PRIMA PARTE : CHE COS’E’ LA CITTA’ 1. Città preindustriale, città industriale e città postindustriale. 1.1 Definire la città Benché nel senso comune e nell’esperienza quotidiana delle persone sia molto chiaro cosa si intende per città, darne una definizione precisa ed univoca non è altrettanto immediato e, anzi, si rivela operazione complicata e difficile. Il sociologo urbano Louis Wirth (1897-1952) ha proposto una definizione che per semplicità e parsimonia possiamo utilmente usare come punto di partenza della nostra riflessione. Per Wirth, la città è un insediamento relativamente vasto, denso e duraturo di persone socialmente eterogenee. Dimensione, densità e eterogeneità sono gli elementi che si assume rendano la città uno spazio materiale e simbolico di relazioni sociali specifiche e diverse rispetto a quelle tipiche dall’ambiente rurale. Tali relazioni si sono strutturate, però, in modi diversi nelle differenti epoche storiche; la sociologia ragiona sulle forme delle relazioni sociali, politiche ed economiche che hanno contraddistinto tipi diversi di città, per struttura sociale, funzione economica e ordine politico. Da questo punto di vista, la lunga storia della città può essere suddivisa in tre periodi in base alla tipologia di città che in quel tempo si forma e diventa prevalente: città preindustriale, città industriale e città postindustriale. Questa tipologia individua modelli o tipi ideali, cioè strumenti concettuali, astrazioni che contengono gli elementi fondamentali (nei rapporti sociali, economici e politici) che contraddistinguono il fenomeno “città” in una particolare epoca storica; nessuna città nella storia corrisponde esattamente a un tipo ideale, ma, dal confronto tra tipo ideale e realtà empirica di una data città, possiamo stabilire similarità e divergenze e cercare le cause che spiegano tali variazioni. La città è un’invenzione umana molto antica. Eppure possiamo anche dire che solo recentemente nella storia della specie umana le persone si sono raccolti in quegli insediamenti 1 densi e strutturati, spazialmente e socialmente, che chiamiamo città. Vediamo di mettere ordine in questa apparente contraddizione. Città preindustriale, città industriale e città postindustriale hanno occupato epoche storiche di lunghezza temporale estremamente diversa. La città post-industriale è il modello prevalente nel mondo occidentale nell’epoca contemporanea e riguarda grosso modo gli ultimi 50 anni; la città industriale, invece, si è imposta come modello prevalente di città a partire dalla Rivoluzione Industriale fino ai decenni immediatamente successivi alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Le innumerevoli città che sono fiorite nei grandi imperi antichi, egiziano, romano, cinese o bizantino, ma anche in epoche meno remote nelle civiltà persiane o arabe fino alle città medioevali europee, sono da annoverarsi tra le città preindustriali che hanno caratterizzato un arco temporale molto lungo che si estende dalle prime città del quarto millennio a.c. fino alla Rivoluzione Industriale. In quest’ottica le città contemporanee, ma anche le città industriali, appaiono come fenomeni di breve periodo – al massimo qualche centinaio di anni, mentre per oltre cinque millenni una tipologia di città, quella preindustriale, ha costituito il contesto di rapporti sociali, politici ed economici specifici. La stessa ottica storica spinge a porre attenzione al fatto che, dalla comparsa sulla terra dell’homo sapiens sapiens, circa 50,000 anni fa fino al quarto millennio a.c. in cui sorgono le prime città, la stragrande maggioranza del tempo della storia umana è contraddistinto dall’assenza di città. Infatti, gli archi temporali qui delineati, in corrispondenza rispettivamente della città preindustriale, industriale e post industriale, sono stati preceduti da un lunghissimo tempo, che copre il 99% della storia del genere umano, in cui le città non esistevano. E’ l’epoca delle società di cacciatori e raccoglitori, formazioni sociali semplici e di piccole dimensioni, che, a parte le marcate differenze tra uomini e donne, sono tendenzialmente ugualitarie; esse occupano temporaneamente un certo territorio per abbandonarlo nel momento in cui vi si esauriscono le risorse. La dipendenza dai prodotti della natura, siano questi 2 animali o vegetali, rende queste bande di cacciatori e raccoglitori necessariamente nomadi e gruppi nomadi non creano insediamenti permanenti, né tanto meno città. 1.2 La nascita della città Questo lungo periodo pre-urbano si chiude con la Rivoluzione neolitica o agricola; la pietra che ora l’uomo è in grado di lavorare, la “pietra nuova” dunque, permette a sua volta la lavorazione della terra e determina la formazione di villaggi in cui gruppi diventati sedentari si dedicano all’agricoltura. Secondo gli storici, se si dovesse ricordare una sola caratteristica della Rivoluzione neolitica questa sarebbe l’esistenza di villaggi permanenti abitati da coloro che coltivano la terra. Diverse ragioni spiegano perché le popolazioni del Neolitico siano passate alla agricoltura, sebbene questo passaggio comporti per queste popolazioni un maggiore impegno e fatica nel procurarsi di che vivere. Gli storici propendono per la tesi secondo la quale questa fu una scelta forzata, determinata dalla pressione demografica su risorse alimentari che si erano fatte scarse. In questa sede, però, non siamo tanto interessati al passaggio dalle società di cacciatori e raccoglitori alle società basate sull’agricoltura, quanto al passaggio da insediamenti rurali permanenti alla costituzione di città. In effetti, è proprio in epoca Neolitica che sorgono le prime città: la città di Catal Hőyők in Turchia si sviluppa dal 6800-6300 a.C., Gerico in Israele prima del 7000 a.C., Mehrgarh nel nord dell’India attorno al 7000 a.C., Sesklo in Tessalia dal 4800-4400 a.C., nonché infine le città di Eridu, Ur e Uruk in Mesopotamia, quest’ultima per lungo tempo considerata la prima città in assoluto, è nel 3200 a.C. il centro maggiore della regione. Vediamo di capire perché sono nate le città e come mai si sono sviluppate in quelle aree geografiche. La teoria del surplus agricolo offre una risposta a entrambe le domande. Secondo questa teoria la formazione di una città dipende dalla precedente disponibilità di eccedenze alimentari che non sono consumate dai produttori, cioè dai contadini. Nei villaggi neolitici, caratterizzati da un basso livello tecnologico, tutti gli abitanti sono impegnati nella 3 coltivazione della terra per assicurarsi sufficienti raccolti per sopravvivere. In questa fase non si producono eccedenze e tutto il raccolto viene consumato. Nel momento in cui la tecnologia disponibile progredisce, per esempio, con l’addomesticamento degli animali e la costruzione di strumenti agricoli più efficaci, come l’aratro in ferro, la produzione aumenta e si crea una certa eccedenza, cioè prodotti, cereali per esempio, che non sono consumati per la sopravvivenza. Questa eccedenza può essere utilizzata per nutrire una popolazione impegnata in attività diverse da quelle agricole, siano queste di produzione di manufatti, frutto dell’attività di fabbri, falegnami, vasai, oppure di servizi di difesa, per esempio, guardiani e soldati, oppure infine per servizi religiosi. Alla crescita della produttività in agricoltura corrisponde un aumento di persone non direttamente impegnate in essa e occupate in un ampio ventaglio di professioni diverse. Le città sorgono e si sviluppano come luoghi di residenza e di lavoro di coloro che non sono impegnati in agricoltura e questo avviene laddove più alta è la produttività agricola: più questa è elevata, maggiore sarà la probabilità che si formino città e che queste siano di dimensioni e complessità significative. La produttività agricola aumenta grazie al progresso tecnologico: l’aratro trainato da buoi, la capacità di lavorare i metalli, le tecniche di irrigazione e di navigazione, l’addomesticamento di animali e piante, forme di scrittura. Nella Mesopotania tutte queste tecnologie sono presenti e i conseguenti aumenti di produttività agricola consentono lo sviluppo di una vita urbana complessa e sofisticata; ma la città non è stata una “invenzione” della civiltà sumera che si sarebbe poi diffusa in altre regioni. La presenza di città neolitiche in parti del mondo molto distanti tra loro dimostra che processi di formazione di città si mettono in moto ovunque viene raggiunta questa soglia di efficienza tecnologica in agricoltura. In questo senso possiamo affermare che la Rivoluzione agricola del 7000 a.c. e le innovazioni tecnologiche del Neolitico rappresentano i prerequisiti necessari per la Rivoluzione urbana del 4000 a.c. Finora abbiamo trattato la relazione tra produttività agricola e urbanizzazione, ma rimane ancora oscuro il meccanismo attraverso il quale il surplus prodotto da ogni 4 famiglia o villaggio viene raccolto e ridistribuito ai lavoratori non agricoli che vivono in città. In effetti, il surplus prodotto avrebbe potuto essere conservato dai contadini, oppure i contadini avrebbero potuto lavorare di meno e produrre solo lo stretto necessario per la loro sopravvivenza. Secondo l’archeologo australiano Gordon Childe, in Egitto nel periodo dei primi faraoni una singola famiglia di contadini era in grado di estrarre dal fertile suolo della pianura del Nilo tre volte il cibo necessario per il proprio sostentamento: perché avrebbero dovuto lavorare così tanto? La risposta è perché vi erano costretti: i contadini producevano eccedenze alimentari per pagare le tasse ai faraoni. L’esistenza stessa di eccedenze e il loro ammontare dipendono dalla coercizione esercitata da forme di potere centrale in grado di assoggettare territori agricoli più o meno vasti. Ecco allora che la teoria del surplus risulta insufficiente a spiegare la nascita delle città. Potenzialmente eccedenze alimentari potevano essere ottenute quasi ovunque, ma le città non nascono dappertutto. Esse nascono dove si forma una organizzazione statuale, in grado di esercitare tale potere coercitivo e ottenere le eccedenze agricole dalla popolazione; tanto più lo stato è forte tanto più sarà in grado di comprimere il livello di vita della popolazione e raccogliere tasse elevate e tanto più cresceranno il numero e la dimensione delle città. Il surplus non esiste senza uno Stato che lo raccoglie e lo ridistribuisce in modo più o meno diseguale. La teoria del surplus deve quindi essere integrata con una spiegazione sulle origini dello Stato. Sul problema delle origini dello Stato si confrontano sostanzialmente due famiglie di teorie. Da un lato troviamo le teorie che spiegano le origine dello Stato a partire dalla necessità di gruppi privilegiati di controllare e reprimere altri gruppi al fine di mantenere la propria posizione di privilegio. All’interno di queste teorie non c’è accordo sul fatto che forme di disuguaglianza debbano precedere la formazione dello stato o se sia la presa del potere da parte di alcuni a strutturare in seguito società stratificate e nettamente divise tra governanti e governati. C’è invece accordo nel sostenere che la formazione dello stato preceda la formazione delle città; in effetti troviamo antiche civiltà senza città e altre che hanno una forma di governo molto prima di costruire città, ma le città non sono mai esistite prima della agricoltura o del potere politico. Altre teorie spiegano la formazione dello Stato sulla base dei vantaggi che l’organizzazione politica offre alla popolazione. La protezione militare è l’esempio più ovvio, in epoche in cui i confini delle società agricole erano costantemente minacciate dai barbari delle montagne o dalle tribù predatrici del deserto. Parimenti, la costruzione e manutenzione di opere per assicurare l’irrigazione ai campi necessita di un’organizzazione che detiene il potere e le conoscenze necessarie per esercitare tali funzioni1. Più in generale, queste teorie enfatizzano lo scambio, con beneficio reciproco delle parti, tra contadini bisognosi di difesa e di amministrazione ed élite politiche, militari e religiose che assolvono funzioni necessarie per il funzionamento e la riproduzione della società nel suo complesso. L’opinione prevalente tra gli studiosi è, tuttavia, che le relazioni tra la città, sede di queste élite, e la campagna, luogo della produzione, siano state piuttosto di oppressione e sfruttamento; quale che fosse la ragione iniziale per la formazione di strutture di potere, il suo consolidarsi, e quindi il formarsi di città sede di tale potere, avviene attraverso la concentrazione all’interno di un gruppo molto distretto che esercita un potere dispotico e assoluto su suoi sudditi. E’ questo un portato della strutturazione delle relazioni sociali, politiche ed economiche contraddistinguono la città pre-industriale. Vediamo perché. Abbiamo visto che la città pre-industriale vive della ricchezza prodotta nelle campagne. Perché questo avvenga è 5 6 1 La necessità di complesse infrastrutture per l’irrigazione ha portato il filosofo Wittfogel a ipotizzare che questa fosse la ragione alla base dell’esistenza di un potere dispotico in Cina, il solo in grado di costruire e mantenere opere di irrigazione imponenti e complesse per assicurare il controllo delle inondazioni. Ma, come molte teorie che assumono un solo fattore causale alla base delle loro spiegazioni, anche la teoria del dispotismo orientale di Wittfogel non è suffragata da sufficienti evidenze empiriche comparative che consentano di affermare che la formazione degli stati antichi sia collegata principalmente a questa funzione. necessario che un gruppo di potere si costituisca e che questo gruppo di potere sia in grado di ottenere dai contadini delle risorse in cambio di determinati servizi. Il faraone o il re era a capo di un esercito che provvedeva alla difesa, faceva costruire grandi opere di irrigazione, mentre i suoi sacerdoti pregavano gli dei perché assicurassero un raccolto abbondante. Le elite dell’antichità consolidavano il proprio potere attraverso guerre non solo difensive, ma soprattutto aggressive, attraverso la quali accrescevano il proprio potere perché guadagnavano il controllo su più estesi territori e catturavano schiavi da usare per il lavoro agricolo; attraverso il lavoro degli schiavi si rendevano disponibili maggiori risorse che consentivano il sostentamento di sempre più numerosi eserciti. Da qui il carattere endemico della guerra in tutta l’epoca pre-industriale: lo schiavo ha vita breve e a lui non è in genere consentito di riprodursi, cosicché la guerra, in quanto mezzo per accaparrarsi schiavi, diventa necessaria. Lo sviluppo della città dipende dalla forza di queste elite e dell’organizzazione politico-amministrativa che a loro faceva capo. Il controllo del territorio assicurato dal potere politico rendeva inoltre possibili i commerci, i quali, a loro volta, alimentavano le manifatture cittadine. Lo studioso arabo Ibn Khaldun, che può a ragione essere considerato il primo sociologo urbano, già nel XIV˚ secolo scriveva della propensione delle città a crescere quando lo Stato era solido e a declinare quando il suo potere veniva indebolito. In effetti, ogniqualvolta ampi territori sono stati sottomessi a un potere centrale, si sono create le condizioni politiche per il formarsi sia di un aggregato urbano particolarmente significativo e sede di quel potere centrale, sia di una rete di città che amministravano quei territori e ne ricevevano tasse: Roma, Bagdad e Pechino sono diventate le più grande città del mondo quando il loro impero era all’apogeo, e, nello stesso tempo, vi è una fioritura di città nelle varie regioni dell’impero. Per converso, il declino del potere centrale riduce la quantità di ricchezza che raggiunge le città e, di conseguenza, porta a una loro riduzione, di numero e di dimensioni. Siamo ora in grado di guardare alla città preindustriale cogliendone gli elementi fondamentali della sua forma di organizzazione sociale, economica e politica. Le forme di governo oscillano tra la monarchia e l’oligarchia; anche nell’Atene del III° secolo, quando tra le città-stato greche era la culla della democrazia, i cittadini che partecipavano alle assemblee erano una piccola minoranza di maschi adulti proprietari terrieri, mentre le donne, i meteci (artigiani, commercianti e stranieri) e gli schiavi non godevano della cittadinanza. Il governo dei grandi imperi è di norma esercitato da un sovrano attorno al quale si coagula una ristretta elite politico, militare e religiosa, che detiene il monopolio delle risorse materiali e della conoscenza. Al di sotto di questo vertice si situano il ceto dei mercanti e degli artigiani, specialisti che approvvigionano la corte, ricevendo per questo parte del surplus che viene dalle campagne, a volte in natura, a volte in denaro; mercanti e artigiani compongono comunque di gruppi sociali di ridotte dimensioni. La loro presenza, unitamente a quella delle elite di cui si è già detto, testimonia la diversità e la specializzazione dei compiti; siamo quindi davanti a una organizzazione sociale che lega tra loro persone eterogenee, diverse per funzione e conoscenze possedute, tra le quali vi sono rapporti di interdipendenza, un’organizzazione in netto contrasto con la vita rurale dove i contadini svolgono pressappoco le stesse attività e compongono quindi una popolazione molto omogenea. La struttura sociale è caratterizzata da enormi disuguaglianze; da un lato un gruppo ristretto che detiene il potere e controlla ingenti risorse economiche e simboliche e, dall’altro, la massa di contadini -- proprietari e affittuari ma soprattutto schiavi – che, pur essendo gli artefici di quella ricchezza, vive in condizioni miserevoli. Lo stretto legame tra elite politica e elite religiosa, quando non la coincidenza nella stessa persona, provvede alla legittimazione dell’ordine sociale e dei privilegi che questo assicura al ceto dominante. 1.4 La città industriale 1.3 La città pre-industriale 7 8 La città industriale che si sviluppa nel XIX° secolo è espressione di un nuovo sistema economico basato sulla creazione di ricchezza attraverso l’uso di capitale. Non più la terra, come nelle precedenti società basate sull’agricoltura, ma il capitale investito in mezzi di produzione, l’industria, è fonte di ricchezza. Questo nuovo sistema economico si basa su una innovazione sociale e tecnologica, la manifattura, e si sviluppa grazie alle scoperte scientifiche e alle innovazioni tecnologiche che si diffondono a partire dal XVII° secolo e con particolare intensità nel secolo successivo. Dal punto di vista sociale è ancora una città fortemente divisa e caratterizzata da stridenti disuguaglianze sociali: da un lato, la borghesia industriale e finanziaria che detiene i mezzi di produzione e il capitale, dall’altro, i lavoratori, il proletariato, i quali non hanno altro che la forza lavoro delle loro braccia e dei propri figli, a cui si aggiunge un largo strato di sottoproletariato disoccupato. Limitatamente alla prima fase dell’industrializzazione, il grado di disuguaglianza non è molto diverso da quello presente nelle società antiche, a parte l’assenza di rapporti di schiavitù. Alla città di prima industrializzazione si associa quindi ancora l’immagine di una piramide, in cui vi sono pochi ricchi al vertice e una base molto grande, ora di lavoratori manifatturieri in larga misura non specializzati e a basso reddito. Con la seconda e, soprattutto, con la terza fase dell’industrializzazione, che in Europa si estende dal Dopoguerra fino agli ultimi decenni del secolo scorso, la struttura sociale si amplia fortemente negli strati intermedi, costituiti da lavoratori specializzati, tecnici, impiegati e quadri che vanno a formare i ceti medi. La loro espansione è il risultato di due processi paralleli. Nel settore privato, crescono nelle grandi aziende industriali i ruoli tecnici e le funzioni di gestione e di controllo ai diversi livelli della gerarchia aziendale, generando occupazione nelle mansioni specializzate di livello medio e medio-alto. La crescita del ceto medio è alimentata in grande misura anche dall’espansione del settore pubblico dei servizi, i cui dipendenti vengono a costituire una componente significativa della struttura sociale delle città. La figura geometrica del rombo rappresenta la struttura sociale della città industriale. La vasta gamma di attività e professioni nel pubblico e nel privato che sono andate progressivamente a ingrossare il corpo centrale della società amplia ulteriormente l’eterogeneità della città industriale rispetto al modello che l’ha preceduta. Per quanto riguarda la forma di governo, la città industriale occidentale è una città di cittadini liberi all’interno di stati democratici, cioè in cui la sovranità appartiene al popolo. Sono quindi cittadini detentori di diritti sempre più ampi; ai diritti civili e politici si aggiungono, in ragione del diverso grado di sviluppo del welfare di ogni Paese, i diritti sociali (istruzione, assistenza, sanità, ecc.) che il governo municipale, a seconda dei diversi livelli di autonomia dal governo centrale nazionale ma anche del proprio orientamento politico, interpreta con maggiore o minore ampiezza. 9 10 1.5 La città post-industriale I processi di de-industrializzazione e di ristrutturazione industriale portano la città verso un altro modello che comincia a strutturarsi a partire dalla fine degli anni ’70 e che è ancora in corso di definizione. La ricchezza non viene prodotta più principalmente dall’industria manifatturiera, ma dal settore dei servizi, sia alle aziende che alle persone, in particolare da quelle attività intellettuali legate alla ricerca e alla creazione di nuove idee in relazione all’emergere dell’economia della conoscenza, da un lato, e allo sviluppo delle industrie culturali, dall’altro. In conseguenza di queste trasformazione dell’economia della città crescono le occupazioni di tipo intellettuale e le categorie professionali ad alto reddito, ma anche i gruppi di lavoratori che forniscono servizi non specializzati e che vanno ad ingrossare le fila di coloro che occupano gli strati inferiori della struttura sociale. La distanza tra i ricchi e i poveri, che nella città industriale con un regime di welfare pienamente sviluppato si era progressivamente ridotta, ritorna a crescere; è l’esito di processi di polarizzazione sociale che sono messi in moto su diversi versanti. Alla crescita della disuguaglianza contribuisce infatti anche la riduzione dei servizi garantiti dallo Stato su base universalistica, da un lato, e la flessibilizzazione e precarizzazione del mercato del lavoro che moltiplica i rischi di vulnerabilità dei gruppi sociali più deboli. Le stesse trasformazioni dell’economia della città portano anche a una riduzione del numero delle occupazioni di livello intermedio, principalmente come esito dei processi di informatizzazione, con il risultato che i ceti medi, fino allora in grande espansione, cominciano invece a ridursi. L’immagine della clessidra sembra allora fornire una rappresentazione fedele della struttura sociale di questo tipo di città (e di società), caratterizzata da un allargamento delle fasce superiori e inferiori e da una riduzione delle classi medie. E’ una città in cui si accresce la disuguaglianza, polarizzata dunque, ma è anche una città socialmente frammentata perché formata da innumerevoli gruppi sociali diversi per orientamento politico, cultura, posizione economica, ecc. che hanno legami deboli tra di loro e con la società nel suo complesso, tanto da minarne la coesione. Alle cause di eterogeneità tipiche della città industriale, si aggiungono quelle derivanti da una sempre più articolata divisione del lavoro e, soprattutto, quelle connesse alle migrazioni internazionali che portano ora nelle città culture anche molto diverse rispetto a quella autoctona. La frammentazione si riflette infine nelle difficoltà di interpretazione e trasmissione della domanda politica da parte dei partiti e dalla conseguente crisi della democrazia rappresentativa. Il governo della città post-industriale si apre a nuove forme di governance in cui attori diversi – pubblici, privati, organizzazioni no profit – sono coinvolti nelle politiche urbane. 2. Il processo di urbanizzazione 2.1 Un millennio urbano Per coloro che si occupano di città il 2007 segna un momento storico: è l’anno in cui si compie il passaggio per cui più della metà della popolazione mondiale vive in città. Nel 2030 la quota di popolazione che vivrà in città supererà il 60%, il che significa che su una popolazione stimata di 8.1 miliardi, gli abitanti delle città saranno circa 5 miliardi. Di questi 5 11 miliardi, 2 miliardi vivranno nelle bidonville e negli slum delle maggiori città, soprattutto in Africa e in Asia. Il millennio che è appena iniziato sarà, quindi, un millennio urbano, ma i caratteri dell’urbanizzazione contemporanea sono motivo di grande preoccupazione. Oggi, la città appare infatti come un oggetto di ricerca quasi intrattabile, tanto è soggetta a trasformazioni rapide e profonde e tanto complessi sono i processi che la interessano e diversificati i loro esiti. Inoltre essa appare afflitta, in misura maggiore che nel recente passato, da problemi anch’essi di difficile trattamento; di fronte ai nuovi processi di impoverimento, al degrado delle condizioni di vita, al crescere delle varie forme di inquinamento, ci si chiede se questi siano segnali di crisi della città o più in generale delle società e del loro attuale modello di sviluppo. I problemi appaiono diversi nelle ricche città e metropoli dell’Occidente rispetto alle megalopoli dei Paesi in via di sviluppo. Per le città del Nord del mondo la riproposizione della “questione urbana” è principalmente connessa al mantenimento della coesione sociale, rispetto al crescere e al differenziarsi delle disuguaglianze interne, in definitiva il problema è quello della “capacità politica della città di fare società”, secondo le parole del sociologo francese Donzelot. Per le città del Sud del mondo, per quanto anch’esse affette da grandi disuguaglianze al loro interno, la sfida riguarda principalmente la regolazione del flusso migratorio dalle campagne e, quindi, l’equilibrio – che appare sempre più lontano da raggiungere -- tra mondo urbano e mondo rurale [Véron 2008]. Ma come siamo arrivati a questa situazione? Vediamo prima di tutto di definire con precisione il fenomeno dell’urbanizzazione. Con questo termine intendiamo quel processo di concentrazione della popolazione di una società nelle città che comporta flussi migratori dalle zone rurali verso i centri urbani. Ricordiamo che urbanizzazione e urbanesimo non sono sinonimi; con questo secondo termine, in sociologia, viene designato il modo di vita e gli orientamenti culturali che caratterizzano coloro che abitano in città; questo termine propone una dicotomia netta tra urbano e rurale su cui, però, non tutti gli studiosi sono d’accordo, soprattutto nell’epoca 12 contemporanea. Inoltre, come dovrebbe a questo punto essere già chiaro, benché l’industria sia stata il motore dello sviluppo urbano per oltre due secoli, quel legame necessario tra urbanizzazione e industrializzazione oggi non esiste più. Quanto una società sia interessata dal processo di urbanizzazione si misura calcolando il rapporto tra popolazione urbana e popolazione rurale, cioè il tasso di urbanizzazione. Una misura diversa del fenomeno urbano è il tasso di crescita urbana, calcolato come aumento della popolazione urbana nel corso di un anno sul totale dei cittadini all’inizio dell’anno; una misura della rapidità dell’incremento urbano. Qui di seguito useremo principalmente la prima misura per costruire un quadro a grandi linee dell’andamento del processo di urbanizzazione a livello globale. Se poniamo attenzione all’arco temporale degli ultimi cinquant’anni, vediamo emergere chiaramente le tappe di una corsa verso la città che ha preso progressivamente velocità e che si è concentrata nei Paesi in via di sviluppo. Nel 1955 il Nord America e l’Europa sono i Paesi più urbanizzati, rispettivamente con il 67% e il 53% della loro popolazione che vive in città; l’Europa oltrepassa proprio nel decennio precedente la soglia del 50%. In questi anni Tokyo supera New York e diventa la città più grande del mondo. Con il 1965 il numero di persone che vivono in città raggiunge il miliardo. L’intensità della crescita urbana è massima in Asia e in Africa, mentre rallenta in America Latina. L’Asia, anche se ha solo il 20% della sua popolazione che vive in città, ha in quel momento un numero assoluto di cittadini maggiore dell’Europa. Nel decennio 1965-75 il processo di urbanizzazione rallenta in Asia dove la Rivoluzione Culturale cinese, con il trasferimento nelle campagne di quote rilevanti di popolazione urbana, più che compensa lo sviluppo impetuoso di alcune città dell’Asia meridionale. Negli Stati africani e nei Paesi del Golfo alcune città crescono a ritmi vertiginosi. Con gli anni ‘80 riprende vigore la crescita delle città asiatiche nel loro complesso in quanto la Cina vede accelerare il ritmo di crescita delle sue città. A livello globale il tasso di crescita urbana rallenta, ma rimane molto elevato in Africa. Due miliardi di persone vivono in città e la città più grande del mondo, Tokyo, raggiunge i 30 milioni di abitanti. Negli anni ‘90 continua la flessione del tasso di urbanizzazione: il collasso dell’Unione Sovietica e dell’economia di molti Paesi dell’Est europeo fa registrare un declino della popolazione urbana in questa parte del mondo. Con il 1995 l’America Latina sorpassa l’Europa come continente più urbanizzato. Nel decennio successivo la crescita urbana porta all’avvicinarsi della soglia del 50% della popolazione che vive in città a livello mondiale, ma in molti Paesi industrializzati il rapporto tra popolazione urbana e popolazione rurale si sta stabilizzando tra il 70% e 80%. Ma la crescita continua vigorosa, in Asia e in Africa, specialmente nei Paesi più poveri e tormentati da conflitti. In questo decennio (2005-15) le città africane continueranno a crescere ancora più velocemente di quelle asiatiche in termini di incrementi percentuali, ma in Asia il processo di urbanizzazione sarà più intenso in quanto coinvolgerà in termini assoluti un maggiore numero di persone. Si stima che tra il 2015 e il 2020 la popolazione delle città raggiungerà i quattro miliardi, probabilmente all’incirca nello stesso periodo la Cina avrà metà della sua popolazione concentrata nelle città. Come abbiamo già notato, nel 2030 saranno cinque miliardi le persone che vivranno in città, all’incirca il 60% su un totale di popolazione stimata attorno agli 8 miliardi. Il dispiegarsi del processo di urbanizzazione nelle modalità che abbiamo sommariamente descritto qui sopra, viene visto come una “seconda ondata”, per quanto molto più grande e incredibilmente più veloce, di quelle trasformazioni demografiche, economiche e urbane che avevano caratterizzato l’ Europa e il Nord America a seguito della industrializzazione. Allora, nell’arco di due secoli (1750-1950) Europa e Nord America avevano sperimentato la prima transizione demografica, la prima industrializzazione e la prima ondata di urbanizzazione. L’esito combinato di questi processi è stato la formazione di società industriali urbane che svolgevano un ruolo dominante nell’ordine mondiale. Quei processi, tuttavia, erano stati relativamente graduali e avevano coinvolto qualche centinaia di milioni di persone. Questa “seconda ondata” 13 14 muove masse di popolazione molto più numerose poiché i Paesi in via di sviluppo hanno ottenuto in poche decine di anni quella caduta dei tassi di mortalità che i paesi sviluppati hanno realizzato in uno o due secoli, cosicché l’impatto demografico di questi cambiamenti è incomparabilmente maggiore. Inoltre, le restrizioni alle migrazioni internazionali non consentono una significativa riduzione della pressione demografica nelle città di questi Paesi, mentre l’apertura della America ai flussi di emigrazione dall’Europa aveva, durante la prima ondata di urbanizzazione, fornito uno sbocco alternativo rispetto alle sovraffollate città europee. La velocità e le dimensioni del processo di urbanizzazione nei paesi più poveri pongono alle città di questi Paesi una ventaglio molto ampio di nuovi problemi a cui sono chiamate a far fronte con risorse totalmente inadeguate. L’esito è la formazione, il consolidamento e la crescita di periferie degradate che si estendono a macchia d’olio attorno alle grandi città, ove trovano rifugio e abitazione precaria flussi sempre crescenti di persone. Favela, slum, bidonville, shantytown sono diventate un elemento comune delle grandi città nei paesi del Sud del mondo. Secondo la definizione delle Nazioni Unite si parla di slum quando non sono presenti una o più delle seguenti caratteristiche : strutture fisiche stabili, diritto legale, spazio adeguato e accesso all’acqua potabile e ai servizi igienici. Un quinto degli slum mancano di almeno tre di queste caratteristiche. Già oggi un miliardo di persone vive nelle condizioni di degrado degli slum, mentre ci sono parti del mondo in cui le città stesse sono in larghissima misura prive di ogni infrastruttura e connotate da pessime condizioni di vita. Per esempio, in Etiopia e in Chad il 99.4% della popolazione urbana vive nelle bidonville, in Afghanistan il 98.5%, nel Nepal il 92%. All’occhio occidentale queste situazioni appaiono così terribili che ci chiediamo perché queste persone abbiano lasciato i loro villaggi. La risposta più facile e immediata è che li hanno lasciati spinti dalla speranza di una vita migliore in città, oppure perché hanno dovuto farlo a seguito di conflitti, carestie e persecuzioni. Alla vista delle condizioni in cui vivono dovremmo constatare che, per la maggioranza di loro, quella speranza non si è realizzata. Eppure, rimane vero che in città hanno trovato opportunità di sopravvivenza che in campagna non avrebbero avuto. Ma proprio per questo, a fronte di un perdurante mancato sviluppo delle aree rurali, sempre più persone continueranno a inseguire quella speranza. Nel mondo ogni giorno 200.000 persone lasciano le campagne per trasferirsi in città; in assenza di politiche di contrasto dell’esodo, una buona parte di queste persone andranno a ingrossare le file dei diseredati che abitano le bidonville, soprattutto nelle città dell’Africa e dell’ Asia, ma anche in America Latina, facendo passare il numero di persone che vi vive dal miliardo di oggi ai due miliardi stimati nel 2030 . 15 16 2.2 Il sistema urbano europeo Ci concentriamo ora sul processo di urbanizzazione in Europa per analizzare dapprima il suo formarsi in determinati momenti storici e quindi le sue dinamiche in epoca contemporanea. Il lungo cammino di formazione del sistema urbano europeo inizia in epoca pre-romana, con la nascita delle città che si affacciano sul Mediterraneo e che, insieme a quelle delle sue sponde africane e asiatiche, costituiscono un primo anello urbano centrato sul Mediterraneo sud-orientale. L’impero romano porta a una grande fioritura di città che si aggiungono al primo anello, sia attorno al Mediterraneo, sia internamente lungo i percorsi del Rodano e del Reno, sia infine in tutta l’Inghilterra, costituendo il “braccio” nordoccidentale della struttura urbana. Bisogna ricordare che nel momento di massima espansione dell’impero e quindi delle città sotto il controllo romano, il tasso di urbanizzazione raggiungeva a fatica il 10%. Con la caduta dell’impero, molte città si riducono a villaggi e l’Europa si ricopre di foreste. In epoca medievale si ha la seconda fioritura urbana che rafforza le direttrici di sviluppo urbano di epoca romana, ma a queste aggiunge le nuove città della lega anseatica – tra cui Lubecca, Amburgo, Brema -- e quelle che si affacciano sul Mare del Nord (Bruges, Anversa, Oslo) e sul Mar Baltico (Danzica, Riga). Allo sviluppo urbano corrisponde il raggiungimento di forme più o meno complete di autonomia politica delle città rispetto all’ordine feudale. Tra gli esempi più significativi le 200-300 città-stato italiane che si sviluppano nelle regioni del Nord e del Centro-Nord tra il 1100 e il 1200. Per la prima volta gli scambi legano le città in circuiti di relazioni a livello europeo; è un traffico intenso di beni, ma anche di idee, se si tiene conto che tra il 1000 e il 1400 nascono in queste città più di cento università che rimarranno, salvo rare eccezioni, istituzioni importanti del sistema accademico e di ricerca odierno. Nello stesso periodo il conflitto con l’Islam porta al declino delle città più antiche del Mediterraneo. Una terza ondata di urbanizzazione si ha a partire dal Cinquecento, con la formazione dei grandi Stati nazionali, il rafforzamento delle capitali e la formazione o il consolidamento di centri amministrativi di vario livello. Questi processi portano, in Paesi come la Francia e l’Inghilterra, alla configurazione di sistemi urbani monocefali, vale a dire caratterizzati da un centro dominante, Parigi e Londra. Ma comincia a configurarsi in questo periodo anche una traiettoria di sviluppo urbano diversa, nella quale continuano a crescere le città che mantengono la loro indipendenza in corrispondenza della ritardata formazione degli Stati nazionali di appartenenza e si vanno costituendo sistemi urbani policefali, con un ampio numero di città di dimensioni medie, come quelli della Germania, dell’Italia, della Svizzera, dell’Olanda e del Belgio [Hohenberg e Lees 1985]. In generale, in questa fase, s’irrobustisce la parte centrale del sistema urbano europeo, che vede la nascita di più centri urbani all’interno rispetto alle aree costiere. Tra la fine del ‘700 e la fine dell’’800, con la rivoluzione industriale e il commercio con le colonie si sviluppa l’insieme delle città costiere, in particolare quelle affacciate sull’Atlantico, in ragione della preminenza dell’Inghilterra nella fase di prima industrializzazione. L’urbanizzazione dell’Inghilterra è, rispetto agli altri Paesi europei, estremamente precoce: il 45% di cittadini già nel 1850 (anno in cui Londra con due milioni di abitanti è la maggiore città europea) e il 75% nel 1910. La Francia e l’Italia invece vedono la loro popolazione diventare in maggioranza urbana soltanto con gli anni Cinquanta. Con l’inizio del ‘900 la diffusione dell’industrializzazione porta progressivamente maggiore crescita di nuovo alle città interne al continente, con un ulteriore rafforzamento del sistema urbano centrale. A questo contribuiranno inoltre, nella seconda metà del secolo scorso, il declino dell’impero britannico e il progressivo indebolimento delle città del Mediterraneo. Fino agli anni ’60 del secolo scorso vediamo in atto processi di urbanizzazione che corrispondono a fenomeni di concentrazione urbana, di migrazioni dalle campagne alle città e dalle città piccole verso quelle di dimensione maggiore. In generale la crescita urbana di tipo tradizionale rispettava la regola secondo la quale si avevano tassi crescenti di incremento demografico per dimensioni demografiche crescenti della città, ovvero più una città era popolosa più la sua popolazione cresceva. Con ritardo nei Paesi meridionali dell’Europa e con anticipo in quelli settentrionali, tra la fine degli anni ‘50 e gli anni ’80 assistiamo a una inversione di tendenza che segnala l’emergere di due dinamiche diverse: la prima è relativa alla formazione e all’evoluzione delle aree metropolitane, la seconda riguarda invece la localizzazione territoriale dello sviluppo economico. Le città europee più grandi si sono trasformate in aree metropolitane che servono sistemi urbani complessi, svolgendo funzioni importanti per il loro sviluppo. La loro crescita ha portato a un incremento di popolazione nei comuni della prima e della seconda corona, comuni demograficamente piccoli ma che crescono rapidamente in quanto fanno parte di quell’area metropolitana. Questa crescita suburbana avviene ai livelli più alti della gerarchia urbana: in primo luogo per le città “globali”, cioè per quelle città caratterizzate dalla concentrazione di strutture di comando e controllo del sistema economico, industriale e finanziario a scala mondiale, nonché dalla presenza di infrastrutture di formazione e ricerca di livello superiore [Sassen 1991]. In Europa Londra e Parigi, dove tale 17 18 [email protected] [email protected] [email protected] concentrazione è nettamente superiore rispetto alle altre città europee, ma anche Milano, Madrid, Monaco di Baviera, Francoforte, Roma, Bruxelles, Barcellona, Amsterdam. In secondo luogo, sono le città che detengono alcune funzioni specializzate, attraverso le quali si inseriscono nella competizione internazionale, a veder crescere la loro agglomerazione urbana; ad esempio, Zurigo cresce come capitale finanziaria, Lione è diventata la seconda area metropolitana francese grazie alla ricerca scientifica e tecnologica. Il secondo motivo della crescita urbana contemporanea è collegato con lo sviluppo economico di quelle città e regioni che hanno negli ultimi due decenni affrontato e vinto la competizione a livello globale. Sono le città della Catalogna in Spagna, del Midi francese e delle regioni ad economia diffusa in Italia che sono entrate con successo nelle reti globali e ne alimentano i flussi di produzione materiale e immateriale. Da ultimo osserviamo che il sistema urbano europeo sta crescendo a un ritmo molto lento: dello 0.35% annuo dal 1996 al 2001; sebbene questo tasso sia circa il doppio del tasso di crescita della popolazione nello stesso periodo (pari allo 0.2%) e quindi indichi la persistenza del processo di urbanizzazione, è opportuno notare il declino di molte città, per esempio in Italia dove la crescita demografica presenta valori negativi, oppure nelle città dell’Europa centrale e orientale che sperimentano una difficile transizione verso un’economia di mercato. 2.3 La città europea Anche a uno sguardo superficiale, le città europee appaiono assai diverse l’una dall’altra; la crescita costante del turismo verso le città dimostra la percezione, da parte anche degli europei, di una diversità che continua a incuriosire e a offrire l’illusione di esperienze nuove e diverse rispetto a quelle che può offrire l’ambiente urbano familiare. Tale diversità non deve stupire in quanto è il risultato di specifiche vicende storiche che hanno interessato una particolare città e la regione di cui fa parte, e che nei secoli le hanno dato una forma e un profilo unico e particolare. Parlare di “città europea” e 19 proporre quindi affermazioni generali che siano valide per tutte le città appare impresa rischiosa. D’altro canto, però, le città europee appaiono oggi altrettanto profondamente trasformate dalle dinamiche dei processi della globalizzazione -- economica, politica e culturale -- tanto da renderle simili tra di loro, ma anche simili alle città di molte altre parti del mondo. In quest’ottica la categoria “città europea” sembra ancor più destinata a perdere un suo significato preciso. Eppure, quando guardiamo alla città americana scopriamo elementi peculiari che ci colpiscono proprio perché li confrontiamo con le esperienze e le immagini di città a noi più vicine e familiari. In effetti, andando oltre le impressioni, è proprio attraverso lo strumento della comparazione -- in questo caso applicato con rigore scientifico a insiemi di informazioni organizzati sistematicamente -- che siamo in grado di definire i caratteri della città europea e di dare, quindi, un significato più preciso alle nostre affermazioni quando usiamo questa categoria. La città europea si distingue per la sua forma fisica e la sua età; a questi tratti si aggiungono poi i caratteri specifici del sistema urbano europeo: densità e prevalenza di città di piccola e media dimensione. Vediamo questi elementi in dettaglio. La città europea ha innanzi tutto una distinta morfologia: essa si caratterizza per la sua forma compatta e densamente costruita attorno a un’area centrale ove si concentrano gli edifici pubblici, le chiese, i monumenti, le aree per il commercio e gli scambi. A partire da questo centro la città si sviluppa lungo le linee radiali, articolandosi in strade e piazze che avvicinano edifici pubblici e edifici privati e creano spazi pubblici permeati di valori simbolici e di memorie che gli abitanti condividono. La città europea del Medioevo rappresenta l’esempio proto-tipico: la sua evoluzione con la scomparsa delle mura e la formazione dei sobborghi e delle periferie si dispiega accomodando la crescita della popolazione in un ambiente costruito che non perde i suoi principi ordinatori. Infatti, fino all’inizio del XX° secolo le città europee rimangono addensate attorno al loro centro e organizzate su uno spazio relativamente limitato. Questa matrice comune dà vita poi, in tempi più recenti, a forme diverse che si articolano nel tempo secondo le scelte delle tecnologie di trasporto pubblico e privato, ma anche in ragione 20 dell’azione dell’autorità statale che, in ogni Paese, imprime sulla forma urbana una sua impronta nazionale, visibile nello stile degli edifici pubblici, nella impostazione della pianificazione urbanistica o nelle politiche per la casa [Le Galès 2002, trad. it. 2003]. Nonostante tale diversificazione, per la grande maggioranza degli agglomerati urbani europei, la strutturazione della città in riferimento al suo centro storico rimane un elemento comune e di forte significato. Guerre, rivoluzioni e crisi economiche hanno sconvolto la vita di molte città ma non hanno alterato la concentrazione del patrimonio artistico e monumentale delle aree centrali che rimangono in larga misura la residenza privilegiata dei ceti più abbienti e l’obiettivo di ripetuti reinvestimenti da parte del governo locale e nazionale in tutti i Paesi europei. Nelle dinamiche di trasformazione della città europea, grande importanza ha giocato la propensione delle élite economiche, politiche e culturali a continuare a vivere nel centro della città. Concentrazione, compattezza e densità pongono il modello europeo di città in netto contrasto con quello americano, ove l’organizzazione della città nasce incardinata a una griglia geometrica (grid) di isolati di uguali dimensioni, che si ripetono all’infinito e dove spazi vuoti e costruiti si alternano in modo casuale. Non ancorata a un centro, la città americana si sviluppa orizzontalmente inglobando voracemente il territorio circostante, in un’espansione incontrollata e a bassa densità (urban sprawl) favorita dalla diffusione dell’auto privata come principale mezzo di trasporto. Contribuisce alla massiccia sub-urbanizzazione il movimento verso queste aree dei ceti superiori che, contrariamente a quanto avviene in Europa, tendono ad abbandonare le aree centrali, dove si vanno invece concentrando degrado fisico e problemi sociali, per risiedere in aree periferiche di alta qualità. La propensione, sempre più accentuata, dei ceti superiori a risiedere nelle aree suburbane priva le aree centrali della città americana di quel capitale economico, politico e culturale necessario per una sua costante valorizzazione. Inoltre, secondo Sennett [1990, trad. it. 1992] è la struttura reticolare e a bassa densità della forma urbana che lasciando o ricreando continuamente spazi vuoti, spesso in stato di abbandono, lavora in senso contrario alla produzione di spazi pubblici significativi e di attivazione di processi di identificazione. In parte collegato ai suoi caratteri morfologici è il secondo tratto della città europea, e cioè la sua longevità. In grandissima maggioranza le città europee hanno origini molto antiche. Più oltre si dà conto dell’evoluzione storica della formazione del sistema urbano europeo: qui è sufficiente ricordare in estrema sintesi che il 30% degli insediamenti europei è di origine romana, una quota altrettanto importante ha origine nella crisi alto medievale della città e nella dispersione sul territorio di monasteri e castelli attorno ai quali sorgono nuovi centri urbani. Un’altra quota importante affonda le sue origini nelle attrezzature che presiedevano il sistema produttivo della campagna: mulini, centri di raccolta e scambi, mercati, sempre in epoca pre-industriale. Questo significa che le città europee possiedono una straordinaria continuità temporale, che le ha portate ad accumulare nel tempo edifici e istituzioni che vanno a comporre patrimoni molto significativi sotto diversi punti di vista. Pertanto ogni modificazione della sua forma fisica non può essere che lenta e difficoltosa, a fronte spesso di tenaci resistenze e conflitti di difficile mediazione. Ma la continuità temporale determina anche l’accumulo di conoscenze e istituzioni che possono assicurare la sopravvivenza nelle fasi negative del ciclo economico e costituire un vantaggio quando si presentino opportunità di rilancio e sviluppo. Così, le città europee possono avere nel corso del tempo rallentato la loro crescita o anche subito fasi di declino, ma non sono mai state cancellate completamente; i loro capitali, fossero questi una posizione geografica favorevole, risorse naturali o una tradizione di sapere, hanno potuto di volta in volta essere riattivati per innescare un nuovo ciclo di sviluppo. La città europea ha grande resistenza, quindi, secondo la felice espressione di Gottmann [1983], essa è invincibile, perché concentra in sé risorse di vario tipo, ancora oggi perché possiede i capitali finanziari e le conoscenze utili al nuovo ciclo di sviluppo basato sulle nuove tecnologie della comunicazione e dell’informazione. Veniamo ora al terzo elemento che caratterizzata la città europea, quello di far parte di un sistema urbano molto 21 22 denso. L’Europa è da tempo un continente di città: se disponiamo sulla mappa europea un punto per ogni agglomerato con più di 10.000 abitanti, questa risulta fittamente coperta di punti e con particolari ulteriori addensamenti, in corrispondenza dell’Inghilterra meridionale, dell’Olanda e della parte centrale della Germania, delle regioni costiere italiane che si affacciano sull’Adriatico. Se, seguendo Dematteis [1997], dalla miriade di punti selezioniamo quelli che rappresentano città europee di importanza internazionale, si delinea invece una sorta di “cuore metropolitano europeo”, in cui in un cerchio di 600 Km. di raggio si concentrano più della metà delle città di questo tipo. Si usa fare riferimento a questo “cuore” con il nome di “megalopoli renana”, un territorio urbano coagulatosi attorno ai poli di Bruxelles, Amsterdam, Francoforte. Il territorio europeo è, dunque, fittamente costellato da città e questo rende l’Europa il continente più urbanizzato del mondo: il suo livello di urbanizzazione, definito come percentuale della popolazione residente in città con più di 10.000 abitanti, risulta leggermente inferiore all’80%, di poco superiore a quello degli Stati Uniti (78,5%) e del Giappone (73,5%) ma più del doppio di quello di altri continenti. Le proiezioni al 2020 parlano sia in Europa che negli Stati Uniti, di una popolazione urbana pari all’84% del totale. L’elevato numero di città rispetto alla grandezza del territorio europeo determina che le città siano relativamente vicine le une alle altre: la distanza media tra città con più di 10.000 abitanti è di 13 km., con variazioni molto contenute tra gli Stati europei, poiché l’ampiezza del campo di variazione va dai 6 km. dell’Olanda ai 27 km. dell’Irlanda [Cattan et al. 1994]. Ricordiamo che in Asia la distanza media tra città è di 29 km., negli Stati Uniti è di 48 km. e negli altri continenti è di oltre 50 km. Al di là del significato descrittivo del dato, questa caratteristica del sistema urbano europeo è importante perché favorisce l’attivazione di connessioni e di flussi, per quelle funzioni che ancora sono influenzate dalla distanza fisica, e più in generale, la collaborazione tra città. In altre parole, la vicinanza costituisce un vantaggio per le città europee, in quanto facilita la costruzione di reti urbane attraverso le quali le città intrattengono relazioni stabili di tipo economico, culturale o politico-istituzionale. Un quarto elemento caratterizza il sistema urbano europeo, la forte incidenza delle città di piccola e media dimensione. Le città di piccole dimensioni sono numerosissime, ma la grande maggioranza della popolazione urbana europea vive in città di dimensioni medie e mediograndi (dai 100.000 ai 2 milioni di abitanti). Le città al di sopra della soglia dei 2 milioni di abitanti sono poche: Parigi, Londra, Madrid, Berlino, Roma e rappresentano più l’eccezione che la regola. Anche in questo caso il contrasto con il sistema urbano americano non potrebbe essere più netto: l’asse portante di questo sistema è costituito dalle grandi metropoli che sono relativamente distanziate le une dalle altre e spesso centro di conurbazioni molto vaste. In estrema sintesi, quando parliamo di città europea abbiamo in mente una città di dimensioni medie, soprattutto se paragonata alle megalopoli degli altri continenti ove sempre più si concentra in epoca contemporanea la crescita urbana, ad alta densità di popolazione e il cui centro, anche in ragione della sua origine storica, mantiene funzioni economiche, politiche, culturali e simboliche importanti. Oggi, questi caratteri, portato della storia delle città europee, tendono a essere percepiti come positivi, tanto che attorno a essi si costruiscono modelli che tentano di coniugare la competitività economica all’equità sociale e alla salvaguardia dell’ambiente. In quell’ottica di sostenibilità che è ormai il filo conduttore di tutte le azioni della Comunità europea, si è di recente consolidato un orientamento nelle politiche urbane che privilegia la “città compatta”, vale a dire una forma urbana contenuta nelle sue dimensioni e con un’elevata densità abitativa, perché permetterebbe un maggior ricorso ai sistemi di trasporto collettivi, avrebbe una maggiore accessibilità, ridurrebbe i tempi degli spostamenti e determinerebbe un minor consumo di suolo, tipico invece delle città più grandi che tendono costantemente a espandersi verso l’hinterland. Parimenti, giacché la città di medie dimensioni è percepita come ideale, si raccomandano politiche che favoriscano la redistribuzione della popolazione sul territorio, al fine di evitare 23 24 la formazione di grandi agglomerazioni urbane e le conseguenti patologie: esclusione sociale e segregazione spaziale, problemi ambientali e di trasporto, tensioni sociali e povertà. Inoltre, un orientamento che privilegi le città di medie dimensioni permetterebbe di arrivare a un sistema urbano europeo più equilibrato, policentrico e, in definitiva, più sostenibile. 25