappresentate solitamente da emorra-
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gie, stenosi e perforazione. Nonostante il tenue rappresenti circa il 75% dell’intera lunghezza dell’intestino, i
tumori che insorgono in questa sede sono estremamente
rari (circa l’1% delle neoplasie dell’apparato digerente e lo
0,3% di tutte le forme neoplastiche). Sono state formulate
numerose teorie nel tentativo di dare una spiegazione a
questo fenomeno. In sostanza, la riduzione dell’esposizio-
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Parte 7 - ONCOLOGIA MEDICA
ne della mucosa a eventuali carcinogeni sarebbe favorita
da: 1) transito più veloce del contenuto prevalentemente
liquido del tenue; 2) pH alcalino o neutro; 3) popolazione
batterica meno anaerobica, e quindi con minor tendenza
a degradare i sali intestinali che si suppone abbiano un
ruolo nella carcinogenesi dell’intestino crasso; 4) presenza
di numerosi recettori per i folati che avrebbero un valore
protettivo contro i carcinogeni; 5) presenza di elevati livelli di benzopirene idrolasi che sarebbe in grado di distruggere il benzopirene; 6) presenza di immunoglobulina
A che svolgerebbe un ruolo di immunoprotezione; 7)
minore presenza di cellule staminali tessuto-specifiche.
I tumori dell’intestino tenue insorgono per la maggior parte in età avanzata, soprattutto nel sesto-settimo decennio
di vita, e si localizzano più frequentemente nei segmenti terminali dell’ileo. Si riscontrano prevalentemente gli
adenocarcinomi, ma sono relativamente frequenti anche i
linfomi, i tumori carcinoidi e i tumori stromali gastrointestinali (GIST, GastroIntestinal Stromal Tumor). Dei tumori
carcinoidi dell’intestino tenue si è già detto ampiamente
nella parte dedicata agli apudomi (si veda il Capitolo 26), ai
quali, pertanto, si rimanda per questo argomento.
Gli adenocarcinomi rappresentano il 35-40% dei tumori
dell’intestino tenue, sono prevalentemente localizzati
al duodeno (50%), al digiuno (circa 20%) e all’ileo (circa
15%). La sopravvivenza a 5 anni è del 30% circa, con
migliori risultati nelle lesioni più distali (duodeno 28%;
ileo 38%) e nei pazienti con età inferiore ai 75 anni (34%
versus 22%). Il trattamento è prevalentemente chirurgico, mentre le informazioni disponibili sull’efficacia della
radioterapia e della chemioterapia sono limitate.
I GIST sono un’entità nosologica di recente identificazione; fino a pochi anni fa questi tumori venivano identificati
come leiomiomi o leiomiosarcomi. I GIST presentano in
oltre il 90% dei casi una mutazione del proto-oncogene
KIT, che determina l’attivazione incontrollata della proteina KIT, recettore transmembrana delle tirosin-chinasi
implicato nei processi di proliferazione e sopravvivenza
cellulare. L’antigene CD117 è un marcatore della presenza
di KIT ed è pressoché universalmente presente nei GIST.
Nel 5% dei GIST si manifesta un’attivazione mutazionale
di PDGFR-␣, una chinasi strutturalmente correlata a KIT. I
GIST rappresentano l’1-3% dei tumori dell’intestino e sono
più frequenti nel digiuno, seguito dall’ileo e dal duodeno.
I GIST dell’intestino tenue tendono a essere più aggressivi
rispetto a quelli dello stomaco e del colon. Le metastasi
sono di riscontro relativamente raro (circa il 30%) e sono
più frequenti nei tumori con diametro superiore ai 5 cm. Il
trattamento si basa principalmente sulla rimozione chirurgica radicale che presenta difficoltà tecniche non trascurabili, dato che questi tumori tendono spesso a rompersi e
a disseminare nella cavità addominale. Il coinvolgimento
linfonodale è raro, per cui la resezione linfonodale estesa
non è necessaria. I GIST tendono, nel 90% dei casi, a sviluppare nel corso degli anni recidive locali o a distanza. Il
50% dei pazienti presenta metastasi peritoneali e il 65%
metastasi peritoneali ed epatiche. La sopravvivenza a 5
anni per i pazienti sottoposti a chirurgia radicale supera il
50% e la sopravvivenza mediana è circa il triplo di quella
dei pazienti sottoposti a resezione incompleta (66 mesi
versus 22 mesi). Le prospettive terapeutiche sono state
migliorate dalla disponibilità dell’STI571 (imatinib mesilato), un inibitore di alcune famiglie di tirosin-chinasi, tra
cui c-kit e PDGFR, in grado di ottenere risposte obiettive
nella maggioranza dei pazienti con malattia metastatica
trattati e prolungamento della sopravvivenza.
Tumori dell’intestino crasso
Definizione
I tumori dell’intestino crasso sono le neoplasie che si localizzano nel tratto dell’apparato digerente compreso tra la
valvola ileo-ciecale e l’ano. L’intestino crasso è suddiviso
in cinque segmenti in base al supporto vascolare e alla
localizzazione extraperitoneale o retroperitoneale: cieco
e colon ascendente, colon traverso, colon discendente,
sigma, retto.
Epidemiologia
Il carcinoma del colon-retto è il terzo tumore più frequente
nel sesso maschile e il secondo nel sesso femminile. Negli
anni Novanta se ne contavano quasi 800.000 nuovi casi
all’anno nel mondo e nel 2000 ne sono stati stimati più di
900.000. Il carcinoma dell’intestino crasso rappresenta il
10-12% di tutte le neoplasie dell’apparato gastroenterico
ed è, quindi, il più frequente dopo il cancro dello stomaco.
L’incidenza del carcinoma sporadico del colon-retto aumenta considerevolmente dopo i 45-50 anni. Sembra esistere una leggera prevalenza per il sesso maschile (1,9:1,5).
Questa patologia presenta un’elevata variabilità geografica
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e i tassi di incidenza oscillano dai 70 casi/100.000 abitanti/
anno dell’Alaska ai 2 casi/100.000 abitanti/anno di Gambia e Algeria. In generale, l’incidenza è più elevata nei Paesi
industrializzati occidentali, mentre è molto bassa nei paesi
africani, in Giappone e in certe aree del Sudamerica. In
Italia l’incidenza è di circa 30 casi/100.000 abitanti/anno.
Si pone, quindi, dopo il cancro del polmone nell’uomo e
dopo quello della mammella e dell’utero per la donna. La
sede preferenziale è a livello dell’ultimo tratto dell’intestino
crasso e l’incidenza percentuale diminuisce passando dalla
porzione rettosigmoidea, dove raggiunge il 70-80% rispetto
a tutte le altre localizzazioni intestinali, procedendo in
senso cefalico. Negli ultimi anni si è tuttavia osservato
un aumento dell’incidenza dei tumori del colon destro in
Nordamerica, Europa e in alcuni Paesi asiatici.
Eziologia e fattori di rischio
L’eziologia dei carcinomi colo-rettali è complessa e implica
l’intervento di fattori ambientali e genetici che determinano nel corso degli anni la trasformazione della mucosa
normale in polipi adenomatosi preneoplastici e, in seguito,
in forme tumorali maligne.
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CAPITOLO 45 - TUMORI MALIGNI DELL’APPARATO DIGERENTE, DEL FEGATO, DELLE VIE BILIARI E DEL PANCREAS
La responsabilità dei fattori ambientali è anche dimostrata
dal fatto che gli emigranti da aree di bassa incidenza ad
aree di elevata incidenza assumono il livello di rischio
dell’area di adozione entro una generazione. Tra i fattori
ambientali, la dieta ricopre un ruolo fondamentale. Esiste
infatti una correlazione tra obesità, dieta ricca di grassi o
di carni rosse e l’insorgenza di un cancro del colon-retto.
Una dieta ricca di fibre, frutta e verdura ridurrebbe il
rischio di sviluppare un cancro colo-rettale, probabilmente per un effetto di diluizione dei carcinogeni o di
riduzione del tempo di transito intestinale degli stessi,
anche se alcuni studi recenti sembrerebbero smentire
questa ipotesi. L’assunzione di alcolici sarebbe associato
a un rischio lievemente aumentato, probabilmente per
un’interferenza con il metabolismo dei folati.
Lo stile di vita sedentario sembrerebbe associato al rischio
di neoplasie del colon, ma non del retto, secondo meccanismi non identificati.
L’assunzione di acido acetilsalicilico e farmaci antinfiammatori non steroidei è associato in modo inversamente proporzionale all’incidenza di neoplasie colo-rettali (rischio
relativo 0,49).
La familiarità ha un ruolo importante, dato che il rischio
risulta aumentato in funzione dell’anamnesi familiare,
essendo, per esempio, raddoppiato se un parente di primo
grado ha sviluppato una neoplasia del colon-retto dopo
i 60 anni di età.
Sono state identificate delle lesioni precancerose e i polipi adenomatosi e, soprattutto, quelli villosi, solitari o
multipli, mostrano una spiccata potenzialità maligna.
Le probabilità di trasformazione maligna di un polipo
aumentano in rapporto alle dimensioni, superando il 30%
se il diametro è maggiore di 2 cm.
Alcune malattie infiammatorie dell’intestino crasso, per
esempio la retto-colite ulcerosa, sono associate a un rischio circa 10 volte superiore di neoplasie del colon-retto
rispetto alla popolazione generale.
Si stima che il 20-30% dei tumori del colon-retto insorga
per responsabilità di fattori genetici. L’incidenza di questi tumori, per esempio, è elevata in alcune forme di poliposi.
La poliposi familiare adenomatosa (FAP, Familial Adenomatous Polyposis) interessa tutto l’intestino crasso ed è caratterizzata dalla comparsa entro i 30 anni d’età di oltre 100
formazioni polipoidi classificabili istologicamente come
polipi adenomatosi e, più raramente, come adenomi villosi.
La malattia è trasmessa con carattere autosomico dominante e la trasformazione maligna avviene nel 100% dei casi se
il colon non viene rimosso chirurgicamente. Possono essere
presenti anche osteomi mandibolari, denti soprannumerari,
cisti epidermoidali, adenomi surrenalici, tumori desmoidi,
tumori tiroidei, adenocarcinomi ampollari, glioblastomi e
medulloblastomi (sindrome di Turcot).
La poliposi ereditaria (sindrome di Gardner), anch’essa
trasmessa con carattere autosomico dominante, è caratterizzata da polipi multipli diffusi del colon e del tenue
(in genere di tipo adenomatoso, molto più di rado di tipo
villoso) in numero minore rispetto alla FAP e dalla presenza di tumori ossei, generalmente benigni, di mandibola,
sfenoide e mascella, e di tumori dei tessuti molli (lipomi,
cisti sebacee, fibromi, leiomiomi ecc.). L’insorgenza è di
regola più tardiva rispetto alla FAP. Anche in questo caso,
la tendenza alla cancerizzazione è molto elevata.
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987
Il tumore del colon-retto ereditario non-poliposico (HNPCC,
Hereditary Nonpolyposis Colorectal Cancer) è una sindrome trasmessa con carattere autosomico dominante
con una penetranza di circa l’80%, caratterizzata dalla
presenza di meno di 100 polipi, più frequentemente nel
colon destro, che tendono a trasformarsi in senso maligno
attorno ai 43 anni di età (HNPCC I). L’HNPCC II presenta
anche tumori di stomaco, piccolo intestino, dotti biliari,
pelvi renale, uretere, vescica, utero, ovaio, cute e pancreas.
Il tumore del colon-retto è anche associato alla sindrome
di Peutz-Jeghers e alla poliposi giovanile.
Patogenesi
La natura della dieta determina la composizione quantitativa e qualitativa delle feci in termini di flora batterica e
metaboliti. La carenza di fibre grezze produce feci disidratate che tendono a ristagnare, favorendo in particolare la
proliferazione di quei batteri che degradano i sali biliari a
metaboliti potenzialmente carcinogeni. Il rallentamento
del contenuto intestinale conseguente alla disidratazione
determina un più prolungato contatto di questi metaboliti
con le pareti del colon. Una dieta povera di scorie provoca inoltre un aumento del tono e delle contrazioni segmentarie del colon, che è responsabile di un incremento
della pressione endoluminale e della possibile formazione
di diverticoli. Una dieta ricca di grassi agirebbe invece
aumentando l’apporto di particolari substrati nel lume
intestinale, quali i sali biliari e gli steroli neutri, e di altre
sostanze di origine alimentare, come le nitrosamine derivanti dai nitrati aggiunti agli alimenti come conservanti,
potenziali agenti carcinogenetici.
Le mutazioni presenti nelle forme ereditarie hanno permesso di identificare il ruolo chiave di alcuni geni implicati nell’oncogenesi dei tumori sporadici del colon-retto.
In particolare è stato identificato il gene APC (Adenomatosis Polyposis Coli) responsabile della FAP, in quanto la
sua mutazione predispone a una precoce insorgenza della
poliposi e, a seguito dell’inattivazione acquisita nel corso
della vita dell’altra copia del gene, del cancro del colonretto. Circa l’80% dei polipi adenomatosi presenta una
mutazione del gene APC, che ha un ruolo chiave nella
regolazione dell’omeostasi intestinale. Infatti, le disfunzioni della proteina codificata da questo gene sono responsabili dell’instabilità cromosomica. Successivamente,
nel 40-50% dei casi, compaiono mutazioni dell’oncogene
Ras. La trasformazione maligna è associata a mutazioni
dei geni oncosoppressori p53 e SMAD4 in circa l’80% dei
casi. Nel 70-80% dei polipi adenomatosi e dei tumori del
colon-retto, è stata osservata un’iperespressione di cicloossigenasi-2 (COX-2), che inibisce l’apoptosi e promuove
l’angiogenesi.
Nell’HNPCC sono invece presenti mutazioni dei geni
che codificano per gli enzimi deputati alla riparazione
degli errori spontanei o provocati dall’esposizione ad
agenti esogeni che si verificano durante la replicazione
del DNA (DNA mismatch repair), responsabili di un’instabilità microsatellitare. Nel 15% dei tumori sporadici del
colon-retto sono presenti mutazioni a carico del geni che
costituiscono il bersaglio d’azione di questo sistema, tra
cui bax e i geni che codificano per il recettore per TGF-␤II
e per IGF tipo I.
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Parte 7 - ONCOLOGIA MEDICA
Anatomia patologica
I tumori del colon destro sono prevalentemente di tipo
vegetante e, dato il carattere ancora liquido del contenuto
fecale, difficilmente danno luogo a occlusione intestinale.
I tumori del colon sinistro sono invece prevalentemente
di tipo scirroso, cioè stenosanti e, dato che il materiale
fecale ha già un carattere solido, tendono a dare luogo
precocemente a manifestazioni occlusive o subocclusive.
Il dolore è da correlarsi a fenomeni spastici, a irritazione
peritoneale o a compressione da parte della tumefazione
neoplastica. La diarrea è indotta da fenomeni irritativi
della porzione a monte della neoplasia o dal disfacimento
necrotico del tessuto tumorale.
I carcinomi del colon-retto possono infiltrare la sierosa peritoneale, con frequente insorgenza di carcinosi
peritoneale disseminata, disseminarsi precocemente
attraverso il sistema linfatico, o attraverso il sistema
portale (con interessamento epatico) e cavale (nei tumori
del terzo medio e distale del retto, con interessamento
polmonare).
distensione addominale. Sono spesso presenti all’esordio
turbe del transito consistenti in diarrea, stipsi più o meno
ostinata fino a vere e proprie manifestazioni subocclusive
e ileo meccanico, o alvo alternante. Spesso è presente
mucorrea o pseudodiarrea, emissione ripetuta di piccole
quantità di feci miste a muco e talvolta a detriti neoplastici,
che di solito maschera una condizione di tipo occlusivo,
più frequente nelle forme del colon sinistro. La proctorragia
è molto comune nelle forme più conclamate, dove il sangue si presenta mescolato alle feci nelle neoplasie del colon
destro, mentre in quelle del colon sinistro, del retto e della
giunzione rettosigmoidea esso “vernicia” in genere le feci o
si verifica indipendentemente dall’emissione del materiale
fecale. Più spesso è presente uno stillicidio cronico e il sangue è dimostrabile soltanto con metodo chimico.
Il paziente è anoressico, astenico, presenta un progressivo
calo ponderale; può avere febbre ed essere anemico. In
genere, il quadro clinico ha un esordio subdolo e un andamento lentamente ingravescente; più raro è un esordio
acuto con manifestazioni di tipo subocclusivo o con vera
e propria sindrome occlusiva.
Per quanto riguarda i sintomi correlati alla sede della
neoplasia, i carcinomi del colon destro in genere si manifestano con sintomi “colitici” per il frequente sovrapporsi
di processi flogistici; le turbe dell’alvo sono rappresentate
prevalentemente da diarrea e frequenti e precoci sono i
disturbi dispeptici, l’astenia, il dimagramento e la febbre.
I carcinomi del colon sinistro presentano più spesso dolori di tipo colico, stipsi e pseudodiarrea, mentre meno
frequenti sono i disturbi dispeptici e la compromissione
delle condizioni generali. I carcinomi del retto e della
giunzione rettosigmoidea si manifestano con emorragie
rettali con emissione di sangue rosso vivo che “vernicia”
le scibale o con emissione di sangue indipendentemente
da quella del materiale fecale. Il tenesmo rettale (stimolo
doloroso alla defecazione non seguito dall’evacuazione del
contenuto intestinale) è solitamente precoce ed è dovuto
all’irritazione dell’ampolla da parte della neoplasia, la
quale provoca spesso particolari conformazioni delle scibale (feci nastriformi, feci caprine ecc.). La sintomatologia
dolorosa è in genere tardiva, così come la compromissione
delle condizioni generali del paziente. Per quanto
riquarda l’esame obiettivo, la palpazione della massa
neoplastica non è frequente e solitamente tardiva, anche
in presenza di un’importante sintomatologia intestinale.
L’obiettività addominale può evidenziare zone di
dolorabilità, specialmente alla palpazione profonda, in
corrispondenza della sede della neoplasia. Più significativo
può risultare l’esame obiettivo in presenza di complicanze
di questa malattia, quali l’occlusione intestinale, la perforazione o l’esistenza di metastasi con riscontro di epatomegalia, ittero, dispnea, adenopatie, a seconda della
sede interessata.
Manifestazioni cliniche
Diagnosi
Il carcinoma del colon-retto esordisce con sintomi comuni
a tutte le localizzazioni e sintomi caratteristici in rapporto
alla sede. Tra i primi, il dolore localizzato o diffuso a tutto
l’addome compare precocemente, è ingravescente e, se
provocato da stenosi del lume intestinale, tende ad assumere
il carattere della colica e ad accompagnarsi a borborigmi e
Il sospetto diagnostico di carcinoma dell’intestino crasso
può essere avanzato in rapporto al quadro clinico del
paziente. L’insorgenza di irregolarità dell’alvo, anche se
saltuarie, in un soggetto adulto o anziano con precedenti
normali funzioni intestinali, la comparsa di proctorragie, dolori di tipo colico, crisi subocclusive e occlusive,
L’aspetto macroscopico del carcinoma del colon può
essere:
• vegetante: proliferazione sessile che protrude nel
lume con aspetto encefaloide o “a cavolfiore”;
• polipoide: proliferazione peduncolata, in genere
derivata dalla trasformazione maligna di un polipo
adenomatoso o villoso;
• colloide: caratterizzato dalla ricchezza di cellule
muco-secernenti;
• scirroso: caratterizzato da abbondante stroma
connettivale con scarse formazioni ghiandolari, che
determina un restringimento circolare del lume che
assume un aspetto tipico di “anello portatovagliolo”.
Dal punto di vista microscopico, in oltre l’85% dei casi
si tratta di un adenocarcinoma. La variante ad “anello
con castone” e quella a piccole cellule sono correlate a
una prognosi più sfavorevole, mentre non è chiaro il
ruolo prognostico della variante mucinosa. Il carcinoma
midollare è associato a un elevato livello di instabilità
microsatellitare e a una migliore prognosi. Nel referto
anatomopatologico devono essere obbligatoriamente
riportati istotipo, grado di differenziazione, livello di infiltrazione della parete, infiltrazione della sierosa e del
grasso periviscerale, distanza della neoplasia dai margini
di resezione prossimale, distale e circonferenziale (nel
retto), numero di linfonodi esaminati (non inferiore a 13)
e numero di linfonodi metastatici, integrità della fascia
mesorettale (nel retto).
Fisiopatologia
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CAPITOLO 45 - TUMORI MALIGNI DELL’APPARATO DIGERENTE, DEL FEGATO, DELLE VIE BILIARI E DEL PANCREAS
anemia, astenia e il progressivo deterioramento delle
condizioni generali devono attivare l’esecuzione di opportuni accertamenti. Oltre alla raccolta di un’approfondita anamnesi personale e familiare, può rivelarsi utile la
ricerca del sangue occulto nelle feci e i test di laboratorio
possono individuare un’anemia sideropenica, alterazioni
elettrolitiche, della funzionalità epatica e degli indici di
flogosi. Il CEA può risultare elevato e, in questo caso, utile
per monitorare l’evoluzione della malattia e la risposta al
trattamento medico o chirurgico. Nel caso di neoplasie
della parte distale del retto, l’esplorazione rettale consente
la palpazione diretta della neoplasia. L’esame endoscopico
(rettosigmoidoscopia o colonscopia) è di fondamentale
importanza, in quanto permette l’osservazione diretta
della neoplasia e l’esecuzione di prelievi bioptici ed è per
questo preferito all’esame radiologico. A completamento
della stadiazione delle neoplasie del retto è utile l’esecuzione di una ecoendoscopia o di una risonanza magnetica
(RM) endorettale, che meglio permettono di valutare la
profondità dell’infiltrazione della parete dell’organo e
l’eventuale interessamento dei linfonodi regionali. La
TC toraco-addominale con mezzo di contrasto permette
infine di individuare eventuali metastasi sistemiche.
La diagnosi differenziale si pone con la malattia di Crohn,
la rettocolite ulcerosa, la diverticolosi-diverticolite e con
processi neoplastici di natura benigna.
Lo stadio patologico rappresenta il principale fattore prognostico per le neoplasie del colon-retto. Nella tabella 45.3 sono
riportati la classificazione e lo stadio TNM per il tumore del
colon-retto. Pur essendo storicamente esistite altre classificazioni, questa viene oggi considerata l’unica da utilizzare.
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Tabella 45.3 Classificazione TNM per il tumore
del colon-retto
T – Tumore primitivo
Tumore in situ
Tis
Invasione neoplastica della sottomucosa
T1
Invasione neoplastica della muscolaris propria
T2
Penetrazione neoplastica attraverso la muscolaris
T3
propria nella sottosierosa
Invasione neoplastica di altri organi o strutture adiacenti
T4
o perforazione del peritoneo parietale
N – Linfonodi regionali
Lo stato linfonodale non può essere definito
Nx
Nessuna diffusione neoplastica ai linfonodi
N0
Metastasi a 1-3 linfonodi regionali
N1
Metastasi in più di 3 linfonodi regionali
N2
M – Metastasi a distanza
Lo stato metastatico non può essere definito
Mx
Nessuna metastasi a distanza
M0
Presenza di metastasi a distanza
M1
Stadio in base al sistema TNM
T1-2N0M0
I
T3N0M0
IIA
T4N0M0
IIB
T1-2N1M0
IIIA
T3-4N1M0
IIIB
T1-4N2M0
IIIC
IV
T1-4N0-2M1
Terapia
Nonostante le considerevoli risorse impiegate nei
programmi di diagnosi precoce e le importanti prospettive di prevenzione aperte dalle nuove conoscenze sulle forme ereditarie, il carcinoma del colon-retto
rappresenta la seconda causa di morte per cancro e
nella pratica clinica un quarto circa dei casi si presenta con una malattia avanzata e non più operabile
con intenti curativi.
Inoltre, dei tre quarti dei casi rimanenti, un terzo circa
morirà per recidiva della malattia, potendosi stimare
pertanto una guarigione nella metà dei casi circa.
Stadio I
La chirurgia rappresenta la principale opzione terapeutica con intento curativo nelle neoplasie del
colon-retto. L’intervento deve essere preceduto da
un’adeguata preparazione meccanica intestinale con
lo scopo di ridurre il contenuto fecale e la carica batterica. La profilassi con eparina a basso peso molecolare e la profilassi antibiotica riducono il rischio
di trombovenosi profonda, di embolia polmonare e
di infezioni. È stata anche riconosciuta da anni l’importanza di evitare le trasfusioni di sangue allogenico
nel periodo postoperatorio, mentre si è dimostrato
vantaggioso dal punto di vista oncologico (minor
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numero di ricadute), oltre che in termini di costo/
beneficio, ricorrere agli autodepositi. La scelta della
tecnica chirurgica deve basarsi su considerazioni anatomiche e oncologiche. Il segmento di intestino crasso sede di malattia deve essere rimosso con adeguati
margini prossimo-distali (1-2 cm) e circonferenziale
(> 1 mm), unitamente ai linfonodi regionali e agli organi adiacenti eventualmente infiltrati in un unico blocco. Senza entrare nel dettaglio delle tecniche chirurgiche, per le quali si rimanda ai trattati specialistici, si
ricorda che, in base alla sede anatomica della lesione, si
ricorre a emicolectomia destra o sinistra, trasversectomia, sigmoidectomia, escissione totale del meso-retto
(TME, Total Mesorectal Excision), con conservazione
delle innervazioni simpatica e parasimpatica allo scopo
di preservare le funzioni urinaria e sessuale, resezione
anteriore bassa del retto, resezione del retto con coloano anastomosi con colostomia temporanea, resezione
di retto e ano per via addomino-perineale con colostomia definitiva (intervento di Miles), tumorectomia
con finalità palliativa. Negli ultimi anni, la tecnica
laparoscopica viene sempre più ampiamente utilizzata
in alternativa a quella classica laparotomica. I vantaggi
consistono in una minore invasività con conseguente diminuito dolore postoperatorio, precoce ripresa
dell’alimentazione e delle attività quotidiane, minori
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Parte 7 - ONCOLOGIA MEDICA
complicanze e ridotto periodo di degenza. Inoltre, recenti ampi studi randomizzati hanno dimostrato benefici sulla qualità di vita del paziente nel breve termine
e vi sono iniziali segnalazioni di un minore numero di
ricadute. Tuttavia, occorre ricordare che il successo della chirurgia in generale, e più in particolare delle tecniche sofisticate, è molto operatore- e centro-dipendente
e che l’escissione radicale non è tecnicamente possibile
con le tecniche laparoscopiche nei tumori del retto,
soprattutto se distali. Dopo un’exeresi radicale di una
lesione allo stadio I, non sono richieste ulteriori terapie
complementari e ci si può aspettare una sopravvivenza
a 5 anni superiore al 95%. Il riscontro di un carcinoma
dell’intestino crasso all’interno di un polipo rimosso
per via endoscopica non richiede un reintervento, se
il margine sul peduncolo non è infiltrato.
Stadi II-III
Nei tumori agli stadi II-III il rischio di microdisseminazione metastatica è elevato e la recidiva si manifesta in circa un terzo dei pazienti, in genere durante
i primi 3 anni dopo l’intervento, principalmente a
livello di fegato, polmone, peritoneo, linfonodi. La
sopravvivenza a 5 anni è del 70-80% negli stadi II e
del 40-50% negli stadi III. Il ruolo della chemioterapia
adiuvante è controverso nei tumori del colon allo
stadio II e in genere limitato ai pazienti con fattori
prognostici sfavorevoli, come perforazione, occlusione preoperatoria, inadeguato sampling linfonodale,
grading G3, invasione linfovascolare o perineurale,
infiltrazione per contiguità degli organi adiacenti,
aumento dei valori preoperatori del CEA. La chemioterapia adiuvante è invece indicata nei pazienti con
tumore del colon allo stadio III e ottiene un aumento
della sopravvivenza a 5 anni del 6%. La chemioterapia si basa sulla somministrazione per 6 mesi di
5-fluorouracile e acido folinico sulla base di diversi
studi randomizzati, che hanno anche dimostrato
che i diversi schemi di somministrazione (mensile,
settimanale, con basse o alte dosi di acido folinico)
si equivalgono in termini di efficacia. L’aggiunta di
oxaliplatino (schema FOLFOX) va valutata tenendo
in considerazione l’entità della riduzione del rischio
di recidiva a 3 anni (sopravvivenza libera da recidiva
a 3 anni: 66% versus 72%; hazard ratio 0,76; 95% CI,
0,62-0,92), l’entità del miglioramento della sopravvivenza a 5 anni (73% versus 68,6%), la maggiore
neurotossicità (con rischio del 10% di neuropatia
persistente a 2 anni dal termine della terapia) e gli
elevati costi del regime di combinazione. È probabile
che la capecitabina orale possa sostituire la somministrazione di 5-fluorouracile infusionale.
Nel carcinoma del retto si verificano con maggiore
frequenza ricadute locali rispetto al carcinoma del
colon. Ciò è probabilmente legato a cause anatomiche, ossia alla vicinanza delle pareti pelviche e
alla mancanza di un adeguato rivestimento sieroso
dell’organo. Gli stadi avanzati localmente (T3 e T4) o
a livello linfonodale (N1 e N2) presentano un rischio
più elevato, con percentuali di ricaduta dopo sola
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chirurgia che superano il 20%. Pertanto è stato analizzato il ruolo della radioterapia postoperatoria, che in
questa sede anatomica presenta un minor rischio di
effetti collaterali a carico dell’intestino tenue rispetto
al colon. La radioterapia postoperatoria, se utilizzata
da sola, riduce le recidive locali (aspetto rilevante
per la qualità di vita del paziente) senza ottenere un
significativo miglioramento della sopravvivenza. Viceversa, il trattamento postoperatorio concomitante
radio-chemioterapico con 5-fluorouracile, preceduto
e seguito da chemioterapia con 5-fluorouracile e acido
folinico, ottiene un miglioramento significativo sia
del controllo locale di malattia sia della sopravvivenza di circa il 10-15%. La tossicità, particolarmente
quella gastroenterica ed ematologica, non è, tuttavia,
trascurabile per entità e frequenza, essendo riportata
come seria nel 25-50% dei casi. Inoltre pesano spesso
nel lungo termine sulla qualità di vita del paziente le
disfunzioni intestinali, urinarie e della sfera sessuale.
La radioterapia preoperatoria è in grado di migliorare
il controllo locale della malattia, di aumentare gli
interventi chirurgici conservativi dello sfintere e,
con l’impiego di tecniche ipofrazionate (5 Gy in 5
frazioni), anche di migliorare la sopravvivenza. La
radio-chemioterapia preoperatoria consente di preservare lo sfintere nel 60-90% dei pazienti, di ottenere
una remissione patologica completa nel 10-25% dei
casi e di prolungare la sopravvivenza. Rappresenta il
trattamento di scelta nei tumori in cui la stadiazione
preoperatoria deponga con certezza per uno stadio III,
in assenza di controindicazioni mediche.
Stadio IV
Il 20% circa dei pazienti presenta una malattia metastatica all’esordio dell’affezione e circa il 30-40%
dei pazienti con malattia inizialmente locale sviluppa metastasi nel corso della sua storia clinica. La
maggior parte dei pazienti con malattia metastatica
è candidato a un trattamento chemioterapico finalizzato a palliare i sintomi, a migliorare la qualità di vita
e a prolungare la sopravvivenza. Non è comunque
esclusa la possibilità, in alcuni casi selezionati, di
ottenere una guarigione. Il farmaco di prima scelta è sempre il 5-fluorouracile, in grado di ottenere
risposte obiettive in meno del 20% dei pazienti. La
modulazione con l’acido folinico ottiene un miglioramento significativo delle risposte oggettive e della
sopravvivenza. Anche in questo caso, la capecitabina, profarmaco del 5-fluorouracile assorbibile per os
e in grado di raggiungere una maggiore concentrazione a livello delle cellule tumorali rispetto a quelle
sane, può sostituire il 5-fluorouracile con maggiore
praticità di somministrazione. La combinazione
di 5-fluorouracile con oxaliplatino (FOLFOX), con
irinotecan (FOLFIRI) o con entrambi questi farmaci (FOLFOXIRI), ottiene un significativo miglioramento delle risposte obiettive e della sopravvivenza.
L’utilizzo del bevacizumab, anticorpo anti-VEGF, in
associazione a FOLFIRI aumenta ulteriormente la
sopravvivenza. L’anticorpo anti-EGFR cetuximab
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CAPITOLO 45 - TUMORI MALIGNI DELL’APPARATO DIGERENTE, DEL FEGATO, DELLE VIE BILIARI E DEL PANCREAS
in monoterapia o in associazione a irinotecan è in
grado di ottenere risposte obiettive e prolungare la
sopravvivenza nei pazienti con malattia resistente al
solo irinotecan. Inoltre, cetuximab e panitumumab
(anticorpo monoclonale umanizzato anti-EGFR) sono in grado di aumentare le risposte obiettive e la
durata del controllo della malattia ottenibili con
i trattamenti polichemioterapici. L’uso di marker
biologici permetterà sempre più di utilizzare in modo individualizzato questi preziosi ma costosissimi
strumenti terapeutici.
La scelta di ricorrere a un trattamento di combinazione o a una monochemioterapia deve comunque
essere basata sull’età del paziente, sulla presenza di
comorbidità o di controindicazioni all’uso di alcuni
farmaci, sul performance status, e su una valutazione
prognostica complessiva.
Poco meno del 25% dei pazienti affetti da neoplasie del colon-retto sviluppa metastasi esclusivamente
epatiche (metacrone o sincrone al tumore primitivo).
La chirurgia può avere un ruolo in queste situazioni e le casistiche chirurgiche riportano una sopravvivenza a 5 anni compresa tra il 16 e il 49%, con
una mortalità operatoria compresa fra lo 0 e il 9%.
Analogamente, la resezione di metastasi isolate del
polmone o dell’ovaio può essere curativa in casi selezionati. La chirurgia può essere considerata come il
primo intervento terapeutico oppure dopo la risposta a una chemioterapia sistemica. Nel caso di malattia esclusivamente epatica, possono essere presi in
991
considerazione anche altri trattamenti locali. La chemioterapia regionale intrarteriosa con FUdR (floxuridina) si basa sul principio che le metastasi epatiche
ricevono il loro apporto ematico prevalentemente
dall’arteria epatica, mentre il fegato sano dal sistema
portale, e che i chemioterapici attivi nel cancro del
colon-retto (fluoropirimidine) hanno un alto tasso di
estrazione epatica. La loro somministrazione intrarteriosa riduce pertanto il rischio della tossicità sistemica.
La mancanza di studi che dimostrassero con chiarezza
i benefici significativi sulla sopravvivenza, l’avvento
di schemi di chemioterapia sistemica più efficaci, gli
elevati costi, la tossicità epatobiliare e le complicanze
legate all’uso dei cateteri intrarteriosi hanno di fatto
soppiantato l’impiego della chemioterapia regionale
intrarteriosa. Tra le terapie locali occorre anche menzionare la termoablazione con radiofrequenze, con la
quale si ottiene una necrosi coagulativa conseguente
allo “shock” termico. Si tratta di una tecnica relativamente semplice (l’approccio è ecografico), praticabile
ambulatorialmente per via percutanea, sostanzialmente scevra da rischi (sanguinamento soprattutto
per lesioni sottoglissoniane) e in grado di garantire un
buon controllo locale a patto che le lesioni non siano
di grosse dimensioni (> 4,0 cm). Può essere praticata
anche intraoperatoriamente per trattare lesioni non
resecabili chirurgicamente. Non è ancora noto se la
metodica offra dei benefici di sopravvivenza e non può
quindi essere utilizzata in alternativa alla chirurgia o
alla chemioterapia.
Tumori del fegato
Definizione
Il fegato è molto spesso sede di processi neoplastici. Di
gran lunga più frequenti sono quelli secondari, ma non
sono rari nemmeno i tumori primitivi. In questo capitolo
si tratterà esclusivamente delle neoplasie maligne che
hanno origine in questo organo.
Epidemiologia
I tumori primitivi del fegato rappresentano uno dei
tumori più frequenti a livello planetario con circa un
milione di nuovi casi per anno. L’incidenza presenta notevoli variazioni geografiche, etniche e sessuali.
In base all’area geografica, l’incidenza può variare da
< 2 casi/100.000 persone/anno nei Paesi dell’Europa del
nord a oltre 100/100.000 in alcuni Paesi africani, dove
risulta il tumore più frequente in assoluto. Alcune zone
della Cina e dell’Africa subsahariana presentano un’incidenza maschile superiore ai 30 casi/100.000 abitanti/
anno. L’Italia è in una situazione intermedia, con un’incidenza di 7/100.000. In Asia e in Africa, l’elevata incidenza
è correlata alle aree che presentano alti tassi di portatori
di epatite B e alla presenza di micotossine contaminanti
cibo, acqua e terreno.
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Studi condotti sugli emigranti hanno dimostrato l’importanza del fattore razziale, dato che il gruppo etnico, pur
riducendo il rischio di sviluppare un tumore primitivo del
fegato rispetto al Paese di origine, mantiene un tasso di
incidenza più elevato rispetto alla popolazione del paese
di adozione. Il sesso più colpito è quello maschile (4:1);
tra gli uomini, infatti, l’epatocarcinoma è la settima più
comune forma di cancro; tra le donne la nona, ma la
frequenza è in continuo aumento, soprattutto per quanto
riguarda le forme correlate all’epatite C. L’età di più frequente insorgenza è superiore ai 40 anni in Europa e in
Nordamerica, inferiore ai 40 anni in Africa e in Asia.
Eziologia e fattori di rischio
Alcune sostanze chimiche presenti in natura, sintetizzate
da batteri, funghi e piante, sembrerebbero essere tra i più
potenti epatocarcinogeni. La più nota tra queste sostanze è
l’aflatossina B prodotta dall’Aspergillus flavus, un fungo che
contamina riso e granaglie non adeguatamente conservate, che rappresentano la principale fonte alimentare delle
popolazioni asiatiche e africane in cui l’epatocarcinoma
presenta la maggiore incidenza. Tra le sostanze chimiche,
vanno annoverati anche gli ormoni anabolizzanti, l’alcol,
il fumo di sigaretta, le nitrosamine, che derivano dai nitrati
7
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992
Parte 7 - ONCOLOGIA MEDICA
presenti in diversi alimenti, il cloruro di vinile e gli inquinanti ambientali contenuti in pesticidi e insetticidi, che
sono responsabili dell’insorgenza di epatocarcinomi nei roditori. L’epatocarcinoma, soprattutto nei Paesi occidentali, si
associa frequentemente a cirrosi. In realtà, non si tratterebbe
di una relazione causa-effetto, quanto del fatto che entrambe le patologie avrebbero alcune possibili cause comuni.
La più stretta correlazione è infatti con il virus dell’epatite
B (HBV, Hepatitis B Virus). Da un punto di vista epidemiologico, dove è alto il numero di portatori dell’antigene di
superficie del virus dell’epatite B (HBsAg, Hepatitis B surface
Antigen) è alto anche il numero di epatocarcinomi (classico
esempio sono le regioni dell’Africa in cui più del 10% della
popolazione è HBsAg-positiva). In ugual modo, l’agente
causale potrebbe essere il virus dell’epatite C, come è ormai
ampiamente provato. L’epatocarcinoma sviluppatosi dopo
epatite C è più frequentemente associato a cirrosi, spesso in
fase più avanzata, rispetto a quello sviluppatosi dopo epatite
B. Un altro fattore predisponente, o comunque associato, di
notevole importanza è rappresentato dall’emocromatosi.
Patogenesi
È ormai stata ampiamente dimostrata la capacità dell’HBV
di indovarsi nel DNA degli epatociti e gli studi di biologia
molecolare hanno dimostrato la presenza di materiale
genetico del virus B incorporato nel DNA delle cellule del
carcinoma epatico, a suggestiva conferma del ruolo eziologico di questo virus nell’insorgenza dell’epatocarcinoma.
L’intervallo necessario per lo sviluppo di un epatocarcinoma è di circa 30 anni dopo trasfusioni infette con il virus
dell’epatite C e di 40-50 anni dopo trasfusioni infette con
il virus dell’epatite B.
Anatomia patologica
I tumori primitivi del fegato possono avere origine dagli
epatociti o dal tessuto mesenchimale (1-3%). Si presentano
come una massa tumorale unica, per lo più a carico del lobo
destro oppure come una neoplasia multinodulare diffusa,
con frequenti combinazioni tra le due forme. L’origine può
essere unicentrica, con eventuale diffusione metastatica
intraepatica, oppure pluricentrica, come avviene più di frequente nella cancro-cirrosi. Le metastasi extraepatiche sono
comuni soprattutto nei linfonodi dell’ilo epatico, ma possono coinvolgere anche quelli del mediastino e quelli cervicali,
ed eventualmente il polmone, lo scheletro (specialmente
vertebre e coste) e l’encefalo. Dal punto di vista anatomopatologico, il tumore è caratterizzato da una proliferazione
di epatociti maligni, con grado variabile di anaplasia. Queste
cellule possono formare noduli solidi, trabecole variamente
anastomizzate tra loro o strutture pseudoghiandolari (molto
difficile può essere la differenziazione tra adenoma epatocellulare ed epatocarcinoma ben differenziato); molto spesso
il tessuto epatico circostante ha un aspetto cirrotico. Caratteristica dell’epatocarcinoma è l’invasione della vena porta
e, meno frequentemente, della vena epatica. Le metastasi
si diffondono per via ematogena attraverso la vena porta
o l’arteria epatica. I linfatici decorrono tra i lobuli epatici e
drenano, attraverso i vasi siti attorno alla vena porta, direttamente all’ilo epatico e alla cisterna chili. Il 20% circa del
fegato drena tramite vasi diretti alla vena cava.
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Manifestazioni cliniche
I pazienti affetti da epatocarcinoma presentano spesso
all’esordio una sintomatologia varia e in genere subdola
e, nel 25% dei casi, la malattia può manifestarsi in modo
totalmente asintomatico. Spesso è presente un dolore
sordo, di tipo profondo, mal localizzato (epigastrioipocondrio destro, talvolta anche posteriormente, in
regione dorsale). Il calo ponderale può essere consistente e rapido. Poco significativi sono di solito i disturbi
gastrointestinali come nausea, anoressia, pesantezza
epigastrica postprandiale. Può esserci febbre, in genere
non elevata; l’ittero, pur frequente, non è costante in
tutti i casi e comunque non è mai molto intenso, salvo
nel caso in cui si stabilisca una compressione dei grossi
dotti biliari da parte dei linfonodi metastatici. L’epatomegalia è il reperto obiettivo più costante ed è presente
nel 50-90% dei pazienti; molto importante dal punto di
vista diagnostico è l’irregolarità del margine inferiore,
talora plurilobato, di consistenza dura, a volte lapidea,
in genere non molto dolente a meno che non vi sia
una distensione della glissoniana o ancor più fl ogosi
peritoneale; la dolorabilità è comunque maggiore che
nella cirrosi e la superficie può apprezzarsi bernoccoluta.
Nel caso in cui il processo neoplastico si impianti su un
fegato già cirrotico, si verificano di solito un improvviso
aggravamento della sintomatologia e un rapido aumento
delle dimensioni di questo organo. Si può anche apprezzare all’auscultazione un soffio in regione epatica per
l’aumento e l’irregolarità della vascolarizzazione arteriosa. Talvolta il quadro clinico è caratterizzato dall’improvvisa comparsa di coliche epatiche con emobilia o
emoperitoneo e, quindi, anche addome acuto; infatti,
il tessuto tumorale, fragile, molto vascolarizzato, senza
uno stroma connettivale sufficiente può rompersi per
traumi minimi e la conseguente emorragia produrre il
brusco mutamento del quadro. Un’anemia è presente in
oltre la metà dei pazienti. Inoltre, possono essere presenti segni di cirrosi (ittero, eritema plantare, ginecomastia,
spider nevi, splenomegalia) e di ipertensione portale
(ascite, varici). L’ascite è evidente nel 30-60% dei casi con
liquido talora ematico o comunque di tipo misto, ma di
regola con discreto contenuto di proteine.
Sono anche state descritte varie sindromi paraneoplastiche, che consistono prevalentemente in anomalie biochimiche con conseguenze cliniche. Le principali includono
ipoglicemia, eritrocitosi, ipercalcemia, ipercolesterolemia,
disfibrinogenia, sindrome da carcinoide, aumentati livelli
di globuline che legano la tiroxina, alterazioni sessuali
(ginecomastia, atrofia testicolare, pubertà precoce) e porfiria cutanea tarda.
Diagnosi
L’anamnesi può fornire i dati relativi a una pregressa storia
di epatite, ittero, trasfusioni ematiche, utilizzo di droghe
per via endovenosa, interventi chirurgici, esposizione
lavorativa a carcinogeni chimici o esposizione a sostanze
anabolizzanti. Nelle forme più conclamate l’elettroforesi mostra un aumento anche notevole, a banda larga,
policlonale, come nella cirrosi, delle ␥-globuline e un
incremento variabile delle ␣2-globuline; aumentano anche
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CAPITOLO 45 - TUMORI MALIGNI DELL’APPARATO DIGERENTE, DEL FEGATO, DELLE VIE BILIARI E DEL PANCREAS
le transaminasi, ma soprattutto la fosfatasi alcalina, la
␥-GT e gli altri enzimi di colestasi quali la 5-nucleotidasi
e la leucino-aminopeptidasi. In un caso su quattro è nettamente aumentata la quota di bilirubina coniugata. Di
solito si riscontra una modesta anemia con leucocitosi
neutrofila; talora è presente una poliglobulia con eritroblasti in circolo in rapporto ad abnorme sintesi epatica
di eritropoietina. Abitualmente diminuiscono l’attività
protrombinica e la pseudocolinesterasi. La diagnosi può
trovare un dato di supporto nel dosaggio di un antigene
embrionario specifico, l’␣-fetoproteina (AFP). Questa è
una proteina sintetizzata dal fegato fetale, ma non dal
fegato adulto. Ricompare nel siero del 50% dei pazienti
con epatocarcinoma, perché l’epatocita trasformato tende
a differenziarsi, riacquistando capacità proprie delle cellule fetali. In realtà, anche nell’adulto normale esistono
tracce di questa sostanza (fino a 10-15 ng/mL), ma valori
oltre i 200 ng/mL devono essere considerati altamente
sospetti per la presenza di un carcinoma epatocellulare.
I valori di AFP tendono a regredire completamente dopo
l’asportazione della massa neoplastica. È utile ricordare
che l’AFP non aumenta in caso di colangiocarcinoma,
ma può aumentare anche in corso di altre epatopatie e,
in particolare, in corso di cirrosi epatica.
Il prelievo ematico deve verificare l’eventuale presenza dei
virus dell’epatite A, B, C e D, includendo, se necessario,
l’analisi quantitativa di DNA e RNA.
Tra gli esami strumentali, il più importante è senza dubbio
l’ecotomografia addominale, che permette di riconoscere
lesioni del diametro inferiore ai 2 cm. Meno sensibile, ma
utile per la stadiazione, è la TC, mentre la scintigrafia epatica ha perso gran parte del suo significato. Utile soprattutto nell’ipotesi di un intervento chirurgico è l’angiografia,
che consente di evidenziare le caratteristiche vascolari
della neoplasia. Non sono ancora del tutto chiariti i limiti e i vantaggi della RM rispetto alla TC, soprattutto
se di ultima generazione. La RM permette una migliore
definizione dei rapporti vascolari e della struttura della
neoplasia nel contesto epatico.
La diagnosi di certezza può essere posta solo con il
prelievo bioptico, che può essere effettuato in corso di
laparoscopia o, con minor danno per il paziente, con
un prelievo citologico o microistologico sotto guida
ecografica. In ogni caso, la diagnosi non invasiva di
epatocarcinoma nel paziente cirrotico si può basare sulla
presenza di una lesione epatica focale con un diametro
maggiore o uguale a 2 cm, con caratteristica presa di
contrasto in fase arteriosa e washout in fase venosa alla
RM o alla TC, oppure con un diametro tra 1 e 2 cm con
comportamento radiologico caratteristico nelle due
metodiche radiologiche. Nel caso di lesioni con comportamento radiologico atipico, di lesioni con diametro
inferiore a 1 cm o di lesioni riscontrate nel fegato non
cirrotico, è invece necessaria una biopsia. La biopsia
percutanea sotto guida ecografica ha una sensibilità e
una specificità del 90% e del 91%, mentre quella sotto
guida TC del 92% e del 98%, rispettivamente. La FDGPET è in grado di individuare solamente il 64% delle
lesioni; tuttavia ha un impatto significativo dal punto
di vista della decisione clinica nel 28% dei pazienti,
permettendo di individuare la presenza di metastasi
non rilevate da altre metodiche diagnostiche. In caso
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Tabella 45.4 Classificazione TNM per l’epatocarcinoma
e per i tumori intraepatici del tratto biliare
T – Tumore primitivo
Tumore solitario senza invasione vascolare
T1
Tumore solitario con invasione vascolare oppure
T2
tumori multipli con diametro < 5 cm
Tumori multipli con diametro ≥ 5 cm oppure
T3
tumore infiltrante un ramo maggiore della vena porta
o delle vene sovraepatiche
Tumore con invasione diretta di organi adiacenti
T4
(esclusa la colecisti) o con perforazione del peritoneo
viscerale
N – Linfonodi regionali
Lo stato linfonodale non può essere definito
Nx
Nessuna diffusione neoplastica ai linfonodi
N0
Metastasi ai linfonodi regionali
N1
M – Metastasi a distanza
Lo stato metastatico non può essere definito
Mx
Nessuna metastasi a distanza
M0
Presenza di metastasi a distanza
M1
Stadio in base al sistema TNM
T1N0M0
I
T2N0M0
II
T3N0M0
IIIA
T4N0M0
IIIB
QualsiasiTN1M0
IIIC
T1-4N0-1M1
IV
di sintomatologia dolorosa sospetta, è utile l’esecuzione
di una scintigrafia ossea.
Nella tabella 45.4 sono riportati la classificazione e lo
stadio TNM per l’epatocarcinoma.
Terapia
La storia naturale dell’epatocarcinoma è imprevedibile e vengono descritte sopravvivenze prolungate
in assenza di trattamento. Nel caso di neoplasie in
stadio avanzato, la sopravvivenza mediana in assenza di terapia è dell’ordine dei 5 mesi. I risultati del
trattamento sono difficili da interpretare, dato che la
sopravvivenza dipende dalla grave compromissione
dell’organo sottostante più che dall’epatocarcinoma
stesso. La patologia epatica di base condiziona pesantemente anche la scelta della strategia terapeutica.
In ogni caso, il trattamento dell’epatocarcinoma è
multidisciplinare e coinvolge chirurgo, oncologo,
radiologo e patologo.
Stadi I e II
Gli epatocarcinomi in stadio precoce possono essere
gestiti con diverse tecniche tra cui il trapianto di fegato,
7
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994
Parte 7 - ONCOLOGIA MEDICA
la chirurgia, la termoablazione con radiofrequenza e
l’alcolizzazione. Dato che non esistono studi di confronto tra le varie metodiche, la scelta dovrà comunque
essere discussa con il singolo paziente e individualizzata. La scelta dell’opzione terapeutica deve in ogni caso
tenere conto del principio fondamentale in base al
quale occorre preservare la maggior quantità possibile
di parenchima epatico funzionante. La chirurgia deve
avere l’obiettivo di ottenere un margine libero dalla
malattia di almeno 1 cm. Sfortunatamente, solo il 25%
dei pazienti si presenta con una lesione epatica potenzialmente resecabile e, di fatto, solo il 10% circa viene
effettivamente operato. La presenza di cirrosi epatica
concomitante è considerata, specie nei Paesi occidentali, una controindicazione all’intervento, per cui solo il
20% circa dei pazienti che vengono candidati alla chirurgia risulta affetto da cirrosi. In altri Paesi si tende a
estendere l’indicazione all’intervento e ciò spiega la più
alta mortalità operatoria rispetto alle casistiche occidentali (9-33% versus 1-15%) e la minore sopravvivenza
a 5 anni (11-19% versus il 30%). È evidente, quindi,
quanto la presenza di cirrosi costituisca un importante
fattore prognostico per l’efficacia della terapia chirurgica. La classificazione di Child-Pugh (Tab. 45.5) viene
ancora ritenuta il fattore prognostico più affidabile per
valutare la possibilità di tollerare una chirurgia epatica.
Solamente i pazienti in classe Child-Pugh A dovrebbero
essere candidati all’intervento chirurgico.
I pazienti con classe Child-Pugh B o C dovrebbero
essere valutati per il trapianto, che rappresenta una
moderna e affascinante alternativa alla resezione chirurgica, data la possibilità di rimuovere la neoplasia e
il tessuto cirrotico circostante. Nonostante gli interessanti presupposti teorici, i risultati sinora pubblicati
non sono, tuttavia, molto incoraggianti; in un’ampia
casistica solo il 24% dei pazienti è sopravvissuto e il
14% è libero dalla malattia per un tempo variabile da
alcuni mesi ad anni. È probabile, però, che su questi
risultati pesino fattori di selezione che hanno fatto
sì che sinora venissero sottoposti a trapianto pazienti con una malattia molto avanzata. Diversamente,
infatti, soggetti trapiantati per condizioni non neoplastiche e in cui incidentalmente si sono riscontrati
foci tumorali hanno presentato un andamento molto
più favorevole; ciò suggerisce che, anche nel caso del
trapianto, siano cruciali le dimensioni del tumore.
Infatti, se si selezionano i pazienti sulla base dei criteri
di Milano (lesione unica < 5 cm, oppure < 3 lesioni,
ciascuna delle quali con diametro < 3 cm; assenza di
malattia extraepatica), la sopravvivenza a 5 anni supera il 70%. Il ruolo della terapia complementare alla
resezione chirurgica o al trapianto non è definito. Gli
studi prospettici randomizzati e non che hanno valutato l’impatto della terapia neoadiuvante o adiuvante
non hanno finora permesso di identificare un chiaro
vantaggio in termini di sopravvivenza.
L’alcolizzazione è in grado di ottenere una necrosi
tumorale nel 70-80% delle lesioni con diametro <
3 cm e nel 100% delle lesioni < 2 cm. Si tratta di una
procedura ben tollerata, con costi limitati, eseguibile
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in regime ambulatoriale e gravata da pochi effetti collaterali. Questa tecnica è stata pressoché totalmente
soppiantata dalla termoablazione con radiofrequenza,
che si è dimostrata superiore all’alcolizzazione nelle
neoplasie con diametro > 2 cm senza aumentare il
rischio di complicanze.
Stadio III
La chemioembolizzazione transarteriosa (TACE, Transarterial Chemoembolization) si basa sul principio di
indurre una necrosi ischemica della neoplasia tramite
occlusione arteriosa ottenuta con un embolo di lipiodol associato a un agente chemioterapico, in genere
doxorubicina, mitomicina o cisplatino. La necrosi viene
ottenuta nel 30-50% dei pazienti trattati, anche se la
remissione completa è rara (2%). Le complicanze si verificano nel 10% dei pazienti e consistono in colecistite
ischemica, nausea, vomito, rialzo delle transaminasi e
dolori addominali. Viene descritta anche una sindrome
post-TACE nel 50% dei pazienti con febbre, dolore addominale e un moderato grado di occlusione intestinale. La mortalità è inferiore al 5%. La TACE rappresenta il
trattamento di elezione per l’epatocarcinoma allo stadio
III e per i pazienti in cui si desidera ottenere una riduzione della massa neoplastica in previsione di un successivo trapianto. Inoltre, la TACE può essere proposta
nei pazienti in cui la termoablazione è controindicata
per sede (vicinanza alla colecisti, all’albero biliare o ai
grossi vasi ematici) o per comorbidità. Il suo impiego
è tuttavia limitato ai pazienti con funzionalità epatica
conservata, assenza di malattia extraepatica o di invasione vascolare e senza sintomi correlati alla neoplasia,
mentre è controindicato in presenza di ipertensione o
trombosi portale e di ittero franco. In pratica, poco più
del 10% dei pazienti è candidabile a questa terapia.
Stadio IV
In generale, al momento della diagnosi, l’interessamento epatico domina il quadro clinico e solo il 25% dei
pazienti presenta una disseminazione metastatica. Sono
stati testati numerosi chemioterapici (5-fluorouracile,
doxorubicina, cisplatino, etoposide) in monoterapia o
in combinazione con risultati deludenti, tanto che non
si ritiene indicato un trattamento chemioterapico sistemico per questa malattia. Analogamente, l’interferone,
il tamoxifene, il chetoconazolo, la nilutamide, il goserelin (agonista LH-RH), la somatostatina, la talidomide,
il megestrolo e la vitamina K hanno ottenuto risultati
deludenti. Più recentemente sono stati riportati risultati
incoraggianti con l’uso di bevacizumab, anticorpo monoclonale anti-VEGF, in associazione a chemioterapia
con gemcitabina e oxaliplatino. Uno studio di fase III
randomizzato contro placebo ha dimostrato che il sorafenib, inibitore delle tirosin-chinasi multi-target orale
che agisce principalmente su VEGFR, PDGFR (Platelet
Derived Growth Factor Receptor) e Raf, è in grado di
prolungare la sopravvivenza di circa 3 mesi. Il sorafenib
è pertanto oggi ritenuto una valida opzione terapeutica
nei pazienti con epatocarcinoma in fase avanzata, non
candidabili ad altre terapie loco-regionali.
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CAPITOLO 45 - TUMORI MALIGNI DELL’APPARATO DIGERENTE, DEL FEGATO, DELLE VIE BILIARI E DEL PANCREAS
995
Tabella 45.5 Classificazione di Child-Pugh
Parametro
Punti
2
1
Livello di bilirubina (mg/mL)
Tempo di protrombina (sec)
Albuminemia (g/dL)
Ascite
Encefalopatia
1-1,9
1-3
> 3,5
Assente
Assente
2-2,9
4-6
2,8-3,4
Moderato
Grado 1-2
3
> 2,9
>6
< 2,8
Grave
Grado 3-4
Classe A: 5-6 punti; Classe B: 7-9 punti; Classe C: 10-15 punti.
Tumori del tratto biliare
Definizione
I tumori del tratto biliare possono essere distinti dal punto
di vista nosografico in tumori della colecisti e in colangiocarcinomi che originano dall’epitelio delle vie biliari.
I tumori delle vie biliari comprendono i tumori delle vie
biliari intraepatiche, i tumori ilari (anche noti come tumori
di Klatskin) e i tumori distali. I tumori ilari interessano la
confluenza dei dotti biliare destro e sinistro e comprendono sia i dotti intraepatici sia quelli extraepatici. I colangiocarcinomi distali coinvolgono il dotto epatico comune o
il dotto cistico senza estensione alla confluenza dei dotti
biliari destro e sinistro. Comprendono inoltre la porzione
intrapancreatica del dotto biliare e l’ampolla del Vater.
Si tratta di neoplasie rare, di diagnosi difficile, per le quali
sono disponibili limitati dati in letteratura spesso in casistiche che comprendono sia pazienti con tumori della
colecisti sia pazienti con colangiocarcinoma, che hanno
invece storia naturale e caratteristiche molto diverse, con
le conseguenti difficoltà nel definire le linee guida per i
protocolli diagnostico-terapeutici.
Epidemiologia
Le neoplasie maligne della colecisti e i colangiocarcinomi rappresentano meno dell’1% di tutti i carcinomi e
l’1,3-2,6% delle morti annuali per tumore a livello mondiale.
I colangiocarcinomi sono più rari rispetto alle neoplasie della
colecisti. L’incidenza di queste neoplasie è in aumento.
Questo tumore predilige l’età avanzata con la massima
incidenza tra il quinto e il settimo decennio di vita. I
tumori della colecisti colpiscono prevalentemente il sesso
femminile (rapporto uomo/donna 1:4-6), mentre i colangiocarcinomi prediligono il sesso maschile (rapporto
uomo/donna 2:1). Le zone della colecisti più colpite sono
il fondo (50-60%) e il colletto (20-30%), cioè quelle che
sono più spesso interessate dalla localizzazione dei calcoli
e dal conseguente processo infiammatorio. Per quanto
riguarda i colangiocarcinomi, le forme ilari rappresentano
il 67%, quelle distali il 27% e quelle intraepatiche il 6%.
L’incidenza dei tumori della colecisti presenta una notevole variazione geografica ed etnica e può essere 25 volte
più frequente in alcune aree rispetto ad altre. L’incidenza
più elevata viene osservata in Cile, Bolivia, in Europa centrale, in Israele, tra gli indiani americani e gli americani di
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origine messicana (1,22/100.000 abitanti/anno). I tassi di
incidenza minori sono invece stati osservati in Spagna, in
India, tra i neri americani (0,17/100.000 abitanti/anno) e
rodesiani. L’incidenza è minore nelle aree urbane rispetto
a quelle rurali.
Eziologia e fattori di rischio
L’eziologia dei tumori del tratto biliare non è nota. Nella
maggior parte dei casi, i colangiocarcinomi sono sporadici
e non sono stati individuati fattori predisponenti. Esistono
tuttavia delle condizioni associate a un rischio aumentato
di sviluppare queste forme tumorali. Si tratta in genere di
fattori che causano un’infiammazione cronica dei dotti
biliari. La colangite sclerosante è una patologia autoimmune associata alla colite ulcerativa, che comporta un
aumento di 160 volte del rischio di sviluppare un colangiocarcinoma, spesso multifocale, che si manifesta entro
1 anno dalla diagnosi di colangite sclerosante in un terzo
dei casi ed entro 2,5 anni nella maggioranza dei pazienti.
La colangite sclerosante determina, nelle fasi precoci della
malattia, una condizione di infiammazione cronica dei
dotti biliari, alla quale fa seguito la comparsa di stenosi
multifocali del sistema biliare con conseguente colestasi.
Le cisti del coledoco, rara entità nosologica dovuta alla
dilatazione congenita dei dotti biliari, se non trattate
determinano la comparsa di un colangiocarcinoma nel
10-20 % dei casi. La colestasi è in questo caso alla base dei
processi infiammatori cronici associati. Le parassitosi da
Clonorchis sinensis o Opisthorchis viverrini sono endemiche
in Estremo Oriente, dove è comune il consumo di pesce
poco cotto, e sono responsabili di colangiti suppurative.
Anche nel caso dei tumori della colecisti, l’infiammazione
cronica ha un ruolo sospetto. In questa eventualità, la
colelitiasi rappresenta il fattore più importante, dato che
oltre il 75% dei pazienti con carcinoma della colecisti ne
risulta affetto. Tuttavia, l’incidenza dei tumori delle vie
biliari nei pazienti affetti da colelitiasi è solamente dello
0,3-3%. Anche in questo caso l’infiammazione cronica e
la colestasi agirebbero come fattori predisponenti all’azione di altri agenti carcinogeni. Alcuni studi sperimentali
condotti sui criceti hanno in effetti dimostrato che l’inserimento di calcoli di colesterolo nella colecisti aumentava
l’insorgenza di tumori indotti dall’agente carcinogeno
dimetilnitrosamina dal 6 al 70% circa.
7
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Parte 7 - ONCOLOGIA MEDICA
L’esposizione al torotrast, una sostanza utilizzata come
contrasto radiologico tra il 1930 e il 1960, è stata associata allo sviluppo di colangiocarcinoma con un periodo
di latenza di 15-45 anni. Anche il fumo di sigaretta e
la sindrome da immunodeficienza acquisita potrebbero
essere responsabili dell’aumentato rischio di sviluppare
un colangiocarcinoma. Le calcificazioni della colecisti
(colecisti a porcellana) rappresentano la conclusione di
un processo di infiammazione cronica e sono associate
a un tumore della colecisti nel 10-25% dei casi. Anche le
anomalie anatomiche della giunzione pancreato-biliare
possono provocare infiammazioni croniche e, quindi, un
aumentato rischio di sviluppare forme tumorali, indipendentemente dalla presenza di calcoli.
Patogenesi
I tumori del tratto biliare derivano dalla trasformazione
maligna dei colangiociti. La patogenesi non è chiarita;
come per altre forme tumorali è verosimile che una successione di mutazioni genomiche determini la transizione
da mucosa normale a iperplasia adenomatosa, displasia,
carcinoma in situ e, infine, a carcinoma invasivo.
La colestasi e l’infiammazione cronica creano un microambiente favorevole all’insorgenza di danni a carico dei
geni e delle proteine implicati nel DNA mismatch repair,
dei proto-oncogeni e dei geni oncosoppressori. Infatti, in
queste situazioni si riscontrano elevati livelli di citochine,
di fattori di crescita come EGF e acidi biliari che contribuiscono all’insorgenza delle alterazioni molecolari e alla
prolungata sopravvivenza delle cellule alterate. Le citochine stimolano, nelle cellule epiteliali, l’espressione della
nitrossidosintetasi inducibile (iNOS), che aumenta i livelli
di nitrossidi e ossidi nitrogeni reattivi che interagiscono
con il DNA e le proteine cellulari, provocando mutazioni
e rotture dell’elica del DNA. Queste sostanze ostacolano
anche l’azione degli enzimi deputati alla riparazione del
DNA. Tra le principali mutazioni osservate nei tumori delle
vie biliari si osservano frequentemente quelle a carico di
k-ras (20-54%), p53 (20-92%), p16INK4a, DPC4/Smad4 e
APC. I livelli di interleuchina 6 (IL-6) risultano elevati nei
tumori del tratto biliare; si ritiene che IL-6 promuova la
sopravvivenza delle stem-cell tumorali agendo su Notch-3
e MAPK. Le mutazioni a carico di EGFR e le citochine infiammatorie aumentano i livelli di IL-6 mentre il feedback inibitorio è bloccato dal silenziamento epigenetico di
SOCS-3 (Suppressor of Cytokine Signaling 3). L’iperattività
di IL-6 determina un aumento dei livelli delle proteine
antiapoptotiche tipo Bcl-2, rendendo i tumori del tratto
biliare resistenti alle terapie citotossiche, e una riduzione
dei livelli di p21, proteina che regola negativamente il ciclo
cellulare. Anche il fattore di crescita epatocitario e il suo
recettore c-met sono frequentemente iperespressi.
Anatomia patologica
Oltre il 90% dei colangiocarcinomi sono adenocarcinomi,
mentre carcinomi squamosi, sarcomi, tumori a piccole cellule e linfomi rappresentano ciascuno meno del 5%. Tra i
tumori della colecisti sono state anche descritte forme a origine mesenchimale, melanomi, carcinoidi, carcinosarcomi
e lesioni metastatiche. I colangiocarcinomi e i tumori della
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colecisti possono essere suddivisi in sclerosanti, nodulari
e papillari. I tumori sclerosanti, che sono i più frequenti,
si localizzano prevalentemente a livello ilare o extraepatico e hanno la prognosi peggiore, si caratterizzano per la
comparsa di un’intensa reazione desmoplastica attorno ai
dotti biliari. I tumori nodulari tendono invece a formare
lesioni solide intraepatiche. Il tumore papillare è raro, ha
la migliore prognosi ed è caratterizzato dalla comparsa di
lesioni polipoidi con crescita vegetante all’interno del lume
dei dotti, con scarsa o assente reazione desmoplastica.
Fisiopatologia
I tumori del tratto biliare tendono a infiltrare la parete
della colecisti, causando ispessimento e indurimento, e la
sottosierosa. Dato che la colecisti presenta una parete sottile con uno strato muscolare singolo, la predisposizione
a infiltrare fegato e strutture circostanti e a disseminare
nella cavità peritoneale è elevata. Inoltre, la penetrazione a livello dello strato muscolare comporta un interessamento dei vasi linfatici e dei piccoli vasi venosi che
affluiscono direttamente al sistema portale, con precoce
disseminazione linfatica ed ematogena, che sono infatti
presenti in oltre il 90% e il 65%, rispettivamente, delle
serie autoptiche.
Manifestazioni cliniche
Il quadro clinico dei tumori del tratto biliare è vario e
poco caratteristico, in quanto correlato alla sede e alla
modalità di crescita della neoplasia. In genere, l’esordio è
clinicamente silente e la sintomatologia è presente negli
stadi più avanzati della malattia.
Il dolore con carattere gravativo e continuo, ribelle agli
analgesici e agli antispastici, può essere suggestivo, specialmente se si è presentato inizialmente con i caratteri
tipici della colica biliare in rapporto alla presenza di calcolosi della colecisti.
Obiettivamente è possibile, soprattutto nelle fasi avanzate
della malattia, apprezzare, nell’ipocondrio destro, una
massa di consistenza dura, irregolare, a volte bernoccoluta
e dolente, corrispondente al fondo della colecisti coinvolto nel processo neoplastico.
Frequente, sempre negli stadi avanzati, è l’insorgenza di
ittero ostruttivo, che si accentua di solito lentamente nel
tempo e che è dovuto a un interessamento da parte della
neoplasia delle vie biliari e, in particolare, del coledoco.
Le metastasi epatiche, per continuità-contiguità o anche
per via linfatica o ematogena, sono in genere precoci e costanti; estremamente frequenti anche quelle a carico delle
vie biliari, del duodeno, dello stomaco, del pancreas, del
colon e del peritoneo; in tutti questi casi, il quadro clinico è
più complesso, arricchendosi delle manifestazioni correlate
all’interessamento degli organi raggiunti dalle metastasi.
Oltre il 90% dei tumori del coledoco presenta all’esordio
un ittero di tipo ostruttivo con andamento ingravescente, associato a prurito nei due terzi dei casi dovuto alla
ritenzione dei sali biliari. Le coliche biliari vere e proprie
sono eccezionali, a meno che non coesista una colelitiasi.
La colangite è presente nel 10% dei pazienti. Sono inoltre
evidenti tutti i disturbi dovuti al deficit dei sali biliari con
i conseguenti fenomeni di malassorbimento.
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CAPITOLO 45 - TUMORI MALIGNI DELL’APPARATO DIGERENTE, DEL FEGATO, DELLE VIE BILIARI E DEL PANCREAS
Nelle forme più distali (papilla del Vater) l’ittero può essere intermittente e accompagnato da ricorrenti episodi di
infezione delle vie biliari e da emorragie digestive (talora
anche con melena, ma, più spesso, con stillicidio ematico
cronico), che possono portare ad anemia sideropenica. Infatti questi tumori evidenziano una particolare tendenza
all’ulcerazione e alla necrosi.
Spesso è presente dolore addominale, prevalente nell’epigastrio, di carattere variabile, generalmente senza alcuna
relazione con l’assunzione dei pasti; frequente nel corso della
malattia è anche la febbre per la già ricordata sovrapposizione
di complicanze colangitiche. Possono inoltre essere presenti
calo ponderale, anoressia, cachessia e sudorazioni notturne.
L’esame obiettivo può evidenziare, oltre all’esistenza
dell’ittero e al progressivo deterioramento delle condizioni
generali, la positività del segno di Courvoisier-Terrier, per
la distensione della colecisti, quando è presente un’ostruzione neoplastica delle vie biliari a valle dello sbocco del
cistico (in questi casi si riscontra anche un’epatomegalia
di grado variabile).
Diagnosi
Gli esami di laboratorio più frequentemente alterati sono
gli indici di stasi biliare, mentre gli indici di funzionalità
epatica sono nella norma o modestamente alterati, almeno negli stadi iniziali della malattia. In presenza di ittero,
si riscontra iperbilirubinemia. Tra i marker tumorali, possono risultare aumentati CEA e CA-125, che hanno però
un valore predittivo limitato. Il CA19.9 ha maggiori sensibilità e specificità. Il marcatore, se inizialmente espresso,
risulta utile per monitorare la malattia nel tempo dopo un
intervento chirurgico e per ottenere informazioni sull’evoluzione della malattia stessa nel corso del trattamento
chemioterapico nella malattia avanzata.
L’esame radiologico di prima scelta è l’ecografia, che deve
sempre essere eseguita nel paziente itterico o con indici
di stasi elevati. In caso di negatività dell’esame ecografico, deve essere eseguita una TC addominale con mezzo di
contrasto. Purtroppo, entrambi questi esami hanno basse
sensibilità e specificità nell’individuare i tumori del tratto biliare intraepatici ed extraepatici. La valutazione della sede e
dell’estensione della malattia è possibile mediante colangioRM, colangiografia transepatica percutanea o retrograda per
via endoscopica (ERCP, Endoscopic Retrograde CholangioPancreatography). Queste ultime consentono anche il posizionamento di uno stent e l’esecuzione di un brushing
per la diagnosi citologica. I dati relativi all’utilità della PET
sono controversi. Alcuni autori ne sostengono l’utilità ai
fini di una migliore pianificazione terapeutica, mentre altri
sottolineano l’elevata percentuale di falsi negativi, legati alla
scarsa cellularità della neoplasia e all’importante fibrosi, e
falsi positivi, legati ai processi infiammatori spesso presenti
in concomitanza con lesioni benigne di natura ostruttiva.
Nelle tabelle 45.6 e 45.7 sono riportati la classificazione e
lo stadio TNM per i tumori del tratto biliare extraepatici e
della colecisti. Per i tumori intraepatici vale la stessa classificazione riportata per gli epatocarcinomi in tabella 45.4.
Tabella 45.6 Classificazione TNM per i tumori extraepatici
del tratto biliare
Tabella 45.7 Classificazione TNM per i tumori
della colecisti
T – Tumore primitivo
Tumore limitato al dotto biliare
T1
Tumore con invasione oltre la parete del dotto biliare
T2
Tumore infiltrante il fegato, la colecisti, il pancreas
T3
e/o un ramo della vena porta (destro o sinistro)
o dell’arteria epatica (destro o sinistro)
Tumore con invasione diretta del ramo principale della
T4
vena porta o di entrambe le sue diramazioni o dell’arteria epatica comune o di altri organi adiacenti come
il colon, lo stomaco, il duodeno o la parete addominale
T – Tumore primitivo
Tumore con infiltrazione dello strato muscolare
T1
Tumore con invasione oltre la parete della colecisti
T2
Tumore che perfora il peritoneo viscerale e/o invade
T3
direttamente il fegato e/o gli organi o le strutture
adiacenti, come lo stomaco, il duodeno, il colon,
il pancreas, l’omento o i dotti biliari extraepatici
Tumore con invasione diretta del ramo principale della
T4
vena porta o dell’arteria epatica comune o di più organi
o strutture extraepatiche
N – Linfonodi regionali
Lo stato linfonodale non può essere definito
Nx
Nessuna diffusione neoplastica ai linfonodi
N0
Metastasi ai linfonodi regionali
N1
N – Linfonodi regionali
Lo stato linfonodale non può essere definito
Nx
Nessuna diffusione neoplastica ai linfonodi
N0
Metastasi ai linfonodi regionali
N1
M – Metastasi a distanza
Lo stato metastatico non può essere definito
Mx
Nessuna metastasi a distanza
M0
Presenza di metastasi a distanza
M1
M – Metastasi a distanza
Lo stato metastatico non può essere definito
Mx
Nessuna metastasi a distanza
M0
Presenza di metastasi a distanza
M1
Stadio in base al sistema TNM
T1N0M0
IA
T2N0M0
IB
T3N0M0
IIA
T1-3N1M0
IIB
T4N0-1M0
III
T1-4N0-1M1
IV
Stadio in base al sistema TNM
T1N0M0
IA
T2N0M0
IB
T3N0M0
IIA
T1-3N1M0
IIB
T4N0-1M0
III
T1-4N0-1M1
IV
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Parte 7 - ONCOLOGIA MEDICA
Terapia
La prognosi è infausta a breve scadenza (pochi mesi
in media). La chirurgia è l’unica terapia con finalità
curativa ed è pertanto il trattamento di prima scelta
quando fattibile. Purtroppo, nel 65-75% circa dei
casi l’intervento non è indicato per la presenza, al
momento della diagnosi, dell’invasione degli organi
vicini o di metastasi a distanza. Nei tumori intraepatici del tratto biliare, l’intervento consiste in una
segmentectomia o una lobectomia. La sopravvivenza
a 5 anni è del 13-44% e i principali fattori prognostici
sono i margini di resezione e l’assenza di interessamento linfonodale o di infiltrazione vascolare. Per i
tumori ilari, che richiedono una resezione in blocco
del segmento epatico e di almeno un lobo epatico,
la sopravvivenza a 5 anni dopo chirurgia con margini negativi oscilla tra l’11 e il 41%, mentre per i
tumori più distali, che richiedono una duodenocefalopancreasectomia, tra il 27 e il 37%. Purtroppo,
meno del 50% degli interventi è in grado di ottenere
margini negativi. Inoltre, la morbidità e la mortalità
postoperatorie sono piuttosto elevate per i tumori
ilari (31-85% e 5-10%, rispettivamente). I risultati del
trapianto d’organo sono stati deludenti con sopravvivenze a 5 anni dello 0-18% per i tumori intraepatici
e del 23-26% per quelli extraepatici.
Il ruolo della radioterapia postoperatoria non è definito. Per quanto, dal punto di vista teorico esisterebbe un’indicazione all’irradiazione, dato l’elevato
rischio di recidiva locale e di mancata radicalità chirurgica, non ci sono purtroppo studi prospettici che
ne abbiano verificato l’impatto sulla storia naturale
della malattia. Ulteriori ostacoli sono rappresentati dalla difficoltà nella definizione del target per i
tumori intraepatici e dal rischio di epatotossicità
attinica. In ogni caso, l’atteggiamento più diffuso è
quello di utilizzare la radioterapia quando il rischio
di recidiva locale è elevato e il rischio di tossicità
contenuto.
Anche il ruolo della chemioterapia adiuvante non è
ben definito. Il rischio di metastatizzazione a distanza è elevato, ma i dati a supporto dell’uso sistematico
della chemioterapia sono carenti e attualmente non
esiste un’indicazione. L’utilizzo di una fluoropirimidina come radiosensibilizzante durante la radioterapia può comunque ambire al trattamento di una
micromalattia metastatica eventualmente presente.
Il trattamento della malattia non resecabile si basa
sulla chemioterapia sistemica. I farmaci più utilizzati
sono il 5-fluorouracile e la gemcitabina, da soli o in
associazione ad altri chemioterapici come cisplatino,
oxaliplatino, mitomicina-C, taxani e antracicline.
Una recente analisi dei risultati di oltre 100 studi
prospettici condotti negli ultimi 20 anni in circa 3000
pazienti documenta che le risposte obiettive ottenute
con la chemioterapia sono circa il 20-25%, che il
tempo mediano alla progressione è di 4 mesi e che
la sopravvivenza mediana è di circa 8 mesi. I tumori della colecisti tendono a rispondere meglio alla
chemioterapia rispetto a quelli delle vie biliari, ma
la sopravvivenza è inferiore. I risultati della terapia
sono migliori con l’utilizzo di combinazioni di due
chemioterapici rispetto all’uso di un singolo farmaco,
mentre le combinazioni a tre farmaci non offrirebbero vantaggio rispetto alle doppiette.
Nel trattamento dei tumori del tratto biliare non va
dimenticato il ruolo degli interventi di palliazione
dell’ittero (stent, drenaggio biliare percutaneo, anastomosi bilio-digestive).
Tumori del pancreas
Definizione
Il pancreas è una ghiandola con funzioni endocrine ed
esocrine annessa all’apparato digerente con localizzazione
retroperitoneale ed esteso dalla “C” duodenale fino all’ilo
splenico. I tumori del pancreas possono verificarsi a carico
della componente esocrina o endocrina dell’organo. In questo capitolo ci si occuperà esclusivamente dei tumori a carico
della componente esocrina. La ghiandola è arbitrariamente
divisa in tre porzioni: la testa, localizzata a destra della confluenza tra la vena porta e la vena mesenterica superiore, il
corpo, che si estende dalla confluenza porto-mesenterica alla
parete laterale sinistra dell’aorta, e la coda, che si estende
dalla parete sinistra dell’aorta all’ilo splenico.
Epidemiologia
Il carcinoma del pancreas rappresenta circa il 2% di tutti
i tumori maligni e il 10% circa di quelli dell’apparato
gastroenterico, secondo solo al tumore del colon; la sua
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incidenza è notevolmente aumentata negli ultimi decenni, raggiungendo la frequenza di 10 casi/100.000 abitanti
negli Stati Uniti, dove questa neoplasia rappresenta la
quarta causa di morte tra tutti i decessi dovuti a tumore
(dopo polmone, mammella e colon nella donna e polmone, colon e prostata nell’uomo). L’incidenza è in netto
aumento nei Paesi occidentali.
Il carcinoma del pancreas è un poco più comune nell’uomo che nella donna (1,3:1), nei soggetti di colore rispetto
alle popolazioni bianche; l’epoca massima di incidenza è
nel quinto-settimo decennio di vita.
Eziologia e fattori di rischio
Come per la maggior parte delle neoplasie maligne,
l’eziologia è sconosciuta. Sono stati identificati alcuni
fattori di rischio che aumentano il pericolo di sviluppare
un carcinoma pancreatico. Si stima che il fumo di sigaretta sia responsabile del 30% circa dei casi. Una dieta
ricca di grassi, carne, prosciutto e salumi aumenta il
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CAPITOLO 45 - TUMORI MALIGNI DELL’APPARATO DIGERENTE, DEL FEGATO, DELLE VIE BILIARI E DEL PANCREAS
rischio relativo di sviluppare un carcinoma pancreatico di
1,4-1,65 volte. Il ruolo di caffè e alcol è ancora controverso. Per diabete mellito e pancreatite cronica calcifica
esistono dati contrastanti, in quanto il carcinoma pancreatico, distruggendo le isole e il parenchima sano,
potrebbe essere la causa di queste patologie. Altri fattori associati sono l’obesità, la scarsa attività fisica, l’età
avanzata, il basso livello socioeconomico, la razza afroamericana. Si stima che il 10-20% dei casi di carcinoma
pancreatico abbia un’origine ereditaria. Tra le sindromi
genetiche associate, le più comuni sono: 1) le mutazioni del gene BRCA2 responsabile del tumore mammario
familiare, con rischio di tumore pancreatico aumentato
di 3,5-10 volte; 2) le mutazioni di p16 implicate nella
sindrome familiare MMM (Multiple Mole Melanoma),
con rischio aumentato di 12-20 volte; 3) la sindrome
di Peutz-Jeghers, con rischio aumentato di 100 volte;
4) la sindrome ereditaria dei tumori del colon-retto non
poliposici, caratterizzata da mutazioni dei geni implicati
nei processi di DNA mismatch repair.
Patogenesi
Le principali mutazioni genetiche coinvolte nella patogenesi del tumore del pancreas possono essere ereditarie
o somatiche. I geni KRAS2, p16, p53 e SMAD4 risultano
mutati nella maggioranza dei casi. L’erosione telomerica è l’alterazione genetica più precoce e frequente e si
suppone predisponga a traslocazioni cromosomiche. La
mutazione di KRAS2 è presente in oltre il 90% dei casi
ed è responsabile della conversione della proteina k-ras
in una forma iperattiva nella trasmissione dei segnali
attivati dai fattori di crescita. Le mutazioni di SMAD4
sono presenti nel 55% dei casi. Il sentiero di SMAD trasmette a specifiche regioni nucleari segnali attivati dalle
proteine extracellulari TGF e attivina. Quasi tutti i tumori
pancreatici presentano una perdita della funzione di p16,
inibitore Cdk che controlla l’entrata delle cellule in fase
S. Il gene p53 perde la sua capacità di legare il DNA nel
50-70% dei casi di adenocarcinoma pancreatico. Sono
stati inoltre individuati numerosi geni coinvolti nei processi di chemio- e radioresistenza che caratterizzano il
tumore pancreatico; tra questi ATDC (ataxia-teleangiectasia group D associated protein), topoisomerasi II ␣ e
transglutaminasi II.
Anatomia patologica
Il tumori del pancreas esocrino sono prevalentemente
adenocarcinomi duttali infiltranti nelle varianti “ad anello
con castone”, midollare, squamosa, anaplastica, indifferenziata con cellule giganti simil osteoclastiche e mucinosa non cistica. Non esistono differenze dal punto di
vista prognostico tra queste varianti. I carcinomi a cellule
acinari e i pancreatoblastomi sono più rari. Si possono
riscontrare anche neoplasie cistiche, la più comune delle
quali è il tumore mucinoso-cistico, più frequente nella
donna (90%) con sopravvivenza a 5 anni dopo chirurgia
radicale del 50%, seguito dalla neoplasia intraduttale papillare mucinosa (IPMN, Intraductal Papillary Mucinous
Neoplasm), con sopravvivenza a 5 anni dopo chirurgia
radicale del 40%, dalla neoplasia cistica sierosa, più fre-
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quente nella donna con un rapporto di 3:7 e dalla neoplasia pseudopapillare solida, che colpisce prevalentemente
donne in giovane età (90%).
Fisiopatologia
Il pancreas si estende dalla “C” duodenale all’ilo splenico,
in posizione retroperitoneale. L’organo contrae stretti
rapporti anatomici con i grossi vasi addominali (tripode
celiaco, tronchi mesenterici superiori e inferiori, vasi splenici e vena porta) e con i plessi nervosi a essi associati,
con gli organi cavi del tubo digerente (duodeno, stomaco,
colon trasverso), con milza e rene sinistro. Il dotto biliare
transita a livello della testa pancreatica e la sua ostruzione
determina la comparsa di ittero. Nelle fasi più avanzate
della malattia l’ittero può essere in relazione alla presenza
di adenopatie all’ilo epatico o a disseminazione epatica
con ostruzione dei dotti biliari intraepatici. La tendenza
spiccatamente infiltrativa delle neoplasie pancreatiche
porta precocemente a un interessamento della parete dei
grossi vasi addominali, condizionando l’irresecabilità e
provocando fenomeni ostruttivi a carico delle vie biliari
o del duodeno con conseguente dolore. Si può verificare
anche un’infiltrazione diretta a carico del retroperitoneo
e dei plessi nervosi del tronco celiaco. L’infiltrazione del
duodeno e della parete gastrica determina ostruzione
meccanica e gastroparesi paraneoplastica con conseguenti
nausea e vomito. La funzione esocrina del pancreas risulta
spesso compromessa con conseguente diarrea, malassorbimento e steatorrea. Anche la funzione endocrina
è spesso compromessa e la comparsa di diabete come
segno anticipatorio della malattia o durante il corso della
stessa è frequente. Il tumore del pancreas tende spesso a
disseminare a livello peritoneale determinando stipsi e
occlusione intestinale.
La patogenesi del calo ponderale è multifattoriale, in
quanto determinato da turbe complesse del metabolismo glicidico, lipidico e proteico correlate al rilascio da
parte della neoplasia di una serie di mediatori tra cui
il TNF (Tumor Necrosis Factor) e diverse interleuchine
(IL-6, -1 e -8).
Manifestazioni cliniche
Il sintomo di esordio più frequente è l’ittero, evidenziabile in oltre l’80% dei pazienti. Può avere un andamento
intermittente, in rapporto alla variabile componente flogistica ed edematosa presente. Ha il carattere tipico degli
itteri colestatici o ostruttivi, con prevalente incremento
della bilirubinemia diretta (oltre il 50% di quella totale),
feci ipocoliche fino ad acolia completa, urine contenenti
bilirubina e povere o prive di urobilinogeno e prurito per
ritenzione dei sali biliari.
Il dolore addominale è presente in circa l’80% dei pazienti
e si localizza a livello epigastrico con irradiazione nell’ipocondrio destro per il tumore della testa, nella regione
periombelicale per il tumore del corpo e nell’ipocondrio
sinistro per quello della coda. Molto spesso assume una
distribuzione a cintura con coinvolgimento dei quadranti
addominali superiori e irradiazione posteriore al dorso. Il
dolore è di solito intenso, fastidioso, continuo o subcontinuo, talora esacerbato dai pasti, più spesso indipendente
7
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Parte 7 - ONCOLOGIA MEDICA
da questi; è tipico il suo carattere posturale: infatti, è solitamente accentuato dal decubito dorsale ed è attenuato da
alcune manovre, come la flessione del tronco in avanti, il
decubito laterale destro e la compressione dell’addome.
Il calo ponderale, associato a dispepsia soprattutto per i
cibi grassi, vomito e peso epigastrico postprandiale, è progressivo e notevole, più frequente nei tumori del corpocoda del pancreas (83%) rispetto a quelli della testa (70%).
Il carcinoma pancreatico è una delle malattie che danno
più rapidamente uno stato di vera e propria cachessia.
Nausea e vomito sono meno frequenti nei tumori del
corpo-coda (33%) rispetto a quelli della testa (45%). Il
17-26% dei pazienti può manifestare disturbi psichici che
in genere portano a un ritardo diagnostico.
Possono essere presenti irregolarità dell’alvo con stipsi
alternata a diarrea e steatorrea.
L’esame obiettivo permette di evidenziare un notevole
dimagramento e il colorito itterico; l’obiettività addominale, nelle fasi più avanzate della malattia, può mostrare
la presenza di una massa palpabile nell’epigastrio (nel
40-50% dei casi nel tumore del corpo e della coda). Spesso
si apprezza un’epatomegalia anche cospicua, come conseguenza della stasi biliare (quindi soprattutto nel tumore
della testa); la colecisti è di solito distesa, ma è direttamente palpabile soltanto nel 15-40% dei casi (segno di
Courvoisier-Terrier positivo specialmente nelle neoplasie
della testa, mentre la colecisti non dovrebbe essere distesa
e palpabile in caso di occlusione biliare calcolotica, poiché
in quest’ultima è facile che le sue pareti siano irrigidite
da processi sclerotici).
Frequente è anche il riscontro di splenomegalia e di versamento peritoneale, per compressione o invasione o anche
trombosi delle vene del circolo portale, soprattutto della
vena splenica.
Talvolta è possibile apprezzare un soffio all’auscultazione
dell’addome in sede periombelicale e al quadrante addominale superiore di sinistra, che è dovuto a compressione
o invasione dell’arteria splenica da parte del tumore. In
circa il 10% dei casi sono presenti tromboflebiti migranti
agli arti inferiori, a patogenesi sconosciuta, più frequenti
nelle neoplasie del corpo e della coda.
Ematemesi e/o melena (o più di frequente sanguinamento
occulto) si possono verificare per erosione o ulcerazione
della mucosa duodenale da parte del tumore nel corso
della sua propagazione agli organi contigui.
Diagnosi
Gli esami di laboratorio soltanto occasionalmente sono
utili nella diagnosi del carcinoma del pancreas. L’amilasi e
la lipasi risultano elevate nel sangue e nelle urine soltanto
nel 10% dei casi; nel 20% circa dei pazienti sono presenti
iperglicemia o glicosuria postprandiali, mentre il test di
tolleranza al glucosio è alterato nel 50% dei casi, e questo anche se solo il 6% dei pazienti sviluppa un diabete
mellito clinicamente evidente.
L’anemia, presente nel 30% dei casi, può avere diverse
cause: deficit nutrizionale, perdita di sangue occulto con
le feci (50% dei casi) e anemia delle malattie croniche; le
feci possono essere frequentemente di consistenza diminuita (spesso poltacee), ma una vera e propria steatorrea
si riscontra solo in una minoranza dei casi (10%).
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In presenza di colestasi (e quindi più spesso e più precocemente nel tumore della testa), si riscontrano un’iperbilirubinemia diretta (da cui l’ittero) e l’aumento degli enzimi
del “polo biliare” degli epatociti (␥-glutamil-transpeptidasi
e fosfatasi alcalina).
Di recente, un particolare significato dal punto di vista diagnostico è stato attribuito alla determinazione
nel sangue e nelle urine del CEA, del GT II (Galactosyl
Transferase Isoenzyme II) e del GICA (Gastric Intestinal
Carcinoma Associated Antigen). Elevati valori sierici
di CEA e di GT II sono stati riscontrati in circa il 70%
dei pazienti, anche se questi dati non sono specifici del
carcinoma pancreatico, potendosi rilevare anche in altre
condizioni (cirrosi epatica, pancreatite cronica, altri tumori gastrointestinali e non). Al contrario, il GICA (chiamato anche CA 19-9, sigla dell’anticorpo monoclonale
diretto contro di esso) risulta essere alterato in quasi il
90% dei pazienti con questa malattia, mantenendo una
buona specificità.
L’approfondimento diagnostico strumentale deve essere
guidato dalla necessità di stadiare la malattia per una
corretta impostazione del piano terapeutico e deve tenere
conto delle disponibilità tecnologiche e dell’expertise del
centro. La biopsia deve essere eseguita sulla lesione più
facilmente accessibile nei pazienti non operabili o candidati a un trattamento neoadiuvante.
L’esame radiologico di prima scelta per la diagnosi del
tumore pancreatico è la TC multidetettore trifasica (cioè
con acquisizione di immagini in fase arteriosa, portale e
di equilibrio), che ha un’elevata accuratezza nell’indicare
le dimensioni della neoplasia, nel definire i rapporti della
massa neoplastica con le strutture vicine e con i grossi vasi
addominali, nell’individuare la presenza di secondarismi
epatici, linfonodali o polmonari, permettendo di formulare un giudizio di resecabilità.
La RM nucleare moderna con immagini a elevata risoluzione, acquisizione rapida delle immagini, valutazione
volumetrica e funzionale e colangiopancreatografia, è
sicuramente uno strumento affidabile per la diagnosi
del carcinoma pancreatico. La sua esecuzione può essere
considerata in alternativa alla TC nei casi in cui sussistano allergie alla somministrazione del contrasto organoiodato.
L’esame ecografico è poco utile, in quanto condizionato
dalla costituzione fisica dei pazienti e dalla frequente
presenza di meteorismo intestinale che ostacola la visualizzazione della loggia pancreatica.
L’ecoendoscopia risulta utile ai fini del giudizio di resecabilità, consentendo di valutare il rapporto che la neoplasia contrae con i grossi vasi addominali. Inoltre, questa
metodica consente di ottenere il materiale per la diagnosi
citologica mediante agoaspirato transparietale e offre la
possibilità di palliare il dolore mediante l’alcolizzazione
del plesso celiaco.
La PET ha indicazioni più limitate data la difficoltà di
esecuzione nei pazienti con diabete non compensato e
l’elevata percentuale di falsi negativi. L’esame può fornire
informazioni complementari alla TC nei pazienti resecabili o nei pazienti con una malattia localmente avanzata
non resecabile allo scopo di escludere con maggior grado
di certezza la presenza di lesioni metastatiche. Risulta
inoltre utile durante il follow-up nei casi in cui un rialzo
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CAPITOLO 45 - TUMORI MALIGNI DELL’APPARATO DIGERENTE, DEL FEGATO, DELLE VIE BILIARI E DEL PANCREAS
Tabella 45.8 Classificazione TNM per i tumori pancreatici
T – Tumore primitivo
Tumore confinato al pancreas con diametro < 2 cm
T1
Tumore confinato al pancreas con diametro > 2 cm
T2
Tumore che si estende oltre il pancreas senza infiltrare
T3
il tripode celiaco o l’arteria mesenterica superiore
Tumore con infiltrazione del tripode celiaco
T4
o dell’arteria mesenterica superiore
N – Linfonodi regionali
Lo stato linfonodale non può essere definito
Nx
Nessuna diffusione neoplastica ai linfonodi
N0
Metastasi ai linfonodi regionali
N1
M – Metastasi a distanza
Lo stato metastatico non può essere definito
Mx
Nessuna metastasi a distanza
M0
Presenza di metastasi a distanza
M1
Stadio in base al sistema TNM
T1N0M0
IA
T2N0M0
IB
T3N0M0
IIA
T1-3N1M0
IIB
T4NqualsiasiM0
III
TqualsiasiNqualsiasiM1
IV
del marcatore tumorale faccia sospettare la presenza della
malattia non individuata dalla TC.
L’uso della laparoscopia di stadiazione è controverso. Si
ritiene che possa essere utile nei pazienti con tumore del
corpo-coda candidati alla chirurgia resettiva dato l’elevato
rischio di riscontro intraoperatorio di disseminazione
peritoneale. Permetterebbe di risparmiare un’inutile laparotomia nel 35% dei pazienti. Viceversa, nei tumori della
testa pancreatica la laparotomia risulta più frequentemente necessaria anche per la necessità di palliare l’ittero o
l’ostruzione duodenale.
Nella tabella 45.8 sono riportati la classificazione e lo
stadio TNM per i tumori del pancreas.
Terapia
Al momento della diagnosi, il carcinoma pancreatico è resecabile solamente nel 10-20% dei pazienti,
mentre nel 30-35% dei pazienti si presenta come
localmente avanzato per infiltrazione dei grossi vasi
addominali e in oltre il 50% dei casi sono già evidenziabili metastasi a distanza. La prognosi è tuttavia
infausta anche per gli stadi iniziali, dato che le sopravvivenze mediane ottenibili con la sola chirurgia
in questo sottogruppo di pazienti sono nell’ordine
dei 12 mesi e la sopravvivenza a 5 anni tra il 5% e il
10%. Questi risultati sono legati alla precoce presenza
di micrometastasi linfonodali e a distanza non individuabili con le metodiche diagnostiche disponibili.
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La sopravvivenza mediana per gli stadi III è di circa
10-12 mesi e per gli stadi IV di 5-6 mesi. Nessuno di
questi pazienti vive oltre i 5 anni.
Stadi I e II
I pazienti con malattia intrapancreatica, senza estensione al retroperitoneo o al mesocolon trasverso e
senza infiltrazione dell’arteria mesenterica superiore
o del tripode celiaco o dell’asse spleno-mesentericoportale, sono candidati alla resezione chirurgica con
intento radicale. La valutazione preoperatoria della
resecabilità presenta alcuni margini di incertezza che
devono essere verificati intraoperatoriamente. La
pancreasectomia (duodenocefalopancreasectomia
per i tumori della testa, pancreasectomia distale per
i tumori del corpo e della coda) è un intervento complesso, con complicanze perioperatorie maggiori nel
40-45% dei pazienti e tassi di mortalità perioperatoria
del 5-7%. Non è dimostrata l’utilità della linfadenectomia allargata. L’importanza della presenza di
un’équipe multidisciplinare (chirurghi, anestesisti,
internisti con specializzazione in gastroenterologia
ed endocrinologia, radiologi, nutrizionisti, infettivologi) con esperienza specifica nel trattamento
del tumore pancreatico è stata dimostrata da numerosi studi, che hanno sottolineato l’impatto sulla
sopravvivenza del volume operatorio del centro e
dell’esperienza del singolo chirurgo. In particolare, il
rischio di mortalità può aumentare dal 4% circa dei
centri che eseguono almeno 16 interventi di duodenocefalopancreasectomia ogni anno al 15% circa
dei centri dove si eseguono 2 interventi ogni anno.
Oltre al centro, tra i fattori prognostici di rilevante
importanza sono stati identificati il diametro della
lesione (superiore o inferiore ai 3 cm), il grading, il
valore del marcatore preoperatorio, lo stadio e il performance status postoperatorio. È invece controverso
il valore prognostico indipendente del margine di
resezione e della sede della lesione. Dopo chirurgia,
il tumore del pancreas tende a recidivare sia in sede
loco-regionale nel 25-60% dei casi, sia a distanza nel
51-79%. Le recidive locali isolate sono tuttavia rare e
si verificano in meno di un terzo dei pazienti, essendo
molto più frequente la contemporanea comparsa di
un secondarismo. Il trattamento adiuvante postoperatorio ha dato per molti anni risultati inconsistenti
e controversi, fondamentalmente attribuibili alla
mancanza di farmaci realmente efficaci, alla difficoltà
a somministrare dosi adeguate di chemioterapia e/o
radioterapia in pazienti generalmente debilitati dalla
malattia e dall’intervento chirurgico e a problematiche metodologiche negli studi eseguiti. Gli studi che
hanno valutato l’impatto della chemio-radioterapia
postoperatoria hanno utilizzato tecniche, schedule e
dosi attualmente considerate inadeguate per il trattamento di questa malattia e, in qualche caso, hanno
incluso un numero di pazienti inadeguato. Non sono
stati eseguiti studi con metodi moderni e non è pertanto possibile fornire informazioni attendibili sul
ruolo della chemio-radioterapia postoperatoria, che
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Parte 7 - ONCOLOGIA MEDICA
resta controverso. Dato l’elevato rischio di sviluppare
metastasi a distanza, si tende oggi a utilizzare un trattamento chemioterapico come primo intervento terapeutico postoperatorio. Due studi hanno dimostrato
che una chemioterapia con 5-fluorouracile o con
gemcitabina dopo chirurgia radicale prolunga significativamente la sopravvivenza complessiva e libera da
malattia. Recenti esperienze di impiego di schemi di
combinazione in adiuvante hanno prodotto risultati
interessanti e apparentemente superiori a quelli ottenibili con un solo farmaco, ma sono necessari studi
più ampi per confermarli. L’approccio neoadiuvante
chemioterapico o chemio-radioterapico è proposto e
utilizzato da diverse istituzioni, ma non sono finora
stati condotti studi randomizzati che permettano di
attribuire un ruolo preciso a questa strategia. Durante
il trattamento neoadiuvante, il 20-30% dei pazienti
ha una progressione di malattia e diventa inoperabile.
Secondo i sostenitori di questo approccio si eviterebbe
così un inutile e pericoloso intervento.
Stadi III e IV
Dato che la mortalità è praticamente sovrapponibile
all’incidenza, la finalità del trattamento degli stadi
III e IV è quasi sempre palliativa. Negli stadi III, il
trattamento combinato chemio-radioterapico si è
dimostrato superiore alla sola radioterapia, mentre
i risultati di confronto tra chemio-radioterapia e
chemioterapia sola sono controversi. Anche in questo
caso mancano studi di fase III sufficientemente ampi
per dare risposte definitive. Alcuni dati suggeriscono
che il miglior impiego della chemio-radioterapia
potrebbe essere quello di consolidare i risultati
ottenuti con la chemioterapia sistemica nei pazienti
che non hanno avuto progressione. L’impiego della
chemioterapia come trattamento di prima scelta negli
stadi III appare logico, dato che il 75% dei pazienti ha
una progressione a distanza, mentre solo il 25% ha
una progressione locale. Per gli stadi IV, il trattamento
chemioterapico è la prima scelta. Il chemioterapico più utilizzato è la gemcitabina, che è risultata
significativamente più efficace del 5-fluorouracile
sia in termini di risposte radiologiche, sia nel tempo alla progressione e in sopravvivenza mediana,
che viene prolungata da 4,2 mesi a 5,7 mesi. Dati i
modesti risultati in termini di risposte radiologiche
(circa il 10%) e di sopravvivenza a 1 anno (circa il
20%) ottenibili con gemcitabina, si sono susseguiti
numerosi studi di fase III che hanno valutato l’impatto sulla malattia dell’aggiunta di un secondo farmaco
alla gemcitabina. Nella pratica clinica, molti continuano a utilizzare la sola gemcitabina, temendo
che l’aumentata tossicità della combinazione possa
peggiorare la qualità di vita del paziente, mentre altri
preferiscono ricorrere alla combinazione, soprattutto
nei pazienti in buone condizioni generali. Sono stati
eseguiti numerosi studi di terapia di seconda linea,
dopo il fallimento della prima linea, che hanno dimostrato che il trattamento di salvataggio aumenta la
sopravvivenza rispetto alla terapia di supporto; non è
però possibile indicare quale sia il miglior trattamento
di seconda linea.
Non va infine dimenticato il ruolo degli interventi terapeutici palliativi finalizzati a trattare l’ittero,
l’ostruzione duodenale, il dolore, l’occlusione intestinale e il diabete che sono molto spesso presenti nei
pazienti affetti da carcinoma pancreatico. Tra le varie
opzioni di tipo chirurgico, endoscopico, radiologico
interventistico e medico disponibili saranno da preferire quelle su cui il centro ha maggiore esperienza,
anche in base alle condizioni generali del paziente e
alla prognosi.
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