PRIMA PARTE : CHE COS`E` LA CITTA` 1. Città preindustriale, città

PRIMA PARTE : CHE COS’E’ LA CITTA’
1. Città preindustriale, città industriale e città postindustriale.
1.1 Definire la città
Benché nel senso comune e nell’esperienza quotidiana
delle persone sia molto chiaro cosa si intende per città, darne
una definizione precisa ed univoca non è altrettanto immediato
e, anzi, si rivela operazione complicata e difficile. Il sociologo
urbano Louis Wirth (1897-1952) ha proposto una definizione
che per semplicità e parsimonia possiamo utilmente usare come
punto di partenza della nostra riflessione. Per Wirth, la città è
un insediamento relativamente vasto, denso e duraturo di
persone socialmente eterogenee. Dimensione, densità e
eterogeneità sono gli elementi che si assume rendano la città
uno spazio materiale e simbolico di relazioni sociali specifiche e
diverse rispetto a quelle tipiche dall’ambiente rurale. Tali
relazioni si sono strutturate, però, in modi diversi nelle
differenti epoche storiche; la sociologia ragiona sulle forme delle
relazioni sociali, politiche ed economiche che hanno
contraddistinto tipi diversi di città, per struttura sociale,
funzione economica e ordine politico. Da questo punto di vista,
la lunga storia della città può essere suddivisa in tre periodi in
base alla tipologia di città che in quel tempo si forma e diventa
prevalente: città preindustriale, città industriale e città postindustriale. Questa tipologia individua modelli o tipi ideali,
cioè strumenti concettuali, astrazioni che contengono gli
elementi fondamentali (nei rapporti sociali, economici e politici)
che contraddistinguono il fenomeno “città” in una particolare
epoca storica; nessuna città nella storia corrisponde
esattamente a un tipo ideale, ma, dal confronto tra tipo ideale e
realtà empirica di una data città, possiamo stabilire similarità
e divergenze e cercare le cause che spiegano tali variazioni.
La città è un’invenzione umana molto antica. Eppure
possiamo anche dire che solo recentemente nella storia della
specie umana le persone si sono raccolti in quegli insediamenti
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densi e strutturati, spazialmente e socialmente, che chiamiamo
città. Vediamo di mettere ordine in questa apparente
contraddizione.
Città preindustriale, città industriale e città postindustriale hanno occupato epoche storiche di
lunghezza
temporale estremamente diversa. La città post-industriale è il
modello prevalente nel mondo occidentale nell’epoca
contemporanea e riguarda grosso modo gli ultimi 50 anni; la
città industriale, invece, si è imposta come modello prevalente
di città a partire dalla Rivoluzione Industriale fino ai decenni
immediatamente successivi alla fine della Seconda Guerra
Mondiale. Le innumerevoli città che sono fiorite nei grandi
imperi antichi, egiziano, romano, cinese o bizantino, ma anche
in epoche meno remote nelle civiltà persiane o arabe fino alle
città medioevali europee, sono da annoverarsi tra le città
preindustriali che hanno caratterizzato un arco temporale
molto lungo che si estende dalle prime città del quarto
millennio a.c. fino alla Rivoluzione Industriale.
In quest’ottica le città contemporanee, ma anche le città
industriali, appaiono come fenomeni di breve periodo – al
massimo qualche centinaio di anni, mentre per oltre cinque
millenni una tipologia di città, quella preindustriale, ha
costituito il contesto di rapporti sociali, politici ed economici
specifici.
La stessa ottica storica spinge a porre attenzione al
fatto che, dalla comparsa sulla terra dell’homo sapiens sapiens,
circa 50,000 anni fa fino al quarto millennio a.c. in cui sorgono
le prime città, la stragrande maggioranza del tempo della storia
umana è contraddistinto dall’assenza di città. Infatti, gli archi
temporali qui delineati, in corrispondenza rispettivamente della
città preindustriale, industriale e post industriale, sono stati
preceduti da un lunghissimo tempo, che copre il 99% della
storia del genere umano, in cui le città non esistevano. E’
l’epoca delle società di cacciatori e raccoglitori, formazioni
sociali semplici e di piccole dimensioni, che, a parte le marcate
differenze tra uomini e donne, sono tendenzialmente
ugualitarie; esse occupano temporaneamente un certo territorio
per abbandonarlo nel momento in cui vi si esauriscono le
risorse. La dipendenza dai prodotti della natura, siano questi
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animali o vegetali, rende queste bande di cacciatori e
raccoglitori necessariamente nomadi e gruppi nomadi non
creano insediamenti permanenti, né tanto meno città.
1.2 La nascita della città
Questo lungo periodo pre-urbano si chiude con la
Rivoluzione neolitica o agricola; la pietra che ora l’uomo è in
grado di lavorare, la “pietra nuova” dunque, permette a sua
volta la lavorazione della terra e determina la formazione di
villaggi in cui gruppi diventati sedentari si dedicano
all’agricoltura. Secondo gli storici, se si dovesse ricordare una
sola caratteristica della Rivoluzione neolitica questa sarebbe
l’esistenza di villaggi permanenti abitati da coloro che coltivano
la terra. Diverse ragioni spiegano perché le popolazioni del
Neolitico siano passate alla agricoltura, sebbene questo
passaggio comporti per queste popolazioni un maggiore
impegno e fatica nel procurarsi di che vivere. Gli storici
propendono per la tesi secondo la quale questa fu una scelta
forzata, determinata dalla pressione demografica su risorse
alimentari che si erano fatte scarse. In questa sede, però, non
siamo tanto interessati al passaggio dalle società di cacciatori e
raccoglitori alle società basate sull’agricoltura, quanto al
passaggio da insediamenti rurali permanenti alla costituzione
di città. In effetti, è proprio in epoca Neolitica che sorgono le
prime città: la città di Catal Hőyők in Turchia si sviluppa dal
6800-6300 a.C., Gerico in Israele prima del 7000 a.C.,
Mehrgarh nel nord dell’India attorno al 7000 a.C., Sesklo in
Tessalia dal 4800-4400 a.C., nonché infine le città di Eridu, Ur
e Uruk in Mesopotamia, quest’ultima per lungo tempo
considerata la prima città in assoluto, è nel 3200 a.C. il centro
maggiore della regione. Vediamo di capire perché sono nate le
città e come mai si sono sviluppate in quelle aree geografiche.
La teoria del surplus agricolo offre una risposta a
entrambe le domande. Secondo questa teoria la formazione di
una città dipende dalla precedente disponibilità di eccedenze
alimentari che non sono consumate dai produttori, cioè dai
contadini. Nei villaggi neolitici, caratterizzati da un basso
livello tecnologico, tutti gli abitanti sono impegnati nella
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coltivazione della terra per assicurarsi sufficienti raccolti per
sopravvivere. In questa fase non si producono eccedenze e tutto
il raccolto viene consumato. Nel momento in cui la tecnologia
disponibile progredisce, per esempio, con l’addomesticamento
degli animali e la costruzione di strumenti agricoli più efficaci,
come l’aratro in ferro, la produzione aumenta e si crea una
certa eccedenza, cioè prodotti, cereali per esempio, che non sono
consumati per la sopravvivenza. Questa eccedenza può essere
utilizzata per nutrire una popolazione impegnata in attività
diverse da quelle agricole, siano queste di produzione di
manufatti, frutto dell’attività di fabbri, falegnami, vasai, oppure
di servizi di difesa, per esempio, guardiani e soldati, oppure
infine per servizi religiosi. Alla crescita della produttività in
agricoltura corrisponde un aumento di persone non
direttamente impegnate in essa e occupate in un ampio
ventaglio di professioni diverse. Le città sorgono e si sviluppano
come luoghi di residenza e di lavoro di coloro che non sono
impegnati in agricoltura e questo avviene laddove più alta è la
produttività agricola: più questa è elevata, maggiore sarà la
probabilità che si formino città e che queste siano di dimensioni
e complessità significative.
La produttività agricola aumenta grazie al progresso
tecnologico: l’aratro trainato da buoi, la capacità di lavorare i
metalli, le tecniche di irrigazione e di navigazione,
l’addomesticamento di animali e piante, forme di scrittura.
Nella Mesopotania tutte queste tecnologie sono presenti e i
conseguenti aumenti di produttività agricola consentono lo
sviluppo di una vita urbana complessa e sofisticata; ma la città
non è stata una “invenzione” della civiltà sumera che si sarebbe
poi diffusa in altre regioni. La presenza di città neolitiche in
parti del mondo molto distanti tra loro dimostra che processi di
formazione di città si mettono in moto ovunque viene raggiunta
questa soglia di efficienza tecnologica in agricoltura. In questo
senso possiamo affermare che la Rivoluzione agricola del 7000
a.c. e le innovazioni tecnologiche del Neolitico rappresentano i
prerequisiti necessari per la Rivoluzione urbana del 4000 a.c.
Finora abbiamo trattato la relazione tra produttività
agricola e urbanizzazione, ma rimane ancora oscuro il
meccanismo attraverso il quale il surplus prodotto da ogni
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famiglia o villaggio viene raccolto e ridistribuito ai lavoratori
non agricoli che vivono in città. In effetti, il surplus prodotto
avrebbe potuto essere conservato dai contadini, oppure i
contadini avrebbero potuto lavorare di meno e produrre solo lo
stretto necessario per la loro sopravvivenza. Secondo
l’archeologo australiano Gordon Childe, in Egitto nel periodo
dei primi faraoni una singola famiglia di contadini era in grado
di estrarre dal fertile suolo della pianura del Nilo tre volte il
cibo necessario per il proprio sostentamento: perché avrebbero
dovuto lavorare così tanto? La risposta è perché vi erano
costretti: i contadini producevano eccedenze alimentari per
pagare le tasse ai faraoni. L’esistenza stessa di eccedenze e il
loro ammontare dipendono dalla coercizione esercitata da forme
di potere centrale in grado di assoggettare territori agricoli più
o meno vasti.
Ecco allora che la teoria del surplus risulta insufficiente
a spiegare la nascita delle città. Potenzialmente eccedenze
alimentari potevano essere ottenute quasi ovunque, ma le città
non nascono dappertutto. Esse nascono dove si forma una
organizzazione statuale, in grado di esercitare tale potere
coercitivo e ottenere le eccedenze agricole dalla popolazione;
tanto più lo stato è forte tanto più sarà in grado di comprimere
il livello di vita della popolazione e raccogliere tasse elevate e
tanto più cresceranno il numero e la dimensione delle città. Il
surplus non esiste senza uno Stato che lo raccoglie e lo
ridistribuisce in modo più o meno diseguale. La teoria del
surplus deve quindi essere integrata con una spiegazione sulle
origini dello Stato.
Sul problema delle origini dello Stato si confrontano
sostanzialmente due famiglie di teorie. Da un lato troviamo le
teorie che spiegano le origine dello Stato a partire dalla
necessità di gruppi privilegiati di controllare e reprimere altri
gruppi al fine di mantenere la propria posizione di privilegio.
All’interno di queste teorie non c’è accordo sul fatto che forme di
disuguaglianza debbano precedere la formazione dello stato o se
sia la presa del potere da parte di alcuni a strutturare in
seguito società stratificate e nettamente divise tra governanti e
governati. C’è invece accordo nel sostenere che la formazione
dello stato preceda la formazione delle città; in effetti troviamo
antiche civiltà senza città e altre che hanno una forma di
governo molto prima di costruire città, ma le città non sono mai
esistite prima della agricoltura o del potere politico.
Altre teorie spiegano la formazione dello Stato sulla
base dei vantaggi che l’organizzazione politica offre alla
popolazione. La protezione militare è l’esempio più ovvio, in
epoche in cui i confini delle società agricole erano
costantemente minacciate dai barbari delle montagne o dalle
tribù predatrici del deserto. Parimenti, la costruzione e
manutenzione di opere per assicurare l’irrigazione ai campi
necessita di un’organizzazione che detiene il potere e le
conoscenze necessarie per esercitare tali funzioni1. Più in
generale, queste teorie enfatizzano lo scambio, con beneficio
reciproco delle parti, tra contadini bisognosi di difesa e di
amministrazione ed élite politiche, militari e religiose che
assolvono funzioni necessarie per il funzionamento e la
riproduzione della società nel suo complesso. L’opinione
prevalente tra gli studiosi è, tuttavia, che le relazioni tra la
città, sede di queste élite, e la campagna, luogo della
produzione, siano state piuttosto di oppressione e sfruttamento;
quale che fosse la ragione iniziale per la formazione di strutture
di potere, il suo consolidarsi, e quindi il formarsi di città sede di
tale potere, avviene attraverso la concentrazione all’interno di
un gruppo molto distretto che esercita un potere dispotico e
assoluto su suoi sudditi. E’ questo un portato della
strutturazione delle relazioni sociali, politiche ed economiche
contraddistinguono la città pre-industriale. Vediamo perché.
Abbiamo visto che la città pre-industriale vive della
ricchezza prodotta nelle campagne. Perché questo avvenga è
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La necessità di complesse infrastrutture per l’irrigazione ha portato il filosofo
Wittfogel a ipotizzare che questa fosse la ragione alla base dell’esistenza di un
potere dispotico in Cina, il solo in grado di costruire e mantenere opere di
irrigazione imponenti e complesse per assicurare il controllo delle inondazioni.
Ma, come molte teorie che assumono un solo fattore causale alla base delle loro
spiegazioni, anche la teoria del dispotismo orientale di Wittfogel non è
suffragata da sufficienti evidenze empiriche comparative che consentano di
affermare che la formazione degli stati antichi sia collegata principalmente a
questa funzione.
necessario che un gruppo di potere si costituisca e che questo
gruppo di potere sia in grado di ottenere dai contadini delle
risorse in cambio di determinati servizi. Il faraone o il re era a
capo di un esercito che provvedeva alla difesa, faceva costruire
grandi opere di irrigazione, mentre i suoi sacerdoti pregavano
gli dei perché assicurassero un raccolto abbondante. Le elite
dell’antichità consolidavano il proprio potere attraverso guerre
non solo difensive, ma soprattutto aggressive, attraverso la
quali accrescevano il proprio potere perché guadagnavano il
controllo su più estesi territori e catturavano schiavi da usare
per il lavoro agricolo; attraverso il lavoro degli schiavi si
rendevano disponibili maggiori risorse che consentivano il
sostentamento di sempre più numerosi eserciti. Da qui il
carattere endemico della guerra in tutta l’epoca pre-industriale:
lo schiavo ha vita breve e a lui non è in genere consentito di
riprodursi, cosicché la guerra, in quanto mezzo per accaparrarsi
schiavi, diventa necessaria.
Lo sviluppo della città dipende dalla forza di queste
elite e dell’organizzazione politico-amministrativa che a loro
faceva capo. Il controllo del territorio assicurato dal potere
politico rendeva inoltre possibili i commerci, i quali, a loro volta,
alimentavano le manifatture cittadine. Lo studioso arabo Ibn
Khaldun, che può a ragione essere considerato il primo
sociologo urbano, già nel XIV˚ secolo scriveva della propensione
delle città a crescere quando lo Stato era solido e a declinare
quando il suo potere veniva indebolito. In effetti, ogniqualvolta
ampi territori sono stati sottomessi a un potere centrale, si sono
create le condizioni politiche per il formarsi sia di un aggregato
urbano particolarmente significativo e sede di quel potere
centrale, sia di una rete di città che amministravano quei
territori e ne ricevevano tasse: Roma, Bagdad e Pechino sono
diventate le più grande città del mondo quando il loro impero
era all’apogeo, e, nello stesso tempo, vi è una fioritura di città
nelle varie regioni dell’impero. Per converso, il declino del
potere centrale riduce la quantità di ricchezza che raggiunge le
città e, di conseguenza, porta a una loro riduzione, di numero e
di dimensioni.
Siamo ora in grado di guardare alla città preindustriale cogliendone gli elementi fondamentali della sua
forma di organizzazione sociale, economica e politica. Le forme
di governo oscillano tra la monarchia e l’oligarchia; anche
nell’Atene del III° secolo, quando tra le città-stato greche era la
culla della democrazia, i cittadini che partecipavano alle
assemblee erano una piccola minoranza di maschi adulti
proprietari terrieri, mentre le donne, i meteci (artigiani,
commercianti e stranieri) e gli schiavi non godevano della
cittadinanza. Il governo dei grandi imperi è di norma esercitato
da un sovrano attorno al quale si coagula una ristretta elite
politico, militare e religiosa, che detiene il monopolio delle
risorse materiali e della conoscenza. Al di sotto di questo vertice
si situano il ceto dei mercanti e degli artigiani, specialisti che
approvvigionano la corte, ricevendo per questo parte del
surplus che viene dalle campagne, a volte in natura, a volte in
denaro; mercanti e artigiani compongono comunque di gruppi
sociali di ridotte dimensioni. La loro presenza, unitamente a
quella delle elite di cui si è già detto, testimonia la diversità e la
specializzazione dei compiti; siamo quindi davanti a una
organizzazione sociale che lega tra loro persone eterogenee,
diverse per funzione e conoscenze possedute, tra le quali vi sono
rapporti di interdipendenza, un’organizzazione in netto
contrasto con la vita rurale dove i contadini svolgono
pressappoco le stesse attività e compongono quindi una
popolazione molto omogenea.
La struttura sociale è caratterizzata da
enormi
disuguaglianze; da un lato un gruppo ristretto che detiene il
potere e controlla ingenti risorse economiche e simboliche e,
dall’altro, la massa di contadini -- proprietari e affittuari ma
soprattutto schiavi – che, pur essendo gli artefici di quella
ricchezza, vive in condizioni miserevoli. Lo stretto legame tra
elite politica e elite religiosa, quando non la coincidenza nella
stessa persona, provvede alla legittimazione dell’ordine sociale
e dei privilegi che questo assicura al ceto dominante.
1.4 La città industriale
1.3 La città pre-industriale
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La città industriale che si sviluppa nel XIX° secolo è
espressione di un nuovo sistema economico basato sulla
creazione di ricchezza attraverso l’uso di capitale. Non più la
terra, come nelle precedenti società basate sull’agricoltura, ma
il capitale investito in mezzi di produzione, l’industria, è fonte
di ricchezza. Questo nuovo sistema economico si basa su una
innovazione sociale e tecnologica, la manifattura, e si sviluppa
grazie alle scoperte scientifiche e alle innovazioni tecnologiche
che si diffondono a partire dal XVII° secolo e con particolare
intensità nel secolo successivo. Dal punto di vista sociale è
ancora una città fortemente divisa e caratterizzata da stridenti
disuguaglianze sociali: da un lato, la borghesia industriale e
finanziaria che detiene i mezzi di produzione e il capitale,
dall’altro, i lavoratori, il proletariato, i quali non hanno altro
che la forza lavoro delle loro braccia e dei propri figli, a cui si
aggiunge un largo strato di sottoproletariato disoccupato.
Limitatamente alla prima fase dell’industrializzazione, il grado
di disuguaglianza non è molto diverso da quello presente nelle
società antiche, a parte l’assenza di rapporti di schiavitù. Alla
città di prima industrializzazione si associa quindi ancora
l’immagine di una piramide, in cui vi sono pochi ricchi al vertice
e una base molto grande, ora di lavoratori manifatturieri in
larga misura non specializzati e a basso reddito. Con la seconda
e, soprattutto, con la terza fase dell’industrializzazione, che in
Europa si estende dal Dopoguerra fino agli ultimi decenni del
secolo scorso, la struttura sociale si amplia fortemente negli
strati intermedi, costituiti da lavoratori specializzati, tecnici,
impiegati e quadri che vanno a formare i ceti medi. La loro
espansione è il risultato di due processi paralleli. Nel settore
privato, crescono nelle grandi aziende industriali i ruoli tecnici
e le funzioni di gestione e di controllo ai diversi livelli della
gerarchia aziendale, generando occupazione nelle mansioni
specializzate di livello medio e medio-alto. La crescita del ceto
medio è alimentata in grande misura anche dall’espansione del
settore pubblico dei servizi, i cui dipendenti vengono a
costituire una componente significativa della struttura sociale
delle città. La figura geometrica del rombo rappresenta la
struttura sociale della città industriale. La vasta gamma di
attività e professioni nel pubblico e nel privato che sono andate
progressivamente a ingrossare il corpo centrale della società
amplia ulteriormente l’eterogeneità della città industriale
rispetto al modello che l’ha preceduta.
Per quanto riguarda la forma di governo, la città
industriale occidentale è una città di cittadini liberi all’interno
di stati democratici, cioè in cui la sovranità appartiene al
popolo. Sono quindi cittadini detentori di diritti sempre più
ampi; ai diritti civili e politici si aggiungono, in ragione del
diverso grado di sviluppo del welfare di ogni Paese, i diritti
sociali (istruzione, assistenza, sanità, ecc.) che il governo
municipale, a seconda dei diversi livelli di autonomia dal
governo centrale nazionale ma anche del proprio orientamento
politico, interpreta con maggiore o minore ampiezza.
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1.5 La città post-industriale
I processi di de-industrializzazione e di ristrutturazione
industriale portano la città verso un altro modello che comincia
a strutturarsi a partire dalla fine degli anni ’70 e che è ancora
in corso di definizione. La ricchezza non viene prodotta più
principalmente dall’industria manifatturiera, ma dal settore
dei servizi, sia alle aziende che alle persone, in particolare da
quelle attività intellettuali legate alla ricerca e alla creazione di
nuove idee in relazione all’emergere dell’economia della
conoscenza, da un lato, e allo sviluppo delle industrie culturali,
dall’altro. In conseguenza di queste trasformazione
dell’economia della città crescono le occupazioni di tipo
intellettuale e le categorie professionali ad alto reddito, ma
anche i gruppi di lavoratori
che forniscono servizi non
specializzati e che vanno ad ingrossare le fila di coloro che
occupano gli strati inferiori della struttura sociale. La distanza
tra i ricchi e i poveri, che nella città industriale con un regime
di welfare pienamente sviluppato si era progressivamente
ridotta, ritorna a crescere; è l’esito di processi di polarizzazione
sociale che sono messi in moto su diversi versanti. Alla crescita
della disuguaglianza contribuisce infatti anche la riduzione dei
servizi garantiti dallo Stato su base universalistica, da un lato,
e la flessibilizzazione e precarizzazione del mercato del lavoro
che moltiplica i rischi di vulnerabilità dei gruppi sociali più
deboli. Le stesse trasformazioni dell’economia della città
portano anche a una riduzione del numero delle occupazioni di
livello intermedio, principalmente come esito dei processi di
informatizzazione, con il risultato che i ceti medi, fino allora in
grande espansione, cominciano invece a ridursi. L’immagine
della clessidra sembra allora fornire una rappresentazione
fedele della struttura sociale di questo tipo di città (e di società),
caratterizzata da un allargamento delle fasce superiori e
inferiori e da una riduzione delle classi medie.
E’ una città in cui si accresce la disuguaglianza,
polarizzata dunque, ma è anche una città socialmente
frammentata perché formata da innumerevoli gruppi sociali
diversi per orientamento politico, cultura, posizione economica,
ecc. che hanno legami deboli tra di loro e con la società nel suo
complesso, tanto da minarne la coesione. Alle cause di
eterogeneità tipiche della città industriale, si aggiungono quelle
derivanti da una sempre più articolata divisione del lavoro e,
soprattutto, quelle connesse alle migrazioni internazionali che
portano ora nelle città culture anche molto diverse rispetto a
quella autoctona.
La frammentazione si riflette infine nelle difficoltà di
interpretazione e trasmissione della domanda politica da parte
dei partiti e dalla conseguente crisi della democrazia
rappresentativa. Il governo della città post-industriale si apre a
nuove forme di governance in cui attori diversi – pubblici,
privati, organizzazioni no profit – sono coinvolti nelle politiche
urbane.
2. Il processo di urbanizzazione
2.1 Un millennio urbano
Per coloro che si occupano di città il 2007 segna un
momento storico: è l’anno in cui si compie il passaggio per cui
più della metà della popolazione mondiale vive in città. Nel
2030 la quota di popolazione che vivrà in città supererà il 60%,
il che significa che su una popolazione stimata di 8.1 miliardi,
gli abitanti delle città saranno circa 5 miliardi. Di questi 5
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miliardi, 2 miliardi vivranno nelle bidonville e negli slum delle
maggiori città, soprattutto in Africa e in Asia.
Il millennio che è appena iniziato sarà, quindi, un
millennio urbano, ma i caratteri dell’urbanizzazione
contemporanea sono motivo di grande preoccupazione. Oggi, la
città
appare infatti come un oggetto di ricerca quasi
intrattabile, tanto è soggetta a trasformazioni rapide e profonde
e tanto complessi sono i processi che la interessano e
diversificati i loro esiti. Inoltre essa appare afflitta, in misura
maggiore che nel recente passato, da problemi anch’essi di
difficile trattamento; di fronte ai nuovi processi di
impoverimento, al degrado delle condizioni di vita, al crescere
delle varie forme di inquinamento, ci si chiede se questi siano
segnali di crisi della città o più in generale delle società e del
loro attuale modello di sviluppo. I problemi appaiono diversi
nelle ricche città e metropoli dell’Occidente rispetto alle
megalopoli dei Paesi in via di sviluppo. Per le città del Nord del
mondo la riproposizione della “questione urbana” è
principalmente connessa al mantenimento della coesione
sociale, rispetto al crescere e al differenziarsi delle
disuguaglianze interne, in definitiva il problema è quello della
“capacità politica della città di fare società”, secondo le parole
del sociologo francese Donzelot. Per le città del Sud del mondo,
per quanto anch’esse affette da grandi disuguaglianze al loro
interno, la sfida riguarda principalmente la regolazione del
flusso migratorio dalle campagne e, quindi, l’equilibrio – che
appare sempre più lontano da raggiungere -- tra mondo urbano
e mondo rurale [Véron 2008].
Ma come siamo arrivati a questa situazione? Vediamo
prima di tutto di definire con precisione il fenomeno
dell’urbanizzazione.
Con questo termine intendiamo quel
processo di concentrazione della popolazione di una società
nelle città che comporta flussi migratori dalle zone rurali verso
i centri urbani. Ricordiamo che urbanizzazione e
urbanesimo non sono sinonimi; con questo secondo termine, in
sociologia, viene designato il modo di vita e gli orientamenti
culturali che caratterizzano coloro che abitano in città; questo
termine propone una dicotomia netta tra urbano e rurale su cui,
però, non tutti gli studiosi sono d’accordo, soprattutto nell’epoca
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contemporanea. Inoltre, come dovrebbe a questo punto essere
già chiaro, benché l’industria sia stata il motore dello sviluppo
urbano per oltre due secoli, quel legame necessario tra
urbanizzazione e industrializzazione oggi non esiste più.
Quanto una società sia interessata dal processo di
urbanizzazione si misura calcolando il rapporto tra popolazione
urbana e popolazione rurale, cioè il tasso di urbanizzazione.
Una misura diversa del fenomeno urbano è il tasso di crescita
urbana, calcolato come aumento della popolazione urbana nel
corso di un anno sul totale dei cittadini all’inizio dell’anno; una
misura della rapidità dell’incremento urbano. Qui di seguito
useremo principalmente la prima misura per costruire un
quadro a grandi linee dell’andamento del processo di
urbanizzazione a livello globale.
Se poniamo attenzione all’arco temporale degli ultimi
cinquant’anni, vediamo emergere chiaramente le tappe di una
corsa verso la città che ha preso progressivamente velocità e
che si è concentrata nei Paesi in via di sviluppo. Nel 1955 il
Nord America e l’Europa sono i Paesi più urbanizzati,
rispettivamente con il 67% e il 53% della loro popolazione che
vive in città; l’Europa oltrepassa proprio nel decennio
precedente la soglia del 50%. In questi anni Tokyo supera New
York e diventa la città più grande del mondo.
Con il 1965 il numero di persone che vivono in città
raggiunge il miliardo. L’intensità della crescita urbana è
massima in Asia e in Africa, mentre rallenta in America Latina.
L’Asia, anche se ha solo il 20% della sua popolazione che vive in
città, ha in quel momento un numero assoluto di cittadini
maggiore dell’Europa. Nel decennio 1965-75 il processo di
urbanizzazione rallenta in Asia dove la Rivoluzione Culturale
cinese, con il trasferimento nelle campagne di quote rilevanti di
popolazione urbana, più che compensa lo sviluppo impetuoso di
alcune città dell’Asia meridionale. Negli Stati africani e nei
Paesi del Golfo alcune città crescono a ritmi vertiginosi. Con gli
anni ‘80 riprende vigore la crescita delle città asiatiche nel loro
complesso in quanto la Cina vede accelerare il ritmo di crescita
delle sue città. A livello globale il tasso di crescita urbana
rallenta, ma rimane molto elevato in Africa. Due miliardi di
persone vivono in città e la città più grande del mondo, Tokyo,
raggiunge i 30 milioni di abitanti.
Negli anni ‘90 continua la flessione del tasso di
urbanizzazione: il collasso dell’Unione Sovietica e dell’economia
di molti Paesi dell’Est europeo fa registrare un declino della
popolazione urbana in questa parte del mondo. Con il 1995
l’America Latina sorpassa l’Europa come continente più
urbanizzato. Nel decennio successivo la crescita urbana porta
all’avvicinarsi della soglia del 50% della popolazione che vive in
città a livello mondiale, ma in molti Paesi industrializzati il
rapporto tra popolazione urbana e popolazione rurale si sta
stabilizzando tra il 70% e 80%. Ma la crescita continua
vigorosa, in Asia e in Africa, specialmente nei Paesi più poveri e
tormentati da conflitti. In questo decennio (2005-15) le città
africane continueranno a crescere ancora più velocemente di
quelle asiatiche in termini di incrementi percentuali, ma in
Asia il processo di urbanizzazione sarà più intenso in quanto
coinvolgerà in termini assoluti un maggiore numero di persone.
Si stima che tra il 2015 e il 2020 la popolazione delle città
raggiungerà i quattro miliardi, probabilmente all’incirca nello
stesso periodo la Cina avrà metà della sua popolazione
concentrata nelle città. Come abbiamo già notato, nel 2030
saranno cinque miliardi le persone che vivranno in città,
all’incirca il 60% su un totale di popolazione stimata attorno
agli 8 miliardi.
Il dispiegarsi del processo di urbanizzazione nelle
modalità che abbiamo sommariamente descritto qui sopra,
viene visto come una “seconda ondata”, per quanto molto più
grande e incredibilmente più veloce, di quelle trasformazioni
demografiche, economiche e urbane che avevano caratterizzato
l’ Europa e il Nord America a seguito della industrializzazione.
Allora, nell’arco di due secoli (1750-1950) Europa e Nord
America avevano sperimentato la prima transizione
demografica, la prima industrializzazione e la prima ondata di
urbanizzazione. L’esito combinato di questi processi è stato la
formazione di società industriali urbane che svolgevano un
ruolo dominante nell’ordine mondiale. Quei processi, tuttavia,
erano stati relativamente graduali e avevano coinvolto qualche
centinaia di milioni di persone. Questa “seconda ondata”
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muove masse di popolazione molto più numerose poiché i Paesi
in via di sviluppo hanno ottenuto in poche decine di anni quella
caduta dei tassi di mortalità che i paesi sviluppati hanno
realizzato in uno o due secoli, cosicché l’impatto demografico di
questi cambiamenti è incomparabilmente maggiore. Inoltre, le
restrizioni alle migrazioni internazionali non consentono una
significativa riduzione della pressione demografica nelle città di
questi Paesi, mentre l’apertura della America ai flussi di
emigrazione dall’Europa aveva, durante la prima ondata di
urbanizzazione, fornito uno sbocco alternativo rispetto alle
sovraffollate città europee.
La velocità e le dimensioni del processo di
urbanizzazione nei paesi più poveri pongono alle città di questi
Paesi una ventaglio molto ampio di nuovi problemi a cui sono
chiamate a far fronte con risorse totalmente inadeguate. L’esito
è la formazione, il consolidamento e la crescita di periferie
degradate che si estendono a macchia d’olio attorno alle grandi
città, ove trovano rifugio e abitazione precaria flussi sempre
crescenti di persone. Favela, slum, bidonville, shantytown sono
diventate un elemento comune delle grandi città nei paesi del
Sud del mondo.
Secondo la definizione delle Nazioni Unite si parla di
slum quando non sono presenti una o più delle seguenti
caratteristiche : strutture fisiche stabili, diritto legale, spazio
adeguato e accesso all’acqua potabile e ai servizi igienici. Un
quinto degli slum mancano di almeno tre di queste
caratteristiche. Già oggi un miliardo di persone vive nelle
condizioni di degrado degli slum, mentre ci sono parti del
mondo in cui le città stesse sono in larghissima misura prive di
ogni infrastruttura e connotate da pessime condizioni di vita.
Per esempio, in Etiopia e in Chad il 99.4% della popolazione
urbana vive nelle bidonville, in Afghanistan il 98.5%, nel Nepal
il 92%.
All’occhio occidentale queste situazioni appaiono così
terribili che ci chiediamo perché queste persone abbiano
lasciato i loro villaggi. La risposta più facile e immediata è che
li hanno lasciati spinti dalla speranza di una vita migliore in
città, oppure perché hanno dovuto farlo a seguito di conflitti,
carestie e persecuzioni. Alla vista delle condizioni in cui vivono
dovremmo constatare che, per la maggioranza di loro, quella
speranza non si è realizzata. Eppure, rimane vero che in città
hanno trovato opportunità di sopravvivenza che in campagna
non avrebbero avuto. Ma proprio per questo, a fronte di un
perdurante mancato sviluppo delle aree rurali, sempre più
persone continueranno a inseguire quella speranza. Nel mondo
ogni giorno 200.000 persone lasciano le campagne per
trasferirsi in città; in assenza di politiche di contrasto
dell’esodo, una buona parte di queste persone andranno a
ingrossare le file dei diseredati che abitano le bidonville,
soprattutto nelle città dell’Africa e dell’ Asia, ma anche in
America Latina, facendo passare il numero di persone che vi
vive dal miliardo di oggi ai due miliardi stimati nel 2030 .
15
16
2.2 Il sistema urbano europeo
Ci concentriamo ora sul processo di urbanizzazione in
Europa per analizzare dapprima il suo formarsi in determinati
momenti storici e quindi le sue dinamiche in epoca
contemporanea. Il lungo cammino di formazione del sistema
urbano europeo inizia in epoca pre-romana, con la nascita delle
città che si affacciano sul Mediterraneo e che, insieme a quelle
delle sue sponde africane e asiatiche, costituiscono un primo
anello urbano centrato sul Mediterraneo sud-orientale.
L’impero romano porta a una grande fioritura di città
che si aggiungono al primo anello, sia attorno al Mediterraneo,
sia internamente lungo i percorsi del Rodano e del Reno, sia
infine in tutta l’Inghilterra, costituendo il “braccio” nordoccidentale della struttura urbana. Bisogna ricordare che nel
momento di massima espansione dell’impero e quindi delle città
sotto il controllo romano, il tasso di urbanizzazione raggiungeva
a fatica il 10%. Con la caduta dell’impero, molte città si
riducono a villaggi e l’Europa si ricopre di foreste. In epoca
medievale si ha la seconda fioritura urbana che rafforza le
direttrici di sviluppo urbano di epoca romana, ma a queste
aggiunge le nuove città della lega anseatica – tra cui Lubecca,
Amburgo, Brema -- e quelle che si affacciano sul Mare del Nord
(Bruges, Anversa, Oslo) e sul Mar Baltico (Danzica, Riga). Allo
sviluppo urbano corrisponde il raggiungimento di forme più o
meno complete di autonomia politica delle città rispetto
all’ordine feudale. Tra gli esempi più significativi le 200-300
città-stato italiane che si sviluppano nelle regioni del Nord e del
Centro-Nord tra il 1100 e il 1200. Per la prima volta gli scambi
legano le città in circuiti di relazioni a livello europeo; è un
traffico intenso di beni, ma anche di idee, se si tiene conto che
tra il 1000 e il 1400 nascono in queste città più di cento
università che rimarranno, salvo rare eccezioni, istituzioni
importanti del sistema accademico e di ricerca odierno. Nello
stesso periodo il conflitto con l’Islam porta al declino delle città
più
antiche
del
Mediterraneo.
Una terza ondata di urbanizzazione si ha a partire dal
Cinquecento, con la formazione dei grandi Stati nazionali, il
rafforzamento delle capitali e la formazione o il consolidamento
di centri amministrativi di vario livello. Questi processi
portano, in Paesi come la Francia e l’Inghilterra, alla
configurazione di sistemi urbani monocefali, vale a dire
caratterizzati da un centro dominante, Parigi e Londra. Ma
comincia a configurarsi in questo periodo anche una traiettoria
di sviluppo urbano diversa, nella quale continuano a crescere le
città che mantengono la loro indipendenza in corrispondenza
della ritardata formazione degli Stati nazionali di appartenenza
e si vanno costituendo sistemi urbani policefali, con un ampio
numero di città di dimensioni medie, come quelli della
Germania, dell’Italia, della Svizzera, dell’Olanda e del Belgio
[Hohenberg e Lees 1985]. In generale, in questa fase,
s’irrobustisce la parte centrale del sistema urbano europeo, che
vede la nascita di più centri urbani all’interno rispetto alle aree
costiere.
Tra la fine del ‘700 e la fine dell’’800, con la rivoluzione
industriale e il commercio con le colonie si sviluppa l’insieme
delle città costiere, in particolare quelle affacciate
sull’Atlantico, in ragione della preminenza dell’Inghilterra nella
fase
di
prima
industrializzazione.
L’urbanizzazione
dell’Inghilterra è, rispetto agli altri Paesi europei,
estremamente precoce: il 45% di cittadini già nel 1850 (anno in
cui Londra con due milioni di abitanti è la maggiore città
europea) e il 75% nel 1910. La Francia e l’Italia invece vedono
la loro popolazione diventare in maggioranza urbana soltanto
con gli anni Cinquanta. Con l’inizio del ‘900 la diffusione
dell’industrializzazione porta progressivamente maggiore
crescita di nuovo alle città interne al continente, con un
ulteriore rafforzamento del sistema urbano centrale. A questo
contribuiranno inoltre, nella seconda metà del secolo scorso, il
declino dell’impero britannico e il progressivo indebolimento
delle città del Mediterraneo.
Fino agli anni ’60 del secolo scorso vediamo in atto
processi di urbanizzazione che corrispondono a fenomeni di
concentrazione urbana, di migrazioni dalle campagne alle città
e dalle città piccole verso quelle di dimensione maggiore. In
generale la crescita urbana di tipo tradizionale rispettava la
regola secondo la quale si avevano tassi crescenti di incremento
demografico per dimensioni demografiche crescenti della città,
ovvero più una città era popolosa più la sua popolazione
cresceva. Con ritardo nei Paesi meridionali dell’Europa e con
anticipo in quelli settentrionali, tra la fine degli anni ‘50 e gli
anni ’80 assistiamo a una inversione di tendenza che segnala
l’emergere di due dinamiche diverse: la prima è relativa alla
formazione e all’evoluzione delle aree metropolitane, la seconda
riguarda invece la localizzazione territoriale dello sviluppo
economico.
Le città europee più grandi si sono trasformate in aree
metropolitane che servono sistemi urbani complessi, svolgendo
funzioni importanti per il loro sviluppo. La loro crescita ha
portato a un incremento di popolazione nei comuni della prima
e della seconda corona, comuni demograficamente piccoli ma
che crescono rapidamente in quanto fanno parte di quell’area
metropolitana. Questa crescita suburbana avviene ai livelli più
alti della gerarchia urbana: in primo luogo per le città “globali”,
cioè per quelle città caratterizzate dalla concentrazione di
strutture di comando e controllo del sistema economico,
industriale e finanziario a scala mondiale, nonché dalla
presenza di infrastrutture di formazione e ricerca di livello
superiore [Sassen 1991]. In Europa Londra e Parigi, dove tale
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[email protected]
[email protected]
[email protected]
concentrazione è nettamente superiore rispetto alle altre città
europee, ma anche Milano, Madrid, Monaco di Baviera,
Francoforte, Roma, Bruxelles, Barcellona, Amsterdam. In
secondo luogo, sono le città che detengono alcune funzioni
specializzate, attraverso le quali si inseriscono nella
competizione internazionale, a veder crescere la loro
agglomerazione urbana;
ad esempio, Zurigo cresce come
capitale finanziaria, Lione è diventata la seconda area
metropolitana francese grazie alla ricerca scientifica e
tecnologica.
Il secondo motivo della crescita urbana contemporanea
è collegato con lo sviluppo economico di quelle città e regioni
che hanno negli ultimi due decenni affrontato e vinto la
competizione a livello globale. Sono le città della Catalogna in
Spagna, del Midi francese e delle regioni ad economia diffusa in
Italia che sono entrate con successo nelle reti globali e ne
alimentano i flussi di produzione materiale e immateriale.
Da ultimo osserviamo che il sistema urbano europeo sta
crescendo a un ritmo molto lento: dello 0.35% annuo dal 1996 al
2001; sebbene questo tasso sia circa il doppio del tasso di
crescita della popolazione nello stesso periodo (pari allo 0.2%) e
quindi indichi la persistenza del processo di urbanizzazione, è
opportuno notare il declino di molte città, per esempio in Italia
dove la crescita demografica presenta valori negativi, oppure
nelle città dell’Europa centrale e orientale che sperimentano
una difficile transizione verso un’economia di mercato.
2.3 La città europea
Anche a uno sguardo superficiale, le città europee
appaiono assai diverse l’una dall’altra; la crescita costante del
turismo verso le città dimostra la percezione, da parte anche
degli europei, di una diversità che continua a incuriosire e a
offrire l’illusione di esperienze nuove e diverse rispetto a quelle
che può offrire l’ambiente urbano familiare. Tale diversità non
deve stupire in quanto è il risultato di specifiche vicende
storiche che hanno interessato una particolare città e la
regione di cui fa parte, e che nei secoli le hanno dato una forma
e un profilo unico e particolare. Parlare di “città europea” e
19
proporre quindi affermazioni generali che siano valide per tutte
le città appare impresa rischiosa. D’altro canto, però, le città
europee appaiono oggi altrettanto profondamente trasformate
dalle dinamiche dei processi della globalizzazione -- economica,
politica e culturale -- tanto da renderle simili tra di loro, ma
anche simili alle città di molte altre parti del mondo. In
quest’ottica la categoria “città europea” sembra ancor più
destinata a perdere un suo significato preciso. Eppure, quando
guardiamo alla città americana scopriamo elementi peculiari
che ci colpiscono proprio perché
li confrontiamo con le
esperienze e le immagini di città a noi più vicine e familiari. In
effetti, andando oltre le impressioni, è proprio attraverso lo
strumento della comparazione -- in questo caso applicato con
rigore scientifico a insiemi di informazioni organizzati
sistematicamente -- che siamo in grado di definire i caratteri
della città europea e di dare, quindi, un significato più preciso
alle nostre affermazioni quando usiamo questa categoria.
La città europea si distingue per la sua forma fisica e la
sua età; a questi tratti si aggiungono poi i caratteri specifici del
sistema urbano europeo: densità e prevalenza di città di piccola
e media dimensione. Vediamo questi elementi in dettaglio. La
città europea ha innanzi tutto una distinta morfologia: essa si
caratterizza per la sua forma compatta e densamente costruita
attorno a un’area centrale ove si concentrano gli edifici pubblici,
le chiese, i monumenti, le aree per il commercio e gli scambi. A
partire da questo centro la città si sviluppa lungo le linee
radiali, articolandosi in strade e piazze che avvicinano edifici
pubblici e edifici privati e creano spazi pubblici permeati di
valori simbolici e di memorie che gli abitanti condividono. La
città europea del Medioevo rappresenta l’esempio proto-tipico:
la sua evoluzione con la scomparsa delle mura e la formazione
dei sobborghi e delle periferie si dispiega accomodando la
crescita della popolazione in un ambiente costruito che non
perde i suoi principi ordinatori. Infatti, fino all’inizio del XX°
secolo le città europee rimangono addensate attorno al loro
centro e organizzate su uno spazio relativamente limitato.
Questa matrice comune dà vita poi, in tempi più recenti, a
forme diverse che si articolano nel tempo secondo le scelte delle
tecnologie di trasporto pubblico e privato, ma anche in ragione
20
dell’azione dell’autorità statale che, in ogni Paese, imprime
sulla forma urbana una sua impronta nazionale, visibile nello
stile degli edifici pubblici, nella impostazione della
pianificazione urbanistica o nelle politiche per la casa [Le Galès
2002, trad. it. 2003]. Nonostante tale diversificazione, per la
grande maggioranza degli agglomerati urbani europei, la
strutturazione della città in riferimento al suo centro storico
rimane un elemento comune e di forte significato. Guerre,
rivoluzioni e crisi economiche hanno sconvolto la vita di molte
città ma non hanno alterato la concentrazione del patrimonio
artistico e monumentale delle aree centrali che rimangono in
larga misura la residenza privilegiata dei ceti più abbienti e
l’obiettivo di ripetuti reinvestimenti da parte del governo locale
e nazionale in tutti i Paesi europei. Nelle dinamiche di
trasformazione della città europea, grande importanza ha
giocato la propensione delle élite economiche, politiche e
culturali a continuare a vivere nel centro della città.
Concentrazione, compattezza e densità pongono il
modello europeo di città in netto contrasto con quello
americano, ove l’organizzazione della città nasce incardinata a
una griglia geometrica (grid) di isolati di uguali dimensioni,
che si ripetono all’infinito e dove spazi vuoti e costruiti si
alternano in modo casuale. Non ancorata a un centro, la città
americana si sviluppa orizzontalmente inglobando voracemente
il territorio circostante, in un’espansione incontrollata e a bassa
densità (urban sprawl) favorita dalla diffusione dell’auto
privata come principale mezzo di trasporto. Contribuisce alla
massiccia sub-urbanizzazione il movimento verso queste aree
dei ceti superiori che, contrariamente a quanto avviene in
Europa, tendono ad abbandonare le aree centrali, dove si
vanno invece concentrando degrado fisico e problemi sociali, per
risiedere in aree periferiche di alta qualità. La propensione,
sempre più accentuata, dei ceti superiori a risiedere nelle aree
suburbane priva le aree centrali della città americana di quel
capitale economico, politico e culturale necessario per una sua
costante valorizzazione. Inoltre, secondo Sennett [1990, trad. it.
1992] è la struttura reticolare e a bassa densità della forma
urbana che lasciando o ricreando continuamente spazi vuoti,
spesso in stato di abbandono, lavora in senso contrario alla
produzione di spazi pubblici significativi e di attivazione di
processi di identificazione.
In parte collegato ai suoi caratteri morfologici è il
secondo tratto della città europea, e cioè la sua longevità. In
grandissima maggioranza le città europee hanno origini molto
antiche. Più oltre si dà conto dell’evoluzione storica della
formazione del sistema urbano europeo: qui è sufficiente
ricordare in estrema sintesi che il 30% degli insediamenti
europei è di origine romana, una quota altrettanto importante
ha origine nella crisi alto medievale della città e nella
dispersione sul territorio di monasteri e castelli attorno ai quali
sorgono nuovi centri urbani. Un’altra quota importante affonda
le sue origini nelle attrezzature che presiedevano il sistema
produttivo della campagna: mulini, centri di raccolta e scambi,
mercati, sempre in epoca pre-industriale. Questo significa che
le città europee possiedono una straordinaria continuità
temporale, che le ha portate ad accumulare nel tempo edifici e
istituzioni che vanno a comporre patrimoni molto significativi
sotto diversi punti di vista. Pertanto ogni modificazione della
sua forma fisica non può essere che lenta e difficoltosa, a fronte
spesso di tenaci resistenze e conflitti di difficile mediazione. Ma
la continuità temporale determina anche l’accumulo di
conoscenze e istituzioni che possono assicurare la
sopravvivenza nelle fasi negative del ciclo economico e
costituire un vantaggio quando si presentino opportunità di
rilancio e sviluppo. Così, le città europee possono avere nel
corso del tempo rallentato la loro crescita o anche subito fasi di
declino, ma non sono mai state cancellate completamente; i loro
capitali, fossero questi una posizione geografica favorevole,
risorse naturali o una tradizione di sapere, hanno potuto di
volta in volta essere riattivati per innescare un nuovo ciclo di
sviluppo. La città europea ha grande resistenza, quindi,
secondo la felice espressione di Gottmann [1983], essa è
invincibile, perché concentra in sé risorse di vario tipo, ancora
oggi perché possiede i capitali finanziari e le conoscenze utili al
nuovo ciclo di sviluppo basato sulle nuove tecnologie della
comunicazione e dell’informazione.
Veniamo ora al terzo elemento che caratterizzata la
città europea, quello di far parte di un sistema urbano molto
21
22
denso. L’Europa è da tempo un continente di città: se
disponiamo sulla mappa europea un punto per ogni
agglomerato con più di 10.000 abitanti, questa risulta
fittamente coperta di punti e con particolari ulteriori
addensamenti, in corrispondenza dell’Inghilterra meridionale,
dell’Olanda e della parte centrale della Germania, delle regioni
costiere italiane che si affacciano sull’Adriatico.
Se, seguendo Dematteis [1997], dalla miriade di punti
selezioniamo quelli che rappresentano città europee di
importanza internazionale, si delinea invece una sorta di “cuore
metropolitano europeo”, in cui in un cerchio di 600 Km. di
raggio si concentrano più della metà delle città di questo tipo.
Si usa fare riferimento a questo “cuore” con il nome di
“megalopoli renana”, un territorio urbano coagulatosi attorno ai
poli di Bruxelles, Amsterdam, Francoforte.
Il territorio europeo è, dunque, fittamente costellato da
città e questo rende l’Europa il continente più urbanizzato del
mondo: il suo livello di urbanizzazione, definito come
percentuale della popolazione residente in città con più di
10.000 abitanti, risulta leggermente inferiore all’80%, di poco
superiore a quello degli Stati Uniti (78,5%) e del Giappone
(73,5%) ma più del doppio di quello di altri continenti. Le
proiezioni al 2020 parlano sia in Europa che negli Stati Uniti,
di una popolazione urbana pari all’84% del totale.
L’elevato numero di città rispetto alla grandezza del
territorio europeo determina che le città siano relativamente
vicine le une alle altre: la distanza media tra città con più di
10.000 abitanti è di 13 km., con variazioni molto contenute tra
gli Stati europei, poiché l’ampiezza del campo di variazione va
dai 6 km. dell’Olanda ai 27 km. dell’Irlanda [Cattan et al.
1994]. Ricordiamo che in Asia la distanza media tra città è di 29
km., negli Stati Uniti è di 48 km. e negli altri continenti è di
oltre 50 km. Al di là del significato descrittivo del dato, questa
caratteristica del sistema urbano europeo è importante perché
favorisce l’attivazione di connessioni e di flussi, per quelle
funzioni che ancora sono influenzate dalla distanza fisica, e più
in generale, la collaborazione tra città. In altre parole, la
vicinanza costituisce un vantaggio per le città europee, in
quanto facilita la costruzione di reti urbane attraverso le quali
le città intrattengono relazioni stabili di tipo economico,
culturale o politico-istituzionale.
Un quarto elemento caratterizza il sistema urbano
europeo, la forte incidenza delle città di piccola e media
dimensione. Le città di piccole dimensioni sono
numerosissime, ma la grande maggioranza della popolazione
urbana europea vive in città di dimensioni medie e mediograndi (dai 100.000 ai 2 milioni di abitanti). Le città al di sopra
della soglia dei 2 milioni di abitanti sono poche: Parigi, Londra,
Madrid, Berlino, Roma e rappresentano più l’eccezione che la
regola. Anche in questo caso il contrasto con il sistema urbano
americano non potrebbe essere più netto: l’asse portante di
questo sistema è costituito dalle grandi metropoli che sono
relativamente distanziate le une dalle altre e spesso centro di
conurbazioni molto vaste.
In estrema sintesi, quando parliamo di città europea
abbiamo in mente una città di dimensioni medie, soprattutto se
paragonata alle megalopoli degli altri continenti ove sempre più
si concentra in epoca contemporanea la crescita urbana, ad alta
densità di popolazione e il cui centro, anche in ragione della sua
origine storica, mantiene funzioni economiche, politiche,
culturali e simboliche importanti.
Oggi, questi caratteri, portato della storia delle città
europee, tendono a essere percepiti come positivi, tanto che
attorno a essi si costruiscono modelli che tentano di coniugare
la competitività economica all’equità sociale e alla salvaguardia
dell’ambiente. In quell’ottica di sostenibilità che è ormai il filo
conduttore di tutte le azioni della Comunità europea, si è di
recente consolidato un orientamento nelle politiche urbane che
privilegia la “città compatta”, vale a dire una forma urbana
contenuta nelle sue dimensioni e con un’elevata densità
abitativa, perché permetterebbe un maggior ricorso ai sistemi
di trasporto collettivi, avrebbe una maggiore accessibilità,
ridurrebbe i tempi degli spostamenti e determinerebbe un
minor consumo di suolo, tipico invece delle città più grandi che
tendono costantemente a espandersi verso l’hinterland.
Parimenti, giacché la città di medie dimensioni è percepita
come ideale, si raccomandano politiche che favoriscano la
redistribuzione della popolazione sul territorio, al fine di evitare
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la formazione di grandi agglomerazioni urbane e le conseguenti
patologie: esclusione sociale e segregazione spaziale, problemi
ambientali e di trasporto, tensioni sociali e povertà. Inoltre, un
orientamento che privilegi le città di medie dimensioni
permetterebbe di arrivare a un sistema urbano europeo più
equilibrato, policentrico e, in definitiva, più sostenibile.
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