da G. Boniolo, P. Vidali, Filosofia della scienza, Bruno Mondadori, Milano 1999
Cenni sulla logica modale
Con logica modale si intende in realtà un'intera famiglia di logiche, segnatamente
1. la logica modale aletica, che tratta enunciati quali "E' necessario che p", "E' possibile che
p", ecc.;
2. la logica modale epistemica, che tratta enunciati quali "So che p", "Credo che p", ecc.;
3. la logica modale deontica, che tratta enunciati quali "E' obbligatorio che p", "E' permesso
che p", ecc.;
4. la logica modale temporale, che tratta enunciati quali "E' sempre vero che p"; "Talvolta è
vero che p", ecc.;
5. la logica modale etica, che tratta enunciati quali "E' bene che p", "E' male che p", ecc.
Noi ci soffermeremo solo sulla logica modale aletica, o anche logica modale tout court.
Anche in questo caso si deve tornare ad Aristotele il quale fu il primo che discusse le relazioni fra,
e la validità di, enunciati modali. Tuttavia, nonostante l'ampia discussione che si ebbe in epoca
medievale, la data ufficiale di nascita della logica modale contemporanea la si deve indicare nel
1912 quando C.S.Lewis scrisse per Mind un saggio ormai classico sul concetto di implicazione.1
Cominciamo a capire questo punto. Sappiamo che per la logica enunciativa asserire p→q
significa asserire qualcosa di vero quando l'antecedente è falso o il conseguente è vero. Cioè, è
vero che p implica materialmente q indipendentemente dai valori di verità di p e q a eccezione
della combinazione in cui p è vero e q è falso. Si ricorderà che già in epoca greca questo tipo di
implicazione - proposta da Filone il Megarico - aveva suscitato qualche perplessità tanto che
Crisippo - lo Stoico - aveva proposto un'interpretazione della nozione di ‘implicazione’ più vicina
all'idea intuitiva. E proprio questa esigenza fu sentita anche da Lewis il quale, in puro spirito
crisippeano, propose la sua nozione di implicazione stretta, che indicheremo formalmente con il
segno ⇒.
Secondo Lewis (ma prima secondo Crisippo), p implica strettamente q, cioè p⇒q, se e solo
se la negazione del conseguente è incompatibile con l'antecedente, ovvero quando è impossibile
che si dia contemporaneamente p e ¬q, ovvero quando è necessario che p→q.
Si vede che per definire l'implicazione stretta abbisogniamo di termini modali quali
'possibile', 'necessario'. Occorre quindi un sistema che ne tenga conto. Come detto, già nelle opere
aristoteliche vi è una prima trattazione della modalità, anche se bisognerà aspettare l'epoca
medievale per cogliere meglio il significato e la validità di quattro categorie modali (necessità,
impossibilità, possibilità e contingenza) e quindi per arrivare a capire il modo in cui si relano i
corrispettivi quattro enunciati modali: enunciato necessario, enunciato impossibile, enunciato
possibile e enunciato contingente.
Dato un enunciato p, con p intendiamo "E' necessario che p"; invece con ◊p intendiamo "E'
possibile che p" (per altre notazioni, cfr. tab. 15; noi adotteremo quella riportata nella prima
colonna). In questo modo, tenendo conto di quanto detto, possiamo definire l'implicazione stretta
come
def
p⇒q = ¬◊(p∧¬q)
implicazione stretta
p⇒q
doppia implicazione stretta
p ⇔q
è necessario che
è possibile che
 p
◊p
p 3
q
p=q
Lp
Mp
p ≡q
Γp
∆p
tabella 15
1 C.I. Lewis, Implication and the algebra of logic, in "Mind", 21, 1912, pp. 522-531.
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da G. Boniolo, P. Vidali, Filosofia della scienza, Bruno Mondadori, Milano 1999
Anche in questo caso, ognuno dei due operatori modali può essere definito in funzione
dell'altro. Se si prende come primitivo quello di possibilità, l'operatore di necessità è definito come
def
 p = ¬ ◊¬p
per cui l'implicazione stretta può essere definita come
def
p⇒q =  (p→q)
Se p è l'enunciato "Socrate è greco", allora ◊p diventa "E' possibile che Socrate sia greco". Si
intuisce così che ¬◊¬p è "Non è possibile che Socrate non sia greco", ovvero "E' necessario che
Socrate sia greco".
Se, invece, si prende come primitivo l’operatore di necessità, allora quello di possibilità si
definisce come
def
◊p = ¬  ¬p
In base a ciò - come pensato da Teofrasto (II sec. a. C.) -, possiamo riscrivere il quadrato
logico in termini modali usando uno o l’altro operatore (fig. 8)
necessario
impossibile
 p
¬◊¬p
 ¬p
¬◊p
possibile
contingente
¬  p
◊¬p
¬  ¬p
◊p
figura 8
A questo punto, bisogna fare alcune considerazioni, specialmente sulle nozioni di ‘necessità’,
‘contingenza’ e ‘possibilità’ la cui interpretazione filosofica non è affatto semplice e non ambigua.
1. Necessario. L’uso che in logica modale si fa di questa nozione non ha nulla a che fare con
l’uso di locuzioni quali ‘necessità fisica’ (“E’ necessario che un corpo abbia una lunghezza
contratta se misurato da un sistema di riferimento in moto rettilineo uniforme”), o ‘necessità
causale’ (“E’ necessario che un corpo lasciato libero cada verso il centro della Terra”). D’altro
canto, la nozione che stiamo considerando non è certo un modo diverso per dire ‘inalterabile’
(“Ogni evento storico è necessario” = “Ogni evento storico è inalterabile”), ‘non abbandonabile’
(“E’ necessario credere che Dio esista” = “Non si può abbandonare la credenza che Dio esista”);
‘non razionalmente criticabile’ (“E’ necessario ammettere: Io penso” = “La proposizione ‘Io
penso’ non è razionalmente criticabile”); ‘a priori, ossia indipendente dall’esperienza sensibile’
(“Il fatto che penso è necessario” = “Il fatto che penso è a priori, ossia indipendente dall’esperienza
sensibile”). Ma, allora, qual è il senso corretto da attribuire alla nozione di ‘necessità’? Pensiamo a
una dimostrazione (o deduzione formale) che parte da certe premesse e arriva a una data
conclusione. Ebbene, se la deduzione è corretta e se le premesse sono vere, la conclusione è vera; è
questo è necessario. Come pure è necessario ogni enunciato matematico del tipo “tre per due è
uguale a sei”. Da questi due esempi, possiamo inferire, almeno intuitivamente, che il senso della
nozione di ‘necessità’ in logica modale è lo stesso che attribuiamo alla stessa nozione quando
diciamo “gli enunciati veri della logica e della matematica sono necessari”.
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Riferendosi alla dottrina leibniziana dei mondi possibili, possiamo interpretare diversamente
le nozioni modali, segnatamente quelle di ‘necessità’ e di ‘possibilità’. E’ noto (cfr. Cap. II, § 8)
che, secondo Leibniz, Dio avrebbe potuto creare mondi dove vigono regole diverse da quelle che
ci sono nel nostro e dove eventi che nel nostro hanno un certo sviluppo potrebbero averne uno
diverso. Ognuno di questi mondi che Dio avrebbe potuto creare è un mondo possibile. Da questo
punto di vista, un enunciato necessario è un enunciato che è vero in ogni mondo posibile, mentre
un enunciato possibile è un enunciato che è vero in almeno un mondo possibile.
2. Contingente e possibile. Osservando il quadrato logico modale (fig. 8), si potrebbe pensare
che sia una cosa ovvia interpretare il contingente come il contraddittorio del necessario, ossia come
¬  p. In realtà, andando a leggere Aristotele si ha una sorpresa:
“[…] dato che parecchi sono i significati della contingenza (noi parliamo quindi di contingenza sia per ciò che è
necessario, sia per ciò che non è necessario, sia per ciò che è possibile) […]” (An. pr., I, 3, 25a 36-40).
Da questo passo si ricava che il contingente è pensato come ◊p∧◊¬p.
Quindi, da un lato, si può interpretare il possibile e il contingente in funzione del loro essere
contraddittori, rispettivamente, dell'impossibile e del necessario. In questo modo si parla del
possibile e del contingente puro. Ossia,
possibile puro: il contraddittorio dell'impossibile, cioè ¬  ¬p;
contingente puro: il contraddittorio del necessario, cioè ¬  p.
Però, dall’altro lato, il possibile e il contingente possono essere entrambi interpretati come
indicanti “ciò che può essere e può non essere”, ovvero come indicanti “ciò che è possibile ma non
necessario (possibile che non)”. In tal caso, un enunciato contingente bilaterale, o possibile
bilaterale, è del tipo ◊p∧◊¬p, oppure ◊p∧¬  p.
3. Necessità della conseguenza e necessità del conseguente. Si noti che con  (p→q) si
intende la necessità di avere quella conseguenza da quell'antecedente (necessitas consequentiae). E
questo non deve affatto essere confuso, pena il cadere in una fallacia, con il fatto che il
conseguente possa essere necessario (necessitas consequentis), ovvero con p→  q. Mentre con 
(p→q) indichiamo che è logicamente impossibile che l’antecedente sia vero e il conseguente sia
falso (è la definizione di implicazione stretta); con p→  q indichiamo che l’antecedente implica
materialmente la necessità del conseguente. Distinguere i due casi, come detto, è assai importante,
specie nelle dispute filosofiche che contengono enunciati in cui compaiono i termini ‘implica’ e
‘necessariamente’. Ad esempio, una cosa è affermare (necessitas consequentiae) “E’ necessario
che se Dio prevede che l’uomo peccherà, allora l’uomo peccherà”, che vuol dire che è impossibile
che sia vero che Dio preveda che l’uomo pecchi e che sia falso che l’uomo pecchi. Ma altra cosa è
affermare (necessitas consequentis) che “Se Dio prevede che l’uomo pecca, allora necessariamente
l’uomo pecca”, che vuol dire che l’uomo peccherà necessariamente. Oppure, ricorrendo a un
esempio più quotidiano, affermare che “E’ necessario che se nessuno rubi allora il governante non
ruba”, è diverso dall’affermare che “Se nessuno ruba, è necessario che il governante non rubi”. Nel
secondo caso, l’enunciato è falso in quanto non è affatto necessario che il governante non rubi,
come più volte si ha la sfortunata occasione di sperimentare.
4. I paradossi dell’implicazione. L’idea di Lewis, quando propose l’implicazione stretta, era
quella, come detto, di rendere più vicina alla nozione intuitiva l’idea logica di ‘implicazione’ e
quindi di ovviare ai paradossi che l’implicazione materiale portava con sé. In effetti, definendo
l’implicazione nel modo proposto da Lewis, i paradossi classici svaniscono, ma non tutto fila
liscio. In particolare, la nozione di ‘implicazione stretta’ porta con sé due nuovi paradossi:
I.  p→(q⇒p) ovvero, una verità necessaria è implicata strettamente da qualunque
proposizione;
II. ¬◊p→(p⇒q)
ovvero, una proposizione impossibile implica strettamente
qualunque proposizione.
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Questo, ad esempio, comporta che, dato il paradosso I, un enunciato necessario, come “la somma
di due numeri dispari è sempre un numero pari”, possa essere dedotta da un qualunque enunciato.
5. I sistemi modali. Anche la logica modale può essere assiomatizzata a partire da un
particolare insieme di assiomi (leggi logiche) e da un particolare insieme di regole di inferenza.
Solo che, a differenza della logica enunciativa e della logica predicativa, nel caso della logica
modale, per via della non omogeneità nell’interpretazione delle nozioni modali, sono possibili più
sistemi diversi. E questo non nel senso che si hanno sistemi diversi che permettono però di
dimostrare gli stessi teoremi e di consentire le stesse inferenze, ma nel senso che si hanno sistemi
diversi, ognuno caratterizzato da un particolare insieme di assiomi e da un particolare insieme di
regole, che permettono dimostrazioni di teoremi diversi e inferenze diverse.
Dati gli scopi di questo capitolo, non ci soffermeremo sui vari sistemi modali. Accenniamo,
tuttavia, a due leggi modali (e quindi alle correlate due regole di inferenza) che, oltre a valere in
tutti i sistemi, sono estremamente usuali nella letteratura filosofica. Ovvero,
1. la legge della necessità (a necesse ad esse valet consequentia)
 P→P;
2. legge della possibilità (ab esse ad posse valet consequentia)
P→◊P.
Nel caso della logica classica, abbiamo visto che accanto al calcolo enunciativo vi è il
calcolo predicativo. Questo vale anche per la logica modale, ove, accanto al calcolo enunciativo
modale fin qui accennato, vi è il calcolo predicativo modale, ossia quel calcolo che analizza le
strutture e le connessioni di enunciati in cui sono presenti nozioni modali e quantificatori
universali o esistenziali. Nella fattispecie, se f è il predicato 'essere mortale', si ha:
 ( ∀ x)fx, ossia "E' necessario che tutti siano mortali";
◊ ( ∀ x)fx, ossia "E' possibile che tutti siano mortali";
 ( ∃ x)fx, ossia "E' necessario che qualcuno sia mortale";
◊ ( ∃ x)fx, ossia "E' possibile che qualcuno sia mortale".
Qui abbiamo indicato la modalità premettendo all'enunciato categorico la locuzione ‘E'
necessario che’, o ‘E' possibile che’; ovvero, abbiamo premesso l'operatore modale all'operatore di
quantificazione, intendendo che così si vuole modificare la categoricità dell'intero enunciato
quantificato. Tuttavia, in tal modo abbiamo accettato una particolare interpretazione della modalità
e per afferrarla conviene soffermarsi su alcune distinzioni.
1. De re e de dicto. Quando, come sopra, si intende caratterizzare modalmente la qualità di
un enunciato (dictum) si parla di modalità de dicto (“E’ necessario che Socrate sia razionale”, “E’
possibile che Socrate sia calvo”). Quando, invece, si intende caratterizzare modalmente il modo in
cui una proprietà appartiene a una cosa (res) si parla di modalità de re (“Socrate è necessariamente
razionale”, “Socrate è possibilmente calvo”). La confusione fra la modalità de dicto e la modalità
de re porta a una fallacia in quanto ciò che è vero de dicto non è detto sia vero de re, o viceversa.
Ad esempio, mentre è vero che “Socrate è necessariamente razionale”, è falso che “E’ necessario
che Socrate sia razionale”.
Si noti che non tutti accettano la possibilità di interpretare de re la modalità. Questo perché
affermare “Socrate è necessariamente razionale” equivale ad affermare “Socrate è essenzialmente
razionale”. Ovvero, visto che in tale interpretazione la categoria modale si applica al modo in cui
una proprietà si predica di una cosa, se tale categoria è quella della necessità la predicazione
potrebbe essere intesa come essenziale, avvalorando così una ben precisa tesi metafisica di stampo
essenzialista.
Vi è un secondo punto su cui vale la pena di riflettere. Coloro che accettano la possibilità di
interpretare la modalità de re, automaticamente accettano anche il fatto che essa implichi la
modalità de dicto, ma non il viceversa. Infatti, da “Socrate è (possibilmente calvo)” segue “E’
possibile che (Socrate è calvo)”.
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da G. Boniolo, P. Vidali, Filosofia della scienza, Bruno Mondadori, Milano 1999
2. Sensu diviso e sensu composito. La seconda differenza su cui bisogna porre attenzione, e
che taluni autori sostengono essere differente da quella appena discussa, appare chiara dal seguente
passo di Aristotele:
“Riferibili alla congiunzione di termini divisi sono invece esempi come questi: ‘è possibile per chi sta seduto il
camminare’; ‘è possibile per chi non scrive lo scrivere’. Il significato non è infatti lo stesso, se uno si esprime
separando ‘per chi sta seduto’ da ‘il camminare’, o se invece congiunge i due termini, dicendo che è possibile ‘per chi
sta seduto il camminare’. Egualmente avviene quando si congiunga ‘per chi non scrive lo scrivere’; ciò infatti significa
che costui ha la capacità di scrivere non scrivendo. Quando invece i suddetti termini non vengano congiunti,
l’espressione significherà che, quando non scrive, costui ha la possibilitàò di scrivere” (Soph. el., 4, 166a, 24-29).
In effetti, consideriamo l’enunciato modale “E’ possibile che chi è seduto cammini”. Se questo
enunciato modale è considerato in sensu composito può essere scritto, ponendo ‘f = ‘essere
seduto’, come
◊ ( ∃ x)[fx∧¬fx]
che è falso. Se, invece, viene considerato in sensu diviso può essere scritto come
( ∃ x)[fx∧◊(¬fx)]
che è vero.
Questa distinzione, la cui terminologia è dovuta ad Abelardo, non è detto che sia la stessa
che sussiste fra modalità de dicto e de re, anche se ci sono casi in cui ciò accade. Per afferrare la
posizione di coloro che sostengono la differenza fra le due coppie, consideriamo l’enunciato
modale “E’ possibile che Socrate sia calvo e non calvo”. Se lo interpretiamo de dicto, diventa “E’
possibile che (Socrate è calvo e non calvo)”. Ma questo può essere considerato in sensu composito:
“E’ possibile che (Socrate è calvo e non calvo)”, che è falso (in questo caso, l’interpretazione de
dicto e il considerarlo in sensu composito coincidono). Oppure può essere preso in sensu diviso:
“Socrate è (possibilmente calvo) e non calvo”, che è vero.
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