2. METODI DI SCOPERTA DEI PIANETI EXTRASOLARI L'osservazione dei pianeti extrasolari pone sfide molto ardue agli astronomi e ai tecnici. Ciò che si vuole osservare, infatti, è un corpo piccolissimo rispetto alla stella attorno a cui ruota. Più in dettaglio, i principali fattori che limitano l'efficacia delle osservazioni sono il contrasto di luminosità e il piccolo rapporto di massa tra il pianeta e la stella ospite, oltre che l'esigua distanza angolare tra i due oggetti. È possibile quantificare queste grandezze. Il contrasto di luminosità (o il rapporto tra i flussi emessi) tra il pianeta e la stella ospite si aggira, nel visibile, intorno a IO"' (la stella è un miliardo di volte più brillante) mentre è dell'ordine di 10"* (la stella è diecimila volte più brillante) nella regione infrarossa. Confronto tra i flussi del Sole e di alcuni pianeti del Sistema Solare. Entrambe le scale sono logaritmiche. Per le enormi distanze a cui si trovano le stelle dal Sole, la separazione angolare tra stella e pianeta è così piccola che neppure i grandi telescopi professionali sono per ora in grado di risolvere il pianeta. Per esempio, il semiasse orbitale di Giove, 5,2 UÀ, a 10 parsec di distanza (equivalenti a 32,6 anni luce) verrebbe visto sotto un angolo di soli 0,5 secondi d'arco ("). Teorica mente, un telescopio professionale (per esempio con uno specchio di 4 m, o anche meno) potrebbe risolvere il pianeta, ma quest'ultimo verrebbe a trovarsi nell'ala della figura di diffrazione dello strumento, dove prevale il disturbo dei fotoni diffusi dalla microragosità dello specchio, dai sostegni dello specchio secondario del telescopio, dalle variazioni di densità dell'aria e dai moti atmosferici lungo la linea di vista*3. Il rapporto tra la massa della stella centrale e quella del pianeta è tipicamente dell'ordine di 1000. Tanto per farsi un'idea, la massa totale dei pianeti del nostro Sistema Solare rappresenta solo lo 0,2% della massa del Sole. Di conseguenza, le perturbazioni gravitazionali che il pianeta esercita sulla stella sono di piccola entità e quindi diffìcilmente rilevabili. Malgrado queste difficoltà, numerosi metodi sono stati sviluppati allo scopo di esplorare gli immediati dintorni di stelle simili al Sole (ovvero stelle di Sequenza Principale dei tipi spettrali F, G e K) per ricercarvi eventuali pianeti e per la successiva caratterizzazione delle condizioni fisiche e chimiche che li distinguono. I metodi utilizzati vengono suddivisi in tré classi fondamentali: • i metodi diretti, che permettono di osservare direttamente il pianeta attraverso un sistema fotometrico o di registrare lo spettro della sua atmosfera; • i metodi indiretti, che si basano sugli effetti che un eventuale pianeta genera sulla stella ospite. Questi I vari metodi strumentali per la scoperta dei pianeti extrasolari. possono a loro volta essere suddivisi in: metodi dinamici, microlensin^ e metodo dei transiti; • miscellanea: in questa classe sono raccolti i metodi non contemplati nelle altre due classi, che comprendono tutti quei fenomeni osservativi interpretabili come effetto delle presenza di uno o più pianeti o della loro fase di formazione. Nel seguito descriveremo alcuni metodi delle prime due classi, entrando nel merito dei problemi, delle tecniche adottate e dei successi ottenuti nelle osservazioni dal suolo. 2.1 METODI DIRETTI A questa categoria appartengono tutti i metodi, spettroscopici e fotometrici, che permettono di osservare direttamente il pianeta o la sua atmosfera. La grossa difficoltà di questo tipo di osservazioni è l'estrema debolezza dell'emissione (ottica riflessa e/o infrarossa termica) del pianeta rispetto a quella della stella centrale. Un modo per ovviarvi è quello di scegliere opportunamente la banda di lunghezze d'onda dentro la quale ottimizzare il sistema di osservazione. Infatti, grazie ai differenti valori del contrasto di luminosità Valore del diametro di un telescopio occorrente per la risoluzione di un pianeta posto alla distanza orbitale indicata, osservato da IO parsec di distanza. La linea continua si riferisce a un pianeta con un raggio e un contrasto di luminosità nel visibile pari a quello gioviano. La linea tratteggiata si riferisce allo stesso tipo di pianeta ma osservato nell'infrarosso (alla lunghezza d'onda di 2,2 firn), dove il contrasto di luminosità si attesta attorno a 1CF4. tra un pianeta e la sua stella nelle diverse regioni dello spettro, si può riuscire a guadagnare anche 5 ordini di grandezza nel contrasto. Se per esempio consideriamo una stella gemella del Sole, posta a una distanza di 10 parsec dall'osservatore, per poter separare dalla stella, nell'intervallo di lunghezze d'onda del visibile, un Giove che le orbita intorno a 5,0 UÀ, occorrerebbe utilizzare un telescopio di circa 30 m di diametro. Al contrario, se usiamo il trucco di osservarla nel vicino infrarosso, dove il contrasto di luminosità non è così estremo, possiamo risolvere il pianeta gioviano con un telescopio con specchio primario del diametro di 8 m. In questo ragionamento non si è tenuto conto degli effetti della diffusione della luce causati dalle parti meccaniche dello strumento (per esempio i sostegni dello specchio secondario) e degli effetti indotti dai moti turbolenti dell'atmosfera che provocano piccole variazioni nelle traiettorie dei singoli fotoni. Il risultato è che la qualità ottica del telescopio - o, come si dice in termini tecnici, la sua figura di diffrazione - viene degradata al punto che, anche con lo specchio primario delle dimensioni giuste, l'immagine del pianeta riprodotta nel piano focale risulterebbe confusa con i fotoni derivanti dalla stella. Sono perciò importanti tutti gli sforzi tecnici tendenti a migliorare le immagini sul piano focale del telescopio, correggendo o riducendo gli effetti di degrado indotti dalle sorgenti di luce diffusa e dall'atmosfera terrestre. Le tecniche adottate modificano direttamente il fronte d'onda della luce osservata, mascherano opportunamente la cosiddetta pupilla d'apertura (nella maggior parte dei casi lo specchio primario) del telescopio, oppure utilizzano complicati cammini ottici per far interferire fra loro i fotoni raccolti da diversi telescopi. Nel primo caso la tecnica è detta ottica adottiva, nel secondo si parla di coronografia e nell'ultimo di tecniche interferometriche. L'ottica adattiva è una tecnica in cui viene misurata con opportuni sensori la forma del fronte d'onda (l'insieme delle traiettorie dei fotoni) della luce che ci giunge da una sorgente, in modo da capire quanto e dove si discosti dalla forma ideale; a quel punto, utilizzando una batteria di pistoni comandati da un calcolatore, si applicano in tempo reale, da dietro, punto per punto, le pressioni opportune che modificano la forma Confronto tra l'immagine del sistema binario della Glie-se 229 presa nel vicino infrarosso con un riflettore di 1,5 m a Monte Pa-lomar utilizando un modulo di ottica adottiva e quella presa dal Telescopio Spaziale "Hub-ble" (HST).La stellina compagna è una nana bruna di una quarantina di masse gioviane. La risoluzione del-l'HST è di gran lunga superiore anche per via del maggiore diametro, ma soprattutto per il fatto che, essendo in orbita, elude le aberrazioni introdotte dall'atmosfera. Comunque, il risultato ottenuto con un piccolo strumento al suolo, a cui è applicato un sistema d'ottica adottiva, non è certo da dispreizare. dello specchio in modo tale che la forma del fronte d'onda riflesso si avvicini il più possibile a quella ideale. In definitiva, il fronte d'onda riflesso, corretto dal sistema d'ottica adattiva, risulterà molto prossimo, come forma, alla superficie di una sfera, essendo state rimosse tutte o quasi le aberrazioni introdotte dalla turbolenza dell'atmosfera. Il risultato è la diminuzione del cerchio di confusione (l'immagine di una sorgente puntiforme) che viene a formarsi sul piano focale. La tecnica interferometrica consiste nel far interferire fra loro i fasci di luce raccolti da due o più telescopi, posti a una certa distanza l'uno dall'altro, che osservano lo stesso oggetto. Così come il potere risolutivo di un telescopio migliora all'aumentare del suo diametro, allo stesso modo il potere risolutivo di un sistema in-terferometrico migliora quanto più aumenta la mutua distanza dei diversi telescopi. In un telescopio, il potere risolutivo è dato dal rapporto tra il diametro effettivo e la lunghezza d'onda centrale della banda fotometrica di osservazione. In un sistema interferometrico, è la distanza tra i telescopi (la base) che costituisce il diametro efficace del sistema e quindi determina il potere risolutivo. La luce proveniente dai diversi telescopi viene convogliata a un sistema ottico centrale dove i fasci, a causa del differente cammino ottico, interferendo producono una serie di frange chiare e scure. Questo sistema è usato da decenni nella banda radio; più recentemente ha fatto il suo ingresso anche nel campo dell'astronomia infrarossa e ottica. Un sistema complesso, che fa uso dei quattro telescopi della classe di 8 m (VLT, Very Largo Telescope) e alcuni di dimensioni minori, è stato costruito e messo in funzione da poco al Cerro Paranal, in Cile, nel deserto di Atacama. 2.2 METODI INDIRETTI Con i metodi indiretti non si cerca di osservare il pianeta, ma di misurare certi effetti indotti dalla sua presenza. Come anticipato, essi possono essere suddivisi in tre classi principali: 1. metodi dinamici 2. microlensing 3. metodo dei transiti I metodi dinamici comprendono tutte quelle tecniche, spettroscopiche o fotometriche, che si propongono di dedurre l'esistenza di un pianeta dalle variazioni dinamiche che la sua presenza provoca sulla stella ospite, in particolare su tre grandezze fondamentali: la veloci // transito di Mercurio sul disco solare (a sinistra), avvenuto nel maggio del 2003, e quello di Venere (sotto), osservato I'8 giugno 2004. Il dischetto nero di Mercurio (in alto) è più piccolo delle macchie solari che si osservano in basso. tà radiale della stella (cioè la componente della velocità lungo la nostra linea di vista), la sua posizione astro-metrica e il tempo di arrivo (rivelazione) del segnale emesso (l'intervallo di tempo, anticipo e ritardo, necessario alla luce per attraversare lo spazio dell'orbita). La misura di quest'ultima grandezza viene generalmente eseguila su quelle stelle che, come le pulsar, emettono segnali discreti, a impulsi. Una pulsar (la PSR 1257+12), in modo del tutto inaspettato, ha effettivamente mostralo una variazione periodica del tempo di arrivo del suo segnale pulsato, che la successiva analisi ha permesso di associare alla presenza in orbita di tré corpi planetari con masse stimate dell'ordine di quella terrestre. Il m.icrolensing è un metodo fotometrico che sfutta il fenomeno delle lenti gravitazionali, ossia della deviazione della traiettoria della luce da parte del campo gravitazionale di un corpo massiccio interposto tra la sorgente e l'osservatore terrestre. I metodo dei transiti, infine, si basa sulla rilevazione della diminuzione della luce della stella a causa del passaggio del pianeta sul disco stellare, proprio come è accaduto 1'8 giugno 2004 con il transito di Venere sul Sole. Ognuna di queste tecniche, oltre alle difficoltà strumentali delle osservazioni collegato con le piccole variazioni delle grandezze fisiche in gioco, presenta notevoli difficoltà di interpretazione del risultalo. Infatti, la variazione misurata, qualunque essa sia, potrebbe essere dovuta anche a qualche fenomeno fisico legato all'attività della stella. Per esempio, una macchia stellare, alterando con la sua presenza la distribuzione di luminosità del disco, potrebbe simulare variazioni di velocità radiale o, addirittura, il transito di un pianeta davanti alla stella. L'osservazione deve quindi essere preceduta o seguita da osservazioni complementari che consentano di valutare attentamente le caratteristiche di attività della stella per essere sicuri che l'effetto osservato sia realmente dovuto alla presenza di un pianeta. 2.2.1. Metodo della spettroscopia Doppler Misurando per lungo tempo la variazione della velocità radiale di una stella che sia accompagnata da un pianeta, è possibile ricavare la componente della sua velocità orbitale lungo la dirczione dell'osservatore (non solo il pianeta, ma anche la stella orbita infatti intorno al centro di massa del sistema stella-pianeta). Una stella singola, senza pianeti, non mostrerà alcuna variazione di velocità radiale; una stella accompagnata da un pianeta tradirà la sua presenza attraverso queste variazioni che, tra l'altro, saranno pcriodiche, con lo stesso periodo orbitale del pianeta. Questa velocità (indicata spesso con il termine moto riflesso) può essere misurata con uno spettroscopio grazie all'effetto Doppler*4. La variazione della velocità radiale dipende dalle caratteristiche geometriche dell'orbita (per esempio, dall'inclinazione del piano orbitale rispetto alla linea di vista, dal semiasse e dall'eccentricità), oltre che da quelle fisiche, come il rapporto tra le masse delle componenti il sistema. Per avere un'idea delle grandezze in gioco, consideriamo il caso di alcuni pianeti del Sistema Solare (v. tabella che segue). Giove imprime al Sole un moto riflesso di 12 m/s mentre Saturno di circa 3 m/s. Terra Giove massa masse gioviam 3,16X10"3 1,0 Saturno 3,01 Xl(J' 2 Urano 4,59 XI ONettuno 5,41 X IO-2 a UÀ 1,0 5,2 0,0167 0,0483 P anni 1,0 11,86 Vs m/s 8,96*10-2 12,4 9,5 0,0560 29,46 2,8 19,2 30,1 0,0461 0,0097 84,01 0,30 164,79 0,28 Caratteristiche orbitali (semiasse maggiore, a; eccentricità, e; periodo P) di alcuni dei pianeti del Sistema Solare. Nell'ultima colonna sono indicate le ampiezze del moto riflesso indotto sul Sole dal pianeta corrispondente. Si noti quanto piccole siano le variazioni Questo tipo di misura, per l'esiguità delle grandezze in gioco, viene effettuato con spettrografi ad alta risoluzione. Nella figura alla pagina seguente vengono illustrati i limiti di osservabilità per i pianeti extrasolari calcolati per diversi valori della precisione raggiungibile dagli spettroscopi (espressa in m/s). Sono indicati i valori dei moti riflessi indotti su una stella come il Sole da un pianeta che abbia le caratteristiche dei nostri pianeti giganti. La teoria ci dice che per poter osservare, senza ambiguità, un segnale con un dato strumento è necessario che il segnale sia almeno 4 volte maggiore della sensibilità strumentale. Nel caso di un pianeta come Giove, ciò implica che un valore consono della sensibilità dello spet-trografo dovrebbe essere di 3 m/s. La misura di così esigui valori della velocità radiale viene però compromessa da tutta una serie di instabilità a cui uno spettrografo è soggetto a causa delle variazioni di temperatura o dei diversi cammini ottici della luce dal telescopio al rivelatore. La tecnica tradizionalmente usata per ottenere curve di velocità radiali Osservabilità dei pianeti extrasolari. in ascissa è riportata la massa planetaria, in ordinata il semiasse maggiore dell'orbita. Il diagramma è stalo costruito per una stella di massa pari a quella del Sole e considerando nulla l'eccentricità orbitale. Per confronto, vengono indicate le posizioni relative ad alcuni pianeti del Sistema Solare. prevede l'acquisizione alterna di spettri della sorgente e della lampada per la calibrazione in lunghezza d'onda. In questo modo, si arriva a correggere in parte gli errori dovuti alle flessioni meccaniche dello strumento, ma non quelli connessi a una diversa illuminazione della fenditura oppure a dilatazioni delle ottiche per incontrollabili sbalzi, anche piccoli, di temperatura. In definitiva, la precisione raggiungibile con questa tecnica è dell'ordine dei 100 m/s. Sia il metodo di osservazione sia l'analisi dati devono essere tali da ridurre al minimo tutte le sorgenti d'errore strumentali in modo da avere, al limite, solo l'errore dovuto alla statistica dei fotoni rilevati. In altre parole, è fondamentale fornire lo spettrografo di un sistema di riferimento inerziale per la valutazione degli spostamenti delle lunghezze d'onda, che sia stabile nel tempo, riproducibile, simultaneo all'acquisizione dello spettro della sorgente e che utilizzi lo stesso percorso ottico. Il primo tentativo fu fatto utilizzando per la calibrazione le righe di assorbimento dell'atmosfera terrestre, in particolare quelle dell'ossigeno molecolare (Oz) a 630 nm, ottenendo precisioni di circa 15 m/s. Successivamente sono state utilizzate celle di vetro di alta qualità ottica contenenti gas opportuni. Queste celle vengono introdotte nel cammino ottico dello spettrografo (prima della fenditura) in modo da ottenere uno spettro di riferimento sovrapposto a quello della stella. Il gas utilizzato nella prima cella assorbente fu il fluoruro di idrogeno (HF). La necessità di scaldare il gas a temperature di circa 100 °C (per avere all'interno della cella le condizioni di pressione atte a produrre righe con un assorbimento abbastanza profondo) e la circostanza che si tratta di un gas corrosivo e venefico, hanno fatto sì che esso venisse ben presto abbandonato. Successivamente è stato utilizzato lo iodio molecolare che non è corrosivo ne velenoso e che produce, nella regione spettrale di interesse, una selva di righe di assorbimento molto sottili. Inoltre, una cella allo iodio è relativamente facile da realizzare e da mantenere a causa della bassa temperatura a cui lo iodio sublima (circa 40 °C). Per portare lo iodio alla pressione di lavoro (circa un'atmosfera), è sufficiente mantenere la cella a una temperatura di 50 °C. Questo permette di non alterare la larghezza delle righe. Per ricavare l'informazione sullo spostamento Doppler delle righe nello spettro della stella è necessario costruire un modello dello spettro osservato che, partendo dagli speltri ottenuti allo spettrografo (quello dello iodio, quello della stella e il cosiddetto profilo strumentale dello spettrografo), attraverso un opportuno algoritmo consente di ricostruire lo spettro stellare e di calcolare la velocità radiale. Nella foto alla pagina seguente è mostrata la cella allo iodio montata a bordo dello spettrografo ad alta risoluzione SARG (costruito presso l'Osservatorio Astronomico di Padova) che funziona dal 1999 presso il Telescopio Nazionale Galileo alle Isole Canarie. Questo spettrografo, con la cella assorbente allo iodio, è in grado di raggiungere precisioni da 3 fino a 1,5 m/s. Una tecnica alternativa al metodo della cella allo iodio è quella che utilizza semplici sorgenti di calibrazione, quali le lampade al torio. Questa tecnica, detta del torio simultaneo, si è sviluppata con l'uso dell'alimentazione a fibre ottiche degli spettrogratì. Le fibre ottiche sono infatti molto utili per disaccoppiare meccanicamente lo spettrografo dal telescopio e dai suoi movimenti. Questo permette di avere tutte le componenti dello strumento con la stessa attitudine alla gravita e inoltre di controllarlo termicamente, per esempio stazionandolo in una sala termalizzata. La tecnica consiste nell'ottenere, contemporaneamente allo spettro della stella, uno spettro del torio allineando sulla fenditura dello spettrografo due fibre ottiche. Quella della stella proviene dal piano focale del telescopio e, quella del torio direttamente dalla lampada. Il sistema è realizzato in modo che le due sorgenti abbiano lo stesso percorso ottico. Il processo di misura della velocità radiale viene svolto in due fasi. Come prima cosa vengono illuminate entrambe le fibre con la lampada di calibrazione al torio (procedura di calibrazione); A destra, la cella allo iodio dello spettragrafo ad alta risoluzione Galileo (SARÒ). Lei luce entra da una delle due aperture laterali. È visibile anche il riscaldatore. Sotto, sono rappresentati (dall'alto verso il basso): lo spettro che si ottiene facendo passare per la cella assorbente la luce di una lampada alogeno, lo spettro della stella con pianeta 51 Peg e, infine, lo spettro della stella 51 Pegasi con sovrapposto quello della cella. Lo spettragrafo HARPS dell'ESO è stato costruito per le misure di velocità radiale con la tecnica del torio simultaneo zione scientifica viene eseguita osservando contemporaneamente sulla seconda fibra la lampada al torio. L'eventuale spostamento tra i primi due spettri di calibrazione del torio viene utilizzato per correggere gli spostamenti in lunghezza d'onda dallo spettro di monitoraggio, attraverso un algoritmo che permette di confrontare i profili spettrali. Questo metodo viene utilizzato da alcuni spettrografi in uso presso grandi Osservatori, come ELODIE, CORALIE, FEROS e, ultimamente, HARPS dell'ESO. Le precisioni che si possono raggiungere sono dell'ordine dei 10 m/s, mentre per l'ultimo arrivato HARPS, montato al 3,6 m dell'ESO a La Siila (Cile), si arriva a risoluzioni di 1 m/s. 2.2.2. Astrometria Le osservazioni astrometriche misurano la variazione della posizione della stella causata dalla presenza di un corpo orbitante intorno a essa. L'ampiezza dello spostamento angolare della stella è funzione della massa del pianeta, della massa della stella, della distanza del sistema dall'osservatore e infine del raggio orbitale del pianeta. Nel caso di un pianeta come Giove, a 5 UÀ da una stella come il Sole, posta a una distanza di 10 pc da un osservatore terrestre, lo spostamento angolare della stella sarebbe di 0,5 millisecondi d'arco (mas). Nella tabella qui sotto sono riportati i valori degli spostamenti astrometrici impressi alle loro stelle da pianeti con masse pari a Giove, Saturno e Nettuno, osservati da una distanza di 10 pc. Nell'ultima riga è considerato anche il caso di un pianeta di taglia terrestre, l'unico che richiede osservazioni astrometriche con precisione migliore del microsecondo d'arco (u-as). HB^B^^B^^^^BSBSnF-mnffS'Bffiffiraraffi^B^BI Stella Lo spostamento astrometrìco (in jlas) osservato da 10 pc di distanza per stelle di diversi tipi spettrali (FO, G2 come il Sole, KO e MO), e diversa massa (tra parentesi, in unità solari) prodotto da pianeti di massa pari a quella dei pianeti giganti del Sistema Solare e della Terra. (spettro e massa) Pianeti Giove Saturno Urano Terra F0(l,55) G2 (1,06) KO (0,82) MO (0,52) 349 104 16 0,21 497 149 23 0,30 586 175 27 0,36 821 246 38 0,50 L'importanza del metodo astrometrico risiede nel fatto che dalla misura dell'elongazione della stella è possibile risalire alla massa del pianeta, anche se non si conosce l'inclinazione ; del piano orbitale rispetto alla linea visuale (ciò che invece introduce una certa indeterminazione nel metodo Doppler). Inoltre, poiché l'ampiezza angolare dell'oscillazione è proporzionale al raggio orbitale del pianeta, il metodo risulta particolarmente efficiente nel rivelare pianeti lontani dalle loro stelle. Il metodo astrometrico è limitato principalmente dalla distanza del sistema dall'osservatore: lo si può applicare a stelle la cui distanza non superi qualche centinaio di pc; peraltro, permette di scoprire pianeti con massa anche solo di 10 masse terrestri attorno a stelle vicine. Le tecniche astrometriche vengono utilizzate per osservazioni dal suolo o dallo spazio nelle regioni del visibile e dell'infrarosso, utilizzando sia telescopi che interferometri. L'uso di rivelatori CCD nel piano focale di grandi telescopi può portare a raggiungere, come per il progetto USNO, precisioni di 1 mas. Anche per questo tipo di misure, se fatte dal suolo, il problema maggiore è costituito dalla turbolenza atmosferica e dalla rifrazione cromatica differenziale*5, che falsano la posizione dei centri delle immagini delle stelle. L'astrometria interferometrica ha due vantaggi: la migliore risoluzione e la sensibilità. Le accuratezze richieste al metodo astrometrico per la scoperta di pianeti orbitanti attorno a stelle vicine sono dell'ordine di 10-100 Uas: con risoluzioni di questo tipo è possibile trovare pianeti con massa pari a quella di Urano. Il problema è che attualmente, per garantire simili prestazioni occorre portare la strumentazione fuori dall'atmosfera, e infatti negli ultimi anni sono state progettate numerose missioni spaziali astrometriche con lo scopo di rilevare anche pianeti extrasolari. 2.2.3. Microlensing II metodo del microlensing si basa sul fenomeno della curvatura della traiettoria dei fotoni provenienti da una sorgente lontana ad opera del campo gravitazionale di un oggetto interposto tra la sorgente e l'osservatore. In altre parole, considerando lo schema della figura qui sotto la luce proveniente da una stella di sfondo viene deviata dalla sua traiettoria da un oggetto (lente gravitazionale) interposto tra l'osservatore e la sorgente. Il risultato è lo sdoppiamento dell'immagine della sorgente (due immagini apparenti). L'apertura angolare tra le due immagini è funzione della massa della lente, della separazione angolare tra la sorgente e la lente, nonché della loro mutua distanza. Nel caso in cui la lente gravitazionale abbia una massa tipicamente stellare (si parla allora di microlente), la separazione angolare tra le due immagini della lontana sorgente sarà così piccola che non le si potrà risolvere. Se la sorgente lontana non è immobile sulla volta cele- geometrica del fenomeno della lente gravitazionale. ste, ma si muove, e spostandosi passa dietro la lente, quello che si osserverà sarà un aumento, seguito da una diminuzione, della luminosità dell'immagine della sorgente: la variazione di luminosità con il tempo (la forma della curva di luce) è perfettamente prevedibile dalla In alto, definizione geometrica del raggio angolare di Einstein e rappresentazione di varie possibili traiettorie della lontana sorgente; qui sopra, le corrispondenti curve di luce per microlente singola. La curva mostra un picco deciso in corrispondenza della traiettoria con passaggio più ravvicinato. teoria una volta che si conoscano le condizioni geometriche e fisiche del fenomeno. Per esempio, la curva presenta un picco sempre più accentuato man mano che la traiettoria proiettata della stella di sfondo passa vicino alla lente. TI fenomeno inizia nel momento in cui la sorgente di sfondo entra in una regione delimitata dal cosiddetto raggio angolare di Einstein, che è funzione della massa della lente. Per lenti di tipo stellare, il raggio di Einstein ha una dimensione dell'ordine del millesimo di secondo d'arco. La presenza di un oggetto orbitante intorno alla lente all'interno della cosiddetta zona di lensing, come potrebbe essere un pianeta attorno alla sua stella, produce una caratteristica distorsione nella curva di luce (v. figura qui sotto), dalla cui forma e dalla cui durata è possibile risalire al rapporto tra le masse della lente principale (la stella) e la secondaria (il pianeta). In linea di principio, questo metodo è utilizzabile per la Curve di luce di eventi di microlensing nel caso di una lente singola (qui sotto) e di una lente con pianeta (in basso). ricerca sia di pianeti giganti, sia alla scoperta di pianeti di tipo terrestre. La durata della cosiddetta anomalia planetaria nella curva di luce, che dipende sia dalle dimensioni della sorgente sia dalle dimensioni delle lenti, nella maggior parte dei casi eccede o è pari alla durata di una notte osservativa. Questo, insieme al fatto che occorrono almeno 10 misure discrete fotometriche perché un'anomalia planetaria sia riconosciuta come tale, implica che non è possibile portare al successo un programma di ricerca basato su questo metodo con un solo telescopio. Per avere un'alta probabilità di successo ci vuole una rete planetaria di piccoli telescopi in grado, una volta lanciato l'allarme, di osservare per l'intera durata del fenomeno la curva di luce della sorgente individuata. Il principale vantaggio di questo metodo è che la zona di amplificazione dovuta al pianeta risulta indipendente dalla massa del pianeta stesso. Questo ne fa uno dei metodi votati alla scoperta di pianeti anche di tipo terrestre. Inoltre, può essere utilizzato per cercare pianeti anche di stelle molto lontane, e non solo di quelle nei dintorni del Sole. Come argomento a sfavore si ha che l'evento di microlensing è unico e irripetibile. 2.2.4. Fotometria periodica: i transiti Se il piano orbitale del pianeta è visto perfettamente di taglio (o quasi) dall'osservatore terrestre, capita che il corpo planetario passi davanti al disco della stella, causando un momentaneo calo di luce. Il metodo dei transiti si basa sull'osservazione di questo fenomeno, ossia della diminuzione di luminosità della stella che si ripete periodicamente. L'evento è del tutto acromatico, ossia il calo è presente nella curva di luce indipendentemente dalla banda spettrale a cui si osserva. Il calo di luce, la sua durata e la forma della curva di luce dipendono principalmente dal raggio del pianeta e dal suo semiasse orbitale. Il transito del pianeta davanti al disco della stella è un fenomeno abbastanza raro poiché deve verificarsi la condizione che l'orbita del pianeta sia tale per cui osservatore, pianeta e stella siano quasi perfettamente allineati. La principale informazione che si può ottenere dall'osservazione di questi eventi riguarda il raggio del pianeta. Infatti, la profondità del minimo della curva di luce Probabilità geometrica di un transito. D è il diametro della stella. Il transito si rende possibile solo se la disposizione del piano orbitale è all'intemo di un certo angolo, tanto più piccolo quanto maggiore è il raggio orbitale: di fatto, l'occorrendo. di un transito è sempre meno probabile quanto più il pianeta orbita a grande distanza dalla sua stella. dipende dal rapporto tra i quadrati dei raggi del pianeta e della stella stessa. Conoscendo le caratteristiche della stella, è allora possibile risalire al valore del raggio del pianeta. Questa informazione è importantissima, specie se il pianeta è stato rivelalo anche con il metodo della velocità radiale. Con il metodo Doppler, infatti, non si ottiene direttamente la misura della massa Mp del pianeta, ma solo il valore del prodotto // transito di un pianeta sul disco stellare: sono rappresentati l'istante del primo contatto (2), la fase centrale (3) e i punti corrispondenti sulla curva di luce. (Mp- sen i), dove i è l'inclinazione del piano orbitale del pianeta rispetto al piano del cielo (;' = 0° se l'orbita è disposta "di faccia"; ; = 90° se l'orbila è disposta "di taglio"). Poiché non v'è modo di conoscere per via indipendente il valore dell'inclinazione, resta sempre un indeterminato il valore vero della massa planetaria. Al contrario del metodo delle velocità radiali, l'osserva-zionc di un transito e la forma della curva di luce risultante permettono di determinare sia il rapporto fra i raggi della stella e del pianeta, sia il valore dell'inclinazione dell'orbita. Questo consente di risalire, una volta nota la massa minima del pianeta dalle osservazioni Doppler, al valore della massa vera. Ora, conoscendo il raggio, possiamo anche valutare la densità del pianeta e capire se è di natura gassosa o rocciosa. Possiamo altresì valutare la sua gravita superficiale e avere un'idea sull'atmosfera e sulla sua possibile composizione chimica. Molti sono i programmi di ricerca di pianeti che, utilizzando telescopi dal suolo, adottano il metodo dei transiti. Uno di questi è l'italiano RATS, che coinvolge i telescopi dell'INAF, Istituto Nazionale di Astrofisica, presenti ad Asiago. I programmi di ricerca dal suolo hanno lo scopo di trovare attorno a stelle simili al Sole pianeti giganti, come Giove o più grandi, che orbitino a distanze paragonabili a quella di Mercurio. In questo caso l'interesse non risiede nella loro eventuale abitabilità, ma nella loro esistenza e nel fatto che per loro tramite si riuscirà a comprendere più a fondo il processo di formazione e di evoluzione dei pianeti. Per le osservazioni dallo spazio con il metodo dei transiti sono state progettate alcune missioni spaziali sia dall'Agenzia Spaziale Europea sia dalla controparte americana, la NASA. Tali missioni si prefiggono lo scopo di trovare pianeti simili alla Terra sia per dimensioni sia per posizione rispetto alla loro stella centrale. Questi pianeti, per similitudine di condizioni con la Terra, potrebbero essere abitabili e questa è la loro attrattiva principale. 2.3 MISCELLANEA Oltre alle tecniche descritte, volte a individuare la presenza di pianeti attorno ad altre stelle e a misurare alcune delle loro caratteristiche orbitali e fisiche, ci sono vari tipi di osservazioni che ci consentono indiretta mente di migliorare le nostre conoscenze sui sistemi planetari extrasolari. Tra queste, le osservazioni più importanti riguardano i dischi circumstellari, che sono il luogo di formazione dei pianeti. Vi è una stretta correlazione tra pianeti e dischi cir-cumslellari. Quando si osserva un disco, è probabile che lì si stia formando, o si sia già formato, un sistema planetario, anche se ancora non riusciamo a rivelarlo. I dischi sono più semplici da osservare che non i pianeti, non solo per le loro dimensioni (che possono raggiungere le 1000 UÀ), ma anche per la forte emissione in un ampio intervallo di lunghezze d'onda, dai 2 |-tm a 1 mm, ossia dall'infrarosso fino al limite delle micronde. In questo intervallo i dischi emettono uno spettro molto più largo di un tipico corpo nero, essendo lo spettro dovuto alle emissioni di zone che si trovano a temperature differenti, dai 1000 K vicino alla stella ai 20 K ai confini esterni del disco. Il prototipo di questi dischi è quello della stella beta Pictoris, scoperto nel 1984. Da allora sono molti i dischi circumstellari in formazione scoperti. Nella Grande Nebulosa di Orione il Telescopio Spaziale "Hubble" ha identificato una sessantina di dischi protoplanetari che si trovano in una fase evolutiva simile a quella del Sistema Solare di circa 4 miliardi di anni fa. Stelle in questa fase sono osserva- Immagine a falsi colori del disco di beta Pictoris. Sopra, lo si vede per intero e viene comparato con l'orbita di Fiutone. Sotto, ingrandita, la parte interna del disco. Anche qui si riporta l'intero Sistema Solare per confrontare le dimensioni. Dischi protoplane-tari osservati dall'HST nella grande Nebulosa di Orione. bili anche grazie alla loro intensa attività (per esempio, emettono getti di materia) e sono dette, dal nome del loro archetipo, oggetti T Tauri. L'abbondanza osservata fa pensare che la loro presenza sia piuttosto comune nella Galassia. 3. PROGRAMMI DI RICERCA ATTIVI I risultati finora ottenuti La ricerca dei pianeti extrasolari iniziò molto prima della scoperta di Michel Mayor e Didier Queloz. Influenzato dalla teoria di Immanuel Kant sulla formazione del Sistema Solare, a partire dalla contrazione di una grande nube di gas, William Herschel nel XVIII secolo individuò una serie di oggetti celesti con una forma approssimativamente sferica, che chiamò nebulose planetarie. In realtà, le nebulose planetarie non sono sistemi solari in formazione, ma il risultato dell'espulsione degli strati esterni di una stella che ha ormai esaurito il suo combustibile nucleare e si sta trasformando in una nana bianca. Per molto tempo, le ricerche di pianeti extrasolari si basarono sulle misure astrometriche, le uniche misure di precisione realizzabili dell'astronomia del XIX e nella prima metà del XX secolo. Tuttavia, la precisione richiesta (circa un millesimo di secondo d'arco) è ancora al limite estremo delle possibilità tecnologiche attuali, e in realtà la tecnica astrometrica non ha portato sinora a scoperte significative, anche se si pensa che i satelliti dei prossimi decenni (SIM e GAIA) e l'uso degli interferometri dal suolo (VLTI e LBT) forniranno risultati importanti. La ricerca con il metodo delle velocità radiali di alta precisione è iniziata alla fine degli anni Ottanta, a opera di un gruppo canadese guidato da B. Campbell e G.A.H. Walker, che per primi misero a punto una tecnica basata sull'uso di celle di assorbimento. I risultati di questa ricerca (estesa a una ventina di stelle) furono negativi, sia per le dimensioni ridotte del campione di stelle osservate, sia per gli errori osservativi ancora troppo grossi, sia infine perché la ricerca assumeva che i pianeti giganti (gli unici osservabili con questa tecnica) dovessero avere un periodo orbitale molto lungo. Nei primi anni Novanta altri gruppi, in particolare un gruppo americano guidato da Geoffrey Marcy e Paul Butier, iniziarono a cercare pianeti extrasolari usando il metodo delle velocità radiali, tuttavia inizialmente con risultati negativi. La scoperta di Mayor e Queloz fu abbastanza casuale. I due astronomi svizzeri, pur avendo messo a punto tecniche di misura di precisione adeguata, non cercavano pianeti, quanto stelle di piccola massa o nane brune (oggetti di massa intermedia tra quella dei pianeti e quella delle stelle). Poiché sono note molte stelle binarie anche con periodi piuttosto corti, Mayor e Queloz ripeterono le loro osservazioni con una frequenza temporale sufficientemente elevata da scoprire l'esistenza di un pianeta gigante in orbita con un periodo inaspettatamente corto (circa 5 giorni) attorno alla stella 51 Pegasi. La loro scoperta ebbe immediatamente una grande risonanza. Dopo alcuni mesi di incertezza, in cui vennero sostenute altre possibili interpretazioni delle variazioni di velocità, nuove osservazioni confermarono la presenza del pianeta della 51 Pegasi. In poco tempo, cominciarono a venire risultati positivi anche su altre stelle. Pianeti molto vicini alla loro stella hanno un'elevata probabilità di trovarsi allineati tra noi e il disco della stella (transito), e l'osservazione di un pianeta che transita sulla sua stella rappresenta un passo fondamentale nello studio dei pianeti extrasolari. Naturalmente, l'ampiezza del calo di luce a seguito del transito è piccola, ma è rilevabilc da osservazioni accurate. Il pianeta attorno a 51 Pegasi si muove su un'orbita inclinata rispello alla visuale e non transita sopra il disco della stella. Vi transita invece il pianeta della stella HD209458, come compresero nel 1999 David Charbonneau e collaboratori: il pianeta era stato da poco scoperto usando il metodo delle velocità radiali. Si fu così in grado di confermare che si tratta effettivamente di un pianeta gigante, presumibilmente gassoso, con una densità un poco inferiore a quella di Giove, e in effetti un po' più bassa di quanto atteso. Successivamente, sono stati osservati altri due pianeti che transitano sul disco della loro stella; in entrambi i casi, il periodo orbitale è molto corto (circa 1,5 giorni). A tutt'oggi si conoscono oltre 140 pianeti extrasolari, quasi tutti scoperti con il metodo delle velocità radiali, con l'eccezione dei tré scoperti con il metodo dei transiti e di un probabile pianeta rivelato con il metodo della microlente gravitazionale. Benché la tecnica delle velocità radiali permetta per ora di scoprire quasi esclusivamente pianeti giganti con periodi relativamente brevi, da questi dati è già possibile trarre alcune conclusioni sulle caratteristiche dei sistemi planetari extrasolari; occorre però ricordare che le osservazioni fatte sinora non rappresentano un campione significativo. Per rendersi conto dell'importanza degli effetti di selezione nel campione disponibile, si può notare che se il nostro Sistema Solare fosse stato osservato anche dalla distanza delle stelle più vicine, non sarebbe stato ancora scoperto usando le tecniche adoperate finora. La distribuzione dei periodi dei pianeti extrasolari è per il momento fortemente concentrata su periodi brevi, anche se il numero di pianeti con lunghi periodi sta progressivamente aumentando con l'accumularsi delle osservazioni. Esiste una dicotomia dei periodi: accanto a un piccolo gruppo di pianeti con periodi particolar-mente brevi (meno di una ventina di giorni), la maggioranza ha periodi relativamente lunghi (da alcune decine di giorni ad anni). La distribuzione delle masse è fortemente concentrata sulle masse più piccole rilevabili con la tecnica utilizzata, approssimativamente la massa di Saturno. Pianeti con masse molto maggiori di quella di Giove, benché più facili da scoprire, sono molto rari, almeno nei sistemi con periodi non molto lunghi. La distribuzione di massa dei pianeti non rappresenta la semplice estensione alle piccole masse di quella delle stelle; in ciò i pianeti sembrano chiaramente distinguibili dalle nane brune. Gran parte dei pianeti scoperti sinora si muovono su orbite con una forte eccentricità, cioè ellissi fortemente allungate. Sotto questo aspetto, le orbite quasi circolari dei pianeti del Sistema Solare rappresentano una relativa eccezione. Anche questo è un elemento chiave per comprendere i meccanismi di formazione ed evoluzione dei sistemi planetari. Fatto pressoché inaspettato, la presenza di pianeti sembra correlata al contenuto di elementi pesanti (ad esempio, ferro) della stella centrale. L'interpretazione più probabile è che una maggiore presenza di elementi pesanti implichi una maggiore quantità di grani di polvere nel disco protoplanetario, e che questa a sua volta favorisca la formazione di corpi di massa sempre maggiore. E anche possibile che la caduta di materiale roccioso, ricco di elementi pesanti, dal disco protoplanetario sulla stella, o addirittura direttamente l'ingloba-mento di pianeti rocciosi da parte di questa, possa causare un aumento del contenuto di elementi pesanti nelle zone superficiali della stella. Tuttavia, osservazioni, in particolare da parte del gruppo di Padova, sembrerebbero mostrare che quest'ultimo fenomeno, quan-d'anche fosse reale, non sarebbe in grado di spiegare la correlazione osservata tra presenza di pianeti e contenuto di elementi pesanti. Sono noti diversi sistemi multipli, cioè con più pianeti. I casi più notevoli sono quelli della upsilon Androme-dae (tré pianeti) e della 55 Cancri (quattro pianeti). In alcuni casi, le orbite di questi pianeti mostrano particolari risonanze; ad esempio, il periodo di un pianeta è il doppio di quello dell'altro: è il caso dei pianeti attorno alla Gliese 876. Infine, pianeti sono noti anche in sistemi binari, cioè composti da due stelle. Le stelle binarie sono molto comuni: oltre la metà delle stelle ha una compagna. Le orbite di pianeti in sistemi binari sono instabili se il pianeta ha un periodo comparabile con quello della compagna: in questo caso, in un tempo relativamente breve le perturbazioni gravitazionali provocano l'espulsione del pianeta dal sistema o, in casi rari, la caduta su una delle due stelle. Ancora più delicata è la fase di formazione dei pianeti: il disco protoplanetario viene facilmente distrutto o troncato nelle regioni più esterne dalle perturbazioni dovute alla compagna. Tuttavia, sono frequenti pianeti in sistemi binari in cui le due componenti sono mollo lontane una dall'altra, caso abbastanza comune. Lo zoo dei pianeti extrasolari si sta rapidamente arricchendo di nuovi esemplari, e il quadro delle nostre conoscenze è in rapida evoluzione. Presumibilmente, non appena sarà stampato questo opuscolo già diversi dei risultati qui riportati saranno da aggiornare. Il caso di HD 209458: il primo transito osservato II primo successo della ricerca dei pianeti tramite la tecnica dei transiti è avvenuto nel 1999 con l'osservazione del transito sulla stella HD 209458. La presenza del pianeta era già stata evidenziata dalla misura della velocità radiale. Le osservazioni spettroscopiche avevano rivelato che questa stella di tipo solare è accompagnata da un pianeta che orbita con un periodo di circa 3,5 giorni e con una massa minima di 0,685 masse gioviane. Più di questo, dalle osservazioni spettroscopiche non era possibile ricavare. L'osservazione della curva di luce effettuata dagli astronomi del progetto STARE, con il calo tipico dovuto al transito, non solo ha confermato l'esistenza del pianeta, ma ha permesso anche di valutare con maggior Curva di luce del transito del pianeta HD 209458h. Le linee continue e tratteggiate sono modelli teorici sovraimposti ai dati osservativi. precisione le sue caratteristiche fisiche. In particolare, ha permesso di ottenere una valutazione dell'inclinazione orbitale ((' == 86°) e quindi della massa (M,,= 0,69 Mc;,,,^) e una valutazione precisa del raggio (Rp= 1,40 ./?(;,„„) e della separazione orbitale piane-ta-stella (0,0467 UÀ). Queste informazioni sono risultate importantissime per ricavare altre caratteristiche fisiche. Infatti, nota la massa e il raggio, è possibile calcolare la densità media e avere un'idea della composizione, cioè sapere se il pianeta è di tipo roccioso o gassoso. Nel caso di HD 209458b la densità media è risultata di 0,31 g-cm"3; per comparazione, la densità di Giove è 1,3 g-cnT3, mentre quella della Terra è 5,5 g-cm"3: ci troviamo quindi di fronte a un gigante gassoso. L'informazione più strabiliante è la distanza media dalla stella centrale, che è circa 8,5 volte più piccola della distanza di Mercurio dal Sole. Se il pianeta è così vicino alla stella madre, la radiazione della stella può portarlo a evaporare. Infatti, nel 2003, nel corso di tré transiti, negli spettri presi con lo strumento ultravioletto a bordo del Telescopio Spaziale "Hubble" è stato osservato che le righe dell'idrogeno mostravano variazioni interpretate come l'effetto di una continua perdita di questo gas dal pianeta. In altre parole, il pianeta sta lentamente evaporando. Questo dato è importante perché solleva la questione La stella HD 209458, di tipo solare, è la prima per la quale sia stato rivelato un transito planetario nel 1999. della possibilità di sopravvivenza di questo tipo di pianeti (chiamati anche "Giovi caldi". Hot Jupiter) e sulla loro evoluzione. Per esempio, se questi pianeti evolvono più velocemente della loro stella, perdendo l'atmosfera potrebbero trasformarsi in pianeti della taglia di Nettuno (circa 17 volte la massa della Terra) senza idrogeno. L'osservazione di questo tipo di pianeti grazie ai transiti, una volta aumentata la statistica delle conferme, ci permetterà anche di porre limiti sulla loro esistenza e sulla loro evoluzione e di fare un passo avanti nella conoscenza delle fasi di formazione dei pianeti, messa in crisi proprio dalle scoperte degli ultimi 10 anni. Gli scenari possibili I modelli che descrivono la formazione dei pianeti sono stati sviluppati soprattutto in base alle caratteristi- Rappresentauone pittorica della perdita di idrogeno per evaporazione di un pianeta che transita a breve distanza dalla propria stella. che del solo sistema planetario che conosciamo in dettaglio: il Sistema Solare. Il moto stesso dei pianeti attorno al Sole su orbite pressoché circolari, complanari e prograde, cioè con tutti i pianeti che si muovono in senso antiorario concordemente alla rotazione del Sole, ci suggerisce che inizialmente il materiale protoplanetario dovesse essere distribuito in una struttura a forma di disco. Questa ipotesi è confermata da osservazioni astronomiche di stelle giovani nella nostra Galassia, in particolare nella nebulosa di Orione. Molte di queste stelle sono circondate da dischi composti per lo più da idrogeno ed elio e da ridotte quantità di elementi più pesanti sotto forma di aggregati molecolari, in altre parole grani di polvere. Mentre la stella evolve aumentando pressione e temperatura interna fino a valori tali da innescare le reazioni termonucleari, nel disco i grani di polvere si aggregano formando strutture via via più consistenti. La forza di gravita e l'energia rilasciata durante le collisioni ne facilitano la compat fazione, e si assiste così alla formazione di oggetti con dimensioni pari ad alcuni chilometri: i planetesimi. La temperatura del disco non è uniforme, ma diminuisce all'aumentare della distanza dal Sole, e questo influenza il processo di accumulazione dei planetesimi e la loro composizione. Nelle regioni più interne solo silicati e metalli sono in grado di esistere allo stato solido, dando origine a planetesimi rocciosi simili agli attuali asteroidi. Oltre le 3 Unità Astronomiche dal Sole le condizioni di pressione e temperatura sono tali da permettere la condensazione in ghiaccio di gas come l'anidride carbonica, il vapore acqueo e l'ammoniaca, e i planetesimi che si formano sono composti da un misto di roccia e ghiaccio, proprio come le comete. I planetesimi non sono una popolazione statica ma a loro volta collidono e crescono in dimensioni fino a formare i pianeti terrestri, per l'appunto rocciosi in quanto prossimi al Sole, e il nucleo dei pianeti giganti, da Giove a Nettuno, nelle regioni più esterne del Sistema Solare. Una volta raggiunta la massa critica di alcune decine di masse terrestri, i nuclei di Giove e Saturno sono in grado di attrarre grandi quantità di gas e diventano "giganti gassosi". Tutto questo avviene su tempi scala dell'ordine della decina di milioni di anni, e quando tutti i pianeti si sono formati inizia il processo di "pulizia" planetaria. Grazie alle loro perturbazioni, i pianeti espellono dal Sistema Solare tutti i planetesimi residui, a eccezione degli asteroidi che sono sufficientemente lontani da Marte, ma soprattutto da Giove, mentre la stella, emettendo forti venti stellari, spazza via il gas residuo del disco. Il sistema planetario appare come oggi lo conosciamo. A quando risale la formazione dei pianeti del Sistema Solare? Utilizzando i radioisotopi del piombo è stato possibile datare le condriti, le più antiche tra le meteoriti, e accertare che la loro formazione risale a circa 4,56 ± 0,01 miliardi di anni fa: questa è anche l'età del Sistema Solare. La teoria planetesimale non solo spiega le diverse composizioni dei pianeti e la presenza di asteroidi e comete, ma anche come si è formata la Luna. Uno degli ultimi planetesimi rimasti alla fine dell'accrescimento planetario avrebbe colpito la superficie terrestre con tale violenza da sollevare grandi quantità di materia fino a un'orbita circumterrestre. In tempi abbastanza brevi questo materiale si riaccumulò in un unico corpo roccioso, la Luna. Recentemente sono stati scoperti numerosi pianeti extrasolari su orbite mollo ravvicinate alla stella, a distanze molto inferiori a quella di Mercurio dal Sole. Tutti questi pianeti hanno massa comparabile o addirittura superiore a quella di Giove e sono quindi con tutta probabilità giganti gassosi. È ragionevole supporre che anche questi pianeti si siano formati a partire da un disco circumstellare, ma il quesito che gli studiosi si pongono è il seguente: come è possibile che alcuni si siano formati così vicino alla stella dove non sono disponibili sufficienti quantità ne di gas ne di materiale solido per costruire il nucleo? Per risolvere questa apparente contraddizione tra teoria e osservazioni sono stati proposti vari modelli di migrazione planetaria. Alcuni di questi modelli prevedono che i pianeti possano interagire gravitazionalmente direttamente con il disco protoplanetario, creando sul disco stesso onde di densità che si propagano verso l'esterno. Per reazione, il pianeta si avvicinerebbe progressivamente alla stella fermandosi nelle regioni più interne dove il campo magnetico stellare svuota il disco di materia. Questi modelli di migrazione richiedono che i pianeti si formino molto rapidamente, altrimenti i venti stellari potrebbero dissipare il disco prima che questo abbia il tempo di interagire con il pianeta. È addirittura possibile che, nei casi dei pianeti più grossi finora scoperti, la fase planetesimale venga saltata e questi si formino direttamente per collasso del gas nel disco. Un meccanismo alternativo di migrazione prevede che a partire dal disco si formino tré o più pianeti giganti. In effetti, sono stati osservati numerosi dischi circum-stellari molto più estesi di quello da cui si ritiene si sia formato il Sistema Solare (ad esempio, quello della beta Pictoris misura oltre 1000 Unità Astronomiche). Se i tré pianeti si trovano su orbite sufficientemente vicine, le mutue interazioni gravitazionali scatenano una fase di moto caotico al termine della quale un pianeta viene espulso dal sistema su un'orbita iperbolica, mentre dei due che rimangono, uno si colloca su un'orbita molto interna. Un'implicazione sorprendente di questo modello è che nello spazio interstellare potrebbero vagare pianeti isolati espulsi da qualche sistema e invisibili in quanto non emettono luce propria. Pianeti in regioni di formazione stellare Molte delle domande sulla genesi dei pianeti, tra cui quelle sulla frequenza e sui tempi di evoluzione dei dischi protoplanetari, possono trovare una risposta attraverso lo studio della formazione di stelle simili al Sole, ovvero con una massa minore di 2 masse solari. Anche molti degli interrogativi sulla formazione stessa del Sole e dei pianeti del Sistema Solare possono essere chiariti osservando stelle giovani di piccola massa, ovvero stelle del tipo T Tauri, ancora nei loro siti di formazione. 3.1. LA FORMAZIONE DI STELLE DI TIPO SOLARE Sappiamo che le stelle si formano per il collasso gravitazionale di frammenti di nubi interstellari molecolari, sufficientemente dense e fredde (densità dell'ordine di IO4 particelle/cm3 e temperature intorno ai 10 kelvin), aventi dimensioni tipiche di 0,1 parsec, corrispondenti ad alcune migliala di miliardi di chilometri. Le primissime fasi della formazione di una stella simile al Sole sono dominale dall'accrescimento sulla proto-stella della materia contenuta nell'inviluppo di gas e Diagramma evolutivo temperaturalurninosità di una stella di circa una massa solare. polveri che la circonda, oscurandola completamente alle lunghezze d'onda accessibili ai telescopi ottici. Per questa ragione, oggetti in tale fase possono essere rivelati solamente per mezzo di radiotelescopi, ed eventualmente nel lontano infrarosso mediante strumenti a bordo di satelliti. Terminato il processo di massiccio accrescimento iniziale e lo sviluppo di un disco circumstellare di accrescimento, l'evoluzione prosegue, durante i primi milioni di anni, con la cosiddetta fase di contrazione di Pre-Se-quenza Principale. In questa fase la stella in formazione ha già accresciuto gran parte della sua massa finale, ma è ancora fortemente influenzata, almeno all'inizio, dalla presenza del disco di accrescimento, cui si accompagna in genere anche la presenza di violenti fenomeni di espulsione di materia, sotto forma di getti bipolari orientali perpendicolarmente al piano del disco. Il disco circumstellare residuo, relativamente sottile da un punto di vista geometrico, si estende per diverse centinaia di Unità Astronomiche dalla stella e contiene solo una esigua frazione della massa totale. Eppure, tali dischi sono di estremo interesse perché proprio dai gas e dalle polveri che li compongono possono generarsi i pianeti. Un nucleo planetario si forma dall'agglomerazione dei planetesimi. Una volta raggiunta una massa dell'ordine di IO24 kg (una frazione della massa terrestre), il plane-tesimo comincia a interagire in modo significativo con il disco circumstellare, non solo localmente ma anche globalmente. Pertanto, ogni successiva evoluzione del giovane pianeta è collegata strettamente a quella del mezzo che lo circonda. Lo studio dell'evoluzione fisico-chimica di gas e polveri, da quelli contenuti nelle nubi protostellari fino ad arrivare a quelli presenti nei dischi circumstellari intorno alle stelle giovani, è essenziale per la nostra comprensione della formazione di stelle e pianeti. 3.2. CHE COSA CI DICONO LE OSSERVAZIONI SULLA FORMAZIONE DI PIANETI Circa la metà dei pianeti finora scoperti hanno orbite pressoché circolari e periodi orbitali inferiori a circa 30 giorni (corrispondenti a raggi orbitali di circa 0,2 Unità Astronomiche): sono comunemente indicati co me "Giovi caldi" o "Pegasidi", dal primo pianeta di questo genere scoperto intorno alla stella 51 Pegasi. A un'analisi più approfondita risulta che, tra i pianeti scoperti con la tecnica delle velocità radiali, non si trovano, attorno a stelle singole, pianeti giganti caldi di massa superiore a circa due volte quella di Giove*6, e, a parte un caso (HD 73256), non si conoscono pianeti con periodi orbitali al di sotto di 3 giorni. L'esistenza di pianeti con tali caratteristiche orbitali, inizialmente alquanto sorprendente, pone la questione di quanto siano comuni e come si siano formati simili oggetti. Infatti, sebbene non si possa del tutto escludere la formazione di pianeti massicci anche in prossimità della stella centrale, i modelli solitamente collocano la formazione dei pianeti giganti a distanze di svariate Unità Astronomiche dal proprio Sole, seguita da una progressiva migrazione del pianeta verso un'orbita più interna. Attualmente due paiono gli scenari più probabili. Secondo il primo, i pianeti si formerebbero a grande distanza dalla stella centrale e poi, gradualmente, migrerebbero verso l'interno per effetto dell'interazione con il disco circumstellare. In questo caso le orbite dei pianeti di periodo corto intorno a stelle giovani dovrebbero essere prevalentemente circolari. Inoltre, in certi casi la migrazione potrebbe proseguire dando luogo a pianeti giganti di oltre 2 masse gioviane o a periodi orbitali inferiori a 3 giorni. Oggetti di questo tipo finirebbero inglobati dalla stella e distrutti nel giro di appena qualche milione di anni. Se invece il processo di migrazione verso l'interno fosse conseguenza dell'interazione con altri pianeti massicci, le orbite risulterebbero eccentriche e vi sarebbero pianeti di corto periodo di massa pari anche due volte quella di Giove. Perciò, la ricerca di pianeti intorno a stelle di tipo solare di età inferiore a circa 30 milioni di anni dovrebbe permetterci di capire quale di questi scenari sia il più realistico. Un sistema costituito da tré o più pianeti giganti potrebbe mantenersi stabile per tutto il periodo di formazione (circa una decina di milioni di anni) ma, in seguito alla dispersione del disco circumstellare, la mutua perturbazione gravitazionale tra i pianeti provocherebbe un graduale aumento delle eccentricità orbitali fino a rendere le orbile instabili. Interazioni gravitazionali successive tra questi pianeti potrebbero poi dar luogo all'espulsione di alcuni di essi dal sistema, lasciandone altri su orbite fortemente eccentriche a varie distanze dalla stella centrale. I modelli indicano inoltre che per i pianeti più interni vi sarà una tendenza a coagularsi in un pianeta più grosso, situato su un'orbita relativamente eccentrica e vicino alla stella. Se così fosse, il numero di pianeti che si formano inizialmente dovrebbe essere di gran lunga superiore a quello osservato intorno a stelle della Sequenza Principale. Al contrario, se si ipotizza la formazione in situ, le proprietà dei pianeti giovani dovrebbero essere non troppo dissimili da quelle dei pianeti intorno a stelle più vecchie. L'interazione marcale non soltanto causerà la circolarizzazione delle orbite su tempi dell'ordine del miliardo di anni, ma provocherà la distruzione di pianeti giganti caldi di massa superiore a 2 masse gioviane e con periodi orbitali inferiori a 3 giorni. Se il periodo orbitale diviene minore del periodo di rotazione della stella, la frizione marcale tenderà ad accelerare la rotazione stellare; nel contempo per effetto della conservazione del momento angolare, il pianeta si muoverà su un orbita di dimensioni sempre più piccole fino a spiraleggiare sulla stella centrale nel giro di qualche milione di anni. In effetti, in entrambi gli scenari di migrazione, il numero di pianeti formati sarebbe più alto di quello dei pianeti superstiti dopo i primi milioni di anni. Un'evidenza osservativa indiretta di questo fenomeno sarebbe rappresentata da sovrabbondanze anomale di certi elementi, com'è il caso dell'eccesso di litio-6 riscontrato nella stella HD 82943; anche l'apparente mancanza di pianeti giganti a meno di 0,1 UÀ dalla stella centrale e la più alta metal-licità riscontrata in stelle che ospitano pianeti sembrano fornire indicazioni dell'ingestione di pianeti da parte della stella centrale. 3.3. DOVE CERCARE SISTEMI PLANETARI IN FORMAZIONE Le abbondanze isotopiche nelle condriti carbonacee forniscono tracce sull'ambiente in cui il Sole si è formalo circa 4,6 miliardi di anni fa. Sorgenti plausibili di questi radio-nudidi possono essere stelle molto mas-sicce del ramo asintotico delle giganti, una supernova, una stella di tipo WolfRayet o una combinazione di esse. Se la formazione del Sole è avvenuta in prossimità di una supernova o di una stella Wolf-Rayet, è allora molto probabile che il Sole si sia formato in un'as sociazione di tipo OB piuttosto che entro i confini di una più tranquilla associazione T. Le associazioni T sono gruppi di stelle T Tauri, non legale gravitazionalmente, con un'età media di qualche milione di anni; viceversa, le associazioni OB sono aggregati che contengono stelle massicce e brillanti, con una vita mollo breve. La maggior parte di ciò che sappiamo sulla formazione di stelle di piccola massa (o stelle di tipo solare) si basa sulle ricerche condotte su associazioni T; questo perché ve ne sono diverse relativamente vicino a noi (entro 150 parsec, ovvero circa 500 anni luce). Tra esse le associazioni di Toro-Auriga, nell'emisfero nord, e di Camaleonte, Lupo, Ofiuco e Corona Australe, in quello sud. Tuttavia, attualmente sappiamo anche che soltanto una piccola frazione delle stelle di tipo solare si forma in associazioni T; la maggior parte si forma invece in associazioni OB. Infatti, mentre le associazioni T producono, nel migliore dei casi, qualche migliaio di stelle durante la loro vita di circa 10-30 milioni di anni, le associazioni OB sono molto più produttive in termini di formazione di stelle di tipo solare, anche se per un periodo di tempo più breve. Entro una distanza di 500 parsec dal Sole ci sono tré associazioni OB (Ori OB1, Sco-Cen-Lup e Per OB2). Si stima che oltre il 90% delle stelle di piccola massa con un'età minore di 10 milioni di anni sia costituito da mèmbri di associazioni OB. Quindi, le associazioni OB possono fornirci campioni numerosi di stelle giovani di tipo solare su cui studiare la frequenza di dischi protoplanetari e le loro proprietà a diversi stadi evolutivi, che possono aiutarci a comprendere le condizioni in cui avviene la formazione di pianeti. 3.4. PIÙ GIOVANI E PIÙ BRILLANTI... Sia le stelle sia i pianeti sono più luminosi quando sono giovani. Studi teorici sull'evoluzione della luminosità di stelle, nane brune e pianeti lo dimostrano. Ad esempio, un pianeta della massa di Giove può essere fino a 10 mila volte più luminoso quando ha un'età di appena un milione di anni, rispetto a quando avrà un miliardo di anni. Può dunque risultare più facile rivelare pianeti giovani, e questa è una ragione in più per cercarli nelle regioni di formazione stellare. Evoluzione, in funzione del tempo, della luminosità di stelle, nane brune e pianeti. Inoltre, la luminosità delle stelle diminuisce nel tempo molto più lentamente di quella dei pianeti. Ciò implica che il contrasto di luminosità tra un eventuale pianeta e la stella ospite sia molto minore quando il sistema è più giovane. Dovrebbe quindi risultare meno diffìcile rivelare direttamente pianeti giganti intorno a stelle giovani piuttosto che intorno a stelle della Sequenza Principale. 3.5. A CACCIA DI PIANETI VAGANTI IN REGIONI DI FORMAZIONE STELLARE La ricerca di oggetti con masse planetarie nelle regioni di formazione stellare rappresenta un'area in rapido sviluppo, dato che la disponibilità di telescopi della classe dei 10 m e la nuova strumentazione permettono di osservare oggetti di massa molto piccola e bassissima luminosità. Si intensificano perciò gli sforzi rivolti alla selezione e classificazione di campioni sufficientemente ampi di oggetti da consentire di spingere l'indagine fino ai meccanismi di formazione. Lo studio di pianeti intorno a stelle giovani (età comprese tra 10 e 100 milioni di anni) può permetterci di studiare non soltanto le modalità di formazione planetaria, ma anche di capire con quale frequenza e in che numero i pianeti si formano e che frazione di essi va poi eventualmente distrutta e/o perduta per espulsione. Altro aspetto interessante che richiede un approfondimento è il fatto che la linea di demarcazione tra pianeti e nane brune è tutt'altro che netta. Probabilmente esiste una certa sovrapposizione tra gli intervalli di massa di questi due tipi di oggetti che possono formarsi tanto in un disco circumstellare quanto come risultato del processo di frammentazione durante la fase iniziale del collasso protostellare. In molte regioni di formazione di stelle di piccola massa, la popolazione di oggetti sub-stellari o nane brune appare in deficit rispetto a quella delle stelle. È stato proposto che le nane brune si formino soltanto come mèmbri di piccoli gruppi di stelle, espulsi da interazioni dinamiche prima che abbiano completato il loro accrescimento per poter giungere a dimensioni stellari. Alcuni studi suggeriscono velocità di espulsione delle nane brune inferiori a 2 km/s. In circa un milione di anni tali oggetti si muoverebbero di circa 2 parsec dai loro siti di formazione. Taluni autori suggeriscono che la popolazione degli oggetti vaganti di massa molto piccola (ovvero pianeti vaganti) trovata in certe regioni di formazione stellare sia dominata da oggetti di tipo gioviano, formatisi intomo a una stella di tipo solare per agglomerazione di nuclei rocciosi e successivo accrescimento di gas dal disco circumstellare, e poi espulsi. Se l'ipotesi dell'espulsione è attendibile, ci si aspetta di trovare una popolazione di pianeti giovani vaganti nelle regioni di formazione stellare. Infatti, studi recenti sull'associazione in Orione hanno rivelato la presenza di oggetti di massa molto piccola nell'intorno della stella sigma Orionis. La rivelazione di questi oggetti è possibile da immagini CCD a grande campo nelle bande Relè nel vicino infrarosso, per mezzo di diagrammi colore-magni tudine*7. Analizzando i modelli delle prime fasi evolutive di stelle di piccola massa, è infatti possibile predire i valori delle magnitudini e dei corrispondenti colori per oggetti della slessa età, ciò che permette di tracciare le linee isocrone nei diagrammi colore-magnitudine. In questo modo, utilizzando oggetti ben caratterizzati e classificati come stelle giovani di piccola massa appartenenti a un dato ammasso, e quindi presumibilmente della medesima età, è possibile individuare l'isocrona dell'ammasso stimandone l'età dal confronto con le Tracciando il diagramma colore-magniludine di un ammasso è possibile mettere in evidenza gli oggetti più deboli della sequenza osservata, oggetti candidati a nane brune o pianeti vaganti come sigma Ori 70. Sovraimposti ai valori osservati ci sono due isocrone teoriche, con i corrispondenti valori di massa (in unità gioviane). isocrone teoriche. È quindi possibile individuare gli oggetti più deboli sulla sequenza osservata che rappresentano buoni candidati a nane brune e pianeti giovani vaganti appartenenti all'ammasso. In questo modo sono stati individuati diversi candidati a pianeti giovani vaganti, tra cui sigma Ori 70, nella regione dell'associazione OB di Orione. Ci si attende che un contributo sostanziale a queste ricerche potrà venire anche dai programmi che saranno condotti con strumenti come il VST (VLT-Survey-Tele-scope) e VISTA (Visibile & Infrared Survey Telescope far Astronomy) in regioni di formazione stellare galat-tiche. Tuttavia, per stabilire l'effettiva natura dei candidati, è necessario caratterizzarli per via spettroscopica e ottenere una stima della loro massa da un confronto con i modelli teorici. Gli strumenti di nuova generazione accoppiati ai telescopi della classe di 10 m permetteranno la caratterizzazione spettroscopica di candidati anche mollo deboli, contribuendo a migliorare la statistica su questi oggetti e agevolando lo studio delle loro proprietà.