Dirigenti di Comunità A.S. 2013-2014 I.I.S. Matteo Ricci Macerata Docente: Paolo Giordani ([email protected]) Corso di Storia (dall'XI secolo a oggi) sintesi del manuale Giardina, Sabbatucci, Vidotto, Storia, volumi I, II e III 1 III anno (dall'XI secolo al 1650) Temi Eventi principali Secoli La nascita e lo sviluppo delle monarchie feudali, a partire dall'XI secolo. Questo processo porta alla definizione dell'Europa così come la conosciamo noi • • • • 962: Fondazione del Sacro romano impero di nazione germanica 1066: conquista normanna dell'Inghilterra XI: affermazione in Francia della dinastia dei capetingi 1130: Ruggero II fonda il regno normanno di Sicilia X – XI Lo scontro fra l'Impero e il papato • 1075: inizia la lotta per le investiture (Gregorio VII emana il Dictatus papae) • 1122: termina la lotta per le investiture (concordato di Worms) XI – XII La svolta demografica ed economica dell'anno Mille • 1158: Fondazione dell'Università di Bologna XI – XIII Gli scambi commerciali e gli scontri • 1096-99: Prima crociata (crociate) fra Cristiani e Musulmani XI – XIII Lo scontro fra l'Impero e i comuni italiani (Federico I Barbarossa e Federico II) • 1176: Battaglia di Legnano (i comuni lombardi sconfiggono l'imperatore XII – XIII Federico I) e lo costringono a firmare la Pace di Costanza (1183) • 1220: Federico II è incoronato imperatore a Roma Il papato ad Avignone • 1309-76: Papato ad Avignone XIV Crisi e trasformazioni nel '300 • 1315-17: Grave carestia in Europa • 1347-50: Epidemia di peste nera nel Mediterraneo e in Europa XIV La costruzione degli Stati nazionali in Europa (la guerra dei Cent'anni) • 1337-1453: Guerra dei Cent'anni tra Francia e Inghilterra XIV – XV L'Italia degli Stati (Signorie, Principati) • • • • 1434-64: Governo di Cosimo dei Medici a Firenze 1442: Alfonso V d'Aragona re di Napoli e Sicilia 1450: Francesco Sforza signore della Lombardia 1454: Pace di Lodi XIV – XV La nascita del mondo moderno (scoperta dell'America e sua colonizzazione) • • • • • • 1457: Gutenberg realizza il primo libro a stampa, la Bibbia in latino 1453: I turchi ottomani conquistano Costantinopoli 1571: Battaglia di Lepano. La Lega santa sconfigge la flotta ottomana 1487: Il portoghese Diaz doppia il Capo di Buona Speranza 1492: Colombo raggiunge le coste del continente americano 1519-20: Circumnavigazione del globo da parte del portoghese Magellano XVI La fede divisa: riforma protestante e controriforma. L'età di Carlo V, Filippo II, Elisabetta I. • • • • • • 1517: Lutero affigge le “95 tesi” sulla cattedrale di Wittemberg 1542-63: Concilio di Trento 1519-58: Carlo V d'Asburgo Imperatore 1555: Pace di Augusta 1558-1603: Regno di Elisabetta I in Inghilterra 1556-98: Regno di Filippo II in Spagna XVI – XVII Crisi e rivoluzioni nel '600 • 1600-50: Fase di stagnazione demografica in Europa (Cromwell e la guerra civile inglese) • 1630-31: Epidemia di peste in Germania e Italia settentrionale • 1572: Strage degli ugonotti durante la notte di S. Bartolomeo in Francia • 1598: In Francia l'editto di Nantes riconosce i diritti religiosi degli Ugonotti • 1618-48: Guerra dei Trent'anni • 1642-51: Guerra civile inglese e nascita del Commonwealth XVII 2 Modulo 1: L'Alba dell'Europa *** Sintesi del modulo *** A partire dall'XI secolo in Europa si verificò un'importante crescita demografica ed economica, grazie ai miglioramenti climatici e soprattutto alle innovazioni tecnologiche nel settore agricolo. L'aumento della popolazione portò alla colonizzazione di vaste regioni periferiche, allo sviluppo urbano (nascono anche le Università) e alla ripresa dei commerci a largo raggio. Anche sul piano politico si registrano importanti novità: insieme ai poteri universali, rappresentati dal papato e dall'Impero (Germania e Italia settentrionale), si affermano le monarchie feudali, in particolare Francia, Inghilterra e Italia meridionale, che riuscirono a superare la concorrenza con gli altri poteri locali (aristocratici). Dal basso nacquero le istituzioni comunali, che si adoperarono per affermare la propria autonomia nei confronti dei poteri centrali (Monarchia e Impero). Gli Stati musulmani della Spagna e della Sicilia furono riconquistati progressivamente dai regni cristiani, mentre i mercanti delle città italiane (in particolare Amalfi, Genova, Pisa e Venezia) acquisirono sempre maggior peso nei traffici marittimi. Anche le crociate furono una conseguenza dell'espansione europea e, nonostante il loro esito negativo, determinarono un nuovo equilibrio politico nel Mediterraneo, da cui fu progressivamente emarginato l'Impero bizantino. Tra XII e XIII secolo, nonostante l'iniziativa di due grandi personaggi come Federico II di Svevia e Innocenzo III, sia l'Impero che il papato sono costretti ad accantonare progressivamente ogni velleità universalistica: l'Impero, indebolito dalle spinte autonomistiche dei grandi feudatari (e, in Italia settentrionale, dei comuni), finisce con il configurarsi sempre più come uno Stato tra gli altri; il declino del papato, in particolare nel periodo “avignonese”, si manifesta soprattutto sul piano della perdita di prestigio e autorevolezza presso il popolo della Chiesa. Anche le istituzioni politiche dei comuni si rivelano fragili a causa delle continue lotte interne tra fazioni rivali e per l'incapacità di allargare la partecipazione politica al popolo. In ascesa appaiono invece le monarchie nazionali dell'Europa occidentale: il processo di rafforzamento della monarchia presenta in Francia, in Inghilterra e nella penisola iberica, alcuni elementi comuni, quali la riorganizzazione dell'esercito, il consolidamento territoriale, la razionalizzazione del prelievo fiscale, e soprattutto, il riconoscimento delle assemblee rappresentative, chiamete, a seconda dei paesi, Parlamenti, “Cortes”, Stati generali. Sarà proprio lo sviluppo 3 delle monarchie nazionali a partire dal XIII-XIV secolo a delineare la fisionomia politica dell'Europa moderna. *** Approfondimenti *** 1 Nascita del Sacro Romano Impero e delle monarchie feudali Sacro Romano Impero Con l'incoronazione di Ottone I di Sassonia, nel 962, per mano di papa Giovanni XII, rinasce ancora una volta l'Impero, il Sacro romano impero di nazione germanica. L'Impero, per quanto romano e universale, nonché difensore della Chiesa e della Cristianità, perde, rispetto a quello carolingio, il suo carattere sovranazionale, essendo l'autorità di Ottone I limitata alle sole Germania e Italia. Questi infatti sono i secoli in cui prende forma l'Europa così come la conosciamo noi, articolata per spazi nazionali: Francia, Inghilterra, penisola iberica, ecc. Ottone I promulga il cosiddetto Privilegio Ottoniano, un documento secondo il quale il papa, una volta eletto dal clero romano, doveva prestare giuramento all’imperatore e quest’ultimo aveva il diritto di pronunciarsi preventivamente sull’elezione dei pontefici. Il Privilegio Ottoniano stabiliva anche il divieto, per i papi, di consacrare imperatori che non fossero di stirpe germanica: nasceva così il Sacro romano Impero di nazione germanica (destinato a sopravvivere fino al 1806). Questo principio – unitamente alla questione dell'investitura dei vescovi, i quali costituiscono l'ossatura delle clientele vassallatiche su cui l'imperatore fonda il proprio potere (vescovi-conti) – pone le basi di un'aspra conflittualità tra Chiesa e Impero che raggiungerà il culmine nel XII secolo. Le monarchie di Francia e Inghilterra Alla fine del X secolo, quando Ugo Capeto assunse la corona francese, il potere regio era limitato alla sola regione di Parigi, mentre nel resto della Francia sorgevano potenti signorie territoriali. I sovrani capetingi riuscirono ad affermare progressivamente la loro autorità sui feudatari e a porsi come garanti dell'unità del territorio. Anche in Inghilterra con l'avvento al potere del normanno Guglielmo il Conquistatore (1066) la monarchia fu rafforzata mediante l'opera di centralizzazione amministrativa del regno a danno dei signori locali e del clero. La conquista normanna produsse anche un interessante intreccio di poteri: il re d'Inghilterra era contemporaneamente, in qualità di duca di Normandia, vassallo del re di Francia. Il Regno d'Italia I normanni conquistarono, con un'espansione progressiva cominciata nell'XI secolo e culminata nel 1130 con Ruggero II d'Altavilla, anche l'Italia meridionale (scacciando i bizantini) e la Sicilia. Rispetto alla frammentazione politica del resto d'Italia, il regno normanno costituiva una potenza territorialmente estesa e ben organizzata, in cui il potere del sovrano poggiava su un efficiente apparato amministrativo. I poteri locali, rappresentati dai grandi feudatari e dalle città, pur godendo di ampie autonomie, non riuscirono a sviluppare forme di autogoverno e fu impedita la formazione di un movimento comunale paragonabile a quello che si sviluppò in Italia centro-settentrionale. 2 Lo scontro fra l’Impero e il papato (la lotta per le investiture) Impero e papato erano i due più grandi poteri esistenti nel medioevo e ciò li portò a continui scontri in cui ciascuno pretendeva di far valere la propria supremazia sull'altro. Uno dei massimi esempi di questa contrapposizione fu la cosiddetta “lotta per le investiture”, che contrappose il Papato e l'Impero nei secoli XI e XII ed ebbe per oggetto la concessione dell'investitura imperiale delle regalie (i diritti pertinenti al regno o pubblici) agli ecclesiastici. Tale "lotta" consisteva nella disputa tra Papato e Impero riguardo a chi dovesse dare il titolo di vescovo ad un membro della società ecclesiastica, la cosiddetta "Investitura episcopale". L'Imperatore rivendicava tale diritto perché i vescovi nell'Impero avevano anche un potere politico sui feudi da loro governati. Lo scontro, iniziato nel 1075 (quando il papa Gregorio VII emana il dictatus papae), si concluse solo nel 1122 con il concordato di Worms, che stabiliva che i vescovi dovevano essere investiti dal papa, mentre l’imperatore aveva il diritto di concedere loro o meno anche i poteri politici. 3 La svolta dell'anno Mille Intorno all'anno Mille prese avvio in Europa una fase di crescita demografica che proseguì fino a quando, nel XIV sec., la peste e i cattivi raccolti imposero una battuta d'arresto. L'incremento demografico fu accompagnato dall'aumento della produzione agricola, legato all'introduzione di innovazioni nel campo delle tecniche di coltivazione. La forte crescita economica interessò anche il commercio e le manifatture e fu testimoniata dal proliferare dei mercati settimanali, dall'ascesa sociale della figura del mercante e dalla moltiplicazione delle botteghe artigiane (e dalla nascita delle Corporazioni o Arti). Gli stessi strumenti di pagamento si adeguarono alle esigenze di un volume di scambi sempre più ampio: se da un lato la moneta riprese a circolare in modo massiccio, dall'altro essa fu affiancata da nuove forme di 4 pagamento come la lettera di cambio. 4 La Cristianità e il mondo Nel corso del primo millennio il pellegrinaggio a Gerusalemme era stato praticato dalla Cristianità occidentale senza grossi problemi, sia quando la Palestina si trovava sotto il controllo dei Bizantini, sia quando fu conquistata dagli Arabi musulmani. La situazione mutò intorno all'anno Mille, in conseguenza dell'occupazione di Gerusalemme da parte dei turchi selgiuchidi, i quali imposero il pagamento di esosi pedaggi ai pellegrini in visita ai luoghi santi. Questo, unitamente alle richieste di soccorso lanciate all'Occidente dall'imperatore bizantino preoccupato dall'avanzata turca, spinse il pontefice Urbano II a bandire, nel 1096, la crociata. L'obiettivo era scacciare dalla Terrasanta gli infedeli per ricondurla sotto il governo cristiano. La crociata, nata come semplice pellegrinaggio armato, ben presto si trasformò in una vera e propria guerra santa, a danno degli “infedeli” musulmani. La prima crociata si concluse con la conquista di Gerusalemme e la colonizzazione di buona parte della fascia costiera mediorientale. Qui i crociati crearono compagini politico-territoriali di stampo feudale, gli Stati crociati, edificandovi a loro difesa enormi fortezze e castelli. Alla prima seguirono altre sette spedizioni armate (l'ultima nel 1270): ai motivi religiosi presto si sommarono motivi economici. Le crociate, infatti, rappresentavano per l'Europa dei secoli XI-XIII, in pieno decollo economico e demografico, un'occasione di bottino e conquiste. Ogni anno con l'arrivo della primavera, dai porti europei partivano convogli di navi che portavano in Terrasanta una folla di cavalieri, soldati, pellegrini, mercanti, monaci (ci furono persino le “crociate dei bambini”). Per disciplinare questo fenomeno furono creati gli ordini monastico-cavallereschi, come i templari e gli ospedalieri di San Giovanni, attraverso i quali la Chiesa dimostrò di sapersi adattare efficacemente alla società guerriera del tempo. La presenza cristiana in Terrasanta durerà fino al 1291 con la riconquista musulmana di San Giovanni d'Acri. 5 5 Lo scontro fra l'Impero e i comuni italiani1 Federico I Alla metà del XII secolo, l'intraprendenza dei comuni dell'Italia centro-settentrionale si scontra con la comparsa sullo scacchiere politico nazionale di un nuovo e agguerrito protagonista: l'Imperatore Federico I Barbarossa. Alla politica di espansione territoriale a danno dei centri minori e di appropriazione di alcune prerogative pubbliche, dette le regalie (es. imporre tasse, battere moneta), intrapresa dai maggiori comuni padani, il Barbarossa oppone il suo progetto di centralizzazione del potere pubblico. Il progetto dell'Imperatore è tuttavia destinato al fallimento: i comuni, riuniti nella Lega Lombarda, lo sconfiggeranno sul campo di battaglia. Dopo la celebre battaglia di Legnano (1176) in cui i comuni ebbero la meglio sulle truppe imperiali, le ostilità continuarono fino ad arrivare alla pace di Costanza (1183), con cui i comuni riconoscono formalmente la sovranità dell'Imperatore, pur mantenendo una larghissima autonomia. Federico II Morto Federico I nel 1190 (annegato mentre attraversava un fiume in Asia Minore, alla testa della terza crociata), gli successe al trono imperiale il figlio Enrico VI, che Federico Barbarossa era riuscito a far sposare con Costanza d'Altavilla, unica erede del regno normanno di Sicilia. Enrico VI si adoperò per mettere in atto l'unificazione dei territori imperiali (Germania e Italia) entrando fatalmente in conflitto con il papa. Morto Enrico VI a soli 32 anni, si aprì la lotta per la successione alla corona imperiale. Alla fine (1212) ottenne il trono Federico II, figlio di Enrico VI e Costanza d'Altavilla e re di Sicilia già dall'età di 14 anni, dopo la morte della madre. Ciò fu possibile grazie all'appoggio del papa Innocenzo III, a cui Costanza d'Altavilla aveva affidato il figlio prima di morire. La definitiva vittoria di Federico II sul suo rivale al trono (Ottone di Brunswick) fu sancita dalla battaglia di Bouvines (1214). Incoronato ufficialmente a Roma nel 1220 dal pontefice, il giovane imperatore Federico II (nato a Jesi e cresciuto a Palermo, che non era mai stato in Germania e non parlava il tedesco) si dedicò al consolidamento del potere centrale: le concessioni feudali ottenute illegalmente furono abolite, le fortezze e i castelli costruiti abusivamente furono rasi al suolo. Non mancarono resistenze da parte di alcuni feudatari, ma a causa della loro rivalità non riuscirono a imporsi. Per ottenere la corona imperiale, Federico aveva promesso al pontefice una nuova crociata. Federico II in realtà era un grande ammiratore della civiltà araba, e poiché non si decideva ad organizzare la spedizione, il nuovo papa Gregorio IX lo scomunicò (1227). Federico allora partì per la Terrasanta, ma diede alla sua impresa (la sesta crociata, 1228-30), un carattere insolito: alle armi preferì la diplomazia, sottoscrisse un accordo con il sultano d'Egitto e riuscì a giungere in Terrasanta e a farsi incoronare re di Gerusalemme, senza versare una sola goccia di sangue. Il papa tuttavia accusò Federico di essere sceso a patti con gli infedeli e lanciò il suo esercito contro il regno di Sicilia. Rientrato dalla Palestina, l'imperatore sconfisse le truppe del pontefice, che si vide costretto a ritirare la scomunica. Federico poteva ora dedicarsi a riorganizzare e consolidare il suo potere, il cui centro fu il Regno di Sicilia, comprendente tutta l'Italia meridionale (vedi cartina p. 85: Impero e Regno di Sicilia al tempo di Federico II). Nel 1231 Federico emanò il Liber Augustalis: un corpo di costituzioni (chiamate melfitane) in cui si proclamava la suprema autorità del sovrano sui baroni, sui comuni e sulla Chiesa. Per l'amministrazione statale Federico si servì di funzionari salariati e revocabili, per la cui formazione costituì apposite scuole giuridiche, prima fra tutte quella dell'Università di Napoli, fondata nel 1224. Nella famosa Scuola medica di Salerno (1231) Federico istituì la prima cattedra di anatomia d'Europa, presso la quale era consentito praticare la dissezione dei cadaveri (praticata nell'antichità ma considerata sacrilega nel Medioevo). A Palermo, Federico insediò una corte sfarzosa, che fu luogo di alta cultura, dove furono chiamati intellettuali non solo del mondo cristiano, ma anche arabo. La scuola siciliana, il circolo di poeti radunatisi intorno all'imperatore, è la prima scuola letteraria fiorita nel nostro paese durante l'età medievale. 1 Che cosa sono i Comuni: Mercanti e artigiani costituirono nelle città un nuovo ceto sociale emergente e diedero vita a una libera associazione di cittadini, legati su un piano di parità da un giuramento collettivo, che venne chiamata comune. Questa struttura politica, che rappresentò le esigenze della nuova società urbana, trovò particolare diffusione nella regione che si affaccia sul mare del Nord e nell'Italia centro-settentrionale, dove più agevoli erano le vie di comunicazione e più fitti gli scambi commerciali. Con il passare del tempo i comuni acquisirono alcune prerogative che appartenevano al re o all'imperatore, come l'amministrazione della giustizia, la riscossione delle imposte, battere moneta. Nei primi tempi il potere veniva esercitato da un collegio di magistrati, detti consoli, coadiuvati e controllati da un consiglio cittadino nel quale erano rappresentate le famiglie più in vista e le corporazioni. Successivamente il potere venne conferito a un singolo magistrato che prese il nome di podestà, di solito chiamato da fuori, al quale era affidato il compito di mediare tra le fazioni in lotta. I podestà erano professionisti del governo, che giravano di comune in comune accompagnati da un seguito personale di notai, segretari, giudici, servi, scudieri, e restavano in carica da sei mesi a un anno. Guelfi e ghibellini: Particolarmente ampio fu lo sviluppo dei comuni italiani che conobbero però, al loro interno, una forte conflittualità politica ricondotta allo scontro tra guelfi e ghibellini. Questi nomi erano stati derivati dalla lotta dinastica in Germania tra la casa di Svevia (ghibellini, da Weiblingen, nome del loro castello) e la casa di Baviera (guelfi, da Welf, loro capostipite). Alla fine prevalsero gli Svevi e, poiché essi erano detti “ghibellini”, questo nome restò a indicare i sostenitori dell'imperatore e “guelfi” furono detti i loro avversari. 6 Quella di Federico era una politica centralista che necessitava di risorse ingenti, per questo istituì monopoli regi sui prodotti di prima necessità e sulle materie prime, creò nuove aziende agricole di proprietà della corona e riorganizzò e appesantì il sistema fiscale: qualsiasi attività produttiva fu sottoposta a tributi ordinari e straordinari. La situazione delle classi più povere, oppresse dal duplice peso delle prestazioni feudali dovute ai signori e delle tasse regie, si fece molto difficile. Le spinte autonomistiche dei comuni dell'Italia centro-settentrionale, alimentate dal papa, e da Enrico VII, figlio dell'Imperatore, furono inizialmente respinte dall'esercito imperiale. La nuova scomunica pronunciata da papa Innocenzo IV, i numerosi tumulti che scoppiarono nell'Impero e la sconfitta inflitta dai soldati bolognesi alle truppe imperiali nel 1249, indebolirono il potere di Federico che, durante la preparazione di una nuova spedizione in Italia settentrionale, morì all'età di 56 anni. 6 Il consolidamento delle monarchie nazionali Nel corso del XIII secolo, in concomitanza con il tramonto delle pretese universalistiche di papato e impero, in gran parte dell'Europa occidentale prende avvio il processo di consolidamento delle monarchie nazionali. Si tratta di un processo per nulla indolore, dal momento che determina l'insorgere di forme di conflittualità tra la corona e la potente nobiltà feudale. Contestualmente i sovrani devono anche confrontarsi con i nuovi ceti sociali emergenti, in particolare nelle città, che rivendicano una maggiore partecipazione alla vita politica. Pur essendo avvenuto in tempi e modi differenti, il processo di rafforzamento delle monarchie nazionali presenta in Francia, Inghilterra e penisola iberica alcuni elementi comuni, quali la riorganizzazione dell'esercito, il consolidamento territoriale, la razionalizzazione del prelievo fiscale e, soprattutto, il riconoscimento delle assemblee rappresentative, chiamate, a seconda dei paesi, Parlamenti, “Cortes”, Stati generali. Il conflitto tra la monarchia francese e il papato La decisione del re francese Filippo IV il Bello di imprre le decime agli ecclesiastici per incrementare le entrate della corona, incontrò la reazione di papa Bonifacio VIII e aprì il conflitto ideologico e politico tra monarchia francese e papato. Gli Stati generali, convocati nel 1302 dal re, stabilirono che il potere del sovrano discendeva direttamente da Dio, senza la mediazione papale. Il papa reagì con l'emanazione della bolla Unam Sanctam, in cui riaffermava di fatto gli ideali teocratici teorizzati dai suoi predecessori ma, prima che potesse scomunicare Filippo, fu catturato da un consigliere del re di Francia nella sua residenza di Anagni (“lo schiaffo di Anagni”). La sua morte, di poco successiva alla terribile umiliazione subita, segnò la fine di un'epoca e l'inizio del lento declino del papato nella nuova realtà politica europea. Il papato ad Avignone La ricerca di un'intesa tra il papato e la monarchia francese portò all'elezione di papa Clemente V, il quale, nel 1309, trasferì la sede papale ad Avignone. Qui, fino al 1376, si succedettero sette papi, tutti di nazionalità francese. Il periodo avignonese fu caratterizzato dalla progressiva riduzione della popolarità della Chiesa cattolica, che appariva al popolo come una potenza straniera che percepiva tributi. Le enormi spese sostenute dalla Curia ricadevano infatti sul mondo cristiano sotto forma di decime e contributi che, insieme al ricavato dalla vendita delle indulgenze, costituivano le principali fonti di guadagno della Chiesa. La monarchia inglese La sconfitta nella battaglia di Bouvines2 e la conseguente perdita di prestigio del re Giovanni Senza Terra consentirono ai baroni inglesi di strappare al sovrano una serie di concessioni e diritti che confluirono nel 1215 nella Magna Charta Libertatum. Il documento, che garantiva la libertà dei nobili, delle città e della Chiesa, limitava nello stesso tempo iil potere del sovrano il quale era sottoposto alle leggi e all'autorità del Parlamento. Quest'ultimo risultava composto da due Camere, la Camera dei Lords e la Camera dei Comuni, che comprendeva i rappresentanti del basso clero, della piccola nobiltà e della borghesia cittadina. Il declino dell'Impero Dopo la morte di Federico II, l'autorità e il potere dell'imperatore in Italia e in Germania furono notevolmente ridimensionati. In Italia, gli imperatori esercitavano la sovranità tramite vicari che li rappresentavano, restando prevalentemente estranei alle questioni locali; in Germania il potere imperiale era limitato dai grandi feudatari che, con la Bolla d'oro del 1356, ottennero il diritto di eleggere l'imperatore. 2 La battaglia di Bouvines (27 luglio 1214) fu lo scontro decisivo del primo grande conflitto internazionale tra coalizioni di eserciti nazionali in Europa. Nel gioco delle alleanze, orchestrato dal papa Innocenzo III, Filippo Augusto di Francia inflisse ad Ottone IV di Germania e al conte Ferdinando di Fiandra una sconfitta così decisiva che Ottone venne deposto e sostituito da Federico VII Hohenstaufen, poi Federico II di Svevia. Ferdinando venne catturato e imprigionato. Quanto a Filippo, con il trattato di Chinon riuscì ad avere il controllo completo e indiscusso sui territori di Angiò, Bretagna, Maine, Normandia e Turenna, che aveva da poco strappato al re inglese Giovanni, parente e alleato di Ottone. 7 Modulo 2: Poteri e società nell'Europa del tardo Medioevo *** sintesi del modulo *** Dopo la svolta dell'anno Mille, l'Europa del tardo Medioevo sembrava aver agganciato una fase economica positiva, destinata a durare a lungo. Questa tendenza si interruppe invece in modo brusco e drammatico. Un male terribile si abbatté sulla popolazione del continente: proveniente dall'Asia centrale, il bacillo della peste dilagò in Europa nel 1348, causando milioni di vittime. Le epidemie si susseguirono nei decenni successivi e divennero una costante della storia europea. Le condizioni materiali dell'esistenza, caratterizzate dalla malnutrizione e dalla scarsa igiene, favorivano l'azione del morbo, mentre la medicina dell'epoca si rivelava inefficace. Le comunità si affidavano al Signore e ai santi, ma l'angoscia collettiva suscitava anche reazioni violente a danno dei “diversi” (eretici, ebrei, lebbrosi, ecc.), accusati di essere i responsabili delle epidemie. La crisi economica provocò un forte calo dei redditi signorili e ovunque i signori reagirono intensificando lo sfruttamento dei contadini e imponendo rapporti di lavoro più duri. Lo stesso fenomeno si registrò nelle manifatture urbane, i cui proprietari cercavano di limtiare i danni intensificando i ritmi di lavoro e opprimendo i lavoratori. Questa pressione provocò molte rivolte che insanguinarono le campagne e le città. Ma i rivoltosi non avevano la capacità di organizzare politicamente la protesta e di rendere ampio e stabile i consenso che era alla base della rivolta sociale: per questo la reazione dei ceti dominanti e dei pubblici poteri ebbe regolarmente la meglio. Nel '300 e nel '400, in coincidenza con le prime grandi epidemie di peste, lo scenario politico fu dominato da un conflitto accanito tra Francia e Inghilterra, che per la sua durata fu chiamato guerra dei “Cent'anni”. Nacquero in questo periodo i primi eserciti permanenti e crebbero enormemente le spese per le guerre. Il bisogno di nuove risorse spinse quasi tutti gli Stati europei, ma soprattutto le grandi monarchie francese e inglese, a rafforzare e perfezionare le modalità del prelievo fiscale, attraverso interventi sulle imposte dirette e indirette. Nella penisola iberica intanto si verificava un processo di semplificazione e di concentrazione territoriale, che avrebbe portato al consolidamento di una terza grande potenza europea, la Spagna. Mentre alcuni Stati si rafforzavano e si centralizzavano, in paesi come l'Italia e la Germania la situazione politica continuava a presentare una marcata frammentazione. *** Approfondimenti *** 1 La costruzione degli Stati nazionali in Europa: La guerra dei Cent'anni All'origine della guerra dei Cent'anni (1337-1453) furono i profondi contrasti tra la monarchia inglese e quella francese, dovuti alla presenza in territorio francese dei feudi del re d'Inghilterra, alle interferenze del re di Francia nelle vicende scozzesi, alla rivalità per il controllo della Fiandra. La guerra scoppiò quando il re d'Inghilterra si proclamò sovrano di Francia. La pace di Brétigny (1360) sancì la vittoria inglese, dovuta in larga misura all'impiego di un'efficientissima fanteria di arcieri. La riscossa della Francia avvenne grazie a Giovanna d'Arco, la quale suscitò nei francesi un sentimento di identità comune. Il nuovo re Carlo VII organizzò l'esercito e nel 1453 gli inglesi si ritirarono dalla Francia, dove conservavano, quale unico possedimento, Calais. 2 L'Italia degli Stati Declino del Comune La debolezza del comune italiano risiedeva nella sua incapacità di ampliare la partecipazione del popolo: non solo la vita politica era controllata da un numero ristretto di persone, ma esistevano anche gruppi di potere (famiglie, corporazioni) in cui i vincoli interni erano prevalenti sull'appartenenza al comune, così che la lotta tra fazioni caratterizzava stabilmente la vita comunale. Nascita delle Signorie L'introduzione nei governi comunali della figura del podestà, come magistrato professionista al di sopra delle parti, non eliminò la conflittualità permanente nei comuni. Si giunse presto, perciò, all'insediamento di signorie, che trassero origine dalle circostanze più varie ma ottennero sempre una delega dagli organismi del comune. Ciò comportava, di fatto, una distruzione delle libertà comunali, ma questo era un prezzo che i cittadini pagavano in cambio della pace interna. Di solito le signorie ottenevano anche un riconoscimento da parte dell'imperatore o dal papa, trasformandosi così in princiapati. Comunque il potere signorile era nella sostanza autonomo e quasi assoluto. A partire dal XIII secolo le signorie si diffusero in tutta l'Italia centro-settentrionale: se si esclude il caso di Milano, nessuna riuscì però a creare entità territoriali stabili di grandi dimensioni. Principali signorie in Italia: • Il Ducato di Milano (con a capo la famiglia dei Visconti) 8 • la Repubblica di Firenze ( con a capo la famiglia dei Medici) • la Repubblica di Venezia (dominata da una oligarchia) • I Regni di Napoli e di Sicilia (con a capo la dinastia degli aragonesi) • Lo Stato della Chiesa Nessuna di queste potenze riusciva a prevalere sulle altre (anche perché quando ciò sembrava avvenire le altre si coalizzavano). La pace di Lodi (1454) sancì la “politica dell'equilibrio” come l'unica possibile. 9 Modulo 3: La nascita del mondo moderno *** sintesi del modulo *** Il 12 ottobre 1492 l'ammiraglio genovese Cristoforo Colombo, al servizio della Corona di Spagna, dopo un viaggio interminabile sbarca in un'isola delle Antille: crede di essere giunto in Asia e invece ha involontariamente scoperto un nuovo continente del quale non si sapeva assolutamente nulla. Questo nuovo continente, che fu poi chiamato America dal nome di un altro navigatore italiano, il fiorentino Amerigo Vespucci, è uno spazio enorme, dove gli europei scoprono piante, animali, popolazioni e grandi ricchezze. Nel giro di pochi anni si susseguono i viaggi e le scoperte geografiche. Si susseguono anche le spedizioni di conquista, poiché le potenze europee (soprattutto il Portogallo e la Spagna) fanno a gara nell'accaparrarsi i nuovi territori. La conquista del Nuovo Mondo è un'epopea grandiosa e tragica. Grandiosa per l'autentica rivoluzione che essa produce sulla vita sociale, economica, culturale e mentale degli europei. Tragica per le conseguenze che essa ha sulle genti indigene. Nell'America centrale e meridionale esistevano tre grandi civiltà: gli aztechi, i maya e gli incas. Anche se il livello della loro tecnologia era inferiore a quello degli europei, la loro vita economica, politica e culturale era complessa, spesso raffinata. Ma l'impatto con i conquistatori provocò un vero e proprio genocidio. Le popolazioni indigene sono massacrate, deportate, ridotte in schiavitù. A tutto ciò si aggiungono i danni provocati dalle epidemie: malattie che per gli europei sono banali hanno effetti devastanti sulle popolazioni indigene, prive di anticorpi. Per molto tempo le potenze coloniali procederanno nello sfruttamento sistematico del Nuovo Mondo e cercheranno di dare ai loro possedimenti un'organizzazione stabile. Le grandi scoperte geografiche daranno il primato alle potenze europee in grado di dominare gli oceani e di creare vasti imperi coloniali, mentre i traffici mediterranei perderanno definitivamente la loro centralità. Infatti, nello stesso periodo, il Mediterraneo era in gran parte controllato dalla marineria dell'Impero ottomano, che precludeva alle città marinare italiane le rotte commerciali che per tanto tempo esse avevano dominato. In questo periodo l'Italia manifesta i segni di un declino economico; tuttavia a ciò si accompagnò uno straordinario sviluppo culturale. È questa l'epoca del Rinascimento, una vera e propria rivoluzione delle arti, della scienza, delle lettere. I modelli sono offerti dall'antichità classica. Sono modelli culturali ma anche morali: esempi di virtù, di senso civico, di attaccamento ai valori della libertà e della religione. Si riscopre la dignità dell'uomo. Agli albori dell'età moderna l'Europa dilata quindi non solo i suoi spazi geografici ma anche i suoi orizzonti culturali. *** approfondimenti *** 1 Il mediterraneo nei secoli XV-XVI La comparsa dell'Impero ottomano sullo scenario politico mediorientale pone fine al predominio commerciale delle città marinare italiane nell'area mediterranea. Sin dal XIV secolo, i turchi ottomani premevano sia lungo i confini dell'Europa orientale, minacciando l'Impero germanico, sia sul Mediterraneo, dove a più riprese si erano scontrati con Venezia e con la Spagna. I turchi assalivano i convogli cristiani ed effettuavano incursioni e razzie lungo le coste. Ma la rottura dell'unità del Mediterraneo avvenne solo nel 1453, con la conquista ottomana di Costantinopoli. Il crollo del secolare Impero bizantino (erede di quello romano) per mano degli “infedeli” - gli ottomani erano infatti musulmani – destò un'enorme impressione nella Cristianità, suscitando un diffuso senso di colpa: di fronte alla catastrofe annunciata, i paesi cattolici erano infatti rimasti inerti, abbandonando i cristiani di Bisanzio al loro destino. Il lungo conflitto che oppose le potenze cristiane a quella ottomana ebbe un momento decisivo nel 1571, con la battaglia di Lepanto. La grave sconfitta degli ottomani bloccò il loro prorompente espansionismo e consentì alla marineria cristiana di riprendere l'iniziativa economica e militare. 2 L'Europa alla scoperta del mondo Lo sbarramento ottomano nel Mediterraneo, rendendo particolarmente difficoltoso il raggiungimento dei mercati orientali, spinse gli europei a volgere il loro sguardo in altre direzioni, e ad allargare i propri orizzonti sull'Atlantico. Contestualmente si andava affermando l'idea che fosse possibile raggiungere l'Oriente navigando verso Occidente: essa si basava su un principio esatto (la sfericità della Terra), ma su due valutazioni errate: si riteneva infatti che il pianeta fosse molto più piccolo di quanto realmente era e non si contemplava l'ipotesi che tra l'Europa e l'Oriente si trovasse un altro continente. Il XV e il XVI secolo furono l'era delle scoperte e dei grandi viaggi, inaugurata dal celebre viaggio di Cristoforo Colombo che nel 1492 scoprì l'America. Nel 1519 poi Magellano fece la prima circumnavigazione del globo. 10 L'avventura di Cristoforo Colombo L'era delle grandi scoperte geografiche si aprì con la più importante di tutte, quella dell'America, a opera di Cristoforo Colombo (1492). Nell'impresa di Colombo si mescolavano nuove cognizioni scientifiche e spirito di avventura. Ottenuto il sostegno della regina di Spagna, che sperava di ricavare dall'impresa grandi ricchezze, egli navigò verso occidente pensando di giungere in Asia. In realtà Colombo giunse in una delle isole Bahama. Fu Vespucci, dieci anni dopo, a riveralre che Colombo non aveva scoperto la via più breve per le Indie, ma un nuovo continente. L'era delle scoperte I sovrani spagnoli e portoghesi, nel 1494, firmarono il trattato di Tordesillas, con il quale si stabilivano le rispettive sfere di influenza economica e politica relativamente alle terre scoperte. Attirati dalle prospettive economiche dei viaggi di Colombo, Spagna, Portogallo e Inghilterra promossero altre scoperte. Nel 1487 Bartolomeo Diaz doppiò il Capo di Buona Speranza, mentre nel 1519-20 Ferdinando Magellano compì la prima circumnavigazione del globo. 3 Gli imperi coloniali La scoperta dell'America cambiò la vita dell'Europa e del Nuovo Mondo. All'indomani della scoperta, infatti, gli europei intrapresero la conquista armata dell'America centro-meridionale, provocando la scomparsa delle antiche civiltà dei maya, degli incas e degli aztechi. Ebbe così inizio un processo di colonizzazione e di sfruttamento dei nuovi territori che, in breve tempo, portò allo sterminio delle popolazioni indigene. Spagna e Portogallo introdussero nei loro possedimenti forme di organizzazione sociale e politica di stampo feudale. I conquistatori si trovarono di fronte a popoli nuovi, che avevano usanze completamente diverse, e che furono percepiti come “selvaggi”. Il comportamento da adottarsi nei confronti di queste popolazioni fu oggetto di dibatti e polemiche. Alcuni ritenevano che gli indigeni dovessero essere asserviti e sterminati come animali, perché in loro non c'era nulla di umano: erano infatti idolatri, e praticavano il cannibalismo e i sacrifici umani. Altri sottolineavano il loro grado di civiltà e la loro bontà e denunciavano i crimini dei conquistatori. Alla conquista del Nuovo Mondo Con lo sbarco in Messico dello spagnolo Cortés (1519) iniziò la conquista delle terre del Nuovo Mondo e la sottomissione delle civiltà indigene. Oltre ai domini aztechi, gli spagnoli conquistarono l'Impero inca, mentre la colonizzazione portoghese riguardò principalmente il Brasile. 11 L'Impero coloniale spagnolo L'organizzazione politica e sociale introdotta dagli spagnoli era strutturata secondo modelli feudali (encomienda: affidamento di un territorio e dei suoi abitanti a un affidatario di origine spagnola, il quale poteva richiedere agli indigeni prestazioni di lavoro illimitate). Lo sfruttamento della manodopera india era praticato anche nelle haciendas, unità produttive in cui si praticavano l'agricoltura e l'allevamento. L'attività economica più collegata a quella europea era l'industria mineraria, basata sul lavoro coatto degli indigeni, che permetteva ai dominatori locali di importare beni di consumo e di lusso dall'Europa. Per controllare i commerci con le colonie americane la corona istituì nel 1503 la Casa de la Contractacion. La scoperta dei “selvaggi” Con la conquista del Nuovo Mondo gli europei scoprirono il “selvaggio”. Di fronte alle popolazioni indigene l'atteggiamento fu di totale rifiuto, con giudizi che fornivano giustificazione a ogni violenza esercitata dagli europei. Alla stessa opera di evangelizzazione compiuta dai missionari si accompagnò spesso una crudeltà non minore di quella dei conquistatori. Nei primi decenni del XVII secolo i missionari gesuiti impegnati nell'opera di evangelizzazione diedero vita a comunità indie (missioni o riduzioni) basate sull'uguaglianza sociale e sulla comunione dei beni. L'impero coloniale portoghese Mentre la Spagna si impegnò nella conquista e nello sfruttamento dei territori americani, il Portogallo puntò alla colonizzazione dell'Oriente, costruendo un sistema di fortezze e di basi navali grazie al quale riuscì a imporre il suo controllo sul commercio delle spezie. Consolidate le proprie posizioni nell'Oceano indiano, i portoghesi si spinsero più a oriente, penetrando anche in Cina, dove crearono la base commerciale di Macao. 4 Economia e società nel '500 Il '500 fu un secolo di profonde trasformazioni economiche e sociali. Dopo il crollo demografico del '300 e del '400, determinato dalle grandi epidemie di peste, l'Europa cominciò a ripopolarsi. La prima conseguenza di questo aumento demografico fu la ripresa dell'agricoltura e dei progressi nelle tecniche agrarie. Al progressivo venir meno della centralità economica del Mediterraneo, causato dall'apertura delle rotte oceaniche, si accompagnò una dilatazione mondiale dei traffici. Nel '500 furono poste le basi per lo sviluppo in senso capitalistico dell'economia europea: i capitali ricavati dai proventi dell'agricoltura, delle manifatture e del commercio, furono reinvestiti in altre attività, comprese quelle finanziarie. Gli strumenti della finanza furono perfezionati attraverso l'ampliamento delle banche e delle Borse. 12 Modulo 4: La fede divisa Le speranze di una profonda riforma della Chiesa, diffuse a partire dall'XI secolo, erano sempre andate deluse. Al principio del '500, queste esigenze di rinnovamento trovarono un'espressione vigorosa nella predicazione del monaco tedesco Martin Lutero. Oltre a condannare pratiche ormai ritenute intollerabili, come la vendita delle indulgenze, Lutero sosteneva una dottrina fortemente innovativa, basata sul tema della salvezza dell'uomo (la giustificazione per fede) e su quello del sacerdozio universale dei credenti, che implicava un rapporto diretto del fedele con Dio e la riduzione del papato a istituzione esclusivamente terrena. La diffusione delle idee luterane, favorita dall'uso della lingua vogare e della stampa, ebbe effetti dirompenti sull'unità del mondo cristiano. Ora i paesi cattolici, che continuavano a osservare la dottrina tradizionale e si mantenevano fedeli al papato, si contrapponevano ai paesi luterani, che aderivano alla Riforma predicata da Lutero. In Italia e in Spagna la Riforma ebbe una diffusione limitata, mentre nei paesi del nord Europa essa raccolse numerose adesioni. Gli anni della Riforma protestante furono anche quelli dell'egemonia di Carlo V, il sovrano spagnolo che si trovò a governare sul più grande impero che fosse mai esistito. Oltre che sulla Spagna, l'Italia meridionale e la Sicilia, la Sardegna, Carlo regnava anche sulle terre degli Asburgo in Austria e in Boemia, sulla Fiandra e sui Paesi Bassi, mentre i conquistadores spagnoli procedevano alla conquista del Nuovo Mondo. Per contrastare questa egemonia, il re di Francia Francesco I diede vita a un'alleanza antispagnola, la Lega di Cognac, cui aderì anche il papa. La guerra che ne derivò ebbe come teatro principale l'Italia. Particolarmente grave fu il Sacco di Roma del 1527: alcune migliaia di mercenari al servizio dell'Imperatore posero l'assedio al papa abbandonandosi per vari mesi a un sistematico saccheggio della città. Paci e accordi di breve durata si susseguirono per molti anni, ma l'Impero non riuscì mai a soggiogare definitivamente i suoi avversari: la stessa idea di Impero appariva ormai infatti un retaggio del passato, mentre l'Europa del futuro sarebbe stata quella delle monarchie accentrate e potenti e sorrette dai sentimenti nazionali delle masse. Ciò fu evidente anche nei decenni successivi, dominati dalla contrapposizione tra la Spagna di Filippo II e l'Inghilterra della regina Elisabetta. *** approfondimenti *** 1 La riforma protestante I mali della Chiesa Le aspirazioni a una profonda riforma della Chiesa erano già presenti a partire dall'XI secolo. I mali della Chiesa erano antichi: il concubinato (detto nicolaismo) degli ecclesiastici; la simonia (la vendita delle cariche ecclesiastiche); il mancato rispetto dell'obbligo della residenza di vescovi, abati e curati nel luogo dell'ufficio; il cumulo delle prebende e dei benefici; le esenzioni dall'obbligo dell'esercizio del ministero ecclesiastico; il malcostume dei sacerdoti (libertà sessuale, ubriachezza, corruzione, ecc.); la loro ignoranza (spesso i curati non sapevano leggere, ignoravano il latino, amministravano i sacramenti e celebravano in modo approssimativo i riti). Un problema particolarmente scottante era quello delle indulgenze, ovvero la remissione delle pene canoniche (digiuni e penitenze di vario genere) inflitte per ottenere il perdono dei peccati. Verso il 1500 era enormemente diffusa la pratica dell'acquisto dell'indulgenza dietro versamento di somme di denaro. La dottrina luterana Docente di teologia biblica all'università di Wittemberg, Martin Lutero fu promotore di un dibattito teologico sui mali della Chiesa. Nel 1517, papa Leone X, per finanziare la costruzione della basilica di S. Pietro, promosse la vendita delle indulgenze e affidò la riscossione all'arcivescovo di Magdeburgo Alberto di Hohenzollern, mentre l'incarico delle predicazione fu affidato al domenicano Johann Tetzel. Il 31 ottobre 1517 Lutero affisse sulla porta della chiesa del castello di Wittemberg un documento contenente 95 tesi contro le indulgenze. Le idee centrali della predicazione di Lutero erano: La giustificazione per fede: tutti gli uomini sono peccatori e nulla li può salvare se non la fede nella misericordia divina, quindi “non è giusto l'uomo che opera molto, ma colui che, senza operare, crede molto in Cristo”. Le opere buone non servono a salvare l'uomo interiore, che si salva unicamente per fede. L'assenza del libero arbitrio e quindi dell'incapacità di decidere il proprio destino, essendo l'uomo completamento sottomesso alla volontà divina. Contro questa tesi si scagliò l'umanista Erasmo da Rotterdam. 13 Il sacerdozio universale: tutti i credenti sono sacerdoti, perché tutti avevano ricevuto il battesimo. La lettura e l'interpretazione delle Sacre Scritture (libero esame) erano un diritto di tutti i credenti e non un monopolio riservato ai sacerdoti (i quali quindi perdevano il loro ruolo di intermediari tra Dio e fedeli). La riduzione dei 7 sacramenti (eucarestia, battesimo, penitenza, matrimonio, cresima, ordine, estrema unzione) a 2: battesimo e eucarestia, unici, a suo avviso, ad essere fondati sulle Sacre Scritture. La sfida di Lutero Con la bolla Exurge Domine del 1520, il papa Leone X condannava le idee di Lutero, ordinava che i suoi scritti fossero messi al rogo e gli lasciava due mesi di tempo per abiurare. Tuttavia, Lutero iniziò a conquistarsi importanti appoggi: L'elettore di Sassonia, Federico il Savio, gli diede protezione. Le frange più popolari del proletariato urbano e i contadini lo appoggiavano con entusiamo. I borghesi apprezzavano l'aspetto sociale delle tesi di Lutero, vedendovi un incitamento alla rassegnazione, all'obbedienza e al rispetto dell'ordine. L'azione di Lutero non dispiaceva nemmeno ai principi tedeschi che vi vedevano l'occasione per indebolire il potere del papa e per impadronirsi delle vastissime terre che il clero possedeva in Germania. Gli intellettuali apprezzavano la rivendicazione luterana del diritto di tutti gli uomini di pensare e scrivere seguendo la propria coscienza. Molti ecclesiastici vedevano nell'azione di Lutero un'occasione per riformare in profondità il cattolicesimo. Più in generale, nel popolo tedesco si risvegliò una potente ondata di fervore nazionale. Sulla strada del ritorno da Worms (dove Lutero si era recato convocato da una Dieta imperiale che aveva comunque finito per sconfessare le sue tesi), Lutero fu rapito dagli emissari di Federico il Savio e messo in salvo nello sperduto castello della Wartburg, in Turingia. Mentre Lutero, ormai al sicuro, attendeva alla traduzione tedesca della Bibbia e alla stesura dei nuovi scritti, le sue idee dilagavano: la città di Costanza, seguita da molte altre, rifiutò di applicare la condanna imperiale di Worms e adottò il luteranesimo. Monaci e monache abbandonarono a migliaia i conventi. La diffusione delle idee di Lutero fu agevolata da un ampio ricorso all'uso della stampa e della lingua volgare. La Bibbia, tradotta da Lutero, divenne un libro accessibile a chiunque sapesse leggere. Si trattò di una vera rivoluzione culturale: per la prima volta, un grande pubblico di lettori (e ascoltatori) prese coscienza di idee rivoluzionarie attraverso un mezzo di comunicazione che faceva uso di una tecnologia moderna (la stampa) e delle lingue locali. Al fine di facilitare l'accesso alla parola divina, Lutero promosse una lotta contro l'analfabetismo. In Sassonia, una legge del 1580 stabilì che anche nei più sperduti villaggi, almeno un sagrestano fosse disponibile per l'insegnamento della lettura e della scrittura. La guerra dei contadini Gli sconvolgimenti politici e religiosi della Riforma si incrociarono con i movimenti sociali. I cavalieri tedeschi (la piccola nobiltà) scatenarono una guerra civile (1521-23) che fu duramente repressa dai vecchi feudatari laici ed ecclesiastici. Molto più grave fu la rivolta dei contadini, che vivevano in condizioni di asservimento molto dure. Essi elaborarono un documento di rivendicazioni (dodici articoli) in cui si chiedeva, tra l'altro, l'abolizione di qualsiasi forma di servitù personale, l'uso delle foreste e dei boschi, l'esercizio libero della caccia e della pesca, la possibilità di eleggere e destituire i parroci, l'abolizione delle decime (tasse) e delle prestazioni non previste dalla consuetudine. I contadini invocavano Lutero come loro paladino, ma il monaco agostiniano reagì con una dura critica delle rivendicazioni dei rivoltosi: il Vangelo escludeva qualsiasi violenza e ribellione, il compito di punire l'ingiustizia spettava solo a Dio e i contadini dovevano rassegnarsi e obbedire. Lutero fu giudicato un traditore. Il più noto dei riformatori estremisti, delusi da Lutero, fu Thomas Müntzer, che divenne il capo della rivolta contadina. Nel maggio 1525 i soldati e i cavalieri inviati dai principi tedeschi annientarono un esercito contadino a Frankenhausen, in Turingia. Müntzer fu fatto prigioniero. Mentre lo torturavano (prima di decapitarlo), gridò: “Tutte le cose appartengono a tutti!”. La strage di Frankenhausen fu seguita da tanti altri episodi analoghi: le bande contadine, che non erano state in grado di organizzarsi politicamente e né di raccogliere altri consensi, furono isolate e assalite dalle forze coalizzate dei principi. Dalla Germania alla Svizzera La diffusione della Riforma in Germania sancì una spaccatura tra i principi alla Dieta di Spira del 1529: 6 principi e 14 città tedesche protestarono apertamente contro il tentativo di rendere efficace su tutto il suolo germanico l'editto di Worms del 1521 che condannava il luteranesimo (per questo furono chiamati protestanti). Alla successiva Dieta di Augusta del 1530 i principi protestanti presentarono la loro professione di fede, detta Confessione augustea, e nel 1531 strinsero un'alleanza militare, la Lega di Smalcalda. Il Luteranesimo si diffuse a macchia d'olio in Germania (rimasero cattoliche la Baviera e le regioni occidentali). L'altro grande centro di diffusione della Riforma fu la Svizzera, dove le nuove dottrine furono introdotte da Zwingli, 14 canonico della cattedrale di Zurigo, il quale agì in accordo con le autorità cittadine. Di contro alla prudenza di Zwinglii, invece, gli anabattisti (negavano la validità del battesimo dei fanciulli e sostenevano che tutti dovessero essere ribattezzati) sostenevano la necessità di dar vita immediatamente a una comunità di fedeli puri. Nella città tedesca di Munster, nel 1534, gli anabattisti si impadronirono del potere. Cattolici e luterani furono espulsi. Si voleva dar vita a una comunità di santi: fu abolita la proprietà privata, eliminato il denaro, permessa la poligamia. L'esperimento non durò a lungo: nel 1535 la città cadde nelle mani di un esercito armato dai principi cattolici e luterani e gli anabattisti furono sterminati. Il calvinismo A Ginevra, nella Svizzera di lingua francese, si svolge l'attività di Giovanni Calvino, un francese fuggito dalla patria per evitare la repressione che si era abbattuta sui luterani. Calvino riuscì a fare di quel piccolo centro una specie di StatoChiesa, imperniato sull'idea di predestinazione, che già Lutero aveva abbozzato. Per volontà imperscrutabile di Dio, alcuni eletti erano predestinati per sempre alla salvazione; tutti gli altri erano dannati. La salvezza non dipendeva dai meriti dell'individuo, ma dalla Grazia divina. L'individuo però non doveva rassegnarsi passivamente al proprio destino, ma ricercare continuamente dentro di sé i segni della sua appartenenza alla schiera degli eletti. Nella vita di ogni giorno ci si doveva impegnare: il successo personale, il lavoro ben eseguito erano segni di appartenenza al gruppo degli eletti. Ciò dava vita a una nuova etica: il denaro doveva essere impiegato, oltre che per il proprio sostentamento e per quello dei poveri, in attività produttive che generassero a loro volta nuovi guadagni: anche negli affari il successo era un segno della predestinazione divina. Vi fu nella comunità organizzata da Calvino un rigido controllo morale: furono vietati i giochi d'azzardo, gli spettacoli, il lusso, le taverne. I peccatori venivano esclusi dalla comunione e la sanzione provocava di fatto l'emarginazione sociale. Fu addirittura mandato al rogo uno dei più noti intellettuali dell'epoca, Michele Serveto, reo di aver esposto a Calvino la sua posizione antitrinitaria. L'Europa riformata L'area di diffusione della Riforma in Europa fu molto vasta. In Francia ebbe successo il calvinismo, che si diffuse anche in Ungheria e nei Paesi Bassi. Il luteranesimo si impose invece in Europa settentrionale. In Inghilterra, Enrico VIII desiderava annullare il suo matrimonio con Caterina d'Aragona, dalla quale non aveva avuto eredi maschi, e sposare una dama di corte di cui era innamorato, Anna Bolena. Il pontefice Clemente VII non concesse l'annullamento e il rifiuto provocò una durissima reazione del sovrano, che sposò ugualmente Anna Bolena. Da Roma partì immediatamente la scomunica per Enrico e la sua sposa. Enrico VIII si fece proclamare, con l'Atto di supremazia, votato dal Parlamento nel 1534, capo supremo della Chiesa d'Inghilterra (chiamata Chiesa anglicana) e vietò il pagamento delle decime a Roma, si arrogò il diritto di scomunicare, designò i candidati all'episcopato, abolì i monasteri e ne incamerò i beni. Il filosofo Tommaso Moro, già cancelliere del re, rifiutò di aderire alla politica del sovrano e fu decapitato. La nascita della Chiesa anglicana rappresentava uno scisma, ma in realtà senza rotture irreparabili sul piano teologico con la Chiesa di Roma. Solo in seguito la Chiesa anglicana aderì al protestantesimo. La Scozia invece, grazie alla predicazione di Knox, aderì al calvinismo. La Riforma in Italia In Italia la Riforma ebbe una limitata diffusione e non diventò mai un movimento popolare, sia per la mancanza della profonda avversione alla Chiesa di Roma che c'era invece in altri paesi, sia per la dipendenza dei signori dal papa e dall'imperatore. Grande influenza ebbe Valdés, spagnolo sfuggito all'Inquisizione iberica e trasferitosi in Campania, i cui seguaci furono giustiziati o dovettero emigrare. 2 L'iniziativa cattolica [la controriforma] Il peso delle parole La reazione cattolica al dilagare del protestantesimo si sviluppò tra il 1550 e il 1660, ed è comunemente nota come Controriforma. I cattolici parlavano di una riforma vera (la loro), contrapposta a una riforma falsa (la protestante), mentre i protestanti distinguevano una riforma vera e unica (quella protestante) da una riforma falsa (cattolica). Il concilio di Trento Il pontefice Paolo III Farnese insediò nel 1537 una commissione per analizzare i motivi della crisi e proporre soluzioni (Consilium emendanda Ecclesia). I papi del '400 avevano osteggiato la convocazione di un consiglio ecumenico per affrontare i problemi del rinnovamento del mondo ecclesiastico, a causa dei timori per la rinascita della corrente conciliarista, che sosteneva la superiorità del concilio sull'autorità papale. Il Concilio fu convocato a Trento nel novembre 1542 da Paolo III, anche dietro pressione dell'imperatore Carlo V, 15 impegnato in suolo tedesco nella lotta contro i principi protestanti, riuniti nella lega di Smalcalda. Il concilio iniziò il 13 dicembre 1545. Nel 1547 fu trasferito a Bologna fino al 1549, anno della morte di Paolo III. Riaperto a Trento da Giulio III nel 1551 fu nuovamente soppresso nel 1552. Dopo un'interruzione di 10 anni voluta da Paolo IV Carafa, riprese nel 1562 da Pio IV e terminò nel 1563. Già prima che il concilio cominciasse erano tramontate le speranze di farne un'occasione di riconciliazione. I protestanti decisero di non prendervi parte: non accettarono il ruolo preminente che il papa pretendeva di avervi e la partecipazione dei soli ecclesiastici (contraddiceva il principio del sacerdozio universale). Sul piano della dottrina il concilio segnò una netta chiusura nei confronti del protestantesimo. Ribadì la validità di tutti e sette i sacramenti confermando la presenza reale del Cristo nell'eucarestia e il battesimo dei neonati. Contro la tesi luterana del sacerdozio universale riaffermò la netta separazione tra clero e laicato e la superiorità del primo sul secondo. Contro le tesi luterane del libero esame del testo sacro, la Chiesa si ripropose come unica interprete delle Sacre Scritture (versione latina autentica della Bibbia: Vulgata di san Gerolamo). Sul piano della disciplina fu stabilito l'obbligo del celibato ecclesiastico e quello della residenza; ai vescovi fu imposto di effettuare visite regolari nelle parrocchie della loro diocesi (visite pastorali). Fu imposto l'uso del latino come lingua ufficiale della Chiesa. Per combattere la tradizionale ignoranza del clero fu creata una rete di seminari. Venne istituito il catechismo e fu fatto obbligo ai curati di insegnare la dottrina ai fedeli nella lingua corrente. L'arcivescovo di Milano Carlo Borromeo fu incaricato di redigere un Catechismo romano (1566), un manualetto a uso dei sacerdoti, che ebbe grande importanza nel divulgare in maniera uniforme i principi dell'ortodossia tridentina (formalizzata dal Concilio di Trento) presso i fedeli. La rivoluzione della stampa, che aveva favorito la diffusione del protestantesimo, fu sfruttata anche dal cattolicesimo romano. Furono, infine, presi provvedimenti contro il nepotismo, la simonia e il concubinaggio. L'impianto dottrinario tridentino è, in buona sostanza, valido ancora oggi. La Chiesa che noi conosciamo è in gran parte quella uscita dal Concilio di Trento. Controllo e repressione Papa Paolo III su incitamento del cardinale Carafa (futuro Paolo IV) diede nuovo vigore al Tribunale dell'Inquisizione per la lotta contro l'eresia e la stregoneria. Il papato accentrò il tribunale dell'Inquisizione sotto la direzione di una commissione cardinalizia, la Congregazione del Sant'Uffizio, che coordinava i tribunali inquisitoriali locali, a esclusione di quelli dell'Inquisizione spagnola, autonoma da Roma. Paolo IV Carafa, ostile a qualsiasi innovazione che non discendesse dall'alto, interruppe il Concilio di Trento per un decennio. Egli perseguitò gli ebrei e istituì il ghetto di Roma. Paolo IV riorganizzò la censura sulla stampa e fissò i criteri per la compilazione dell'Indice dei libri proibiti. Tra i grandi filosofi che passarono sotto l'Inquisizione ci furono: Giordano Bruno (morto sul rogo nel 1600) e Tommaso Campanella (torturato, riuscì a salvarsi fingendosi pazzo e scontando 27 anni di prigione). Spinte al cambiamento L'altro aspetto dell'azione della Chiesa – quello animato da un intento di riforma del cattolicesimo – si espresse in un intervento nella società attraverso nuovi ordini religiosi, molti dei quali fondati prima del concilio di Trento. La più importante di queste nuove istituzioni fu la Compagnia di Gesù, fondata da Ignazio di Loyola nel 1534, la quale si caratterizzava per una struttura fortemente gerarchica, una rigida obbedienza e una notevole preparazione culturale dei suoi membri. Mostrando un'estrema flessibilità nel loro operare, i gesuiti si sforzarono di penetrare al massimo nella società che dovevano riconquistare, soprattutto attraverso la collaborazione con i governi (diventarono confessori ufficiali di principi e sovrani) e la promozione di istituzioni educative, nonché attraverso la promozione del culto delle immagini sacre. La Compagnia di Gesù non trascurò attività missionarie oltremare: san Francesco Saverio, uno dei primi collaboratori di Ignazio di Loyola, si recò in India e Giappone, padre Matteo Ricci in Cina. Il destino degli ebrei La rivoluzione religiosa del XVI secolo investì anche il rapporto con gli ebrei, la cui presenza era concentrata soprattutto in Italia e in Spagna. In Spagna sin dal XV secolo la riconquista cattolica e l'Inquisizione avevano imposto una politica di conversioni forzate, dando vita al fenomeno dei marrani (ebrei convertiti che continuavano segretamente a coltivare la fede). In conseguenza dell'espulsione disposta dai sovrani spagnoli nel 1492 gli ebrei si rifugiarono in Portogallo, nell'Impero ottomano, in Italia. In alcuni centri italiani però gli ebrei furono confinati in ghetti, quartieri circoscritti, nei quali erano obbligati a risiedere, senza disporre della proprietà delle case, e in cui venivano rinchiusi dal tramonto all'alba. La caccia alle streghe Tra il 1550 e il 1650 circa, in tutta Europa inquisitori cattolici, ministri protestanti, autorità civili misero a morte decine di migliaia di persone, denunciate o accusate di far parte di una congregazione di seguaci del demonio, di aver partecipato a orge sataniche, di possedere il potere di distruggere o recar danno a uomini, animali, cose. Fu anche codificato un 16 manuale per cacciatori di streghe (il Malleus maleficarum, pubblicato nel 1486 da Heinrich Kramer e Jacob Sprenger). Le confessioni dei condannati erano ottenute sotto tortura. La gente comune era comunque vittima di suggestioni potenti, per cui credeva veramente che le streghe esistessero e addirittura molte presunte streghe erano convinte di possedere poteri diabolici. Persone identificate come streghe e stregoni, e più in generale tutti gli individui “diversi” (vecchie, vedove, mammane, storpi, vagabondi, senza famiglia, eretici...) erano considerate come capro espiatorio di tutti i mali dell'epoca (guerre, fame, carestie, disordini...). 3 Le guerre d'Italia e l'Impero di Carlo V La fine dell'equilibrio Gli ultimi decenni del '400 videro in Italia un susseguirsi di congiure (la congiura dei Pazzi a Firenze contro Lorenzo dei Medici, che però riuscì a mantenere la fedeltà del popolo; la congiura dei baroni nel Regno di Napoli) e di tensioni fra gli stati. La situazione precipitò quando Ludovico il Moro, detentore del potere nel Ducato di Milano, per contrastare le minacciose aspirazioni degli aragonesi, chiamò in soccorso il re di Francia Carlo VIII, invitandolo a far valere le pretese angioine sul Regno di Napoli (da cui erano stati cacciati nel 1442). La discesa di Carlo VIII inaugurò le cosiddette guerre d'Italia. Carlo VIII fu ricevuto a Milano con onori trionfali da Ludovico il Moro, poi a Firenze da Piero dei Medici. All'arrivo dell'armata francese a Napoli il sovrano aragonese Ferdinando II si rifugiò in Sicilia. La facilità della conquista francese allarmò gli Stati italiani e le altre potenze europee. Ludovico il Moro si fece promotore di una Lega antifrancese, che convinse Carlo VIII a rientrare in patria. A Firenze Piero dei Medici fu cacciato e venne restaurata la repubblica. Il potere passò a Gerolamo Savonarola, un frate domenicano che si era creato un largo seguito predicando contro il lusso della signoria medicea e la politica nepotista del corrotto pontefice Alessandro VI Borgia. I seguaci di Savonarola erano detti “piagnoni”, per il loro moralismo intransigente. Ma il governo popolare fondato da Savonarola non riuscì a radicarsi nella città: le sue riforme – soprattutto l'imposta fondiaria e l'imposta progressiva sul reddito – spinsero le famiglie patrizie (gli arrabbiati) e i sostenitori dei Medici a coalizzarsi, isolare Savonarola e condannarlo a morte come eretico. Francia e Spagna alla conquista dell'Italia La spedizione di Carlo VIII mostrando la divisione degli Stati italiani, accese le mire di altre potenze europee per assicurarsi domini nella penisola, la quale quindi divenne teatro di scontri e conquiste. Il Regno di Napoli passò alla Spagna (1504), mentre la Francia conservava il Ducato di Milano (cacciata di Ludovico il Moro). Con la morte del papa Alessandro VI crollò il potere del figlio Cesare Borgia (ammirato da Macchiavelli) nelle Marche e in Romagna. La lega di Cambrai inflisse una dura sconfitta a Venezia che perse gran parte della terraferma. Nel 1516 la pace di Noyon tra Francia e Spagna segno l'inizio di una fase di distensione nella penisola, il cui destino si mostrava molto diverso da quello delle grandi monarchie. L'ascesa di Carlo V Nel 1500 nasce Carlo d'Asburgo, da Giovanna la Pazza (figlia di Ferdinando d'Aragona e Isabella di Castiglia) e Filippo il Bello (figlio di Massimiliano I). Nel 1519 Carlo fu eletto imperatore (grazie all'appoggio finanziario dei banchieri tedeschi) col nome di Carlo V. Re di Spagna dal 1516, Carlo V si trovò a governare, oltre che sulla Spagna – con i territori annessi di Napoli, Sicilia e Sardegna – anche sulle terre degli Asburgo in Austria e Boemia, sulla Fiandra e i Paesi Bassi e sui territori dell'Impero. Era dai tempi di Carlo Magno che un sovrano non possedeva in Europa un così vasto dominio. Il suo progetto di restaurazione dell'autorità imperiale era ostacolato sul fronte esterno dall'ostilità della Francia e dalla minaccia dei turchi ottomani, e sul fronte interno dalla diffidenza dei ceti dirigenti e delle comunità cittadine in Spagna (rivolta dei comuneros) e dalla questione della Riforma protestante in Germania (molti principi tedeschi aderirono alla Riforma in funzione anti-imperiale). Malgrado i tentativi di conciliazione promossi dall'imperatore, si giunse allo scontro armato fra Carlo V e i principi protestanti, uniti nella Lega di Smalcalda. Nell'Impero si formarono due fazioni, una cattolica e una protestante. Il Sacco di Roma La lotta tra Spagna e Francia ebbe come teatro l'Italia. Sconfitto il re francese Francesco I nel 1525, anche grazie a nuove tecniche di combattimento basate sulla fanteria, Carlo V insediò Francesco II Sforza come suo vassallo nel Ducato di Milano (strategico perché controllando i porti liguri metteva in comunicazione Spagna e Germania). Il re di Francia diede vita a un'alleanza antiasburgica (Lega di Cognac) cui aderì anche il papa. Migliaia di mercenari al servizio dell'imperatore scesero in Italia e posero al sacco Roma (1527). Nel 1529 la pace di Cambrai sanciva le rispettive sfere di influenza tra Carlo V, che a Bologna fu incoronato dalle mani del pontefice, e Francesco I. 17 La minaccia turca Una delle insidie all'egemonia di Carlo V fu rappresentata dall'espansione degli ottomani, che con Solimano, raggiunsero il cuore dell'Europa (occuparono l'Ungheria e arrivarono ad assediare Vienna). Il tramonto dell'idea di Cristianità è ben testimoniato dall'alleanza del re di Francia con il sultano in funzione antiasburgica. La ripresa della guerra e la pace di Crépy Alla morte del duca di Milano, Carlo V occupò quella regione e ciò riaccese la lotta con la Francia, che ne uscì sconfitta. Ma il re di Francia riuscì comunque a firmare una pace favorevole a Crépy nel 1544. La guerra riprese con il nuovo re di Francia Enrico II, che spostò l'asse del conflitto dall'Italia alla Germania (ove ebbe l'appoggio dei principi luterani). Il fantasma dell'Impero L'idea di Impero era ormai superata nell'Europa degli Stati nazionali. La pace di Augusta e la rinuncia di Carlo V Il primo a rendersi conto della fine dell'idea di Impero fu lo stesso Carlo V. Egli, nel 1555 risolse il conflitto con i principi protestanti, con la pace di Augusta, che sanciva la divisione della Germania tra cattolici e luterani e affermava l'obbligo per i sudditi di seguire la confessione del loro sovrano (Cuius regio eius religio). L'anno successivo Carlo V abdicò, dividendo l'Impero tra il fratello Ferdinando I (che ebbe la corona imperiale, le terre degli Asburgo, Boemia e Ungheria) e il figlio Filippo II (Spagna, Milano, Napoli, Sicilia, Sardegna, Paesi Bassi, colonie americane). Con questo atto riconosceva l'irrealizzabilità dell'Impero universale. Carlo si ritirò in un monastero fino alla morte, che sopraggiunse nel 1558. Uno strascico nella lotta tra Francia e Impero si ebbe con la guerra tra Enrico II (nuovo monarca Francese) e Filippo II (re di Spagna), conclusasi con la pace di Cateau-Cambrésis (1559). 4 L'età di Filippo II e di Elisabetta Filippo II Filippo II, il nuovo re di Spagna (figlio di Carlo V) fu il campione della Controriforma nella seconda metà del XVI secolo. Il suo regno durò oltre 40 anni (1556-98). Al contrario di Carlo V, che viaggiò tutta la vita da un capo all'altro dei suoi domini europei, Filippo II non si mosse dalla Castiglia e decise di trasferire la corte a Madrid, nel palazzo dell'Escorial. I problemi del governo: burocrazia ed economia Lo Stato di Filippo II era il più autoritario d'Europa. Era un buon cattolico, ma aveva anche vasti poteri sul clero (come il diritto di presentazione, che gli consentiva di nominare i vescovi di suo gradimento). Inoltre, l'Inquisizione spagnola dipendeva direttamente dalla corona anziché dal papa. L'attività governativa della corte era affiancata da una serie di Consigli (simili ai moderni ministeri). Era pratica comune la vendita delle cariche: l'aspirante a un posto statale doveva sborsare una somma corrispondente all'importanza dell'incarico. Il funzionario, una volta nominato, cercava di recuperare la somma con i proventi della carica. Oltre allo stipendio, modesto, il funzionario percepiva dai privati, per ogni atto amministrativo, altri emolumenti. Questa situazione diede luogo a una diffusa corruzione. Dopo il 1560 cominciarono ad affluire in Spagna grossi quantitativi di oro e d'argento dalle miniere del Perù e del Messico. Questa enorme ricchezza non fu però utilizzata per promuovere lo sviluppo economico del paese, ma finì per transitare verso mercati esteri. Infatti, all'incremento della domanda di merci (determinato dalla maggiore disponibilità di metalli preziosi) non corrispondeva un adeguato incremento dell'offerta (l'apparato produttivo spagnolo restava inadeguato). Ciò determinò un aumento dei prezzi, di cui fece le spese gran parte della popolazione. La Spagna arrivò addirittura per tre volte a dichiarare la bancarotta, che comportava la mancata restituzione dei capitali avuti in prestito. La pirateria e la lotta contro i turchi (la battaglia di Lepanto) Lo scontro tra cristiani e musulmani nel Mediterraneo si riassumeva in quello tra Impero ottomano e Spagna. Alla guerra aperta si mischiava la pirateria. La pirateria musulmana costituiva un pericolo per tutte le rotte e le coste del Mediterraneo, ed aveva il suo principale centro ad Algeri. Ma ben diffusa era anche la pirateria cristiana rivolta non solo contro i musulmani. La tensione tra spagnoli e musulmani precipitò in conseguenza della conquista turca di Cipro. Il papa Pio V organizzò una Lega santa contro i turchi, insieme alla Spagna e a Venezia, guidata da Giovanni d'Austria, fratello di Filippo II. Nel 1571 nelle acque di Lepanto (città greca nel golfo di Corinto) si fronteggiarono due grandi flotte e fu una disfatta per i turchi. La notizia della vittoria della Lega suscitò un'ondata di entusiasmo. I turchi si ripresero e ricostruirono la flotta, ma dopo Lepanto la loro presenza nel Mediterraneo si offuscò e spostarono i loro interessi sul fronte persiano. Per il mondo cristiano Lepanto segnò la fine di un incubo, perché mostrò che i turchi potevano essere sconfitti. Nel complesso i traffici mediterranei per le navi cristiane divennero più sicuri. 18 In Spagna la lotta contro i turchi riavviò lo spirito di crociata, che portò a una feroce persecuzione dei moriscos (i musulmani battezzati), discendenti dalle popolazioni arabe che un tempo avevano occupato la Spagna. Nel 1609 i moriscos furono definitivamente espulsi dalla Spagna. La rivolta dei Paesi Bassi Dopo la morte del re di Portogallo, Filippo II (zio del defunto re) salì sul trono di quel paese. Acquisito il controllo sull'intera penisola iberica si dedicò a rafforzare la propria sovranità sui Paesi Bassi (un'area corrispondente agli odierni Olanda, Belgio, Lussemburgo e parte della Francia settentrionale). I suoi abitanti mal sopportavano l'ingerenza spagnola, per ragioni di ordine fiscale, politico e religioso (nei Paesi Bassi era molto diffuso il calvinismo). Filippo II intraprese una politica di persecuzione a danno dei calvinisti. Nel 1566 in alcune importanti città dei Paesi Bassi scoppiò una rivolta messa in atto da masse popolari sobillate dai calvinisti. Furono saccheggiati chiese e conventi, massacrati preti e monache, abbattute le immagini sacre. Filippo II allora inviò nella regione il migliore dei propri generali, il duca d'Alba, il quale riuscì a ristabilire l'ordine, punire i rivoltosi, ripristinare la regolarità del prelievo fiscale. La rivolta si tinse allora di un tono di rivendicazione nazionale. I ribelli furono appoggiati da quei nobili (detti “pezzenti”), anche cattolici, che non approvavano i metodi spagnoli. Dalla loro parte si schierò anche il più prestigioso e ricco tra i nobili dei Paesi Bassi, Guglielmo I di Nassau, principe di Orange. Nel 1572 Guglielmo d'Orange fu nominato dai ribelli governatore delle province del Nord, ormai sottratte al dominio spagnolo. Le province del Sud, in prevalenza cattoliche, restarono invece sotto controllo spagnolo. Le province del Nord diedero vita alla Repubblica delle sette Province Unite, indipendente dalla Spagna e destinata a un grande avvenire. Il riconoscimento ufficiale della spaccatura arrivò solo nel 1648 con la pace di Vestfalia, che pose fine alla guerra dei Trent'anni. Elisabetta d'Inghilterra La precoce morte di Edoardo VI scatenò conflitti religiosi in Inghilterra. Salì sul trono Maria Tudor, detta Maria la Cattolica, nata dal matrimonio tra Enrico VIII e Caterina d'Aragona, la sposa spagnola che il sovrano aveva ripudiato a favore di Anna Bolena. Maria la Cattolica procedette a una sistematica restaurazione del cattolicesimo: diverse centinaia di protestanti subirono il martirio; fu abilito il Book of Common Prayer – il libro ufficiale di preghiera protestante introdotto da Edoardo VI. La regina morì dopo pochi anni di regno e rimase famosa come Maria la Sanguinaria. La nuova sovrana Elisabetta era figlia di Enrico VIII e Anna Bolena, entrambi sconsacrati dal papa dopo il loro matrimonio in seconde nozze. Tutti attendevano la mossa del “cattolicissimo” re di Spagna, ma Filippo II si guardò bene dal contestare la validità della successione al trono inglese; infatti l'altra candidata era Maria Stuart, regina di Scozia e moglie di Francesco II re di Francia. Se Elisabetta fosse stata spodestata, Maria Stuart avrebbe quindi unito nella sua persona le corone di Scozia e Inghilterra e suo marito avrebbe governato su entrambe le sponde della Manica. Filippo II arrivò addirittura a chiedere in sposa Elisabetta, la quale riuscì ad eludere la richiesta. Sapendo di non potere avere figli, Elisabetta evitò di associarsi al trono un inutile marito, si circondò invece di validi consiglieri e governò per un lunghissimo periodo, trasformando l'Inghilterra in una potenza di prima grandezza. Ella detestava il fanatismo e cercò di evitare il riaccendersi dei contrasti religiosi. Elisabetta orientò il paese verso il protestantesimo e si fece nominare “suprema reggente delle cose sacre e profane” (Legge di supremazia), ristabilendo l'autorità della corona sul clero; inoltre, ripristinò il Book of Common Prayer di Edoardo VI (accentuando la scelta calvinista della Chiesa anglicana, pur ostacolando con fermezza i puritani, ossia le frange più radicali del calvinismo). La maggiore rivale di Elisabetta era Maria Stuart, la sua diretta erede, la quale in Scozia stava cercando di riportare il paese al cattolicesimo. Ma una torbida vicenda di corte, culminata nell'assassinio del secondo marito di Maria Stuart, Lord Darnley, fece precipitare la situazione: i sospetti che la regina fosse complice del delitto divennero certezza quando Maria sposò l'assassino di Darnely, il conte Bothwell, del quale era innamorata. Abbandonata dal popolo e aggredita da una rivolta dei Lords protestanti, nel 1567 Maria fu costretta ad abdicare in favore del figlio Giacomo e riparare in Inghilterra tra le braccia della sua principale nemica, Elisabetta, che la rinchiuse in una prigione dorata. L'Inghilterra elisabettiana Durante il regno di Elisabetta l'Inghilterra si affermò come una delle maggiori potenze. Si verificò allora una fase di notevole crescita economica. L'incremento della produzione tessile stimolò la trasformazione delle colture, l'aumento delle esportazioni provocò quello delle importazioni e con esso un miglioramento dei livelli di vita. La ricchezza del paese si accrebbe anche grazie al bottino delle navi corsare inglesi (Francis Drake). La flotta inglese conquistò le rotte oceaniche. Nello stesso periodo i primi tentativi di fondare colonie in America, benché falliti, aprirono la strada all'espansione dell'Inghilterra in quel continente (nel 1600 venne fondata la Compagnia delle Indie orientali). La guerra tra Spagna e Inghilterra Mentre l'Inghilterra si rafforzava economicamente, si infittivano le trame cattoliche (papato, Spagna) per abbattere Elisabetta a favore di Maria Stuart che, benché prigioniera, era diventata il vessillo della Chiesa cattolica (questi intrighi ebbero una superba eco letteraria nelle tragedie di Shakespeare). I cattolici cercarono anche di attizzare la ribellione 19 dell'Irlanda cattolica, ma gli inglesi risposero con vere e proprie misure di sterminio. Il popolo inglese e la corte chiedevano la morte di Maria Stuart. La scoperta di un'ennesima cospirazione segnò il destino di Maria, processata e condannata a morte. Elisabetta esitò a lungo (l'esecuzione di una regina era un fatto senza precedenti), ma alla fine si piegò: la testa di Maria Stuart rotolò sul patibolo nel 1587. Il popolo di Londra festeggiò, il mondo cattolico ne fece una martire. A questo punto la guerra tra Inghilterra e Spagna divenne inevitabile (1588), ma il disegno di Filippo II fu vanificato dalla sconfitta della sua flotta, l'Invincibile Armata. Il protestantesimo restava saldamente radicato in Inghilterra e nelle Province Unite dei Paesi Bassi. 20 Modulo 5: Crisi e rivoluzioni nel '600 europeo *** sintesi del modulo *** Crisi economiche, guerre e rivoluzioni caratterizzano i decenni centrali del '600 europeo. In economia, la lunga fase di espansione iniziata dopo la metà del XV secolo si interrompe intorno al 1620. L'agricoltura è il primo settore a cedere: i prezzi delle derrate ristagnano, gli investimenti calano, le aree coltivate si restringono, carestie ed epidemie si susseguono. Gran parte della popolazione vede fortemente ridotta la propria capacità di acquisto, e le manifatture entrano in crisi. Infine, la netta diminuzione degli scambi commerciali porta al declino di prestigiose e ricche città del Mediterraneo e del Mare del Nord. Ma le conseguenze non furono le stesse nei vari paesi europei: l'Olanda, l'Inghilterra e la Francia seppero reagire meglio della Spagna e dell'Italia. A partire dal 1610 la guerra scuote il continente: si scontrano in guerre accanite Svezia e Danimarca, Polonia e Russia, Spagna e Ducato di Savoia; nel 1618 la Germania precipita in uno dei più drammatici eventi della sua storia, la guerra dei Trent'anni, nella quale rimangono coinvolti, uno dopo l'altro, direttamente o indirettamente, tutti i maggiori Stati d'Europa, comprese la Spagna e la Francia. Questo conflitto, che si conclude con la pace di Vestfalia, sancì il definitivo crollo del disegno politico e religioso asburgico e la divisione della Germania in una miriade di staterelli autonomi. *** approfondimenti *** 1 Guerre di religione e conflitti tra potenze Tra gli anni '70 del XVI secolo e il 1648, l'Europa fu insanguinata da una serie ininterrotta di guerre di religione. Alla lotta religiosa tra cattolici e protestanti si intrecciò il conflitto tra gli Asburgo (che regnavano sulla Spagna e sull'Impero) e la Francia. I paesi cattolici sostenevano gli Asburgo e quelli protestanti la Francia. Solo nel 1648, con la pace di Vestfalia, si raggiunse l'equilibrio religioso e tramonta definitivamente il sogno degli Asburgo di unificare l'Europa sotto la religione cattolica; mentre l'Impero si frammentava, la Francia diveniva la principale potenza europea. Francia In Francia, il contrasto tra cattolici e protestanti (gli ugonotti) è sempre più profondo e sprofonda in una guerra civile, il cui episodio più grave fu la notte di San Bartolomeo (nel 1572), quando migliaia di ugonotti, convenuti per una cerimonia, furono massacrati da popolani parigini, accanitamente antiprotestanti, sobillati dalle autorità. Il nuovo re Enrico III fu protagonista di un voltafaccia: si alleò con la fazione protestante (capeggiata da Enrico di Borbone) e fece assassinare Enrico di Guisa (capo della fazione cattolica). Dopo essere stato a sua volta pugnalato da un frate domenicano per vendicare Enrico di Guisa, Enrico III, in punto di morte, designò Enrico di Borbone come suo successore, a patto che si convertisse al cattolicesimo. Enrico di Borbone salì al trono come Enrico IV. A quel punto la Spagna di Filippo II mosse guerra alla Francia. La situazione si normalizzò dopo che il re francese si proclamò cattolico (1593) e nel 1598 promulgò l'Editto di Nantes, che sanciva un compromesso tra cattolici e ugonotti (agli ugonotti venivano concessi diritti politici e piena libertà di culto, ad eccezione della città di Parigi; inoltre, agli ugonotti venivano concesse 100 Piazzeforti nel paese). Guerra dei Trent'anni Di fronte alla politica di “tedeschizzazione” e cattolicizzazione perseguita dal Ferdinando, nuovo sovrano di Boemia e Ungheria, il popolo della Boemia si ribellò (1618): una folla invase il Palazzo Reale, gettò dalla finestra due rappresentanti imperiali (defenestrazione di Praga) e proclamo nuovo re il capo dell'Unione evangelica (il calvinista Federico V). Da questo episodio prese avvio la guerra dei trent'anni che avrebbe interessato l'Europa per trent'anni. Ferdinando (poi divenuto imperatore come Ferdinando II) con l'aiuto della Spagna sconfisse i Boemi, attuando in quel paese una dura repressione (massacri ed espulsioni di protestanti). Dopo l'intervento e la sconfitta della Danimarca (del re Cristiano IV) la guerra di Boemia era conclusa (1629). Il progetto dell'Imperatore La decisione di Ferdinando II che si restituissero alla Chiesa cattolica i beni confiscati dopo il 1552 e la pretesa di rendere ereditaria, a favore degli Asburgo, la corona imperiale, preoccupò i principi tedeschi. Intervento della Svezia Allarmato dalla politica di potenza di Ferdinando II, il re di Svezia (che era uno Stato protestante) Gustavo Adolfo intervenne contro la Lega Cattolica. Dopo iniziali successi svedesi, Ferdinando II ottenne la vittoria e concluse la pace con i principi tedeschi. Intervento della Francia Per scongiurare il rafforzamento dell'Impero, la Francia di Luigi XIII e del primo ministro Richelieau intervenne in guerra contro la Spagna, riuscendo a sconfiggerla nella battaglia di Rocroi (1643). Dopo ulteriori successi francesi, il nuovo 21 imperatore Ferdinando III fu costretto a firmare la pace di Vestfalia (1648). Pace di Vestfalia La pace di Vestfalia segnò il definitivo crollo del disegno politico e religioso asburgico di unificare l'Impero sotto il vessillo della religione cristiana e sancì la divisione della Germania in una miriade di staterelli autonomi. Gli Asburgo esercitavano ormai la loro sovranità solo sui domini ereditari di Austria, Boemia e Ungheria, mentre la Francia raggiungeva un'incontrastata egemonia continentale. La guerra dei Trent'anni, che concluse la lunga fase delle guerre di religione, ebbe conseguenze immediate gravissime: molte regioni europee subirono enormi devastazioni, le finanze degli Stati belligeranti furono ridotte allo stremo. 2 Progetti assolutistici e rivoluzioni Stato moderno e monarchie assolute Accentramento e assolutismo costituiscono i due caratteri fondamentali del potere negli Stati moderni. Il rafforzamento dello Stato fu accompagnato dall'elaborazione di nuove teorie, come il concetto di “sovranità”, intesa come potere assoluto del sovrano (J. Bodin: la sovrantià è illimitata e indivisibile, il sovrano fa e impone le leggi, ma è legibus solutus, al di sopra delle leggi; il principe però è vincolato dai patti e dalle promesse che ha fatto), e di “ragion di Stato”, intesa come l'insieme dei mezzi che i governanti possono e devono usare per il mantenimento del potere (G. Botero). L'Inghilterra di Giacomo I Morta senza eredi Elisabetta I, la dinastia Tudor si estinse e sul trono d'Inghilterra salì Giacomo I Stuart (1603-25), figlio di Maria Stuart e re di Scozia. Le due corone di Scozia e di Inghilterra si trovarono unite. Giacomo impose un programma di forte accentramento monarchico, basato sulla riaffermazione dell'autorità della Chiesa anglicana (Elisabetta aveva avuto in materia religiosa un atteggiamento meno fanatico e più moderato), su una forte tassazione, sull'esautorazione degli organismi rappresentativi (la Camera dei Comuni). Inoltre, furono creati tribunali regi che ignoravano le garanzie accordate ai cittadini dalla Magna Charta (documento del 1215 concesso dall'allora sovrano Giovanni Senzaterra, che stabiliva che nessun uomo poteva essere imprigionato senza un regolare processo e anche il divieto per il sovrano di imporre nuove tasse senza il previo consenso del "commune consilium regni"). Tale politica suscitò un forte malcontento che trovò il suo centro nel Parlamento, con cui il re si trovava ripetutamente in contrasto, ricevendo da esso continui rifiuti alle sue richieste di nuove imposizioni fiscali. Sotto Giacomo I ripresero le persecuzioni religiose e a farne le spese furono soprattutto i puritani (protestanti calvinisti che avevano l'obiettivo di purificare la Chiesa anglicana), i quali, in molti casi furono costretti ad emigrare. Un gruppo di essi, a bordo di un vascello chiamato Mayflower, decise di scappare e cercare una nuova terra dove poter professare liberamente il proprio credo e il proprio stile di vita, approdarono così nel Massachussetts, in Nord America (1620): essi verranno poi chiamati Padri Pellegrini, e si fa risalire a loro la fondazione del primo nucleo che diverrà poi gli Stati Uniti d'America. Il progetto di Carlo I Il successore di Giacomo I, Carlo I Stuart (1625-49), sciolse ripetutamente il Parlamento e inasprì lo scontro con esso, finendo per reprimere sistematicamente chi si opponeva alle sue decisioni. Tale atteggiamento, unito agli aumenti delle tasse, allontanò definitivamente il re dalla gentry (piccola e media nobiltà) e dalla borghesia. La lotta contro il puritanesimo portò a una guerra con la Scozia, per far fronte alla quale Carlo I fu costretto a convocare il Parlamento perché approvasse nuove imposizioni fiscali. Il re però sciolse l'assemblea dopo solo un mese (13 aprile 1640, Corto Parlamento), a causa delle forti opposizioni che stava ricevendo. Nel mese di novembre del 1640 il re riconvocò il Parlamento (che rimase in carica fino al 1653: Lungo Parlamento). Carlo I fu costretto a piegarsi e ad approvare una serie di provvedimenti che abolivano i tribunali speciali, vietavano l'imposizione di nuovi tributi senza l'assenso parlamentare e l'arresto dei sudditi senza processo e decretavano la fine delle persecuzioni religiose. Nel 1641 scoppiò in Irlanda una violenta insurrezione di contadini e proprietari cattolici, che massacrarono migliaia di coloni protestanti inglesi e scozzesi: il re fu sospettato di aver fomentato la rivolta. Fu allora presentata la Grande rimostranza, con cui il Parlamento chiedeva per sé il controllo del reclutamento degli eserciti e la nomina dei ministri. Carlo I tentò allora un colpo di Stato irrompendo nel Parlamento con una schiera di armati (1642); i capi dell'opposizione riuscirono a fuggire e la cittadinanza londinese si scatenò in furiose manifestazioni di massa. Carlo I dovette abbandonare la capitale. Era l'inizio della guerra civile. La guerra civile Dalla parte del re si schierarono i cosiddetti “cavalieri”, ovvero i nobili e l'altissima borghesia; i sostenitori del Parlamento erano detti invece “Teste rotonde” (così erano chiamati i puritani per l'uso di portare i capelli corti) e fra essi vi erano i membri della borghesia medio-alta, dei commercianti, dei bottegai, degli artigiani, tutti interessati a un regime di 22 maggiore libertà dal giogo fiscale regio e di maggiore partecipazione politica). Lo scontro ebbe una svolta, allorché si affacciò sulla scena politica e militare il puritano Oliver Cromwell, che riorganizzò le truppe parlamentari nel New Model Army: i soldati eleggevano liberamente i loro ufficiali ed erano oggetto di un indottrinamento politico e religioso di stampo puritano, che li motivava fortemente alla lotta. Carlo I fu sconfitto e fatto prigioniero nelle mani del Parlamento (1647). A questo punto però lo schieramento dei vincitori si divise tra coloro che volevano smantellare la gerarchia anglicana e introdurre un'unica confessione di Stato calvinista (presbiteriani) e l'esercito, appoggiato da Cromwell, che ispirandosi al puritanesimo, chiedeva una generalizzata liberà di culto (gli indipendenti). Cromwell, che fino a quel momento aveva cercato di raggiungere con il Parlamento un compromesso che salvaguardasse l'istituto monarchico, fu accusato di tradimento. Tuttavia, egli riuscì a sconfiggere gli scozzesi (il re era riuscito nel frattempo a scappare e a rifugiarsi in Scozia), occupò Londra ed espulse dal Parlamento il gruppo presbiteriano (Rump Parliament, Parlamento ridotto). Nel gennaio 1649 il re fu processato e condannato a morte. La sentenza venne immediatamente eseguita. Per la prima volta nella storia europea un movimento rivoluzionario ebbe come esito l'eliminazione fisica legalizzata di un sovrano. Nel maggio venne abolita la Camera dei Lords e proclamato il Commonwealth, la Repubblica inglese. Il potere di Cromwell Ottenuto il potere, Cromwell mise a tacere le frange estremiste (levellers e diggers) e ristabilì l'ordine in Irlanda e Scozia. In politica estera, Cromwell riuscì a incrementare la potenza commerciale e coloniale inglese: nel 1651 promulgò l'Atto di navigazione, in base al quale i collegamenti commerciali con l'Inghilterra venivano riservati alle navi inglesi o dei paesi da cui provenivano le merci; inoltre, il commercio con le colonie inglesi d'oltremare era monopolio della madrepatria. In politica interna Cromwell si trovò di fronte a una costante opposizione del Parlamento, che nel 1653 venne disciolto (dopo essere stato in precedenza ulteriormente epurato), mentre Cromwell assumeva il titolo di Lord protettore di Inghilterra, Scozia e Irlanda. Il potere di Cromwell assumeva sempre più i connotati di una dittatura militare, fino al progetto di trasformazione del Protettorato in una vera e propria monarchia ereditaria. Morto Cromwell nel 1658, il figlio Richard assunse il potere, ma dovette lasciarlo dopo pochi mesi in un dilagare di sommosse popolari che annunciavano la fine della Repubblica. Nel maggio 1660 il generale George Monk, con l'approvazione del Parlamento, marciò su Londra e mise sul trono l'erede di Carlo I, Carlo II Stuart (1660-85). La Francia di Luigi XIII e Richieleau Luigi XIII, assunto in pieno il potere (dopo la reggenza di Maria dei Medici), si valse dell'aiuto di Richielieu, che si dedicò con successo alla sottomissione degli ugonotti, alla repressione dei nobili dissidenti e potenziò il ruolo dei funzionari regi; non riuscì però a risolvere il problema delle agitazioni popolari causate dal forte fiscalismo. Mazzarino e la Fronda Alla morte di Richelieu, Mazzarino ne prese il posto e ne proseguì la politica. La prosecuzione della guerra con la Spagna imponeva un forte impegno finanziario cui Mazzarino cercò di far fronte attraverso una riforma del sistema di riscossione delle imposte che suscitò l'opposizione dei Parlamenti, roccaforti della nobiltà di toga. L'opposizione degenerò in aperta rivolta (la Fronda parlamentare, 1648-49), placatasi soltanto dopo l'accettazione delle rivendicazioni parlamentari (poi vanificate da Mazzarino). Nel 1650 prese l'avvio la Fronda dei principi, causata dall'ostilità dell'aristocrazia allo strapotere di Mazzarino, dal successo dei Parlamenti e dalla forte pressione fiscale. Domata la rivolta (1653), Mazzarino, alleatosi con l'Inghilterra di Cromwell, poté riprendere la guerra contro la Spagna che, sconfitta, sottoscrisse nel 1659 la pace dei Pirenei. 23 IV anno (dal 1650 al 1900) Temi Eventi principali Secoli La rivoluzione scientifica • • • • • • Monarchia assoluta (Francia di Luigi XIV) e monarchia costituzionale (Inghilterra) • 1661-1715: Regno di Luigi XIV in Francia • 1688-89: Gloriosa rivoluzione inglese e nascita della monarchia costituzionale (Bill of Rights) XVII Illuminismo e riforme • 1748: Montesquieu pubblica Lo spirito delle leggi • 1751-72: Pubblicazione dell'Enciclopedia di Voltaire, D'Alambert e Diderot • 1762: Rousseau pubblica il contratto sociale • 1764: Cesare Beccaria pubblica Dei delitti e delle pene • 1773: Viene soppresso l'ordine dei gesuiti in Europa XVIII La rivoluzione americana XVIII • 1775-83: Guerra d'Indipendenza americana • 1776: Dichiarazione di indipendenza e nascita degli Stati Uniti d'America • 1787: Costituzione degli Stati Uniti d'America La rivoluzione francese e l'età napoleonica • 1789: Presa della Bastiglia e inizio della rivoluzione francese • 1792: Proclamazione della Repubblica francese. Costituzione democratica e dittatura giacobina • 1797: Repubbliche giacobine in Italia • 1804: Napoleone assume il titolo di imperatore • 1815: Definitiva sconfitta di Napoleone a Waterloo La rivoluzione industriale • • • • 1769: In Inghilterra James Watt brevetta la prima macchina a vapore 1813: In Inghilterra Stephenson perfeziona la locomotiva a vapore 1844: Invenzione negli USA del telegrafo elettrico di Morse 1850-73: Francia e Germania nuove potenze industriali XVIIIXIX L’Europa delle nazioni: dal Congresso di Vienna alla Restaurazione, dai moti insurrezionali al Risorgimento italiano e alla nascita del Reich tedesco • • • • • 1814-15: Congresso di Vienna 1820-21: Insurrezioni in Spagna, Grecia e Italia 1830-31: Insurrezioni nei ducati di Parma e Modena 1831: Fondazione della Giovine Italia in Francia e Italia 1848: Insurrezioni in Francia (Seconda Repubblica), in Italia e nell'Impero d'Austria; in Francia Luigi Bonaparte diventa presidente della Repubblica; pubblicazione in Inghilterra del Manifesto del Partito Comunista XIX L’Italia dall’unità alla fine dell'800 • • • • • • • 1861: Proclamazione del Regno d'Italia 1866: Annessione del Veneto al Regno d'Italia 1870: Annessione del Lazio e di Roma al Regno d'Italia 1861-76: La Destra storica al potere 1876-96: La Sinistra storica al potere 1896: Sconfitta ad Adua nella guerra d'Etiopia 1896-1900: Crisi di fine secolo e uccisione del re Umberto I (1900) XIX-XX 1600: Il tribunale dell'Inquisizione condanna al rogo Giordano Bruno 1610: Galileo pubblica il Sidereus nuncius 1633: Condanna e abiura di Galileo 1651: Hobbes pubblica il Leviatano 1690: Locke pubblica i Due trattati sul governo civile Newton enuncia la legge di gravitazione universale XVII XVIII XIX 24 Modulo 1: La rivoluzione scientifica *** sintesi del modulo *** Nel corso del '600 ha origine quel complesso fenomeno noto come “rivoluzione scientifica”. Le teorie scientifiche proposte da Copernico, Galilei, Keplero, Bacone, Newton propongono infatti una visione e una pratica delle scienze naturali nuove, che scardinano credenze e saperi consolidati. Il '600 è però anche il secolo della riflessione politica, nel corso del quale pensatori come Grozio, Hobbes, Locke elaborano una visione nuova e soprattutto laica del potere e dei fondamenti della politica. Tra le grandi e durevoli conquiste della rivoluzione scientifica vi è l'invenzione e lo sviluppo degli strumenti scientifici per l'osservazione e la misurazione, dal cannocchiale per scoprire l'infinitamente lontano al microscopio per descrivere l'infinitamente piccolo. Qui si incontrarono sapienza teorica e intelligenza pratica in un felice connubio destinato a durare fino a oggi. Ma lo sviluppo tecnologico dovette combattere spesso dure battaglie per affermarsi. La vicenda di Galileo dimostra come non bastasse l'evidenza scientifica a rovesciare le visioni tradizionali del mondo difese dalla Chiesa cattolica. Ma la passione per la ricerca e per le rivelazioni dei nuovi strumenti fu più forte di ogni vincolo e pregiudizio e i grandi stati si fecero un punto d'onore per promuovere le applicazioni in molti campi. *** approfondimenti *** La rivoluzione scientifica La rivoluzione scientifica del '600 portò a una profonda ridefinizione concettuale. La spiegazione eliocentrica distrusse l'idea di un cosmo chiuso e geocentrico; alla visione di una natura creata a misura d'uomo si sovrappose l'immagine di un mondo come enorme macchina messa in moto da Dio; emerse una nuova concezione del progresso come processo mai concluso. Da Galilei a Newton Keplero, dimostrando il carattere ellittico delle orbite dei pianeti, indicò come il mondo terrestre e quello celeste fossero governati dalle stesse leggi. Galilei pervenne attraverso l'uso del telescopio alla conferma sperimentale – che gli costò la persecuzione da parte della Chiesa – del sistema copernicano. Di particolare rilievo fu la concezione galileiana del metodo sperimentale come fondamento della nuova scienza. Questa consapevolezza si diffuse ampiamente: Bacone delineò il nuovo metodo in contrapposizione alla logica aristotelica; Cartesio individuò nella matematica il fondamento dell'indagine della natura. Nuovi orizzonti di ricerca furono aperti dal calcolo infinitesimale e dalla legge di gravitazione universale (Newton). Le nuove concezioni politiche L'età moderna è caratterizzata dall'emergere dello Stato come forma suprema della vita associata. Sul piano del pensiero politico, nel '600 si manifestò anche il tentativo di porre un limite al potere assoluto dello Stato. Il giusnaturalismo fece risalire l'istituzione della società civile a un patto che non annullava il diritto di natura: ne derivò una nuova concezione della sovranità e dei limiti del potere. Per Hobbes, invece, il patto mediante il quale gli uomini escono dallo stato di natura si configurava come accettazione del potere assoluto del sovrano. Diversa la teoria di Locke che, fondata sulla critica dell'assolutismo e sui diritti innati dell'uomo, fu all'origine del liberalismo moderno. 25 Modulo 2: Due modelli di Monarchia (Francia e Inghilterra) *** sintesi del modulo *** Tra la seconda metà del '600 e la prima metà del '700 l'Europa diviene tetro di una serie di guerre determinate dalle ambizioni di alcuni grandi Stati di estendere i propri domini e rafforzare il proprio ruolo internazionale. Protagoniste di questi conflitti sono soprattutto la Francia e l'Inghilterra, non solo in lotta tra loro per la conquista dell'egemonia sul continente e nel mondo, ma anche capaci di trasformare e consolidare le proprie istituzioni, tanto da prospettare due modelli opposti di organizzazione dello Stato, quello “assolutista” francese e quello “costituzionale” inglese. *** approfondimenti *** 1 La Francia: la monarchia assoluta Nel 1661, morto Mazarino, Luigi XIV assunse direttamente il potere. Il suo lunghissimo regno (durato fino al 1715) fu caratterizzato sia dal rafforzamento della monarchia – attraverso l'accentramento dei poteri – sia dal consolidamento dell'egemonia continentale della Francia. L'obbligo imposto alla grande nobiltà di risiedere presso la corte, nella nuova sede di Versailles, sancì l'indebolimento del potere assoluto del sovrano. Luigi XIV accentuò l'intervento dello Stato in materia ecclesiastica (gallicanesimo) e perseguitò giansenisti e ugonotti. I principali centri culturali dei primi, i monasteri di Port-Royal, vennero soppressi. Ai secondi, invece, furono cancellati i diritti riconosciuti dall'Editto di Nantes. L'intervento dello Stato nell'economia, invece, di cui fu artefice soprattutto Colbert, ebbe la più completa realizzazione nel mercantilismo. La politica economica francese, tuttavia, si risolse in un insuccesso. Contemporaneamente venne rafforzato l'esercito come strumento di espansione lungo i confini nord-orientali. 2 L'Inghilterra: la “gloriosa” rivoluzione e la monarchia costituzionale In Inghilterra la restaurazione degli Stuart (1660) fu seguita da un periodo di pacificazione politica e religiosa durato oltre un decennio. Il parlamento, preoccupato per la politica filofrancese di Carlo II e temendo un ritorno all'assolutismo e una restaurazione cattolica, stabilì l'esclusione di tutti i non anglicani dalle cariche pubbliche e definì ulteriormente il diritto di Habeas corpus (l'ordine emesso da un giudice di portare un prigioniero al proprio cospetto, per verificarne le condizioni personali ed evitare una detenzione senza accusa). Sul problema della successione si formarono due opposti schieramenti politici: i tories e i whigs. Nel 1685 salì al trono Giacomo II; presto la sua politica filocattolica gli alienò ogni simpatia. Nel 1688 il Parlamento offrì la corona a Guglielmo d'Orange e alla moglie Maria Stuart. La seconda rivoluzione inglese portò a una monarchia costituzionale fondata sulle prerogative del Parlamento e sui limiti del potere monarchico. 26 Modulo 3: Illuminismo e riforme *** sintesi del modulo *** L'esaltazione della ragione e la critica dei principi di autorità e di tradizione sono alla base dell'Illuminismo, il movimento intellettuale nato in Francia nei decenni centrali del '700, cui si deve una radicale trasformazione delle mentalità dei ceti colti e della stessa idea di cultura. L'Illuminismo è un fenomeno cosmopolita e policentrico, e ad esso aderiscono personaggi e tendenze eterogenei, che condividono l'obiettivo della circolazione delle idee. Sostenitori della centralità politica del ceto intellettuale, gli illuministi si fanno portatori di un progetto riformatore che mira alla modernizzazione dello Stato e al miglioramento della società. Dall'incontro tra le proposte riformatrici degli illuministi e le esigenze dei sovrani di riorganizzare le istituzioni prenderanno forma in molti paesi europei, nella seconda metà del '700, quelle molteplici esperienze note come “assolutismo illuminato”. *** approfondimenti *** 1 I caratteri dell'Illuminismo Nonostante siano presenti nell'Illuminismo orientamenti molto diversi, si possono individuare alcune caratteristiche unificanti: l'esaltazione di un impiego spregiudicato della ragione, la critica al principio di autorità e alle istituzioni politiche e religiose, l'analisi empirica della società legata a un'esigenza riformatrice, la fiducia nel progresso, l'adesione a una religione naturale e razionale. 2 La Francia e gli intellettuali illuministi Che proprio la Francia sia stata il centro dell'Illuminismo si spiega con l'esistenza di un'ampia cultura di opposizione. Due delle figure di maggior rilievo dell'illuminismo francese furono Montesquieu, sostenitore del principio della divisione dei poteri (esecutivo, legislativo, giudiziario), e Voltaire, critico dell'oscurantismo e dei privilegi e fautore di un dispotismo illuminato. La più significativa realizzazione culturale dell'Illuminismo fu l'Enciclopedia, che contribuì potentemente alla diffusione delle nuove idee. In una posizione a sé va collocato Rousseau, per la sua critica della società e del progresso e per la sua analisi dei fondamenti della democrazia diretta. 3 Sovrani e burocrati illuminati Il movimento illuminista fu promotore di un progetto riformatore che mirava alla modernizzazione dello Stato e al raggiungimento della “felicità pubblica”. Questo tentativo di trasformare le istituzioni rappresentò il tratto più significativo della politica interna di molti paesi europei nella seconda metà del '700. protagonisti furono alcuni sovrani, circondati da intellettuali illuministi, che furono di volta in volta consiglieri, collaboratori e critici delle politiche statali. Questa felice congiunzione tra iniziative dei sovrani e programmi degli illuministi aprì una breve stagione, collocata tra gli anni '50 e '80, comunemente definita assolutismo illuminato. 4 La lotta contro i privilegi del clero Nei paesi cattolici il più deciso intervento riformatore investì i poteri della Chiesa e degli ordini religiosi. Furono estesi la giurisdizione e il controllo dello Stato sulla vita e sull'organizzazione ecclesiastica, riducendo drasticamente i privilegi del clero. Gli intellettuali illuministi furono protagonisti di un'accesa polemica contro il parassitismo degli ordini religiosi, che provocò tra l'altro l'espulsione della Compagnia di Gesù da molti paesi europei. 5 La nuova amministrazione statale Un altro grande settore di intervento dell'assolutismo illuminato fu quello amministrativo: le riforme mirarono a rendere più razionale la macchina statale sia ai vertici sia alla base. Allora cominciò a formarsi quella struttura organizzata in dipartimenti o ministeri con cui ancora oggi identifichiamo l'amministrazione pubblica. I sovrani dedicarono particolare attenzione alla riorganizzazione del sistema fiscale: in molti Stati fu avviata l'imponente impresa della redazione di un catasto dei beni terrieri e immobiliari proprio per rendere più efficiente l'imposizione delle tasse. 27 Modulo 4: La rivoluzione americana 1 Le colonie inglesi in Nord America Con l'espressione Rivoluzione americana si intende quel processo che portò, tra il 1763 e il 1787, alla nascita degli Stati Uniti d'America. All'inizio la nuova realtà contava 13 colonie, che poi si sarebbero ribellate al dominio inglese, giungendo ad ottenere l'indipendenza. Il primo insediamento inglese in America risale al 1607, quando un gruppo di coloni si stabilì in un territorio, che in onore della regina Elisabetta, chiamarono Virginia. A questa spedizione mossa da motivi economici, ne seguirono altre, mosse invece da motivazioni religiose. Nella prima metà del Seicento, infatti, il tentativo dei sovrani inglesi (Giacomo I e Carlo I) di reprimere ogni forma di dissidenza religiosa e di imporre a tutti i sudditi l'anglicanesimo, provocò la reazione dei puritani, calvinisti intransigenti che non volevano piegarsi alla Chiesa di stato. Nel 1620 ci fu la più celebre di queste spedizioni per sfuggire alle persecuzioni religiose, ovvero quella dei Padri pellegrini: si trattava di un centinaio di puritani decisi a separarsi dalla Chiesa inglese, i quali dapprima fuggirono in Olanda e poi si imbarcarono per l'America (la nave su cui viaggiarono si chiamava Mayflower), sbarcando nel Massachussetts e fondando la città di New Plymouth. Successivamente, una grande migrazione portò in Massachussetts nel 1630 circa 1500 puritani, i quali diedero vita alle città di Boston e Salem. Nacque così la Nuova Inghilterra (New England), un territorio che comprendeva 4 colonie: Massachussetts, New Hampshire, Connecticut, Rodhe Island. Poco più a Sud c'era un territorio controllato dagli olandesi, il cui centro urbano più importante era chiamato Nuova Amsterdam; passata sotto controllo inglese nel 1664, la città venne ribattezzata New York. La vasta regione centrale venne poi divisa in 4 colonie: New York, New Jersey, Delawere, Pennsylvania (quest'ultima, con capoluogo Filadelfia, venne fondata da emigranti appartenenti alla setta dei quaccheri). Al Sud, infine, nacquero altre 4 colonie: Maryland (per opera dei cattolici), North Carolina, South Carolina, Georgia. Le tredici colonie Colonie Caratteri Virginia Fondata nel 1607, con finalità commerciali Massachussetts, New Hampshire, Connetticut Fondate nel 1620-1630 da puritani, emigrati per motivi religiosi Rhode Island Fondata nel 1636 da Roger Williams. Fu la prima colonia a concedere ampia libertà religiosa ai propri abitanti New York, New Jersey, Delaware Fondate dopo la conquista inglese di Nuova Amsterdam (1664) Pennsylvania Fondata dal quacchero William Penn nel 1681 Maryland, North Carolina, South Carolina, Georgia Colonie meridionali, fondate all'inizio del Settecento (ultima la Georga nel 1732) per la coltivazione del tabacco 2 La conquista dei territori indiani Tra i coloni americani e gli indiani residenti in America si realizzò inizialmente una “precaria simbiosi”. Ognuno dei due gruppi, infatti, aveva trovato presso l'altro beni utilissimi: gli indiani praticavano l'agricoltura, producendo soprattutto mais (molto utile per la sopravvivenza dei primi insediamenti), che i coloni acquistavano in cambio di armi, tessuti e rum. Tuttavia, nel giro di poco l'equilibrio si alterò a danno degli indiani. In primo luogo, gli indiani non avevano difese immunitarie nei confronti delle malattie europee (come il vaiolo), per cui vennero decimati dalle epidemie. In secondo luogo, gli inglesi nel giro di poco non ebbero più bisogno dei rifornimenti alimentari dei campi indiani; mentre questi ultimi si abituarono in fretta all'uso di alcuni prodotti tipicamente europei, come i panni di lana, il rum, gli attrezzi in ferro e le armi da fuoco. Per acquistare i prodotti inglesi, gli indiani furono costretti a procurarsi merci che potessero interessare gli europei, come le pellicce, soprattutto di castoro, che i coloni esportavano in Inghilterra e Olanda. Lo 28 sforzo per procurarsi il maggior quantitativo possibile di pellicce provocò, tra gli indiani, un notevole aumento della conflittualità fra le tribù. Il colpo definitivo venne, infine, inferto dagli europei quando, con l'arrivo di nuovi immigrati (e con il naturale incremento demografico), le terre a disposizione non erano più sufficienti: alla “precaria simbiosi” si sostituì', allora, la guerra di conquista. Gli indiani furono sterminati (soprattutto per opera dei puritani del New England): furono distrutte le case, incendiati i raccolti, uccisi indiscriminatamente uomini, donne e bambini. A tutto questo i coloni fornivano una giustificazione morale: per loro gli indiani erano barbari e selvaggi che adoravano il diavolo. La Precaria simbiosi Fasi Comportamento dei coloni Comportamento degli indiani Prima fase I coloni vendono armi, tessuti e rum Gli indiani vendono generi alimentari Seconda fase I coloni producono i cereali di cui si nutrono e vendono armi, tessuti e rum Gli indiani vendono pellicce e lottano per accaparrarsi il commercio con i bianchi Terza fase I coloni cercano di conquistare le terre degli indiani Gli indiani diventano vittime di una guerra di sterminio 3 La mentalità puritana I puritani della Nuova Inghilterra erano convinti di essere il nuovo popolo di Dio, una comunità di santi, un faro per tutto il mondo cristiano. Tale convinzione era la conseguenza della dottrina calvinista della predestinazione e della rigenerazione. Nel momento in cui una persona scopriva di far parte della schiera degli eletti da Dio, riceveva una forza che raddrizzava il suo valore umano pervertito dal peccato e lo indirizza verso un'osservanza perfetta della Legge di Dio. Chiunque percepisse i precetti divini come un peso o un limite alla propria libertà era considerato dai puritani un dannato. Per questo le autorità imponevano uno stile di vita severo e rigoroso e chi se ne discostava era bandito dalla colonia. Dal punto di vista economico, questo modello si traduceva in un rigido controllo sull'iniziativa individuale, nella convinzione che l'egoismo e la sete di ricchezza privata fossero un segnale di assenza della rigenerazione. Per John Winthrop (primo governatore del Massachussetts) la nuova comunità era una realtà organica come il corpo umano, dove i singoli organi sono distinti, ma coordinati e orientati al bene comune. 4 La caccia alle streghe di Salem In Massachussetts,nella città di Salem, un fiorente centro di scambi marittimi, si verificò nel febbraio 1692 la vicenda della caccia alle streghe. Alcune ragazzine cominciarono a comportarsi in modo stravagante (una di esse, Abigail Williams, si metteva a correre per la casa, emetteva suoni sibilanti ecc.) e ad accusare sintomi di vario tipo (fino all'irrigidimento degli arti e alle convulsioni). Le ragazze accusarono altre persone di essere la causa dei loro comportamenti e di essere vittime di un maleficio diabolico. Partì così una vasta caccia alle streghe che portò alla forca 19 persone. I sostenitori della necessità di procedere senza pietà appartenevano al gruppo sociale che guardava con perplessità ai ricchi mercanti di Salem e temeva che la vita comunitaria stava per essere distrutta dal prorompente egoismo di coloro che anteponevano il proprio interesse privato all'armonico ed equilibrato sviluppo di tutta la comunità. (Questo episodio non sembra essere in linea con le teorie di Weber sul rapporto tra calvinismo e progresso economico). 5 Lo sviluppo demografico ed economico delle colonie Nelle colonie settentrionali l'economia era basata sulla coltivazione dei cereali nei villaggi rurali (aziende agricole di piccola o media grandezza) e soprattutto sull'industria cantieristica nei centri urbani della costa (Boston): vi si produceva circa il 50% dell'intera flotta britannica. Nelle colonie del Sud invece l'economia era basata sulle piantagioni (tabacco, riso, cotone) fondate sulla grande proprietà e sul lavoro degli schiavi. Al Centro l'economia era simile a quella delle colonie del Nord, come con una maggiore presenza del latifondismo. Le colonie attiravano emigranti e aumentarono vertiginosamente la propria popolazione. Solo una parte dei nuovi arrivati proveniva dall'Inghilterra (vi emigrarono anche tedeschi di fede luterana, irlandesi protestanti). Gli emigrati non avevano neppure di che pagarsi il viaggio e spesso venivano ingannati con promesse di facili fortune dai reclutatori di manodopera. Molti morivano già durante la traversata in mare. Una volta giunti in America, li attendeva una vita di servitù e di duro lavoro; per riscattare le spese di trasporto, infatti, i capitani delle navi vendevano gli emigranti ai grandi proprietari, presso i quali i nuovi arrivati dovevano lavorare in qualità di servi per un periodo che, in genere, era di 29 quattro anni. Il servo bianco riusciva, nel giro di alcuni anni, a diventare libero, ma pochi di loro erano in grado di inserirsi nella società, gli altri o morivano nel periodo di lavoro servile oppure diventavano mendicanti. 6 Gli schiavi neri Nel Settecento in America arrivavano circa 10-20000 schiavi neri ogni anno. I mercanti europei li acquistavano dai sovrani neri dei grandi regni dell'Africa costiera, i quali li catturavano nelle regioni dell'entroterra. In cambio degli uomini da trasferire oltre l'Atlantico, i trafficanti bianchi offrivano armi da fuoco, manufatti e rum, ogni barile del quale permetteva l'acquisto di un singolo schiavo. Molti di questi schiavi, soprattutto nei primi anni della tratta, morivano durante il viaggio, a causa delle epidemie che scoppiavano nella nave, dove tanti uomini erano stipati in uno stesso luogo chiuso e sporco. Gli schiavi neri furono impiegati in gran numero nelle grandi piantagioni del Sud (tabacco, riso e più tardi cotone), ma scarsamente nelle colonie del Nord, soprattutto per l'ostilità degli artigiani e dei contadini bianchi, che vedevano nella manodopera servile un pericoloso concorrente. Attività economica delle colonie Principale attività economica Limitazioni poste dall'Inghilterra Colonie del Sud Produzione di tabacco in piantagioni lavorate dagli schiavi Obbligo di vendere solo all'Inghilterra. Obbligo di comprare solo manufatti inglesi Colonie del Nord Esportazione di pellicce e di legname. Fabbricazione di navi Obbligo di vendere solo all'Inghilterra. Divieto di impiantare industrie capaci di far concorrenza a quelle inglesi 7 I rapporti economici con l'Inghilterra I coloni si sentivano a pieno titolo sudditi del re d'Inghilterra, ma una serie di provvedimenti emanati dal Parlamento inasprì progressivamente in rapporti fra la comunità americana e la Gran Bretagna, fino alla scelta della ribellione aperta da parte dei coloni. Già nel XVII secolo (Cromwell) il governo inglese aveva ordinato che le colonie potevano vendere solo all'Inghilterra le merci più pregiate e preziose, come lo zucchero e il tabacco, ma nel Settecento, l'elenco di tali prodotti controllati si allungò, giungendo a comprendere le pelli, il legname e il ferro. Si trattava di misure finalizzate a proteggere l'economia inglese, garantendo a prezzi contenuti l'importazione di alcune merci essenziali alla produzione manifatturiera britannica. Analogo scopo protettivo avevano le leggi che impedivano alle colonie di impiantare un'industria tessile capace di far concorrenza a quella inglese (in seguito fu addirittura impedita l'emigrazione oltreoceano di artigiani e tecnici specializzati inglesi, vietata la fabbricazione di cappelli in America e proibita l'edificazione di impianti per la produzione di manufatti in ferro). Le colonie erano concepite come una fonte di materie prime ed un mercato capace di sostenere la produzione manifatturiera britannica. La bilancia commerciale delle colonie era costantemente in deficit, poiché le esportazioni (di navi, cereali, pellicce) non erano in grado da sole di equilibrare le importazioni. 8 La svolta del 1764-1765 Nella prima metà del Settecento, nessuno dei coloni pensava a staccarsi dalla madrepatria. Tutti sentivano il legame con l'Inghilterra come essenziale per impedire che le colonie fossero conquistate dalla Francia, che era riuscita a imporre la propria presenza nel Canada. Nel 1756, in Europa, esplose la Guerra dei sette anni, che vide Francia, Austria e Russia contrapposte a Inghilterra e Prussia. Sebbene fosse uscita vittoriosa dal conflitto (rimanendo praticamente la sola padrona del Nord America), l'Inghilterra si trovò, a causa del conflitto, in gravi difficoltà finanziarie, acuite dal fatto che ora occorreva aumentare la presenza militare inglese nelle colonie. Si fece strada l'idea che fosse necessaria una riorganizzazione amministrativa e fiscale dell'Impero. Fu così promulgato nel 1764 lo Sugar Act, che impose dazi su numerosi prodotti che le colonie dovevano importare dall'estero (caffè, zucchero, tessuti, vino) e nel 1765 lo Stamp Act, che imponeva una tassa su documenti legali e giornali. Queste nuove tasse furono accolte dai coloni come ingiuste e insopportabili soprusi. Per la prima volta, infatti, il Parlamento si arrogava il diritto di legiferare per i coloni d'America, ignorando le loro autonomie e le loro assemblee legislative. La posizione del Parlamento inglese e quella delle colonie americane 30 Posizione politica Conseguenza pratica Parlamento di Londra Subordinazione delle colonie all'autorità del Parlamento Diritto del Parlamento londinese ad imporre tasse alle colonie Colonie Fedeltà diretta al re, non al Rivendicazione di autonomia Parlamento (in cui i coloni non amministrativa e fiscale hanno propri rappresentanti) 9 La protesta americana e la reazione inglese Nel 1766 il Parlamento inglese abolì lo Stamp Act, ma allo stesso tempo fece una solenne Dichiarazione (Declaratory Act) con cui affermava di avere il diritto di legiferare per le colonie. I coloni reagirono affermando che, secondo il diritto inglese, non è lecito imporre ai cittadini tasse “se non con il loro consenso, dato personalmente o da loro rappresentanti”. Il Parlamento di Londra aveva violato questo elementare principio, visto che i coloni non avevano propri rappresentanti in quell'assemblea (“No taxation, without representation”). 10 La proclamazione dell'indipendenza A partire dal 1769-1770 i coloni cominciarono a fabbricare in America manufatti proibiti (es. tessuti) e a boicottare i beni provenienti dalla madrepatria. Boston, nel Massachussetts, divenne l'epicentro della protesta, e fu proprio qui che, il 16 dicembre 1773, in segno di protesta contro le nuove imposte sui beni importati, venne gettato a mare l'intero carico di tè di una nave della Compagnia delle Indie, che aveva ottenuto dal Parlamento di Londra il monopolio della vendita di tè sul mercato americano. Nel 1774 si tenne a Filadelfia il Primo Congresso continentale, che elaborò una Dichiarazione dei diritti delle colonie. Nel 1775 il governo inglese invio in America l'esercito e la flotta, mentre il Secondo Congresso continentale affidava al generale George Washington il comando dell'esercito. La formale Dichiarazione di indipendenza, scritta da Thomas Jefferson, fu firmata all'unanimità dai delegati al Congresso di Filadelfia il 4 luglio 1776. Questo documento si ispirava alla teoria contrattualista di John Locke, secondo la quale esistono diritti inalienabili (come la vita, la libertà, la ricerca della felicità) il cui pieno esercizio il governo deve garantire ed è legittima la rivolta nei confronti di quei governi che si comportino in modo tirannico. 11 La vittoria delle colonie La guerra di indipendenza delle colonie inglesi contro la madrepatria durò quasi otto anni, dal 1775 al 1783. Inizialmente l'esercito inglese poté far valere la propria superiorità tecnica, ma col passare degli anni le difficoltà di rifornimento divennero insostenibili. Nel 1778, dopo che l'esercito americano era riuscito ad ottenere la significativa vittoria di Saratoga, anche la Francia entrò in guerra, con l'obiettivo di rimettere in discussione l'egemonia britannica in America del Nord. In seguito, a fianco delle colonie, intervennero anche la Spagna e l'Olanda. Nel 1781 la vittoria decisiva di Yorktown costrinse gli inglesi alla resa. La pace venne ufficialmente firmata a Parigi il 3 settembre 1783. La Francia ottenne basi in Senegal e alcune isole delle Antille, la Spagna ottenne la Florida e Minorca. Le colonie inglesi erano formalmente indipendenti. 12 La Costituzione del 1787 Nel 1787 venne convocata a Filadelfia una Convenzione per elaborare una nuova Costituzione. Il potere legislativo venne conferito ad un Congresso e quello esecutivo ad un Presidente. Il Congresso venne articolato in un Senato e in una Camera dei Rappresentanti. A differenza del modello parlamentare inglese, il potere esecutivo non era assegnato ad un governo che doveva godere della fiducia del Parlamento, bensì al Presidente eletto dal popolo ogni quattro anni. Il Presidente nominava il governo ed i giudici alla Suprema Corte, che restavano in carica a vita. Oltre ad esercitare il potere esecutivo, egli era dotato anche di un parziale diritto di veto, cioè poteva rifiutarsi di firmare i progetti di legge già approvati dal Congresso e rinviarli ad esso per un'ulteriore discussione. La Costituzione era scritta e rigida (non poteva essere modificata con una legge ordinaria) e la Corte Suprema rappresentava il massimo organo che vigilava sulla costituzionalità di ogni legge. 13 Il problema della schiavitù Alla fine del Settecento, gli Stati Uniti erano lo stato più libero del mondo e quello in cui la democrazia era più vicina a 31 trasformarsi in realtà effettiva. Rimaneva tuttavia il problema della schiavitù. La Costituzione lasciava ogni singolo stato libero di decidere se adottare o meno la schiavitù, che rimase una caratteristica fondamentale della società americana fino alla metà dell'Ottocento. La contraddizione tra affermazioni di principio e realtà effettiva nella Costituzione del 1787 Affermazione di principio Realtà effettiva Giustificazione della contraddizione Tutti gli uomini sono dotati di uguali diritti Presenza della schiavitù Razzismo: i neri non sono esseri umani a pieno titolo 32 Modulo 5: La rivoluzione francese e l'età napoleonica 1 Un paese prevalentemente agricolo Nel 1774, all’età di vent’anni, Luigi XVI divenne re di Francia. Intorno al 1780, la Francia era in piena espansione economica e l’80% della popolazione era composto di contadini. I grandi proprietari terrieri, soprattutto nobili, erano gli unici che riuscivano a trarre ricchezza dalla campagna, con la vendita dei loro prodotti; la maggior parte della popolazione, invece, non produceva per il mercato, ma per il consumo personale. I contadini francesi Consistenza numerica Accesso alla proprietà Capacità produttiva terriera Costituiscono l’80% della Possiedono poderi di piccole Producono per la propria popolazione globale dimensioni sussistenza, non per il mercato 2 Una società basata sul privilegio Il regno di Francia era una monarchia assoluta: il sovrano non divideva il potere con nessuna istituzione. L’Assemblea degli Stati Generali, che veniva convocata solo per approvare l’introduzione di nuove tasse, non funzionava più dal 1614. L’espressione Assemblea degli Stati Generali derivava dal fatto che essa radunava i rappresentanti dei tre ordini o stati: il clero, la nobiltà e il Terzo stato (coloro che lavorano). Si trattava di una società piramidale, organizzata in modo diseguale e gerarchico, dove due gruppi godevano di grandi privilegi, mentre la larga base formata dal Terzo stato era priva di qualsiasi vantaggio. La società contemporanea è articolata in classi sociali e non in stati. Sotto questo profilo essa è figlia della Rivoluzione francese, il cui lascito più duraturo è proprio la cancellazione della società strutturata per ordini e la sua sostituzione con una società articolati per classi sociali. Una classe sociale è, in effetti, un gruppo della società i cui membri hanno in comune un determinato livello, più o meno elevato, di ricchezza, che può aumentare o diminuire. Uno stato, al contrario, è una categoria che raggruppa individui caratterizzati dal fatto di possedere (clero e nobiltà), oppure di non possedere (Terzo stato) determinati privilegi. Così il grande mercante e il povero contadino appartenevano entrambi al Terzo stato, mentre l’arcivescovo di una grande città e il semplice sacerdote all’ordine del clero. Ancien Régime e società moderna a confronto Ancien Régime (società strutturata per Società moderna (società strutturata per ordini) classi) Alcuni sudditi godono di privilegi specifici, Tra i cittadini esistono notevoli differenze negati agli altri quanto alla ricchezza posseduta I sudditi sono trattati dallo stato in modi diversi, I cittadini sono tutti uguali davanti allo stato: a seconda dell’ordine in cui si trovano possiedono uguali diritti ed uguali doveri Ogni ordine comprende individui diversissimi Una classe sociale comprende individui che tra loro quanto a ricchezza posseduta possiedono un’analoga quantità di richezza 3 I gruppi privilegiati La popolazione intorno al 1780 Stati Numero di persone Clero 150 000 Nobiltà 350 000 Terzo Stato 24 500 000 Il principale privilegio del clero era l’esonero dal pagamento di imposte sulle proprietà fondiarie; inoltre ogni francese doveva versare ogni anno al proprio parroco una parte del proprio reddito (decima). 33 Anche la nobiltà aveva il privilegio di non pagare imposte sulla terra3. Un secondo privilegio era legato alla modalità di trasmissione ereditaria dei patrimoni: per evitare che le grandi tenute fossero spezzate la proprietà era trasferita integralmente al maschio primogenito, il quale a sua volta si impegnava a non venderne nessuna porzione. Si poneva il problema per i figli che restavano privi di eredità (cadetti), ai quali erano quindi riservate importanti carriere nel servizio militare (o amministrazione dello stato) o nel mondo ecclesiastico: tutti i vescovi e abati dei principali monasteri francesi (alto clero) erano di origine nobiliare, così come tutte le più alte cariche dell’esercito e dello stato. L’aristocrazia godeva di un altro notevole vantaggio (anche questo di origine medievale): la signoria bannale. Si trattava di un potere giurisdizionale esercitato da grandi possessori terrieri anche su persone e beni non appartenenti al proprio patrimonio fondiario. In pratica tutti i contadini della zona finivano per essere servitori del nobile ed erano obbligati a versare tributi in denaro, in cambio dei quali potevano utilizzare alcuni strumenti essenziali di cui il signore deteneva il monopolio (torchio per il vino, forno, mulino). Nessuno poi poteva vendere il vino se prima il signore non aveva venduto tutto il proprio, o far figliare animali senza ricorrere al toro o al verro (maiale da riproduzione) del signore. Infine il signore, in casi eccezionali, poteva anche richiedere una tassa straordinaria (detta taglia). Nel Settecento, però, questi privilegi dei nobili trovano un certo limite nella monarchia assoluta, la quale si arroga tutti i poteri politici e giudiziari, pertanto il re era una figura amatissima dai sudditi, che guardavano al sovrano come al loro protettore dagli abusi dei signori locali. Gli ordini privilegiati Privilegi del clero Sacerdoti e religiosi non pagano imposte sulla proprietà fondiaria e percepiscono decimi dai fedeli Privilegi della I nobili non pagano imposte sulla proprietà fondiaria, hanno il monopolio nobiltà delle cariche più prestigiose (civili, militari, ecclesiastiche) e percepiscono tributi dai contadini 4 La convocazione degli Stati Generali Nel 1786 gravava sulla Francia un pesantissimo deficit economico dovuto al dispendio di risorse per l’appoggio alle colonie americane nella loro guerra di indipendenza contro l’Inghilterra. Per colmare il pesantissimo deficit era necessario procedere ad una riforma fiscale che colpisse tutte le terre senza eccezione (anche quelle dei ceti privilegiati). Con l’obiettivo di opporsi a questi tentativi di riforma (tra il 1774 e il 1788 quattro ministri delle finanze vi si cimentarono: Turgot, Necker, Calonne, Lomenie de Brienne), gli aristocratici pretesero e ottennero che il sovrano convocasse gli Stati Generali. L’8 agosto 1788, il re accettò di convocare gli Stati Generali. Benché questa convocazione fosse richiesta dalla nobiltà, ben presto il processo le sfuggì di mano e l’iniziativa passò alla borghesia, che faceva parte del Terzo stato. 5 Il Terzo stato Il Terzo stato comprendeva l’insieme di tutti coloro che non erano né sacerdoti, né aristocratici, ovvero il 98% della popolazione. La grande maggioranza era composta da contadini più o meno poveri, ma vi erano anche grandi mercanti, imprenditori e artigiani, liberi professionisti colti (avvocati, notai, medici…) e semplici garzoni di bottega. Tutti accomunati dal non godere alcun privilegio, ovvero dal dover versare tutte le imposte che lo stato chiedeva loro e pertanto nutriti da un certo rancore nei confronti dei gruppi privilegiati. Non appena il sovrano ebbe convocato gli Stati Generali, nelle principali città francesi sorse un grande movimento d’opinione, per chiedere che il numero dei delegati del Terzo stato fosse doppio rispetto a quello dei nobili e del clero (fino al 1641 ogni gruppo mandava a Parigi un egual numero di delegati). Luigi XVI accolse la richiesta di raddoppiamento, pensando così di limitare la forza dell’aristocrazia. 6 L’Assemblea nazionale Nella fase preparatoria, durante la quale dovevano essere eletti i rappresentanti del Terzo stato, si tennero animati dibattiti nel corso dei quali i francesi potevano elencare i motivi del loro malcontento ed esporre al re le loro rimostranze nei cahiers de doléances. 3 Tale privilegio aveva la sua origine nella cavalleria feudale medievale: il feudo non era di proprietà del cavaliere, ma concesso per armarsi e servire il padrone. In seguito il feudo divenne a pieno titolo proprietà del cavaliere che poteva trasmetterlo in eredità 34 Il 5 maggio 1789, Luigi XVI aprì i lavori degli Stati Generali a Versailles: vi erano 561 deputati del Primo (291) e Secondo stato (270), contro i 578 del Terzo stato. Tra i deputati del Terzo stato non c’era alcun rappresentate dei contadini, artigiani e operai; vi erano invece banchieri, ricchi commercianti, imprenditori, grossi proprietari terrieri e avvocati (il gruppo più numeroso). Una simile situazione non garantiva ancora un vantaggio politico del Terzo stato, perché le votazioni erano tradizionalmente effettuate per ordine, e in genere nobili e clero votavano congiuntamente, visto che avevano interessi comuni. I deputati del Terzo stato (ispirati da Sieyès, autore del libro Che cos’è il Terzo stato?) richiesero allora che la votazione avvenisse per testa, in un’unica camera. Il re tuttavia non acconsentì e anche i nobili rifiutarono nettamente di discutere la questione. I deputati del Terzo stato allora decisero di passare all’offensiva: il 17 giugno 1789 dichiararono che, da soli, essi rappresentavano l’intera nazione (anche qui ispirati dalle idee di Sieyès) e decisero di definire se stessi “Assemblea nazionale”. La sala in cui questa Assemblea nazionale doveva riunirsi venne subito chiusa, così il giorno 20 giugno i deputati del Terzo stato si riunirono in una palestra in cui si giocava un gioco simile al tennis, la pallacorda, e pronunciarono un solenne giuramento: non limitandosi più a chiedere il voto per testa, si impegnarono a non separarsi fino a quando non fossero riusciti a dare alla Francia una nuova Costituzione. Le rivendicazioni del Terzo stato furono appoggiate anche da alcuni membri degli altri due ordini: la maggioranza dei deputati del clero e una cinquantina di nobili si unirono all’Assemblea nazionale. Il 27 giugno, Luigi XVI decise di scendere a patti e invitò tutti i delegati ad unirsi al Terzo stato, per deliberare in seduta congiunta. 7 La presa della Bastiglia e la rivolta contadina Il re, tuttavia, non aveva ancora accettato pienamente la sconfitta e il 14 luglio ordinò ad alcuni reggimenti fedeli di marciare su Parigi per restaurare l’ordine, dopo che nella capitale la popolazione affamate si era ribellata per protestare contro l’aumento del prezzo del pane. Quando si diffuse la voce che truppe fedeli al re stavano marciando su Parigi, la città esplose in un grande tumulto e una folla di manifestanti diede l’assalto alla Bastiglia, la grande fortezza-prigione in cui venivano rinchiusi i nemici del re. La folla irruppe nella fortezza, uccise il comandante e ne portò la testa in giro per Parigi. Negli stessi giorni, anche nelle campagne scoppiarono gravi disordini: gli insorti attaccavano i castelli dei nobili e bruciavano gli archivi in cui i signori conservavano memoria dei diritti feudali. In altre regioni si diffuse il fenomeno della “Grande Paura”: i contadini si armavano per respingere dei briganti immaginari, ritenendo che vi fosse in atto una congiura dei nobili con la complicità di poveri e vagabondi, e se la prendevano con gli intendenti, gli esattori, i funzionari reali, ecc., oppure assaltavano e bruciavano i castelli, spesso uccidendo gli occupati. Nella notte fra il 4 e il 5 agosto 1789 l’Assemblea nazionale decise di venire incontro ad alcune delle rivendicazioni dei contadini: i diritti sulle persone e sulle decime vennero soppressi senza riscatto, i diritti reali (cioè sulle cose) vennero aboliti con riscatto; inoltre gli impieghi pubblici furono aperti a tutti i cittadini. Questi provvedimenti significavano la fine dell’Ancien Régime, ovvero la cancellazione della tradizionale società trinitaria basata sul privilegio. 8 La dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino Il 26 agosto 1789, l’Assemblea nazionale, incaricata di stendere la nuova Costituzione, ne approvò il prologo, ovvero la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, in cui venivano espressi i concetti di libertà e di uguaglianza. L’Art. 1 afferma che gli uomini nascono liberi e uguali nei diritti; l’Art. 6 afferma che tutti i cittadini devono essere uguali di fronte alla Legge; l’Art. 17 definisce la proprietà un diritto inalienabile4. 9 L’attività legislativa dell’Assemblea costituente Il 6 ottobre 1789, un’immensa folla di popolani parigini obbligò il re a trasferirsi da Versailles a Parigi; anche l’Assemblea nazionale si trasferì nella capitale. Il principale problema che l’Assemblea doveva affrontare era quello finanziario (che aveva causato la convocazione degli Stati Generali). Il 2 novembre 1789 venne presa la decisione di confiscare e nazionalizzare tutte le terre del clero; il 13 febbraio 1790 si ordinò lo scioglimento di tutti gli ordini religiosi non dediti all’assistenza o all’insegnamento e il 12 luglio fu approvata la Costituzione civile del clero, che sottoponeva l’attività dei sacerdoti al controllo statale e 4 Avvenimenti, Dichiarazioni e opere che hanno preceduto e ispirato la Dichiarazione francese: la Seconda Rivoluzione inglese (1688-89); il Trattato sul governo di Locke (1690); la Dichiarazone di indipendenza degli Stati Uniti d’America (1776). 35 istituiva l’elezione dei parroci e vescovi. I membri del clero furono obbligati a giurare fedeltà a tale Costituzione. Il papa si pronunciò pubblicamente contro i nuovi provvedimenti. Solo sette vescovi giurarono fedeltà al nuovo stato rivoluzionario, mentre nel basso clero circa la metà dei sacerdoti aderirono e furono chiamati preti giurati o costituzionali, gli altri vennero detti preti refrattari. 10 La Costituzione del 1791 e la nascita della monarchia costituzionale Nel giugno 1791, il re cercò di fuggire all’estero, ma non vi riuscì e Il 13 settembre fu costretto ad accettare la nuova Costituzione elaborata dall’Assemblea. Essa prevedeva tra le altre cose: 1) la separazione dei poteri (dottrina ispirata da Locke e Montesquieu), il potere legislativo ad un’unica Camera, quello esecutivo al re e al governo, quello giudiziario a un corpo di magistrati eletti dal popolo; 2) l’abolizione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle minoranze religiose. Nonostante questi elementi di continuità con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, vi erano anche elementi di contraddizione, come la negazione del diritto di voto ai non abbienti (sistema elettorale basato sul censo) e il mantenimento della condizione di schiavitù nelle colonie francesi. Per contrastare questa impostazione non democratica (sistema censitario) a Parigi sorsero numerose associazioni politiche (club), come i giacobini di Maximilien Robespierre e i cordiglieri di Georges Danton e Jean-Paul Marat. Inoltre la nuova Costituzione trovò l’opposizione di alcune donne colte, sostenitrici dell’eguaglianza fra i sessi, fra le quali si distinse soprattutto Olympe de Gouges (poi ghigliottinata). 11 L’inizio della guerra Gli eventi della Rivoluzione francese misero in apprensione i sovrani europei. Fu, tuttavia, la Francia stessa ad aprire le ostilità con l’imperatore d’Austria, presso il quale si era rifugiata la maggio parte dei nobili emigrati (i più accesi sostenitori della guerra erano i girondini, mentre Robespierre e i giacobini tentarono inutilmente di opporvisi). La dichiarazione di guerra fu approvata il 20 aprile 1792. Il re, fin dal luglio 1791, in una lettera indirizzata a suo cognato, l’imperatore d’Austria Leopoldo II, aveva dichiarato che si considerava “prigioniero a Parigi” e sperava in una pesante sconfitta militare che avrebbe riportato l’ordine in Francia, schiacciando definitivamente la Rivoluzione. 12 Il colpo di stato del 10 agosto 1792 Il 10 agosto 1792, al municipio di Parigi, la vecchia amministrazione venne sostituita da una nuova municipalità, denominata Comune. Si trattava di un organismo istituzionale finalizzato a difendere Parigi da ogni pericolo controrivoluzionario (dei nobili, del re o dei nemici stranieri). La Comune era sostenuta soprattutto dai sanculotti (sans culottes, senza brache), ovvero popolani così chiamati perché non indossavano i raffinati pantaloni e le pregiate calze di seta, tipiche dell’abbigliamento di ricchi e nobili. La maggioranza dei sanculotti era formata da bottegai, artigiani e commercianti, che non erano poveri, ma erano esclusi dal pieno godimento dei diritti elettorali e quindi erano scontenti della Costituzione del 1791. Il 10 agosto 1792 i sanculotti diedero l’assalto al palazzo delle Tuileries, dove risiedeva la famiglia reale5. Luigi XVI fu catturato e portato di fronte all’Assemblea legislativa, la quale decretò la sospensione della monarchia e indisse nuove elezioni a suffragio universale maschile: la Francia divenne una Repubblica. Al fronte, intanto, la situazione si fece drammatica dopo la caduta di Verdun (nella Francia nord-orientale), l’ultima piazzaforte che separava i prussiani da Parigi. La Comune fu costretta a organizzare in fretta un’armata di 30 000 parigini. Il 20 settembre, l’esercito francese si scontrò con i prussiani a Valmy, riuscendo a bloccare il nemico e a scongiurare l’offensiva su Parigi. Il 21 settembre 1792 si riunì un’assemblea di deputati eletti a suffragio universale; il nuovo organismo fu chiamato Convenzione e aveva l’incarico di stabilire una nuova Costituzione (dopo la deposizione del re e la proclamazione della Repubblica). 13 Il processo e l’esecuzione del re Alla Convenzione si formarono tre schieramenti: 1) i girondini, che condannavano l’assolutismo monarchico, ma diffidavano anche dei sanculotti e volevano trasformare la Francia in un paese moderno; 2) i 5 All’assalto si associò anche un reparto di volontari venuti da Marsiglia, i quali diffusero un nuovo inno militare, la Marsigliese, destinato a diventare il simbolo della resistenza rivoluzionaria 36 giacobini, guidati da Robespierre e da Louis Antoine de Saint-Just, i quali ritenevano indispensabile il contributo dei sanculotti per la causa rivoluzionaria; questi insieme ad altri deputati ancora più vicini ai sanculotti sedevano nelle tribune più alte e per questo vennero detti montagnardi; 3) il terzo raggruppamento, la maggioranza dei parlamentari, era detto la Pianura o la Palude, poiché non era apertamente schierato né coi girondini né coi giacobini. Robespierre e Saint-Just ritenevano che Luigi XVI dovesse essere immediatamente giustiziato; invece la maggioranza dei parlamentari ritenne di dover procedere ad un processo, che servisse anche come insegnamento solenne al popolo francese. Il 14 gennaio 1793 venne emessa la sentenza di morte, eseguita il 21 gennaio. L’esecuzione di Luigi XVI destò grande scalpore in tutta Europa. 14 La rivolta della Vandea Dopo il successo di Valmy, la situazione militare era completamente mutata: i francesi erano riusciti ad invadere il Belgio e la Savoia, che vennero annessi alla Repubblica. A quel punto l’Inghilterra decise di aderire alla grande coalizione anti-francese e dichiarò guerra alla Francia il 1° febbraio 1793, insieme a Olanda e Spagna. Ciò costrinse la Francia a decretare la leva di 300 000 uomini, provocando proteste e tumulti (rivolta della Vandea)6. 15 La costituzione democratica Nella primavera del 1793, la situazione militare divenne difficile e a Parigi i sanculotti accusarono i girondini di non appoggiare con sufficiente energia la guerra contro i nemici della nazione, per questo chiesero e ottennero l’arresto dei deputati della Gironda (l’iniziativa era partita dai sanculotti e non da Robespierre). Il 24 giugno 1793 venne approvata la nuova Costituzione. Essa introduceva il suffragio universale, fissava il principio dell’istruzione e dell’occupazione per tutti e promuoveva l’assistenza per gli anziani. La proprietà non era messa in discussione. 16 Il maximum e il Terrore I sanculotti più radicali non erano pienamente soddisfatti dalla Costituzione del giugno 1793. Questi chiedevano il cosiddetto maximum, cioè la fissazione di un tetto massimo dei prezzi. Tale provvedimento venne effettivamente approvato il 29 settembre 1793. A partire dal settembre 1793 in Francia prese avvio il periodo del cosiddetto Terrore, che trovò i suoi principali strumenti nel Comitato di salute pubblica e nel Tribunale rivoluzionario, che intentò processi sommari e rapide esecuzioni per tutti coloro che venivano giudicati, a toro o a ragione, nemici della Rivoluzione e cospiratori. Uno dei principali capi della rivolta dei sanculotti che provocò la sconfitta dei girondini e che sfociò in una brutale violenza nei mesi successivi era il giornalista Jean-Paul Marat. Il 13 luglio 1793, Marat venne assassinato (pugnalato nel suo bagno da una giovane donna di nome Charlotte Corday). Il suo posto alla guida dei cordiglieri e dei sanculotti venne assunto da René Hébert. Nel marzo del 1794 Robespierre e gli altri membri del Comitato di salute pubblica decisero di arrestare e processare Hébert e altri capi dei sanculotti (finiva così il dualismo dei poteri tra Comune e Convenzione). Nella primavera-estate del 1794 il Terrore raggiunse il suo culmine (1285 condanne). A tale situazione di Terrore si oppose Danton, ma fu accusato, dal Comitato, di complotto controrivoluzionario, e ucciso nell’aprile 17947. 17 La politica di scristianizzazione Prima di sciogliersi ed essere sostituita dalla Convenzione, l’Assemblea legislativa approvò, il 20 settembre 6 Il 10 marzo 1793 seicento paesi della Vandea insorsero contro le truppe della Repubblica e diedero vita a un tragico periodo di guerra civile che durò alcuni anni. La repressione dell’esercito repubblicano fu durissima e provocò la morte di 250 000 vandeani (un terzo dell’intera popolazione). 7 La ghigliottina era lo strumento simbolo del Terrore. Essa prese il nome del deputato Guillotin che propose che la pena capitale avvenisse in modo uguale per tutti per mezzo della decapitazione ed entrò ufficialmente in funzione nel 1792. Si trattava di una pena capitale illuminista per eccellenza, in quanto otteneva il proprio scopo nel modo più razionale, senza infliggere al condannato inutili e prolungate sofferenze. Inoltre si trattava anche di una esecuzione spettacolare, capace di intimorire e impressionare il pubblico e allo stesso tempo di entusiasmarlo (tali sentimenti raggiungevano il climax quando il boia sollevava la testa e la mostrava al pubblico). 37 1792, una legge che istituiva il matrimonio civile ed un’altra che ammetteva il divorzio. In seguito, la Convenzione vietò le processioni, chiuse gli edifici adibiti al culto e rimosse le campane. Il 5 ottobre 1793, la Convenzione approvò la sostituzione del calendario cristiano con un altro in cui l’evento del 22 settembre 1792 (la proclamazione della Repubblica) segnava l’inizio di una nuova era. Robespierre era convinto che senza credere in una ricompensa ultraterrena gli uomini non avrebbero perseguito la virtù e non sarebbero stati disposti a sacrificare la propria vita per la nazione. Pertanto ottenne che la Convenzione approvasse un decreto nel quale riconosceva l’esistenza dell’Essere Supremo e dell’immortalità dell’anima. L’8 giugno 1794, insieme al pittore Jacques-Louis David, Robespierre organizzò a Parigi una grande festa nazionale per rendere solenne omaggio all’Essere Supremo. 18 La costituzione moderata del 1795 Nel momento in cui celebrava la festa dell’Essere Supremo, Robespierre sembrò toccare il massimo del proprio potere. In realtà, la sua situazione era già molto difficile, in quanto i giacobini nell’estate del 1794 erano isolati. Da un lato, la repressione nei confronti dei cordiglieri (marzo 1794) aveva privato Robespierre del sostegno dei sanculotti e del popolo di Parigi; dall’altro i deputati di estrazione borghese della Pianura ritenevano che l’emergenza fosse superata e che il Terrore potesse essere attenuato. Il 27 luglio (9 Termidoro), Robespierre, Saint-Just e altri giacobini furono arrestati e il giorno seguente, senza processo, giustiziati. Il 5 agosto iniziò la liberazione dei detenuti arrestati a causa del Terrore. Parigi abbandonò la pesante atmosfera che gravava su di lei all’epoca del governo giacobino e riaprirono i teatri, i salotti, i balli e l’abbigliamento stesso torno ad essere più raffinato. Inoltre, riapparvero la libertà di stampa e la discussione politica. Il 22 agosto 1795 venne promulgata una nuova Costituzione (la terza, dopo quelle del 1791 e 1793). Essa stabiliva che il potere esecutivo fosse affidato ad un Direttorio, un collegio di 5 membri, mentre il potere legislativo era assegnato a due Camere (Consiglio dei Cinquecento e Consiglio degli Anziani), elette a suffragio censitario. Fasi della Rivoluzione 1791-1792: fase monarchica e Assemblea legislativa. Suffragio censitario moderata Costituzione del 1791 1792-1794: fase repubblicana e Convenzione. Costituzione del Suffragio universale democratica 1793 1794-1799: fase repubblicana e Direttorio. Costituzione del Suffragio censitario moderata 1795 19 Difficoltà economiche e tumulti sociali Con il nuovo clima politico, furono riaperte al culto le chiese e fu abolito il maximum, ovvero la regolamentazione dei prezzi, i quali, a differenza di quanto si credesse, presero di nuovo ad aumentare notevolmente. Il popolo di Parigi, nella primavera 1795, insorse chiedendo “Pane e Costituzione del 1793”, ma i tumulti furono repressi facilmente dalle truppe governative (neppure la Congiura degli Eguali capeggiata da Gracco Babeuf ottenne alcun risultato). 20 La campagna d’Italia Nel 1796 il paese era in ginocchio, sull’orlo della bancarotta. Il Direttorio si convinse che l’unica soluzione era continuare la guerra, con l’obiettivo di trasferire ricchezze dalle regioni conquistate. Il piano del Direttorio prevedeva un’offensiva su due fronti: sul Reno, che doveva essere l’attacco principale, e in Italia Settentrionale, guidata dal giovane generale Napoleone Bonaparte (1769-1821). Nel corso dell’estate del 1796, l’offensiva sul Reno venne bloccata dagli austriaci; mentre in Italia Bonaparte riuscì a sconfiggere l’esercito nemico e ad entrare trionfalmente a Milano il 15 maggio. Napoleone stipulò, inoltre, con gli austriaci una pace molto vantaggiosa, chiamata Trattato di Campoformio, in base alla quale la Francia acquisì i Paesi Bassi austriaci (cioè il Belgio) e le terre della riva sinistra del Reno; l’Austria fu costretta a ritirarsi anche dalla Lombardia, ma in cambio Bonaparte le concesse di occupare la Repubblica di 38 Venezia, che perse la sua millenaria indipendenza8. 21 L’ampliamento del conflitto e l’espansione territoriale della Francia Dopo la pace con l’Austria, solo l’Inghilterra continuava a combattere contro la Francia rivoluzionaria. L’esercito francese maturò allora l’idea di disturbare gli inglesi nei loro possedimenti coloniali in India, ma per questo era prima indispensabile conquistare l’Egitto. Il comando della spedizione d’Egitto (nel corso della quale fu rinvenuta la famosa stele di Rosetta) venne assegnato a Bonaparte. Giunto in Egitto, Napoleone sconfisse l’esercito dei mamelucchi (mercenari al servizio del sultano); tuttavia, la flotta francese incaricata di rifornire l’esercito, venne distrutta da quella inglese (comandata da Horace Nelson) nella rada di Abukir, con il risultato che l’esercito di Napoleone si trovò isolato e lontano dalla Patria. In Italia, dopo la partenza di Napoleone, l’esercito francese procedette ad ulteriori conquiste e all’istituzione di varie repubbliche (le “Repubbliche sorelle”), formalmente indipendenti, ma di fatto protettorati francesi: la Repubblica Cisalpina (con capitale Milano e comprendente la Lombardia insieme a Bologna, Ferrara, Modena, Reggio Emilia); la Repubblica Ligure; la Repubblica Romana; la Repubblica Partenopea. Sfuggivano al dominio napoleonico solo la Sicilia e la Sardegna (a causa della presenza della potente flotta inglese nel Mediterraneo). Le Repubbliche sorelle decaddero nel 1799, ma i francesi riconquistarono l’Italia nel 1800-1801. In quel momento l’ex Repubblica Cisalpina prenderà il nome di Repubblica Italiana e nel 1805 di Regno d’Italia. 22 Bonaparte al potere Sconfitta su tutti i fronti, la Repubblica francese dovette affrontare, nell’estate 1799, una crisi militare. Bonaparte, che all’inizio di ottobre abbandonò l’esercito bloccato in Egitto e ritornò in Francia, mise in atto un colpo di stato, che si realizzò il 18 brumaio 1799 (10 novembre). Il Direttorio fu soppresso e il potere passò completamente nelle mani di Napoleone, che assunse il titolo di Primo console. Formalmente la Repubblica continuava ad esistere anche se di fatto si era in presenza di una dittatura militare. Nel dicembre 1799 fu varata una nuova Costituzione (la quarta, dell’anno VIII), che stabiliva la concentrazione del potere esecutivo nelle mani del Primo console (Napoleone). Sul piano amministrativo una riforma destinata a durare per 150 anni introdusse un forte accentramento del potere: dipartimenti, cantoni e comuni vennero affidati rispettivamente a prefetti, sottoprefetti e sindaci, nominati dal governo e responsabili di fronte ad esso. I magistrati inoltre divennero funzionari nominati dal Primo console. Le prime preoccupazioni di Napoleone furono di natura militare: occorreva riconquistare l’Italia e imporre di nuovo l’egemonia francese in Europa. Il primo obiettivo fu raggiunto con la vittoria di Marengo (14 giugno 1800); il secondo grazie alla battaglia di Hohenlinden, in Baviera, che aprì all’esercito francese la strada per Vienna e obbligò l’imperatore d’Austria e lo zar a porre fine alla guerra (pace di Luneville, 9 febbraio 1801). Un anno più tardi anche l’Inghilterra accettò di venire a patti con la Francia e firmò la pace di Amiens (25 marzo 1802). Finalmente libero da preoccupazioni militari, Napoleone poté riorganizzare la società francese. Il 21 marzo 1804 fu promulgato il Codice civile, che fu il risultato più duraturo del regime napoleonico. Il Codice Napoleonico è uno dei più celebri codici civili del mondo. Creato da una commissione con il compito di raccogliere in un unico corpus giuridico la tradizione giuridica francese. Il Codice Napoleonico è ricordato ancora oggi per essere stato il primo codice moderno, introducendo chiarezza e semplicità delle norme e soprattutto riducendo ad unità il soggetto giuridico. Esso ruotava attorno a due elementi fondamentali: l’interesse dello stato e il diritto di proprietà. Il regime napoleonico è uno stato fortemente accentrato, in cui tutte le decisioni vengono prese dalla capitale; in periferia, l’autorità principale era il prefetto, nominato dal governo e incaricato di far eseguire tutte le direttive emanate dal centro. La proprietà era considerata un diritto inviolabile e veniva liberata da ogni vincolo che ne limitasse la circolazione, l’acquisto o la vendita (in pratica significava l’abolizione di tutte le usanze giuridiche tipiche dell’ancien régime, finalizzate a impedire la divisione in lotti delle vaste tenute nobiliari). Altri aspetti del Codice: tutti i cittadini venivano considerati uguali di fronte alla legge; venne introdotto il matrimonio puramente civile e il divorzio; venne proclamata la laicità dell’istruzione pubblica e si assegnò particolare importanza alle scuole superiori 8 Il Trattato di Campoformio destò lo sdegno di numerosi intellettuali italiani che avevano accolto Napoleone come un liberatore, ma che rimasero delusi quando capirono che la Francia rivoluzionaria aveva trattato il popolo italiano e le sue terre nello stesso modo in cui, in passato, avevano fatto Austria e Spagna. 39 (chiamate licei), finalizzate a fornire validi funzionari all’apparato militare e civile dello stato. 23 L’Impero Il 2 dicembre 1804, alla presenza del pontefice Pio VII, nella cattedrale di Notre-Dame di Parigi, Napoleone cinse la corona di imperatore dei francesi e si incoronò personalmente. Nel 1805, l’Inghilterra riprese la guerra contro la Francia e ricevette subito l’appoggio dell’Austria e della Russia. L’esercito dei due imperatori venne però sbaragliato ad Austerlitz (2 dicembre 1805). La Francia, invece, non riuscì mai a battere l’Inghilterra sul mare: la flotta inglese, anzi, nell’ottobre 1805 riuscì ad annientare quella francese nella grande battaglia di Trafalgar, nel corso della quale perse la vita l’ammiraglio Nelson. La resistenza inglese spronò gli altri paesi nemici della Francia a dar vita a una nuova coalizione, capeggiata questa volta dalla Prussia. Ma anche l’esercito prussiano fu annientato, nel 1806, con il risultato che Napoleone controllava ormai l’intero continente europeo. Non riuscendo a sconfiggere la flotta inglese, Bonaparte organizzò un blocco economico: impose a tutti i paesi europei di non commerciare con l’Inghilterra. Nel 1807-1808, Napoleone procedette all’invasione del Portogallo e della Spagna, ma alcune truppe inglesi guidate dal duca di Wellington riuscirono a conservare il controllo britannico del Portogallo. Nel frattempo l’embargo nei confronti dell’Inghilterra non diede i frutti sperati, in quanto gli inglesi salvarono la propria economia intensificando i commerci con l’America, mentre tutti i porti sotto egemonia francese subirono danni gravissimi dal blocco dei commerci con l’Inghilterra. 24 La sconfitta di Napoleone Quando lo zar decise di non rispettare più il blocco commerciale con l’Inghilterra imposto dalla Francia, Napoleone organizzò una grandiosa spedizione contro la Russia (600 000 uomini reclutati non solo in Francia, ma anche in Germania e in Italia). L’invasione ebbe inizio il 24 giugno 1812 e fu caratterizzata in un primo tempo da un grande successo, al punto che il 14 settembre Napoleone riuscì ad entrare a Mosca. A quel punto però divenne drammatico il problema dei rifornimenti, anche perché i russi avevano adottato la tattica della terra bruciata, per cui distrussero i raccolti ed ogni altro bene che potesse tornare utile agli invasori (arrivando addirittura ad appiccare il fuoco a Mosca). L’incalzare dell’inverno rese del tutto impossibile un’ulteriore permanenza in territorio russo dell’esercito napoleonico, che fu costretto a ritirarsi in mezzo alla neve. Già decimate dal freddo e dalla fame, le truppe francesi dovettero sostenere i continui attacchi dei russi (soprattutto nel momento in cui dovettero varcare il fiume Beresina). La Grande Armata aveva perso circa 400 000 soldati. Tutti gli avversari di Napoleone (primi fra tutti i prussiani e gli austriaci) unirono le proprie forze e riuscirono a infliggere all’imperatore la gravissima sconfitta di Lipsia (16-18 ottobre 1813). Dopo che il territorio francese fu invaso e la stessa Parigi assediata, Napoleone accettò di abdicare e di ritirarsi sull’isola d’Elba. Nel 1815, tornò a Parigi e fece un ultimo tentativo di riprendere il potere; la sua avventura tuttavia si concluse definitivamente a Waterloo (15 giugno 1815), per opera dell’esercito inglese e di quello prussiano. Catturato dagli inglesi e obbligato a risiedere nella piccola isola di Sant’Elena, sperduta nell’Atlantico, Napoleone morì di cancro il 5 maggio 1821. 40 Moudulo 6: La rivoluzione industriale *** sintesi del modulo *** La rivoluzione industriale è un processo di evoluzione economica che da un sistema agricolo-artigianalecommerciale porta ad un sistema industriale moderno caratterizzato dall'uso generalizzato di macchine azionate da energia meccanica e dall'utilizzo di nuove fonti energetiche inanimate (come ad esempio i combustibili fossili). Spesso si distingue fra prima e seconda rivoluzione industriale. La prima riguarda prevalentemente il settore tessile-metallurgico e comporta l'introduzione della spoletta volante e della macchina a vapore; il suo arco cronologico è solitamente compreso tra il 1760-1780 al 1830. La seconda rivoluzione industriale viene fatta convenzionalmente partire dal 1870-1880, con l'introduzione dell'elettricità, dei prodotti chimici e del petrolio. Talvolta ci si riferisce agli effetti dell'introduzione massiccia dell'elettronica e dell'informatica nell'industria come alla terza rivoluzione industriale, che viene fatta partire dal 1970. *** approfondimenti *** 1 Origine dell’espressione L’espressione “Rivoluzione industriale” è stata probabilmente coniata per imitazione della formula “Rivoluzione francese”; il primo ad usarla è stato l'economista francese Adolphe Blanqui e successivamente fu impiegata anche da Marx nel Capitale. Fu però definitivamente consacrata nel linguaggio storiografico solo nel 1884 da Arnold Toynbee con il suo celebre corso universitario intitolato Lezioni sulla Rivoluzione industriale del 18° secolo in Inghilterra. Da quel momento l’espressione è entrata nel linguaggio corrente per indicare i mutamenti che hanno subito, tra il 1770 e il 1850, dapprima l’economia britannica, e poi quella di numerosi altri stati europei. Le tappe fondamentali della storia umana Periodi Eventi Attività fondamentali per la sopravvivenza 500 000 (?) anni fa Comparsa dell’Homo sapiens Caccia e raccolta (Paleolitico) 10 000 anni fa Diffusione dell’agricoltura Produzione del cibo mediante l’attività (Neolitico) agricola e l’allevamento degli animali 1780-1790 Rivoluzione industriale Produzione meccanizzata di manufatti 2 Aumento della popolazione e innovazione agricola La popolazione inglese, lungo tutto il Settecento, continuò a crescere, con particolare rapidità nella seconda metà del secolo, quando alla diminuzione della mortalità si associò un aumento della natalità. Ciò rappresentò una sfida per il settore agricolo, chiamato a produrre le maggiori quantità necessarie al sostentamento di una popolazione aumentata. Sfida che fu affrontata ricorrendo all’ampliamento della superficie della terra coltivata, attraverso le bonifiche e l’introduzione di un moderno sistema di rotazione che sostituiva il maggese (il campo lasciato a riposo) con piante da foraggio, così da poter alimentare un numero molto più elevato di bovini, che fornirono sia carne che concime. Sul piano dell’organizzazione della proprietà va segnalata la diffusione della pratica delle recinzioni (enclosure) che pose fine al tradizionale sistema dei campi aperti (Nei campi aperti le terre di ciascun agricoltore non solo non sono separate da siepi, ma le decisioni sopra le coltivazioni di ciascuna zona sono prese in comune tra vicini, nel rispetto delle tradizioni. Nei campi chiusi vi sono differenze fisiche tra gli appezzamenti e ciascun agricoltore è libero di coltivare il terreno nel modo che ritiene più opportuno). In che modo la Rivoluzione agricola “aiutò” la Rivoluzione industriale? 1) l’aumento della produttività (della resa) ha permesso di nutrire una popolazione in forte crescita; 2) l’aumento del reddito ha permesso di uscire dalla produzione destinata all’autoconsumo e di produrre anche per il mercato; 3) l’aumento della domanda ha comportato anche un incremento della richiesta di manufatti (prodotti dall’industria); 4) dalla campagna provengono molti dei capitali e degli imprenditori che investirono nelle nuove imprese. 41 3 Il grande commercio internazionale Tra le condizioni che favorirono il decollo industriale vi è il fatto che Londra, nel corso del Settecento, era divenuta il centro degli scambi internazionali e del commercio a lunga distanza (scalzando il primato di Amsterdam), sfruttando un vastissimo sistema economico che si estendeva dall’India all’America. Il punto di forza degli scambi inglesi nel Settecento era il cosiddetto commercio triangolare: i vascelli partivano dai porti britannici carichi di merci inglesi (tessuti, utensili, ferro, armi, liquori…) che poi erano vendute sulle coste africane, in cambio di schiavi neri. Questi venivano poi condotti fino in Giamaica e scambiati con le tipiche mercanzie coloniali prodotte in America: zucchero, indaco (un colorante) e cotone grezzo (a ciascun vertice del triangolo si realizza un profitto). Inoltre l’Inghilterra esportava direttamente manufatti britannici nelle sue colonie in America (cui era vietato di possedere industrie) e importava prodotti orientali dall’India, rivendendoli sul mercato europeo. 4 Data 1733 1764-67 Le innovazioni nell’industria tessile 1768 Invenzione Spoletta volante Jenny (primo filatoio meccanico) Frame (filatoio meccanico) 1785 Mulo (filatoio meccanico) 5 Novità introdotta nel ciclo produttivo Notevole velocizzazione del processo di tessitura Notevole velocizzazione del processo di filatura, ma produzione di un filato molto fine Notevole velocizzazione del processo di filatura, ma produzione di un filato molto grezzo Notevole velocizzazione del processo di filatura e produzione di un filato uniforme, di qualità uguale a quello indiano La rivoluzione del cotone Tra il 1816 e il 1848, l’industria del cotone aumento moltissimo la sua capacità produttiva e i tessuti inglesi, di ottima qualità e a basso costo, venivano venduti in tutto il mondo (fino a poco tempo prima gli inglesi rivendevano in Europa i tessuti indiani, ora vendono direttamente propri manufatti). Lana = fibra animale Cotone = fibra vegetale Meno resistente alla lavorazione meccanica Più resistente alla lavorazione meccanica Tessuti più pesanti e costosi Tessuti più leggeri, adatti a tutti i climi, più indicati per la biancheria intima, meno costosi Sistemi di lavorazione di più antica tradizione; Prodotto più recente; minore resistenza alle perso delle corporazioni; maggiore resistenza innovazioni tecniche alle innovazioni 6 Vapore, ferro e carbone Il grande sviluppo della produzione cotoniera fu possibile soprattutto dopo l’applicazione della macchina a vapore ai processi produttivi. Tale macchina, il cui perfezionamento e applicazione ai trasporti e all’industria sono dovuti a James Watt (tra il 1765 e il 1784), fu la vera protagonista della Rivoluzione industriale. Il contributo della macchina di Watt fu determinante anche nel campo dell’industria metallurgica. All’inizio del Settecento, il principale problema che gravava sulla produzione di ferro era quello energetico, in quanto, per la fusione e la raffinazione del ferro, si faceva uso del carbone di legna. Ciò rendeva l’industria siderurgica un’attività rigidamente legata alle regioni ricche di alberi e nomade, nel senso che, esaurite le risorse lignee di una zona, l’industria era obbligata a trasferirsi in un altro territorio boschivo. Con l’alimentazione di forni, magli e laminatoi attraverso la macchina a vapore, a partire dalla fine del secolo, l’industria siderurgica riuscì a liberarsi dal suo nomadismo e poté trasformarsi in un’attività saldamente radicata nelle principali regioni produttrici di carbone. 7 La nascita della ferrovia Ferro, carbone e vapore sono alla base della nascita della ferrovia. La strada ferrata nacque in seguito 42 alla necessità di trovare un sistema per portare il coke (carbone usato come combustibile) dalle miniere ai porti. In Inghilterra meridionale si iniziò a stendere dei binari di ghisa, sui cui venivano fatti scorrere dei carrelli carichi di carbone, trainati da cavalli. L’inventore della locomotiva a vapore, George Stephenson, sperimentò nel 1825 i suoi primi prototipi. Nel 1829, la locomotiva venne perfezionata dal figlio Robert e utilizzata nella linea Manchester-Liverpool, che va considerata la prima ferrovia. L’industria della ferrovia richiedeva l’investimento di enormi quantità di capitali, versate quasi interamente dai privati (grandi industriali del cotone, del ferro, ecc.). La costruzione della ferrovia offrì lavoro ad un numero elevatissimo di operai. 8 La fabbrica moderna Nei secoli passati, i tessuti di lana o altre fibre erano prevalentemente prodotti in numerose botteghe o in tante abitazioni contadine differenti. Il mercante-imprenditore forniva a numerose figure la materia prima, e poi provvedeva a ritirare e a smerciare il prodotto finito. Nella maggior parte delle altre attività, invece, l’artigiano gestiva personalmente l’intero processo che portava dalla materia prima (es. un pezzo di cuoio o una barra di ferro) al prodotto finito (es. una sella o un falcetto per la mietitura). L’introduzione dell’energia generata dalla combustione del carbone rivoluzionò questi metodi. Poiché era una sola macchina a vapore che azionava, contemporaneamente, numerosi strumenti di lavoro, il processo produttivo comportò una concentrazione in un unico luogo, la fabbrica moderna, il cui contrassegno più visibile divenne la ciminiera, che disperdeva il fumo nell’atmosfera. La fabbrica comportò una sempre più alta divisione del lavoro: l’artigiano venne sostituito da un esercito di operai scarsamente o per nulla qualificati, a cui era richiesto di compiere operazioni molto semplici, che potevano essere imparate da chiunque e ripetute all’infinito. Questa trasformazione industriale portò con sé drastiche conseguenze per la vita sociale: 1) nelle fabbriche furono impiegati moltissime donne e bambini; 2) si verificò uno spostamento della popolazione in direzione delle città; 3) i ritmi di lavoro e le condizioni di vita delle prime generazioni di operai furono drammatici, con salari da fame, eccessiva quantità di ore di lavoro giornaliere (fino a 13-14), ambienti rumorosi e malsani; 4) le nuove città industriali, sviluppatesi in fretta e in modo caotico, erano prive dei più elementari servizi e nei quartieri operai regnavano la miseria, la sporcizia, l’alcolismo e le malattie epidemiche. 9 La rivolta luddista Nel 1811-1812 si sviluppò in Inghilterra un moto di protesta chiamato luddismo (Il movimento prende il nome da Ned Ludd, la cui esistenza è incerta, che nel 1779 spezzò un telaio in segno di protesta). Le macchine erano considerate la causa della disoccupazione e dei bassi salari già da fine Settecento e la legge ne puniva duramente la distruzione o il danneggiamento. Solo verso il 1811-1812 la protesta sfociò in un movimento che vide protagonisti operai e lavoratori a domicilio. Questi, impoveriti dallo sviluppo industriale, decisero di colpire impianti, macchine e prodotti. Per sfuggire ai rigori della legge che vietava ogni associazione tra lavoratori, i luddisti dovettero agire in clandestinità, subendo condanne a morte e deportazioni. Oltre a manifestare contro i nuovi metodi di produzione e a favore di precedenti forme di produzione legate al lavoro a domicilio, i luddisti posero i problemi che sarebbero stati fatti propri in seguito dalle organizzazioni sindacali, come gli orari e le condizioni di lavoro, i minimi salari, il lavoro minorile e femminile. 10 Le prime proteste operaie Alla fine del Settecento, tutti i governi europei erano convinti della necessità di impedire agli operai di organizzarsi in associazioni. L’episodio più grave di repressione si ebbe a Saint Peter’s Fields (Manchester) nel 1819, quando venne usata la cavalleria per disperdere un grande raduno di massa di cinquantamila persone, provocando undici morti e cinquecento feriti. Questa strage fu approvata da tutta la classe politica inglese e poiché anche il duca di Wellington, il vincitore della battaglia di Waterloo, espresse pubblicamente il suo sostegno, passò sarcasticamente alla storia come “massacro di Peterloo”. Solo nel 1825 agli operai fu riconosciuto il diritto di associazione per affrontare le questioni relative al salario e all’orario di lavoro; anche se lo sciopero era ancora illegale, il nuovo provvedimento permise la nascita dei primi sindacati moderni, le cosiddette trade unions. 43 11 Le prime leggi di tutela dei lavoratori Nel 1832, il Parlamento approvò il Reform Act, che permise ad un numero più elevato di cittadini inglesi di esercitare il diritto di voto. Gli operai però non avevano un reddito tale da poter raggiungere la soglia minima di censo per diventare elettori. Nel 1833 fu introdotta la Factory Act, che stabiliva forme di tutela degli operai sul luogo di lavoro (fra cui il limite di otto ore per i ragazzi al di sotto dei 13 anni e di dodici per quelli al di sotto dei 18). 12 Il pensiero economico di Adam Smith L’elemento più significativo della cultura britannica fra Settecento e Ottocento fu la nascita della moderna scienza economica, il cui fondatore può essere considerato Adam Smith (1723-1790). La sua opera più importante si intitola Ricerca sulla natura e sulle cause della ricchezza delle nazioni. Smith ha una concezione tipicamente illuminista secondo la quale l’umanità vive in un cosmo retto da leggi comprensibili e fondamentalmente orientate al benessere dell’uomo. Da qui Smith arriva a rivalutare l’egoismo, o meglio la ricerca, da parte di ogni singolo individuo, dell’interesse privato e personale. Lungi dall’essere un grave peccato, l’istinto al piacere e al guadagno permetteva all’intero meccanismo della natura di funzionare e consentiva a tutti di raggiungere la felicità, come se esistesse una sorta di mano invisibile che permette all’egoismo dei singoli di trasformarsi in strumento di felicità del prossimo. Trattandosi di una specie di ordine provvidenziale, lo stato non deve intervenire in esso, ovvero bisogna abbandonare quei provvedimenti mercantilistici che nella Francia di Colbert e di Luigi XIV avevano trovato la loro massima e sistematica diffusione. Lo stato deve astenersi dall’interferire nella dinamica economica, che dev’essere governata solo dalla legge della domanda e dell’offerta: saranno esse a determinare il costo delle singole merci, che aumenterà (quando la domanda è alta, ma l’offerta scarsa) o diminuirà (quando l’offerta è alta, ma la richiesta debole). Questa concezione rappresenta il primo pilastro del liberismo, la dottrina economica di cui Smith può essere considerato il fondatore; essa si accordava pienamente con l’orientamento politico del liberalismo, fondato da Locke, che tra i diritti dell’uomo attribuiva un ruolo centrale alla proprietà privata, la quale a sua volta trovava nel lavoro del singolo individuo la propria giustificazione e legittimità. Il concetto di libero scambio, secondo pilastro del liberismo, è un’applicazione pratica del principio base secondo cui lo stato non deve intervenire nel campo dell’economia. Libero scambio significa rinuncia, da parte dei governi, ad ostacolare con dazi doganali, o con qualsiasi altra misura finalizzata a proteggere l’economia del proprio paese, la libera circolazione delle merci e dei prodotti. Il protezionismo secondo Smith è uno dei più gravi ostacoli allo sviluppo di un grande ordine economico internazionale, basato sulla divisione del lavoro, cioè sullo svolgimento, nei vari paesi, di attività complementari, che permettano lo scambio delle merci Mercantilismo Liberismo Sistematico intervento dello stato nella vita Rifiuto di ogni interferenza dell’azione dello economica stato all’interno della vita economica Protezionismo: introduzione di alte tariffe Libero scambio: abbattimento di tutti gli doganali finalizzate a proteggere la produzione ostacoli che impediscano la libera circolazione nazionale dalla concorrenza straniera delle merci a livello internazionale 13 Il pensiero di Thomas R. Malthus Alcune delle grandi intuizioni di Smith vennero riprese e sviluppate da Malthus (1766-1834), che si occupò di demografia e economia politica. Secondo Malthus la popolazione aumentava secondo un ritmo più rapido di quello delle risorse alimentari ed era arrivato a sostenere la necessità che i poveri dovessero limitare la loro capacità riproduttiva. Per questo sosteneva che lo stato non dovesse farsi carico dei poveri. Inoltre Malthus intuì che data la drammatica povertà degli operai e la perdita del loro potere d’acquisto, l’economia britannica avrebbe finito per produrre molti più beni di quelli che la popolazione avrebbe potuto comprare. Egli fu il primo a intuire che la moderna economia industriale è soggetta a crisi di sovrapproduzione (la più drammatica sarà quella del 1929, che fu risolta abbandonando la concezione tipica del liberismo per cui lo stato non deve intervenire nell’economia né assistere i poveri. Negli USA per esempio con il New Deal lo stato divenne il datore di lavoro di milioni di disoccupati, permettendo loro di avere un salario e divenire di nuovo consumatori, fu così lo stato a far ripartire il sistema in un drammatico momento in cui l’ordine economico e la mano invisibile sembravano essere scomparsi). 44 L’Europa delle nazioni: dal Congresso di Vienna alla Restaurazione, dai moti insurrezionali al Risorgimento italiano e alla nascita del Reich tedesco L’idea di nazione sorge e trionfa con il sorgere e il trionfare di quel grandioso movimento di cultura europeo, che ha il nome di Romanticismo: affondando le sue prime radici già nel secolo XVIII… trionfando in pieno con il secolo XIX, quando il senso dell’individuale domina il pensiero europeo… contro la «ragione» cara agli illuministi, rivendica i diritti della fantasia e del sentimento, contro il buon senso equilibrato e contenuto proclama i diritti della passione… esalta l’eroe, il genio, l’uomo che spezza le catene del vivere comune… le norme borghesi… Sul terreno politico fantasia e sentimento, speranze e tradizioni non potevano avere che un nome: nazione. La reazione contro le tendenze universalizzanti dell’illuminismo (in politica, il dispotismo illuminato), che aveva cercato leggi valide per ogni governo… questa reazione non poteva che mettere in luce il particolare, l’individuale, cioè la nazione singola. (“F. Chabod, L’idea di nazione) 1 Il Congresso di Vienna In tutta Europa, all’indomani della sconfitta di Bonaparte, si tentò di tornare alla situazione politica e sociale precedente. Con tale scopo, dal 3 novembre 1814 al 9 giugno 1815 si tenne a Vienna un Congresso per discutere l’assetto politico che avrebbe dovuto assumere l’Europa, dopo i venti anni della Rivoluzione francese e delle guerre napoleoniche. Vi parteciparono l’Inghilterra, la Russia, l’Austria e la Prussia9. La Francia, per quanto sconfitta, non venne esclusa dalle trattative, anzi fu proprio il suo delegato, CharlesMaurice de Talleyrand, a proporre uno dei criteri che il Congresso decise di seguire: il principio di legittimità, secondo il quale bisognava ricostruire la situazione politica esistente prima dello scoppio della Rivoluzione francese, riportando sui troni i numerosi sovrani deposti da Napoleone (per questo l’epoca del Congresso di Vienna venne denominata età della Restaurazione). Le potenze vincitrici tentarono però allo stesso tempo di dare all’Europa un assetto più stabile e sicuro, adottando anche il principio dell’equilibrio (sostenuto soprattutto dall’Inghilterra, preoccupata che nessuno stato assumesse sul continente un peso eccessivo), in base al quale ci si premurò di rafforzare alcuni stati confinanti con la Francia. Il Belgio venne così posto sotto la sovranità olandese, mentre al Regno di Sardegna vennero aggiunte la Savoia e la Repubblica di Genova. Nella regione del Reno, venne rafforzata la Prussia. La Repubblica di Venezia con il Trattato di Campoformio aveva perso la sua indipendenza, in base al principio di legittimità doveva ritornare a essere uno stato libero, invece fu assegnata all’Austria. 2 L’ordine viennese Nel 1815, i sovrani di Austria, Prussia e Russia si unirono nella cosiddetta Santa Alleanza, sorta per garantire l’ordine uscito dal Congresso. A Vienna trionfò il principio dell’equilibrio anche grazie all’accantonamento del problema della libertà nazionale dei singoli popoli. Per es. il Congresso di Vienna decise che Milano e l’intera Lombardia sarebbero dovuti tornare sotto il dominio asburgico, in nome del principio di legittimità10. Nel 1820-1821, si verificarono i primi tentativi di mettere in discussione l’ordine viennese; in Spagna, a Napoli, a Palermo e in Piemonte, scoppiarono moti rivoluzionari con l’obiettivo di costringere i sovrani a concedere le Costituzioni. In Italia i moti erano guidati da società segrete (gruppi clandestini che facevano largo ricorso a simboli e rituali della Massoneria, un’organizzazione nata nel Settecento per diffondere il pensiero illuminista). I membri delle società segrete (fra cui si distinse, a Napoli, la Carboneria) provenivano soprattutto dall’ambiente militare e da quello nobiliare e i legami con le popolazioni (delle città e soprattutto 9 Al Congresso, il Regno Unito fu prima rappresentato dal ministro degli esteri, Visconte Castlereagh; dopo il febbraio 1815, dal Duca di Wellington; e nelle ultime settimane, dopo che Wellington se ne andò per affrontare Napoleone, dal Conte di Clancarty. L'Austria era rappresentata dal principe Klemens von Metternich, il ministro degli Esteri, e dal suo delegato, Barone Wessenberg. La Prussia era rappresentata dal principe Karl August von Hardenberg, il cancelliere, e dal diplomatico e studioso Wilhelm von Humboldt. La Francia di Luigi XVIII era rappresentata dal ministro degli Esteri Charles Maurice de Talleyrand-Perigord. Sebbene la delegazione ufficiale della Russia fosse guidata dal suo ministro degli Esteri, il Conte Karl Vasil'evič Nesselrode, lo zar Alessandro I per lo più operò personalmente. 10 Numerosi intellettuali assunsero una posizione ostile al nuovo governo, in nome del principio di nazionalità. Alessandro Manzoni compose un’ode civile intitolata Marzo 1821 in cui esortava gli italiani ad unire le proprie forze e a combattere lo straniero; Silvio Pellico diede vita ad un giornale, chiamato Conciliatore per sostenere la causa italiana e dopo la sua chiusura aderì a una società anti-austriaca, motivo per cui fu arrestato nel 1820 e dovette scontare 8 anni di carcere nella fortezza dello Spielberg, in Moravia, in seguito pubblicò, nel 1832, Le mie prigioni. 45 delle campagne) erano pressoché nulli. A causa di tale isolamento fu possibile all’Austria stroncare ogni fermento rivoluzionario (per lo stesso motivo fallì anche l’insurrezione decabrista in Russia nel 1825). 3 Luigi Filippo re di Francia Il 4 giugno 1814, Luigi XVIII (fratello del dacapitato Luigi XVI) – il sovrano che aveva assunto il potere in Francia dopo l’abdicazione di Napoleone – promulgò a Parigi una Costituzione. Per il nuovo re, infatti, era evidente che una pura e semplice restaurazione del passato era impossibile. Nella concezione del sovrano, tuttavia, questa Carta Costituzionale era “concessa”, in quanto l’unico titolare della sovranità era il re stesso, il quale per propria volontaria iniziativa decideva di limitare il proprio potere, accettando di condividerlo con altri soggetti politici. La Charte octroyéè riconosceva l’uguaglianza degli uomini di fronte alla legge, la libertà di culto e l’inviolabilità della proprietà privata. Vi erano però limitazioni alla libertà di opinione, di stampa, di associazione. La Costituzione prevedeva due Camere, una composta di aristocratici nominati dal re, l’altra eletta a suffragio censitario (era necessario un reddito molto alto per votare). Nel 1824 divenne re Carlo X, deciso sostenitore dell’origine divina del potere dei re. Nel luglio 1830 il re emanò 5 ordinanze che sospendevano la libertà di stampa, scioglievano la Camera dei deputati e fissavano parametri censitari ancora più elevati per esercitare il diritto di voto. Tale politica reazionaria provocò la collera dei cittadini di Parigi, che insorsero e tennero nelle loro mani la città per tre giorni (27-29 luglio), finché Carlo X non ebbe abdicato. Al suo posto fu incoronato Luigi Filippo d’Orléans, il quale assunse il titolo di re dei francesi, accettando il principio secondo cui il suo potere non discendeva da Dio, ma era conferito dal popolo. Luigi Filippo cancellò il preambolo della Carta Costituzionale, in cui la si definiva octroyéè, essa era ora invece l’esisto di un contratto sociale11 fra il re e il popolo. Tuttavia, il suffragio restava censitario, escludendo dal voto la maggioranza dei cittadini. 4 Le insurrezioni degli anni 1830-1831 L’esempio della rivoluzione parigina del luglio 1830 spinse all’insurrezione la popolazione di Bruxelles (25 agosto), dove si formò un governo provvisorio, che proclamò, l’anno successivo, l’indipendenza del Belgio (ratificando la secessione dall’Olanda), di cui si fece garante l’Inghilterra. Non ebbero successo invece le insurrezioni che si verificarono in Polonia (novembre 1830) e in Italia (Parma, Modena, Bologna, nel febbraio 1831). Gli insorti polacchi e italiani contavano sull’aiuto francese, ma Luigi Filippo, per tranquillizzare le potenze europee, dichiarò di non voler intervenire a sostegno dei rivoltosi, che pertanto furono schiacciati dall’esercito russo e da quello austriaco. Il fallimento di queste rivoluzioni e la linea di non intervento della Francia spinsero Giuseppe Mazzini (18501872) ad elaborare un nuovo e coerente programma per affrontare i problemi dell’Italia, divisa e frammentata in numerosi stati, tutti sottomessi o legati all’Austria. La Lombardia e il Veneto erano sotto controllo austriaco e venivano amministrati direttamente da Vienna; il Ducato di Parma, quello di Modena e il Granducato di Toscana, erano retti da sovrani imparentati con la famiglia imperiale Asburgo. Gli altri stati (Regno di Sardegna, Stato della Chiesa e Regno delle Due Sicilie) erano governati da sovrani assoluti e reazionari. Secondo Mazzini, il difetto più grave delle insurrezioni degli anni 1820-21 e 1831 era di aver avuto prospettive limitate ad ambiti regionali e locali. Egli invece pose l’accento sull’obiettivo dell’unità politica dell’Italia. Per sostenere tale causa, fondò nel luglio 1831, la Giovine Italia, che si distinse dalle società segrete sia per la propria meta (l’unità nazionale) sia per gli strumenti, puntando non su pochi congiurati, ma sul popolo italiano. 11 Il contratto sociale è, secondo alcuni pensatori, alla base della nascita della società, ossia di quella forma di vita in comune che sostituisce lo stato di natura, in cui gli esseri umani vivono in una condizione di instabilità e insicurezza per la mancanza di regole riguardo a quelli che sono i loro diritti e doveri. Il contrattualismo comprende quelle teorie politiche che vedono l'origine della società in un contratto tra governati e governanti, che implica obblighi precisi per ambedue le parti. In questa concezione il potere politico si fonda su un contratto sociale che pone fine allo stato di natura, segnando l'inizio dello stato sociale e politico. Accettando spontaneamente le leggi che vengono loro imposte, le persone perdono una parte della loro assoluta e (potenzialmente) pericolosa libertà per assicurarsi una maggiore tranquillità e sicurezza sociale. Nel momento in cui il patto viene violato, il potere politico diventa illegittimo; di conseguenza il diritto di resistenza e ribellione viene legittimato. Si considerano contrattualisti quei pensatori che muovono da tale sintassi del discorso. Lo stato di natura, benché sia solitamente considerato punto di partenza del discorso contrattualista, non ha una definizione universalmente accettata, poiché si considera essenzialmente come mera ipotesi logica. Fra i maggiori contrattualisti vanno annoverati Thomas Hobbes, John Locke e Jean-Jacques Rousseau. 46 5 Il pensiero politico di Mazzini Mazzini, pur non riconoscendosi in nessuna Chiesa, rifiuta l’ateismo ed è convinto che Dio avesse assegnato agli uomini la missione di vivere in pace e giustizia. Gli individui dovevano concepire la propria esistenza come un dovere e dedicare le proprie energie alla costruzione del nuovo mondo libero. Dio, secondo Mazzini, aveva assegnato all’Italia un ruolo importante, proprio perché la sua condizione era particolarmente difficile, doveva essere l’esempio a tutti gli altri popoli e indicare la via della liberazione dallo straniero. L’idea di nazione era dunque al centro del pensiero mazziniano, senza tuttavia eccedere nel nazionalismo: tutti i popoli avevano pari dignità e diritto all’indipendenza; per questo nel 1834 fondò la Giovine Europa, che avrebbe dovuto coordinare la lotta di tutti i popoli oppressi e gettare le basi di una convivenza rispettosa dei diritti di ciascun gruppo etnico. Quanto all’Italia, dopo la liberazione dallo straniero, sarebbe dovuta diventare uno stato unitario, repubblicano e democratico. Negli anni Trenta e Quaranta, tutti i tentativi insurrezionali promossi dalla Giovine Italia fallirono miseramente (nel Regno di Sardegna e in Savoia). Particolarmente drammatica fu la spedizione organizzata dai fratelli Attilio e Emilio Bandiera in Calabria 1844: speravano di far insorgere i contadini del Regno delle Due Sicilie, ma la popolazione li ignorò. Le truppe borboniche li catturarono e giustiziarono. Il popolo, che nelle intenzioni di Mazzini sarebbe dovuto insorgere per sostenere i militanti, non mostrò alcun interesse nei confronti delle idee di unità e indipendenza nazionali. 6 Gioberti e il “papato liberale” Vincenzo Gioberti (1801-1852), un sacerdote cattolico, nel suo Del primato morale e civile degli italiani, del 1843, sostenne che il nuovo futuro dell’Italia potesse trovare nel papato una fondamentale figura di riferimento: proponeva che gli stati italiani si riunissero in una federazione guidata dal papa. Quando venne eletto il nuovo pontefice Pio IX, il suo primo atto fu un’amnistia per i prigionieri politici, ciò venne interpretato dal popolo come un nuovo modo di gestire il potere. Le speranze in un papato liberale crebbero quando nel 1847 lo Stato della Chiesa, il Regno di Sardegna e il Granducato di Toscana incominciarono a prendere in considerazione la possibilità di procedere a una lega doganale. La situazione subì una brusca accelerazione nel 1848, quando il 29 gennaio esplose un moto a Palermo, dopo che l’insurrezione si estese in tutta l’Italia meridionale, il re Ferdinando II fu obbligato a concedere una Costituzione; anche a Roma (Stato della Chiesa), Firenze (Granducato di Toscana) e Torino (Regno di Sardegna), i sovrani furono costretti a promulgare delle Carte Costituzionali. 7 Lo Statuto albertino La Legge fondamentale (Costituzione) che fu adottata dal Regno di Sardegna prese il nome di Statuto albertino, in quanto fu concessa dal re Carlo Alberto di Savoia (il 4 marzo 1848). Essa diverrà nel 1861 la Costituzione del Regno d’Italia e rimarrà in vigore fino al 1946. Si trattava di una Costituzione “concessa”; il re controllava quasi ogni organo dello stato: i giudici erano istituiti dal re e i ministri dovevano rispondere al sovrano, il quale disponeva anche della possibilità di veto in campo legislativo. Il Parlamento era costituito da due Camere, una (il Senato) di nomina regia, l’altra (la Camera dei deputati) eletta dai sudditi con un suffragio rigidamente censitario. Confronto tra lo Statuto albertino e la Costituzione repubblicana Statuto albertino del Regno di Sardegna Costituzione della Repubblica italiana Costituzione concessa dal re: la sovranità Costituzione elaborata da una Assemblea: la appartiene a un monarca, che decide di limitare sovranità appartiene al popolo il suo potere La Costituzione può essere modificata da una La Costituzione è rigida: può essere modificata legge ordinaria solo con una procedura speciale Il Senato è di nomina regia Il Senato è eletto dai cittadini La Camera dei deputati è eletta a suffragio La Camera dei deputati è eletta a suffragio censitaria universale (come il Senato) 47 8 La rivoluzione del 1848 in Francia Il 24 febbraio a Parigi era esploso un tumulto rivoluzionario e Luigi Filippo fu costretto ad abdicare. In questa lotta il popolo di Parigi adottò un nuovo strumento di lotta: la barricata, arrivando a bloccare le principali strade. Il popolo era insorto per protestare contro il suffragio censitario e per ottenere libertà di associazione e di discussione. Una volta sconfitto Luigi Filippo, venne istituito un regime di tipo repubblicano e democratico e vennero istituiti i cosiddetti laboratori nazionali: manifatture di proprietà dello stato, che permettevano di dare occupazione agli operai rimasti senza lavoro. Quando il nuovo governo repubblicano, il 21 giugno 1848, emanò un decreto che escludeva i lavoratori non ammogliati dai laboratori, vi fu una nuova insurrezione operai, schiacciata dopo tre giorni di combattimenti. Dopo questi fatti fu varata una nuova Costituzione che concedeva ampi poteri al presidente della Repubblica. Alle elezioni del 10 dicembre 1848, fu eletto a grande maggioranza Luigi Napoleone Bonaparte, nipote del grande imperatore. Il 2 dicembre 1851 Luigi Napoleone procedette ad un colpo di stato e l’anno seguetne si proclamò imperatore dei francesi col titolo di Napoleone III. 9 La prima guerra d’indipendenza in Italia La notizia della rivoluzione parigina del 24 febbraio si diffusa in tutta Europa, provocando insurrezioni e rivolte. Il 14 marzo 1848 insorsero gli studenti e gli operai di Vienna, obbligando Metternich ad abbandonare il potere. In Italia, la prima a insorgere fu Venezia, che riuscì a espellere gli austriaci e a proclamare di nuovo la Repubblica (17-22 marzo 1848). Anche Milano, dopo cinque giornate di furiosi combattimenti (18-22 marzo), obbligò l’esercito asburgico alla ritirata. Il re di Sardegna Carlo Alberto, per timore che esplodesse una rivoluzione anche a Torino decise di entrare in guerra contro l’Austria12. Nella battaglia di Custoza (25 luglio 1848), l’esercito piemontese fu sconfitto e Carlo Alberto fu costretto all’armistizio. Il conflitto riprese nella primavera del 1849 e si concluse con la definitiva sconfitta piemontese e l’abdicazione di Carlo Alberto a favore del figlio Vittorio Emanuele II. A Roma, l’8 febbraio 1849, era stata insediata una repubblica democratica guidata da Mazzini, mentre Venezia continuava a combattere con gli austriaci. Roma fu espugnata il 4 luglio 1849 dalle truppe francesi, mentre Venezia capitolò il 24 agosto. Nonostante i fallimenti delle insurrezioni del 1848-1849, Vittorio Emanuele II scelse di non revocare lo Statuto albertino, per cui il Regno di Sardegna, anche dopo la sconfitta, rimase una monarchia costituzionale. 10 La concezione politica di Cavour In quegli anni si fece accesa, nel Regno di Sardegna, la questione dei rapporti fra Stato e Chiesa, che godeva di notevoli privilegi. Nel 1850, il ministro Siccardi propose di abolire il foro ecclesiastico (il tribunale speciale, gestito dalla Chiesa, per giudicare i reati compiuti da sacerdoti e religiosi); venne vietato inoltre agli enti ecclesiastici di accettare donazioni senza l’autorità governativa. Nel corso della discussione su questo pacchetto di provvedimenti si mise in luce Camillo Benso, conte di Cavour (1810-1861), che nel 1850 rivestiva l’incarico di ministro dell’agricoltura e aveva introdotto con successo alcune importanti innovazioni, mutuate dai paesi europei che aveva visitato (Svizzera, Inghilterra, Francia, Belgio) come ad es. l’uso del guano come fertilizzante. Cavour era inoltre convinto della superiorità morale dei regimi liberali rispetto a quelli assoluti. Egli era un liberale moderato: il suo modello politico di riferimento era la monarchia costituzionale inglese e la sua politica mirava a una sorta di giusto mezzo tra l’immobilismo dei conservatori e la rivoluzione dei democratici, nella convinzione che le riforme graduali fossero in grado di evitare la crisi. Cavour riuscì ad aggregare ampi consensi sia fra i deputati di centro-sinistra che tra quelli di centro-destra, per questo la sua politica venne detta “connubio”). Nel 1852 Cavour divenne presidente del Consiglio. Nel campo del commercio estero adottò una politica liberista: si propose di sviluppare la produzione dei prodotti agricoli piemontesi, destinati all’esportazione con l’Inghilterra, in cambio di manufatti britannici. Cercò inoltre di migliorare le comunicazioni, facendo costruire 400 chilometri di strade e centinaia di chilometri di strade ferrate (nel 1859 il Regno di Sardegna possedeva una rete ferrovia di 914 chilometri, tutti gli altri stati nel loro complesso ne avevano 986), la cui costruzione fu quasi interamente a carico dello stato. Pertanto, secondo Cavour, l’adozione del libero 12 All’appoggio di Carlo Alberto si oppose uno dei dirigenti della rivoluzione milanese, Carlo Cattaneo, secondo il quale l’intervento di un sovrano moderato e conservatore poteva rappresentare un ostacolo allo sviluppo della repubblica e della democrazia. Cattaneo era sostenitore di un modello federalista, secondo il modello statunitense. 48 scambio poteva essere compatibile con una forte presenza dello stato in materia economica, almeno in quei settori (come le ferrovie) che necessitavano di ingenti capitali. Una simile strategia però comportò un aumento della tassazione e la rinuncia alla parità del bilancio, ovvero un pesante indebitamento dello stato. Mazzini, Cattaneo e Cavour a confronto Carattere Obiettivo Obiettivo Strumento principale politico istituzionale principale Mazzini Intensa religiosità Espulsione Repubblica Rivoluzione dell’Austria e democratica popolare stato nazionale (suffragio unitario universale) Cattaneo Attenzione ai Espulsione Repubblica Rivoluzione problemi dell’Austria e democratica popolare economici stato federale (suffragio universale) Cavour Attenzione ai Espulsione Monarchia Diplomazia e problemi dell’Austria ed costituzionale guerra gestita dal economici espansione del moderata governo Regno di (suffragio piemontese Sardegna censitario) 11 La seconda guerra d’indipendenza in Italia Nel 1854, il Regno di Sardegna decise di intervenire a fianco degli inglesi e dei francesi nell’assedio di Sebastopoli (Guerra di Crimea, in cui la Russia attaccò l’Impero ottomano, sostenuto da Francia e Inghilterra). La partecipazione al conflitto permise a Cavour di essere presente al Congresso di Parigi del 1856 e di entrare a contatto con le potenze europee, portando alla loro attenzione la questione italiana. La guerra del 1848-1849 aveva mostrato che da solo il Piemonte non era in grado di sconfiggere l’esercito austriaco, era necessario il sostegno di qualche altra potenza europea. Cavour identificò tale potenza nella Francia di Napoleone III, che aspirava a far entrare l’Italia nella propria orbita. Il 21 luglio 1858, Cavour e Napoleone III si incontrarono a Plombières e concordarono che in caso di aggressione austriaca al Regno di Sardegna la Francia sarebbe intervenuta in sua difesa. Dopo la vittoria, il Piemonte avrebbe ottenuto l’annessione del Lombardo-Veneto, ma in cambio avrebbe ceduto alla Francia Nizza e la regione della Savoia. Gli stati dell’Italia centrale sarebbero stati accorpati e assegnati ad un principe francese, mentre il Regno delle Due Sicilie sarebbe rimasto ai Borboni. Il papa avrebbe perso parte dello Stato della Chiesa, ma sarebbe diventato il presidente di una Confederazione composta dai regni dell’Alta Italia, dell’Italia Centrale e dell’Italia meridionale. Tutto doveva svolgersi con il consenso delle grandi potenze. Nel 1859, Cavour incaricò Giuseppe Garibaldi (un comandante militare di idee democratiche che si era distinto nella difesa della Repubblica romana, nel 1849) di organizzare un gruppo di volontari e ammassarli al confine, per mettere in atto una provocazione nei confronti dell’Austria, la quale in effetti il 29 aprile 1859 dichiarò guerra al Regno di Sardegna. Napoleone III, coerentemente con gli accordi di Plombières, intervenne in Italia nelle battaglie di Palestro, Magenta, Solferino e San Martino. Nell’aprile-maggio 1859 l’esercito austriaco era costretto ad abbandonare la Lombardia, in Emilia-Romagna e in Toscana si verificarono delle insurrezioni popolari, che rovesciarono le autorità tradizionali e instaurarono governi provvisori, che scelsero di sottomettersi all’autorità di Vittorio Emanuele II. Napoleone III si rese conto che ogni speranza di sostituire la Francia all’Austria stava svanendo, pertanto stipulò con l’Austria l’armistizio di Villafranca (11 luglio 1859) che prevedeva il passaggio della Lombardia al Regno di Sardegna, ma lasciava il Veneto sotto dominazione austriaca. 12 La spedizione dei Mille Il 1° aprile 1860, il Piemonte e la Francia trovarono un accordo: in cambio di Nizza e della Savoia, Napoleone III acconsentì al fatto che il Regno di Sardegna annettesse la Toscana, l’Emilia e la Romagna. Il 4 aprile 1860, esplose un’insurrezione popolare a Palermo. Garibaldi incominciò allora ad organizzare una spedizione militare, finalizzata a portare la rivoluzione nel Regno delle Due Sicilie. Ufficialmente il 49 Regno di Sardegna non era coinvolto, eppure Garibaldi poté radunare uomini e mezzi a Genova senza alcun disturbo dalle autorità piemontesi. I Mille (1100 volontari) di Garibaldi partirono da Quarto (vicino Genova) la notte del 5 maggio 1860; approdati in Sicilia riuscirono a sconfiggere l’esercito borbonico a Calatafimi il 16 maggio e ad entrare a Palermo il 2713. Il 7 settembre Garibaldi entrò a Napoli. La prossima meta sarebbe stata Roma. Consapevole che ciò avrebbe provocato la reazione della Francia, che difendeva il papa dal 1849, il Regno di Sardegna intervenne per fermare Garibaldi: guidate dal re in persona, le truppe piemontesi entrarono nello Stato Pontificio, attraverso le Marche e l’Umbria e infine raggiunsero Garibaldi, che in ottobre accettò, a Teano, di rimettere il comando del proprio esercito nelle mani di Vittorio Emanuele II. Il 14 marzo 1861, Vittorio Emanuele II venne ufficialmente proclamato “re d’Italia, per grazia di Dio e volontà della nazione”. Torino fu scelta come capitale. Il nuovo regno comprendeva l’intera Penisola, ad eccezione del Veneto (di dominio austriaco) e del Lazio (appartenente al papa). Tutto l’insieme di avvenimenti politici e militari che condussero l’Italia alla conquista dell’indipendenza e alla sua unificazione va sotto il nome di Risorgimento. 13 La frammentazione della Germania Al Congresso di Vienna, la Germania era stata suddivisa in 39 stati, riuniti in una Confederazione, presieduta dall’Austria. Circa 600 deputati di ogni parte del paese nel marzo del 1849 decisero di offrire al re di Prussia, Guglielmo I, la corona di imperatore tedesco. Il sovrano rifiutò quell’offerta proveniente dal basso. Il re di Prussia, comunque, decise di concedere una Costituzione e nel 1862 alla carica di cancelliere fu chiamato Otto von Bismarck (1815-1898). 14 Le guerre di Bismarck Nel 1866 la Prussia entrò in guerra con l’Austria e il 3 luglio riuscì a sbaragliarne (trasportando mezzo milione di soldati sul campo per mezzo della ferrovia) l’esercito a Sadowa, in Boemia14. La vittoria permise alla Prussia di mettersi a capo di un vasto complesso politico tedesco comprendente tutti gli stati situati a nord del fiume Meno. Poiché si trattava di un’alterazione dell’equilibrio fissato a Vienna, la Francia di Napoleone III protestò e nell’estate del 1870 si arrivò alla guerra aperta. 15 La nascita del Reich tedesco Lo scontro decisivo si ebbe il 2 settembre 1870 a Sedan: l’imperatore e 104 000 soldati francesi vennero fatti prigionieri dai tedeschi15. La cattura di Napoleone III provocò a Parigi l’immediata proclamazione della Repubblica. Parigi venne assediata dall’esercito tedesco fino al 1° marzo del 1871, quando il governo repubblicano decise di arrendersi. Il 18 gennaio 1871, nel palazzo di Versailles rinacque ufficialmente il Reich (Impero) della nazione tedesca e il re di Prussia Guglielmo I venne proclamato imperatore (Kaiser) del nuovo stato, comprendente ora l’intera Germania. La Francia fu costretta a rinunciare all’Alsazia e alla Lorena. Il successo di Bismarck appariva totale: il processo di unificazione della Germania era riuscito senza il minimo contributo popolare. Il Reich tedesco restò così fino al 1918 una monarchia semi-assoluta. 16 Le conseguenze in Italia e in Austria delle vittorie prussiane Nella guerra austro-prussiana del 1866 il Regno d’Italia era alleato con la Prussia. Benché l’esercito italiano venne sconfitto a Custoza e la flotta subì pesanti perdite nella battaglia di Lissa, tuttavia la vittoria conseguita dai prussiani obbligò l’Austria ad arrendersi e a cedere il Veneto all’Italia. L’Ungheria minacciò di ribellarsi, il governo viennese decise allora di concedere ampia autonomia a 13 Durante l’estate i contadini della cittadina di Bronte, nella Sicilia orientale, uccisero alcuni proprietari terrieri e procedettero alla spartizione delle terre. Garibaldi, consapevole che solo l’appoggio della borghesia meridionale poteva garantire successo alla sua impresa di unire il Sud Italia al Regno di Vittorio Emanuele II (che ormai comprendeva tutta l’Italia settentrionale, ad eccezione del Veneto), ordinò l’immediata repressione del moto contadino di Bronte. La città venne riportata all’ordine in modo spietato dal suo luogotenente, Nino Bixio. 14 In quell’occasione i soldati prussiani utilizzarono per la prima volta il fucile ad ago, a retrocarica, che permetteva al soldato di sparare accovacciato o disteso, senza doversi alzare per caricare il fucile dalla bocca. 15 L’esercito prussiano mise in campo nuovi cannoni a retrocarica, in acciaio, prodotti dalle fabbriche dell’industriale Alfred Krupp, di Essen 50 Budapest, così che dal 1867 non si parlò più di Impero austriaco, ma di Impero austro-ungarico. La vittoria tedesca del 1870 risultò decisiva per l’annessione di Roma al Regno d’Italia. A più riprese (nel 1862 e nel 1867) Garibaldi aveva tentato, con reparti di volontari, di marciare sullo Stato della Chiesa, ma era sempre stato fermato da Napoleone III che si era assunto il compito di difendere il papato. Il governo italiano cercò una capitale adatta alle esigenze del nuovo stato e la scelta cadde su Firenze. Ma dopo la disfatta di Sedan e la proclamazione della Repubblica, la guarnigione francese che difendeva la Roma del papa venne ritirata. Le truppe italiane pertanto poterono entrare nel Lazio e occupare Roma il 20 settembre 1870, dopo aver forzato le mura a Porta Pia. L’anno successivo Roma divenne capitale del Regno d’Italia. Il papa Pio IX, per protesta, si chiuse nei palazzi del Vaticano e rifiutò perfino i benefici che lo stato italiano gli concesse con la Legge delle guarentigie, che gli riconoscevano i diritti di sovrano e gli assegnavano la una cospicua cifra annua. Il papato vide nel nuovo stato unitario solo una costruzione violenta e illegittima e proclamò il non expedit (non è opportuno), ovvero la proibizione ai fedeli di partecipare alla vita politica, che durò fino al 191316. 16 Nel 1864 papa Pio IX ordinò la compilazione del Sillabo (elenco) degli errori del mondo moderno, in cui la Chiesa condannava categoricamente la società borghese moderna figlia dell’Illuminismo e della Rivoluzione francese 51 Modulo 7: L’Italia dall’unità alla prima guerra mondiale 1 Il governo della destra Gli orientamenti politici e parlamentari Per merito di Cavour, il Regno d’Italia era uno stato liberale, fondato su una costituzione (statuto albertino): il potere legislativo era nelle mani di un Parlamento bicamerale, articolato in un Senato (di nomina regia) e in una Camera dei deputati (eletta a suffragio censitario). Il potere era, tuttavia, esercitato da una minoranza ristrettissima (il corpo elettorale era meno del 2% della popolazione complessiva; inoltre molti cattolici non parteciparono alle votazioni, per protesta, fino al 1913). Vi era quindi una frattura fra paese legale e paese reale. Il Parlamento era composto da due schieramenti, chiamati Destra e Sinistra (a cui si è soliti aggiungere l’aggettivo storica, per distinguerli dai partiti moderni). In realtà si trattava di due correnti del liberalismo tradizionale. La Destra governò dal 1861 fino al 1876, anno in cui salì al potere la Sinistra, fino agli avvenimenti noti come crisi di fine secolo (1896). La situazione economica del nuovo stato Il problema più grave che il nuovo stato si trovò ad affrontare era quello economico (si era sull’orlo della bancarotta). Il pareggio del bilancio divenne l’obiettivo prioritario dei governi della destra storica (in particolare di Quintino Sella, per diversi anni Ministro delle Finanze). La situazione era particolarmente difficile, perché per circa dieci anni l’Italia non poté ridurre le spese militari (per via delle guerre aperte del 1866 contro l’Austria per l’annessione del Veneto e del 1870 contro lo Stato Pontificio per l’annessione di Roma). Lo stato fu quindi costretto a indebitarsi con creditori esteri. Il 1866 fu l’anno più negativo e il governo fu costretto ad istituire il cosiddetto corso forzoso, cioè ad emettere carta moneta svalutata. Inoltre, si procedette a massicce svendite di proprietà demaniali e alla confisca di beni ecclesiastici. In ultima analisi, tuttavia, il peso del risanamento finanziario fu scaricato soprattutto sui cittadini, mediante il ricorso alle imposte indirette sui beni di largo consumo (alcolici, sale, tabacco). Nel 1868 fu introdotta la più odiosa delle tasse, quella sul macinato (veniva riscossa dai mugnai, quando i contadini portavano il proprio grano al mulino, versata in proporzione alla quantità di cereali trasformata in farina). Il fenomeno del brigantaggio I governi della Destra estero subito e senza modificazioni, al resto del paese, la legislazione vigente nel Regno di Sardegna e al Sud vennero inviati molti funzionari del Nord (piemontesizzazione). Le popolazioni meridionali non ebbero l’impressione di un processo di unificazione nazionale, ma piuttosto di una nuova invasione straniera. Tra le nuove leggi piemontesi esportate al Sud vi erano quelle del libero scambio e della coscrizione obbligatoria. Il libero scambio permise l’ingresso nel paese di manufatti britannici a basso costo; nel Sud ciò provocò la rovina di moltissimi artigiani e la chiusura di tutti gli impianti industriali che il governo borbonico aveva tentato di attivare. A causa della coscrizione, solo in Sicilia, 25 000 giovani si diedero alla macchia, dopo il 1861, per evitare l’odiato servizio militare. La protesta contro il “governo straniero” prese la forma anche della rivolta armata, con il fenomeno del brigantaggio. Lo stato italiano impiegò 120 000 soldati per sconfiggere il fenomeno e i briganti uccisi o fatti prigionieri furono più di 5 000. 2 Il governo della Sinistra Il trasformismo Nel 1876 venne finalmente raggiunto il pareggio di bilancio; inoltre, lo stato era riuscito ad aumentare notevolmente le linee ferroviarie. La Destra storica poteva vantarsi di aver completato l’unità nazionale (annessione Veneto e Roma), di aver schiacciato il brigantaggio e di aver evitato il collasso finanziario. Ma il prezzo di tutto questo fu elevatissimo in termini sociali. Pertanto, nel 1876, la maggioranza dei parlamentari sentì il bisogno di un rinnovamento. Nel marzo, a presiedere il Consiglio dei Ministri venne chiamato Agostino Depretis, esponente della Sinistra moderata. Egli cerò l’appoggio anche dei deputati della Destra (per questo la sua linea politica venne tacciata di “trasformismo”) per sostenere lo stato liberale e monarchico di fronte agli attacchi dei sovversivi repubblicani (e più tardi socialisti) e dei reazionari legati alla Chiesa. 52 Agricoltura e industria negli anni Ottanta Nel 1880 e nel 1883 furono abrogati la tassa sul macinato e il corso forzo della lira. Inoltre, nel 1877, il Parlamento incaricò il senatore Stefano Jacini di stendere un rapporto sulla situazione delle campagne e dei contadini. L’inchiesta Jacini mise in luce le drammatiche condizioni di vita della maggioranza del popolo italiano (denutrizione, pellagra). Quando Cavour aveva introdotto il libero scambio (confermato poi dalla Destra), le importazioni di grano (in particolare americano) aumentarono notevolmente, danneggiando soprattutto i grandi proprietari terrieri del Sud. Questi dunque cominciarono a chiedere misure di tipo protezionistico. Anche gli industriali del Nord, per quanto molto diversi dai proprietari del Sud, premevano in questa direzione (a Torino, Milano e Genova – il triangolo industriale – si stava sviluppando un tipo di economia basata sulla meccanizzazione della manifattura e sulla produzione siderurgica). Le riforme del governo Depretis 1877 Legge Coppino: ribadisce l’obbligo scolastico dai 6 ai 9 anni e fissa sanzioni per i genitori inadempienti 1880 Avvio dell’abolizione della tassa sul macinato 1882 Legge elettorale che allarga il diritto di voto abbassando il limite di età a 21 anni e diminuisce il censo (da 40 a 20 lire). L’elettore deve saper leggere e scrivere. Alle elezioni politiche del 1882 viene eletto il primo deputato di idee socialiste, Andrea Costa 1883 Abolizione del corso forzoso della lira Protezionismo ed emigrazione di massa Anche se indietro rispetto alle grandi potenze, tuttavia, l’economia italiana negli anni Ottanta fece grandissimi progressi (soprattutto nel settore tessile; inoltre nel 1884 il governo decise di finanziare una grande acciaieria a Terni). Per tutelare il mercato interno dalla concorrenza straniera, nel 1887 venne abbandonato il libero scambio: sui manufatti esteri fu applicata una tariffa doganale. Ciò avvantaggiò l’industria del cotone e quella siderurgica, ma danneggiò quegli agricoltori del Meridione che avevano investito in prodotti da esportazione, come gli agrumi, il vino e l’olio. Inoltre, gli italiani del Sud si trovarono costretti ad acquistare solo prodotti nazionali, fabbricati nelle industrie del Nord, che si servivano del Meridione come di una specie di mercato coloniale. Ancora più grave fu la decisione di estendere il protezionismo ai cereali; la nuova tariffa, che alzava il prezzo del grano straniero, avvantaggiò i grandi produttori meridionali, che rappresentavano il ceto meno dinamico. In pratica, tra la componente più moderna (gli industriali del Nord) e quella più conservatrice (i grandi proprietari meridionali), si creò una paradossale alleanza, che provocò un’accentuazione del divario tra Nord e Sud. Intorno al 1890 cominciò il grande esodo di emigranti meridionali (si trattava soprattutto di braccianti) verso l’America17. La nascita del Partito socialista Dopo la morte di Depretis, nel luglio 1887, divenne presidente del Consiglio il siciliano Francesco Crispi. Egli era animato dal desiderio di trasformare l’Italia in uno stato rispettato dalle grandi potenze; pertanto, decise di tenere per sé anche i Ministeri dell’Interno e degli Esteri. Crispi cercò di rafforzare i poteri del governo, a scapito del Parlamento, tenendo spesso un comportamento autoritario (il suo modello era Bismarck). Crispi rafforzò i legami militari con la Germania ed entrò in contrasto con la Francia, con la si aprì una “guerra economica”, combattuta con le armi dell’embargo e della tariffa doganale. Le esportazioni italiane calarono di circa il 40%, con gravissime ripercussioni sia al Nord (esportatore di seta) che al Sud (esportatore di vino e prodotti agricoli). Le riforme del governo Crispi 1887 Tariffa doganale protezionistica: inizia la “guerra” economica con la Francia 1888 Riforma amministrativa: viene introdotto il suffragio universale maschile (per chi sa leggere e scrivere) nelle elezioni comunali e provinciali. Nei comuni con più di 10 000 abitanti i sindaci vengono eletti dal Consiglio comunale 1889 Codice penale Zanardelli: viene abolita la pena di morte e viene cancellato il divieto di sciopero 17 Negli anni Settanta, la maggior parte di loro, però, era partita dal Veneto (una delle regioni più povere del Nord), ma si trattava soprattutto di una emigrazione stagionale. 53 Nel 1892 a Genova nacque il Partito socialista, di ispirazione marxista e nel giro di alcuni anni ebbe un’adesione di massa tra gli operai e tra i braccianti. Il suo obbiettivo era, più che la rivoluzione e la conquista del potere, il miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori attraverso riforme sociali. Il principale leader socialista italiano che teorizzò questa concezione gradualista fu Filippo Turati. La repressione delle rivendicazioni popolari In Sicilia, negli stessi anni della nascita del PSI, nasceva il movimento dei Fasci dei lavoratori (non ha alcun legame con il partito fascista fondato da Mussolini), che era espressione del malcontento popolare di fronte alla crisi che aveva investito tutti i più redditizi settori dell’economia isolana: vino, frutta, zolfo. Nell’autunno 1893, le agitazioni dei lavoratori cominciarono a farsi violente. Il 3 gennaio 1894 Crispi inviò nell’isola 40 000 soldati, che procedettero ad arresti di massa e allo scioglimento di tutte le associazioni dei lavoratori. Inoltre, furono emessi provvedimenti d’emergenza che concedevano alla polizia ampi poteri di arresto preventivo e limitavano la libertà di stampa. Nell’ottobre 1894 venne sciolto il neonato Partito socialista, che tuttavia venne ricostituito l’anno successivo. La politica coloniale Crispi era un sostenitore dell’espansionismo imperialistico. Nel 1869 la Compagnia Rubattino di Genova aveva acquistato, con soldi pubblici, da due signorotti locali la desolata baia di Assab, in Eritrea. Nel 1885, con il consenso inglese, l’Italia occupò anche il porto di Massaua; ma non appena le truppe italiane tentarono di penetrare nell’entroterra incontrarono l’opposizione dell’imperatore d’Etiopia e dei suoi vassalli. Nel gennaio 1887, una colonna di 500 soldati cadde in un’imboscata a Dogali; l’episodio venne ingigantito dalla stampa, così i soldati caduti vennero trasformati in martiri della civiltà, gli abissini invece presentati come barbari selvaggi e feroci. Il primo passo per sottomettere l’Etiopia venne compiuto nel 1889, con il cosiddetto trattato di Uccialli. Si trattava di un accordo commerciale; da parte italiana, tuttavia, si ritenne che l’Etiopia, stipulando quel trattato, avesse accettato di delegare all’Italia la propria politica estera. L’imperatore Menelik, ovviamente, rifiutò una simile interpretazione e nel 1893 lo denunciò formalmente. Nel 1895 si arrivò al conflitto aperto. Al momento della battaglia decisiva, gli abissini si trovarono in una situazione di schiacciante superiorità numerica. Lo scontro risolutivo ebbe luogo ad Adua, il 1° marzo 1896 e si concluse con la completa disfatta italiana. Ciò creò nell’opinione pubblica una fortissima volontà di rivincita, su cui più tardi avrebbe fatto leva il fascismo. Quanto all’Eritrea, che restò in mano italiana, fu amministrata con estrema durezza, reprimendo nel sangue ogni tentativo di ribellione. La crisi di fine secolo Non appena furono note le dimensioni del disastro di Adua, il governo Crispi dovette dimettersi. Nel marzo 1896 tornò al potere la Destra con Antonio di Rudinì, che come Crispi, era convinto che l’Italia fosse minacciata da un doppio pericolo: i cattolici (ostili al Risorgimento) e i socialisti. A Milano, nel maggio 1898, quando venne proclamato lo sciopero generale, per protestare contro l’aumento del prezzo del pane, le autorità fecero intervenire l’esercito. Le truppe, comandate dal generale BavaBeccaris, sciolsero con la violenza tutte le dimostrazioni, provocando 82 morti. Turati venne processato e condannato a 12 anni di carcere. Più di cento giornali vennero soppressi e vennero sciolti gruppi parrocchiali, Camere del Lavoro, cooperative operaie. Il re Umberto I (che aveva sostituito Vittorio Emanuele II nel 1878) si congratulò con Bava-Beccaris e gli conferì un’onorificenza. Negli anni 1899-1900 il successore di Antonio di Rudinì, generale Luigi Pelloux, presentò delle leggi eccezionali, che proibivano lo sciopero degli operai addetti a un pubblico servizio, affidavano ai prefetti la facoltà di sciogliere o impedire riunioni all’aperto, limitavano la libertà di stampa e davano all’autorità giudiziaria la possibilità di sopprimere le associazioni ritenute pericolose. Di fronte a queste proposte, l’opposizione repubblicana e socialista in Parlamento ricorse all’ostruzionismo (procedura che rallenta l'andamento per la decisione e attuazione di leggi, mediante lunghi e numerosi discorsi dei deputati). L’opposizione al governo si estese fino a comprendere anche numerosi esponenti della Sinistra liberale. Il 29 luglio 1900, l’anarchico Gaetano Bresci uccise con tre colpi di pistola il re Umberto I. Si trattò di un atto gravissimo, ma in quell’occasione il paese mantenne i nervi saldi. Il quotidiano socialista “Avanti!” si dissociò nettamente dall’accaduto, definendo Bresci “pazzo criminale”; il nuovo sovrano Vittorio Emanuele III precisò che sarebbe rimasto fedele allo Statuto albertino e alla “monarchia liberale”. 54 V anno (dal 1900 a oggi) Temi Eventi principali L'Italia giolittiana • 1901-1914: Età giolittiana La Prima guerra mondiale • • • • • • • 1914: Attentato di Sarajevo (scoppia la Prima guerra mondiale) 1915: L'Italia entra in guerra 1917: Sconfitta di Caporetto 1918: Battaglie del Piave e di Vittorio Veneto (l'Italia esce vincitrice dal conflitto) 1917: Rivoluzione in Russia. Gli USA entrano in guerra 1918: Rivoluzione in Germania. La guerra si conclude con la vittoria dell'Intesa 1919: Si apre a Versailles la conferenza di pace. Nasce la Repubblica di Weimar Il comunismo in Russia • • • • 1917: Rivoluzione in Russia. Potere ai bolscevichi guidati da Lenin 1924: Morte di Lenin. Si afferma il potere di Stalin 1928: Primo piano quinquennale varato da Stalin in URSS 1934: Ha inizio in URSS la stagione delle “grandi purghe” Il fascismo • • • • • • • 1919: Mussolini fonda i Fasci di combattimento 1922: Marcia su Roma 1924: Delitto Matteotti 1926: Leggi “fascistissime” 1929: Patti lateranensi tra la Chiesa e lo Stato fascista 1935: L'Italia invade l'Etiopia. Sanzioni da parte della Società delle nazioni 1939: Patto d'acciaio tra Italia e Germania Il nazismo • 1933: Hitler al potere in Germania • 1935: In Germania, leggi di Norimberga contro gli ebrei Fra le due guerre • 1929: Crollo della Borsa di Wall Street. Inizia la grande crisi • 1932-33: Roosvelt inaugura il New Deal negli USA Seconda guerra mondiale • • • • • • • • • • 1936-39: Guerra civile spagnola 1940: Mussolini annuncia l'entrata in guerra dell'Italia 1943: Cade il regime di Mussolini. L'Italia firma l'armistizio con gli alleati 1945: Il CLN lancia l'insurrezione generale 1939: Hitler invade la Polonia (inizia la Seconda guerra mondiale) 1941: Attacco giapponese alla flotta americana a Pearl Harbor 1942-43: A Stalingrado i sovietici respingono l'assedio nazista 1944: Sbarco degli alleati in Normandia 1945: L'Armata rossa entra a Berlino. Fine della guerra in Europa 1945: Gli USA sganciano bombe atomiche sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki Secondo dopoguerra • • • • • • • 1947: Gli USA lanciano il piano Marshall per l'Europa 1949: Costituzione del Patto atlantico 1955: Patto di Varsavia tra gli Stati dell'Europa socialista 1956: Nel XX congresso del Pcus, Kruscev condanna i crimini dello stalinismo. Rivolta in Ungheria 1957: Nasce la Comunità economica europea 1958: De Gaulle al potere in Francia 1961: I sovietici erigono il Muro di Berlino L'Italia repubblicana • • • • • • • 1946: Referendum Istituzionale (l'Italia diventa Repubblica) 1948: Entra in vigore la Costituzione. Vittoria della DC alle elezioni 1958-63: Miracolo economico 1963: Nasce il primo governo di centro-sinistra organico 1969: Strage di Piazza Fontana a Milano 1974: Referendum sul divorzio (1981 referendum sull'aborto) 1978: Le Brigate rosse rapiscono e uccidono Aldo Moro 55 Moudlo 1: L’età giolittiana 1 La strategia politica di Giolitti Il periodo compreso fra la crisi di fine secolo e l’esplosione della prima guerra mondiale, viene chiamato età giolittiana, per il fatto che gli anni 1901-1914 furono dominati dalla figura di Giovanni Giolitti. Il moto ascendente delle classi popolari, secondo Giolitti, era invincibile, perché comune a tutti i paesi civili e poggiato sul principio dell’uguaglianza tra gli uomini; era dunque impossibile e assurdo opporvisi. Gli scioperi, secondo Giolitti, non avevano nulla di pericoloso e di rivoluzionario, finché si mantenevano sul piano della pura e semplice rivendicazione economica. Lo stato doveva trattenere l’esercito, evitando l’intervento repressivo, ed essere l’imparziale garante e tutore degli interessi di tutti i cittadini. La posizione politica di Giolitti Presupposto Obiettivo Strumento Consapevolezza del fatto che le Prevenire la rivoluzione sociale Una nuova strategia politica, masse operaie erano diventate delle masse operaie, guidate che garantisca il diritto di un soggetto politico dai partiti marxisti sciopero e permetta il graduale ineliminabile miglioramento delle condizioni di vita delle masse, dissuadendole dalle avventure rivoluzionarie La collaborazione politica con i socialisti riformisti Giolitti riteneva che favorire un graduale miglioramento nelle condizioni di vita dei lavoratori avrebbe spento il sogno utopico della rivoluzione socialista. Le masse popolari dovevano convincersi che lo stato non era un loro nemico e avrebbe potuto aiutarle nel migliorare davvero le loro condizioni di vita. I socialisti di Turati (linea gradualista) accettarono di collaborare con Giolitti. Tuttavia, restò forte, all’interno del partito socialista, un’ala rivoluzionaria che rifiutava ogni dialogo con lo stato borghese. Nel 1904 questa corrente ottenne la maggioranza e venne organizzato il primo sciopero generale su scala nazionale. Tra i rivoluzionari (o massimalisti) si distinse Arturo Labriola (influenzato dalle idee del filosofo Sorel). Giolitti non si lasciò spaventare e ordinò all’esercito e alla polizia di non intervenire. La stessa strategia fu adottata con gli scioperi del 1907 e 1908. Nel 1908 i riformisti ripresero la guida del PSI e gli scioperi generali vennero definiti metodi di lotta estremi, a cui si doveva ricorrere solo in situazioni eccezionali. Il partito invece doveva operare attraverso il lavoro parlamentare per ottenere quelle riforme che migliorassero le condizioni delle masse popolari, prime fra tutte il suffragio universale, l’imposta progressiva sui redditi e il potenziamento dell’istruzione pubblica. Nel 1899 a Torino inizia l’attività produttiva della Fiat. Dopo aver visitato gli stabilimenti della Ford di Detroit, che nel 1908 aveva iniziato a produrre il modello T, il fondatore dell’azienda torinese, Giovanni Agnelli, decise di tentare il lancio di una vettura più economica anche in Italia. Nel 1912, uscì la Tipo Zero, che costava appena 7000 lire e permise ad un numero maggiore di persone l’acquisto dell’autovettura. Il segno più eloquente della complessiva crescita industriale del paese è dato dal notevole aumento del consumo di energia elettrica. Va notato, tuttavia, come la grande crescita industriale riguardò solo il Nord. Il sistema giolittiano La politica economica continuò ad essere orientata verso il protezionismo. Di questa situazione beneficiarono principalmente le industrie dell’acciaio. Negli anni 1905-1912, lo stato si accollò un passivo di 224 milioni, pur di affidare la costruzione di strumenti bellici (navi e cannoni) e di materiale ferroviario alle acciaierie nazionali, che producevano a costi superiori rispetto agli impianti inglesi o tedeschi. L’intervento pubblico fu un supporto essenziale alla crescita industriale. Più grave e discutibile fu la decisione di Giolitti di continuare a sostenere il dazio sul grano, provvedimento che avvantaggiava solo i grandi proprietari terrieri latifondisti del Sud. Il sistema giolittiano Provvedimenti adottati Risultati politici Conseguenze sociali Protezionismo industriale Sostegno della borghesia Sviluppo economico delle città imprenditoriale del Nord 56 Neutralità del governo, in caso di scioperi privi di valenza rivoluzionaria Sostegno della corrente riformista del Partito socialista Protezionismo agrario Sostegno parlamentare dei deputati meridionali Aumento dei salari degli operai e miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori delle industrie Stagnazione economica delle regioni meridionali ed emigrazione di massa Giolitti ricevette dure critiche, soprattutto dal giornalista Gaetano Salvemini, che lo definì ministro della malavita. 2 La guerra di Libia Nel settembre del 1911, il governo decise di procedere alla conquista della Libia. Si trattava di una spartizione concordata con la Francia, che aveva ambizioni sul Marocco. Tale avventura accese un forte dibattito nel paese, tra coloro, come Salvemini, che vedevano nella Libia solo un enorme scatolone di sabbia, e la maggioranza degli intellettuali che invece guardavano all’impresa con ammirazione. Il testo più emblematico di questo entusiasmo è il discorso intitolato La grande Proletaria si è mossa, del poeta Giovanni Pascoli (pubblicato il 27 novembre 1911). Dal testo emerge un profondo disprezzo nei confronti delle popolazioni arabe residenti in Libia, considerate ottuse, pigre e incapaci di far fiorire una terra considerata meravigliosa, come dimostra il suo passato romano. La conquista coloniale italiana veniva presentata come una sorte di ritorno della terra libica ai suoi più antichi e legittimi proprietari, i Romani. Secondo Pascoli, l’occupazione della Libia avrebbe offerto possibilità di lavoro alle migliaia di italiani costretti, ogni anno, ad emigrare. L’Italia era vista come una nazione proletaria che finalmente iniziava il suo percorso di rinascita e riscatto, per diventare uno stato ammirato e rispettato. Con questo discorso, Pascoli si allineava ai nazionalisti, che esaltavano la necessità di un’espansione imperiale dell’Italia. Il conflitto libico destò entusiasmo anche negli ambienti cattolici. La guerra si concluse dopo circa un anno nell’ottobre 1912. La Libia diventava una colonia italiana. In realtà era stata conquistata solo la fascia costiera; solo negli anni Venti, applicando il sistema della deportazione in campi di concentramento, il regime fascista sarebbe riuscito a sottomettere davvero l’intero paese. 3 La riforma elettorale e il Patto Gentiloni Gli unici ad opporsi decisamente alla conquista della Libia furono i socialisti, in quanto non avrebbe portato alcun vantaggio alle classi popolari, ma solo arricchito gli industriali. Per recuperare credibilità agli occhi dei socialisti, Giolitti presentò alla camera un progetto di riforma elettorale. La nuova legge elettorale, approvata il 25 maggio 1912, concesse il diritto di voto a tutti i cittadini maschi maggiorenni che sapessero leggere e scrivere, ma anche agli analfabeti, a patto che avessero compiuto trent’anni o avessero svolto il servizio militare (in pratica si trattava di un suffragio universale maschile). All’interno del PSI, tuttavia, nel 1912 riprese il sopravvento la componente più radicale. Nel luglio dello stesso anno, poi, la direzione dell’ “Avanti!” venne affidata a Benito Mussolini, che aveva organizzato numerose dimostrazioni contro la guerra. Le prime elezioni con il nuovo sistema avrebbero potuto provocare una netta affermazione socialista. Per tale motivo, Giolitti cercò il sostegno dei cattolici e stipulò con loro un’intesa. Numerosi esponenti politici di orientamento liberale si accordarono con l’Unione Elettorale Cattolica, presieduta dal conte Vincenzo Ottorino Gentiloni. In tutti i collegi in cui era prevedibile una vittoria socialista, ai cattolici venne concesso di andare alle urne a votare per un candidato liberale, purché questi si fosse impegnato per iscritto a non sostenere alcuna proposta di legge contraria alla morale e ai principi cattolici. Le elezioni del 1913, le prime a suffragio universale maschile, videro in pratica la fine dell’astensionismo cattolico (che risaliva al non-expedit del 1870). Il contributo cattolico fu determinante per impedire una vittoria dei socialisti. Per il momento i cattolici parteciparono alla vita politica solo in veste di elettori. L’enciclica Rerum novarum, promulgata il 1891 da Leone XIII (divenuto papa nel 1878, alla morte di Pio IX), aveva già da tempo incoraggiato la creazione di associazioni e sindacati di stampo cattolico, per contrastare la propaganda socialista. Fu proprio questo ramificato sistema associativo a spianare la strada alla fondazione, nel 1919, del Partito Popolare 57 Italiano. Alle elezioni del 1913 furono ben 228 i candidati liberali che stipularono il Patto Gentiloni e vennero eletti grazie al voto determinante dei cattolici. Trovandosi di fronte ad una Camera dalle caratteristiche inedite e insolite, Giolitti per il momento decise di non assumere responsabilità di governo e lasciò l’incarico di Presidente del Consiglio al conservatore Antonio Salandra. 58 Moudlo 2: La prima guerra mondiale 1 Le origini del conflitto Tensioni e alleanze tra le potenze europee Al Congresso di Berlino del 1978 cominciarono a delinearsi alcune delle alleanze che caratterizzeranno la prima guerra mondiale: la Germania di Bismarck, timorosa di un eccessivo rafforzamento russo18 nei Balcani, si avvicinò alle posizioni dell’Austria-Ungheria e stipulò con essa un’alleanza difensiva. Nel 1875 la Russia, desiderosa di espandersi nella penisola balcanica, era intervenuta contro l’impero ottomano, a difesa della Serbia e del Montenegro, che a loro volta sostenevano i contadini cristiani della Bosnia e dell’Erzegovina nella loro ribellione contro i grandi proprietari terrieri musulmani. Dopo la vittoria russa, con la pace di Santo Stefano nel 1878, fu creato il vasto Stato di Bulgaria (comprendente gran parte dei territori europei sotto dominazione ottomana), che sarebbe dovuto essere subalterno alla Russia, ma che rimase invece autonomo (e fu ridimensionato) per l’opposizione di Inghilterra e Austria-Ungheria, le quali minacciarono di muovere guerra alla Russia. La crisi fu pacificata nell’estate del 1878 con il Congresso di Berlino: fu promosso dall'Austria e accettato dalle altre potenze europee per rettificare il trattato di Pace di Santo Stefano. Il Congresso ridimensionò e divise la nascente Bulgaria, satellite della Russia, e stabilì l’amministrazione austriaca della Bosnia. Confermò invece l’indipendenza della Romania, della Serbia e del Montenegro. La Germania, che fece da mediatrice, per aver scongiurato la grave crisi fra la Russia e l’Austria aumentò il suo prestigio ma incrinò i suoi rapporti con la Russia che non fu soddisfatta dei negoziati. La Turchia, pur perdendo estesi territori, limitò i danni rispetto alla Pace di Santo Stefano. Il cancelliere tedesco Bismarck, timoroso di un eccessivo rafforzamento russo, sostenne le posizioni dell’Austria-Ungheria e dell’Inghilterra e stipulò nel 1879 un’alleanza difensiva con l’Impero asburgico (che durerà fino al novembre 1918). L’Italia si avvicina agli Imperi centrali L’Italia aveva mire espansionistiche nel Nordafrica e cercò senza successo di ostacolare l’occupazione da parte della Francia della Tunisia, che avvenne nel 1881 (giustificata dai francesi come ricompensa per i vantaggi ottenuti da Inghilterra e Austria-Ungheria a Berlino). Risultò evidente la posizione di isolamento dell’Italia (che aveva raggiunto l’unità da poco tempo), la quale decise quindi di avvicinarsi all’Impero tedesco, principale avversario della Francia (vedi guerra franco-prussiana 1870-71 e questione dell’AlsaziaLorena). Nel 1882 nacque, con carattere puramente difensivo, la Triplice Alleanza tra Austria-Ungheria, Italia e Germania. Il sistema delle alleanze e il piano Schlieffen La Triplice Alleanza aveva come avversario principale la Francia: la Germania era in tensione con la Francia a seguito della conquista dell’Alsazia-Lorena19 (nel 1871); l’Italia ne temeva l’ulteriore espansione nel Mediterraneo. Stipulando la Triplice Alleanza l’Italia di fatto rimandava l’annessione di Trento e Trieste, cioè il completamento della propria unità nazionale: la questione delle terre irredente appariva secondaria rispetto alla necessità di contenere l’imperialismo francese nel mediterraneo. La Francia trovò un sostegno contro la Germania nella Russia, con cui stipulò un’alleanza difensiva nel 1892. Sebbene i due paesi erano notevolmente diversi (la Francia era una repubblica parlamentare, fiera del proprio passato illuminista e rivoluzionario, mentre l’Impero zarista era una monarchia assoluta e dispotica) per l’alleanza avevano premuto soprattutto i banchieri francesi, che avevano fornito alla Russia notevoli capitali, indispensabili per l’ammodernamento e l’industrializzazione del paese. La Germania si trovò di fronte alla prospettiva di una guerra su due fronti: a occidente con la Francia e a oriente con la Russia. Per risolvere questa grave situazione il generale Alfred von Schlieffen elaborò un piano 18 Nel 1875 la Russia, desiderosa di espandersi nella penisola balcanica, era intervenuta contro l’impero ottomano, a difesa della Serbia e del Montenegro, che a loro volta sostenevano i contadini cristiani della Bosnia e dell’Erzegovina nella loro ribellione contro i grandi proprietari terrieri musulmani. Dopo la vittoria russa, con la pace di Santo Stefano nel 1878, fu creato il vasto Stato di Bulgaria (comprendente gran parte dei territori europei sotto dominazione ottomana), che sarebbe dovuto essere subalterno alla Russia, ma che rimase invece autonomo (e fu ridimensionato) per l’opposizione di Inghilterra e Austria-Ungheria, le quali minacciarono di muovere guerra alla Russia. La crisi fu pacificata nell’estate del 1878 con il Congresso di Berlino 19 L’Alsazia e la Lorena si trovano nella regione del Reno. Nel 1871, la Germania se ne impossessò dopo la vittora sulla Francia. Dal momento che queste due terre per circa ottant’anni sono state il simbolo dell’ostilità franco-tedesca e della divisione politica dell’Europa, proprio Strasburgo, capoluogo dell’Alsazia, venne scelta nel 1949 come sede per il Parlamento dell’Unione Europea. 59 strategico particolarmente ingegnoso: il suo ragionamento partiva dalla constatazione che, mentre le ferrovie tedesche erano modernissime ed efficienti, il sistema di trasporti russo era ancora carente, quindi prima che tutte le forze russe potessero essere portate al fronte contro la Germania, sarebbe passato un intervallo di tempo che l’Impero tedesco avrebbe potuto sfruttare per concentrare tutte le proprie energie a ovest contro la Francia. Per sconfiggere la Francia in tempi brevi era necessaria una mossa a sorpresa: Von Schlieffen propose che l’esercito tedesco disponesse piccoli contingenti sul fronte russo e in Alsazia-Lorena, mentre la massa d’urto dell’esercito germanico avrebbe puntato direttamente su Parigi da nord, dopo aver attraversato il Belgio. Dal momento che quest’ultimo paese era neutrale, i francesi sarebbero stati colti alla sprovvista e la guerra sul fronte occidentale si sarebbe conclusa nel giro di poco, a quel punto grazie all’efficientissimo sistema ferroviario del Reich, tutto l’esercito germanico avrebbe potuto essere trasferito verso est, per fronteggiare e sconfiggere i russi. La flotta da guerra tedesca Il punto debole del piano Schlieffen era il previsto attraversamento del Belgio, che avrebbe provocato l’immediata reazione della Gran Bretagna. Per attuarlo quindi la Germania avrebbe dovuto mantenere buone relazioni con l’Inghilterra (proseguendo sulla linea del Congresso di Berlino del 1878), invece per volontà dell’Imperatore Guglielmo II, la Germania condusse una politica ostile alla Gran Bretagna. Il principale motivo di attrito fu la flotta di navi da guerra di cui la Germania cominciò a dotarsi, a partire dal 1898. Alla sfida tedesca l’Inghilterra rispose nel 1906 iniziando la costruzione di una serie di corazzate di nuovissima concezione chiamate Dreadnoughts (in seguito anche la Germania iniziò a costruirle). Il risultato fu il progressivo avvicinamento dell’Inghilterra ai nemici della Germania. Nel 1904 Francia e Gran Bretagna strinsero l’Intesa cordiale, nel 1907 l’Inghilterra raggiunse un accordo con la Russia (per queste tre potenze il vero nemico era ora la Germania). La politica di potenza tedesca Il capitalismo tedesco in realtà era diviso sul riarmo navale. Grandi gruppi industriali (come quelli legati alla produzione dell’acciaio) ricavavano profitti eccezionali dalla costruzione della flotta; ma altri, come Walther Rathenau, dirigente dell’AEG, il complesso industriale più potente a livello mondiale nel campo della produzione dell’energia elettrica, erano contrari perché avrebbe portate ad uno scontro con la Gran Bretagna. Le motivazione economiche del riarmo comunque non erano quelle prevalenti: all’inizio del Novecento la possibilità di conquistare colonie si era praticamente esaurita e ciò obbligava alla ricerca di altre manifestazioni di potenza e prestigio; la flotta da guerra era letta come un mezzo capace di mostrare al mondo la forza e la grandezza della nazione tedesca. Secondo il Ministro per la Marina tedesco, Alfred von Tirpitz, il vero artefice del programma di riarmo navale, bisognava dissuadere la Gran Bretagna dalla tentazione di intervenire contro l’Impero tedesco: la flotta doveva servire come arma di pressione per convincere l’Inghilterra a scendere a patti con la grande potenza tedesca. La polveriera balcanica Il regno di Serbia aveva ottenuto la definitiva indipendenza al Congresso di Berlino e desiderava allargare i propri confini: sperava di giungere alla costruzione di un vasto stato nazionale che comprendesse tutti i popoli jugoslavi (slavi del Sud), compresi anche gli sloveni, i croati e i bosniaci, che si trovavano sotto dominazione dell’Austria-Ungheria. Nel 1902 Italia e Francia si accordarono per la spartizione del Nordafrica: in caso di occupazione francese del Marocco (che avvenne nel 1911), l’Italia avrebbe potuto conquistare la Libia (1911-12). Ciò rendeva ormai superati i motivi antifrancesi che tenevano l’Italia nella Triplice Alleanza. Approfittando della guerra italo-turca nel 1912 la Serbia, alleatasi con Grecia, Montenegro e Bulgaria, intervenne contro l’Impero ottomano nella prima delle due guerre balcaniche20, obbligandolo alla cessione di parte della Macedonia. Austria-Ungheria e Italia però negarono alla Serbia l’accesso al mare, e istituirono il piccolo stato dell’Albania. Nel 1913 i rapporti tra Serbia e Austria-Ungheria si fecero sempre più tesi: mentre Belgrado aspirava a cancellare lo stato albanese e a liberare i territori slavi sotto dominio austriaco, a Vienna si diffondeva l’idea di infliggere una dura lezione al regno di Serbia. 20 Nella seconda guerra balcanica del 1913, la Bulgaria attaccò la Serbia, ma venne duramente sconfitta 60 2 La dinamica del conflitto L’attentato di Sarajevo Il 28 giugno a Sarajevo (capitale Bosnia-Erzegovina), un terrorista serbo-bosniaco di 19 anni, Gavrilo Princip, uccise a colpi di pistola l’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo, erede al trono austroungarico; dietro il gesto omicida c’era una vera cospirazione preparata da un gruppo nazionalista chiamato “Giovane Bosnia”, collegato a sua volta all’associazione nazionalista serba “Unione o Morte”, fondata dal colonnello Dragutin Dimitrevic, capo dei servizi segreti dell’esercito serbo. Il governo austriaco imputò la responsabilità dell’omicidio interamente allo stato serbo. I governanti austro-ungarici sapevano bene che in caso di conflitto la Serbia sarebbe stata sostenuta dalla Russia e che si sarebbe arrivati ad una guerra estesa a tutte le potenze europee, per questo consultarono dapprima il governo tedesco che, forte del piano Schlieffen, assicurò il suo appoggio. Il governo di Vienna consegnò a quello di Belgrado il suo ultimatum il 23 luglio, contenente pesanti richieste: la Serbia avrebbe dovuto vietare ogni forma di propaganda antiaustriaca, licenziare i funzionari e ufficiali che avessero manifestato posizioni nazionalistiche, e soprattutto avrebbe dovuto istituire una commissione d’inchiesta sull’assassinio con la partecipazione di delegati austriaci. Fu solo quest’ultimo punto che la Serbia non accolse, perché avrebbe significato una pesante limitazione della sua sovranità nazionale. Così il 28 luglio l’Austria-Ungheria dichiarò guerra alla Serbia. L’invasione del Belgio Tutti pensavano che la guerra sarebbe stata breve e affermavano di agire per legittima difesa. Per la Germania i tempi di decisione, legati al piano Schlieffen, erano strettissimi. Dopo che la Russia ebbe schierato le proprie truppe al confine con l’Austria-Ungheria e con la Germania, il 31 luglio il governo tedesco inviò un ultimatum a quello russo, intimando di sospendere le operazioni, e di fronte al silenzio dei russi il 1° agosto l’Impero tedesco entrò ufficialmente in guerra con la Russia e conseguentemente (2 agosto) con la Francia sua alleata. Il 2 agosto la Germania intimò al Belgio di lasciar passare le sue truppe sul suo territorio, ciò provocò la reazione della Gran Bretagna e il 4 agosto, dopo che i primi reparti tedeschi avevano violato la frontiera del Belgio, l’Inghilterra dichiarò guerra all’Impero germanico. L’invasione tedesca del Belgio fu brutale e spietata, con uccisioni di massa, rappresaglie e saccheggi. La fine della guerra di movimento Il piano Schlieffen prevedeva una rapida vittoria tedesca sul fronte occidentale, ma le truppe germaniche dopo un mese di marce e scontri erano stremate; inoltre una parte dell’esercito dislocato in Belgio dovette essere spostato su altri fronti (in Alsazia contro i francesi e in Prussia Orientale contro i russi, dove i tedeschi ottennero una grande vittoria a Tannenberg che provocò ai russi perdite elevatissime). L’attacco decisivo a Parigi non riuscì a concretizzarsi: le armate tedesche si fermarono a 40 km da Parigi; il 5 settembre nella regione del fiume Marna i francesi e gli inglesi passarono al contrattacco e cancellarono per sempre le speranze di una rapida vittoria tedesca sul fronte occidentale (si scontrarono più di un milione di tedeschi contro più di un milione di francesi e inglesi; tale mobilitazione di uomini fu possibile grazie alle moderne ferrovie). Nell’ottobre 1914 il conflitto si trasformò in guerra di posizione: i due eserciti si attestarono lungo una linea che percorreva longitudinalmente l’intera Francia (dal Mare del Nord fino al confine con la Svizzera) denominata fronte occidentale e composta materialmente di due file di trincee (di 765 km) che correvano in parallelo e separate da uno spazio denominato “terra di nessuno”, largo dai 200 ai 1000 metri. La guerra di trincea Dall’autunno 1914 per quattro anni il fronte occidentale, nonostante le enormi perdite umane, non subì alcun cambiamento significativo: la capacità difensiva, infatti, di ogni esercito era infinitamente superiore alla sua capacità di attacco, ciò provocò una situazione di stallo. I soldati che prendevano d’assalto la trincea nemica venivano falcidiati dai colpi di mitragliatrice (altre armi micidiali usate erano i cannoni di grosso calibro). Inoltre, le trincee erano protette dal filo spinato che bloccava l’impeto dell’assalto. Neanche l’utilizzo di nuove armi come il gas (impiegato per la prima volta dai tedeschi nei pressi della città belga di Ypres nel 1915) spezzò lo stallo21. 21 L’impiego del gas non era semplice, perché se il vento non spirava nella direzione giusta poteva ritorcersi contro chi lo lanciava. Ben presto poi gli eserciti si dotarono di rudimentali ma efficaci maschere antigas. 61 Le battaglie di Verdun (offensiva tedesca) e della Somme (offensiava inglese) del 1916 Quelle di Verdun (offensiva tedesca bloccata dai francesi) e della Somme (offensiva inglese bloccata dai tedeschi) nel 1916 furono le due battaglie più lunghe e sanguinose del conflitto. A Verdun morirono circa 300 000 soldati, sulla Somme 650 000, senza nessun mutamento della situazione strategica. A Verdun fu sperimentato per la prima volta il lanciafiamme e sulla Somme furono impiegati i primi rudimentali carri armati (tanks). Una guerra di logoramento Dopo che la prospettiva di una soluzione rapida del conflitto emerse chiaramente che la vittoria sarebbe stata ottenuta da chi fosse stato capace di resistere più a lungo, continuando a mettere in campo risorse umane e materiali indispensabili per continuare a combattere. Il numero dei soldati che presero parte al conflitto fu enorme (più di 65 milioni), così come dei morti (quasi 9 milioni), dei feriti (più di 21 milioni), dei dispersi e prigionieri (quasi 8 milioni). Per tali numeri, impensabili in qualsiasi guerra precedente, il conflitto fu detto “Grande guerra”. Il protrarsi della guerra rese importantissima la capacità di gestire le risorse e di produrle. A partire dall’estate 1914, la marina britannica istituì un rigido blocco navale per impedire le importazioni tedesche di materie prime necessarie per la produzione bellica (come il rame e il nitrato di potassio dal Cile per la fabbricazione di esplosivi). Per far fronte a tale situazione la Germania cercò di riorganizzare la propria economia con una rigorosa pianificazione (che decretò la fine del modello liberista), il cui principale fautore fu l’industriale Walther Rathenau. La guerra totale La soluzione alla carenza di nitrato di potassio fu trovata facendo ricorso alle recenti scoperte dell’industria chimica (ricavare azoto dall’atmosfera), più difficile fu reperire generi alimentari, che in Germania scarseggiavano (nell’inverno 1916-17 molti furono costretti a nutrirsi quasi esclusivamente di rape). I tedeschi giocarono la carta della guerra navale, scontrandosi con la flotta britannica al largo della costa dello Jutland, senza riuscire però a forzare il blocco. Preso atto dell’impossibilità di contrastare la marina inglese, la Germania intraprese la guerra sottomarina, che fu la più efficace risposta al blocco navale britannico. I sommergibili affondavano sistematicamente qualsiasi nave, civile e militare, che solcassero l’Atlantico e il Mare del Nord: l’obiettivo era quello di arrestare l’afflusso di materie prime e derrate alimentari dirette in Inghilterra. La macchina militare bellica inglese corse il rischio di incepparsi per mancanza di alimenti e materie prime, ma la situazione migliorò in seguito all’adozione del sistema dei convogli: le navi mercantili iniziarono ad attraversare l’Atlantico in gruppo, ben protette dalla marina da guerra. Il fallimento dell’offensiva sottomarina può essere considerato una delle principali cause della sconfitta tedesca. La guerra fu totale in quanto non faceva più differenza fra civili e militari, perché la distruzione dell’apparato produttivo del nemico è importante quanto una vittoria sul campo22. Il crollo della Russia e l’intervento degli Stati Uniti (1917) L’avanzata germanica sul fronte orientale, a differenza di quello occidentale, era inarrestabile (nell’agosto 1915 Varsavia era stata occupata). All’inizio del 1917 l’esercito zarista si era sgretolato e i disertori erano un milione e mezzo. Nelle città russe il costo della vita era cresciuto del 700%, mancavano i più elementari generi di prima necessità (pane, legna, carbone), per cui la gente soffriva pesantemente la fame e il freddo. Tale drammatica situazione provocò la cauta dello zar (15 marzo 1917) e poi (6 novembre) la rivoluzione dei comunisti guidati da Vladimir Lenin. Il 3 marzo 1918 il nuovo governo comunista firmò coi tedeschi la pace di Brest-Litovsk. Il trattato era quanto mai oneroso per la Russia (pesanti amputazioni territoriali, fra cui l’intera Ucraina che sarebbe dovuta diventare stato autonomo satellite della Germania). Lenin accettò tutte le condizioni consapevole che il popolo russo era stanco di combattere e avrebbe appoggiato solo un governo che lo avesse portato fuori dal conflitto. Per la Germania la sconfitta della Russia significò la fine della guerra su due fronti e la possibilità di rovesciare tutto il proprio esercito a occidente; tale situazione favorevole per la Germania però fu vanificata dall’entrata in guerra degli Stati Uniti contro l’Impero tedesco il 6 aprile 1917. I sottomarini tedeschi non riuscirono a bloccare l’afflusso di uomini e merci provenienti dalla gigantesca produttività dei cantieri 22 Questo aspetto sarà portato a livelli più drammatici durante la seconda guerra mondiale: è vero che nel 1914-18 Londra fu attaccata dai dirigibili Zeppelin e dagli aerei bimotori Gotha, però i danni non furono paragonabili a quelli dei massicci bombardamenti degli anni 1940-45. 62 americani, che riuscivano a varare nuove navi in quantità molto maggiore rispetto alla capacità distruttiva dei sommergibili tedeschi. Significato storico dell’intervento americano L’8 gennaio 1918 il presidente americano Thomas Woodrow Wilson in un messaggio al Congresso enunciò in 14 punti gli obiettivi politici che l’America si proponeva di ottenere dalla vittoria. Wilson presentava gli Stati Uniti come i garanti della libera navigazione sui mari (che la guerra sottomarina aveva reso impossibile)23. Inoltre Wilson poneva il principio di nazionalità come criterio di soluzioni dei principali problemi europei (ciò avrebbe significato la restituzione dell’Alsazia-Lorena alla Francia, la nascita di uno stato polacco indipendente e la dissoluzione dell’Impero Austro-Ungarico). Per quanto riguarda la Russia comunista, Wilson si dimostrò conciliante, sostenendo che dove essere lasciata ad essa l’opportunità di determinare in piena indipendenza le linee del proprio sviluppo politico e nazionale. Infine Wilson propose l’istituzione di una Società Generale delle Nazioni, ovvero un organismo internazionale con lo scopo di risolvere i contrasti e garantire l’indipendenza politica e territoriale di tutti gli stati (in modo da scongiurare in futuro guerre come quella appena conclusa). Gli Stati Uniti, con la partecipazione alla guerra e con il discorso di Wilson, uscivano dal loro tradizionale isolazionismo, anche se a dir il vero, negli anni successivi persero ben preso interesse per le vicende europee, tanto che nel 1919 gli USA non entrarono a far parte della Società delle Nazioni, quando venne effettivamente istituita dalle potenze vincitrici. È importante notare che la prima guerra mondiale fu vinta da francesi e inglesi solo con l’aiuto americano, questo tuttavia non significò la perdita della centralità della politica dell’Europa e la sua dipendenza militare dagli USA (gli USA invece avranno un peso preponderante in Europa dopo la fine della seconda guerra mondiale, in contrapposizione alla Russia sovietica). La fine del conflitto Il 21 marzo 1918 l’esercito tedesco iniziò una grande offensiva che nelle intenzioni dei generali Hindenburg e Ludendorff avrebbe dovuto sfondare il fronte occidentale. I tedeschi riuscirono effettivamente a sfondare il fronte in alcuni punti e a giungere nuovamente a minacciare Parigi, tuttavia dopo quattro mesi l’offensiva si concluse con un insuccesso, anche grazie all’uso massiccio di aeroplani e carri armati da parte di inglesi, francesi e americani24. Nel settembre 1918 la Germania non era più in grado di opporre resistenza, anche se le autorità non si decidevano a intavolare trattative di pace (consapevoli che sarebbe stata chiesta una resa senza condizioni). In novembre la situazione precipitò con una serie di ammutinamenti e manifestazioni di protesta: il 3 novembre 3 000 marinai della base navale di Kiel sul Baltico; lo stesso giorno l’Impero austro-ungarico si arrese; nei giorni seguenti si unirono ai ribelli 20 000 soldati della guarnigione di Kiel e i marinai dei porti di Lubecca e Amburgo. Le rivolte di Monaco (7 novembre) e Berlino (9 novembre) provocarono l’abdicazione del Kaiser Guglielmo II (che fuggì in Olanda) e la proclamazione della Repubblica. L’11 novembre 1918 la Germania firmò l’armistizio con le potenze alleate. La prima guerra mondiale era ufficialmente terminata dopo aver provocato la morte di almeno 10 milioni di soldati oltre a 4 milioni di civili morti per effetto diretto delle azioni belliche. A questo tragico bilancio si deve aggiungere la micidiale epidemia di influenza chiamata spagnola, che provocò la morte, in tutto il mondo, di oltre 20 milioni di persone (la sola l’India contò 12 milioni di morti). 3 La guerra vissuta L’euforia collettiva del 1914 Nell’estate del 1914 in tutti gli stati d’Europa lo scoppio delle ostilità venne accolto con euforia ed entusiasmo, tutti convinti che la guerra sarebbe durata poco e avrebbe portato al trionfo della propria nazione. Anche i partiti socialisti dei vari paesi, nonostante l’opposizione della Seconda Internazionale, finirono per appoggiare la scelta dei rispettivi governi, dimenticando il principio marxista della solidarietà dei proletari di tutto il mondo e accettando di identificarsi con la difesa della singola patria (l’idea di nazione prevalse su quella di classe). La comunità nazionale Nel giorno della dichiarazione di guerra, il kaiser Guglielmo II coniò uno slogan: “Non vedo più partiti. 23 Il 7 maggio 1915 l’affondamento del transatlantico Lusitania comportò la morte di 1198 persone, 128 delle quali erano cittadini americani 24 Tali scontri lasciarono intravedere le tecniche di combattimento che caratterizzeranno la seconda guerra mondiale 63 Vedo solo tedeschi”. Agli occhi dei tedeschi in quel momento storico le differenze sociali e politiche, prodotte dalla società industriale, parvero irrilevanti. Si compì un miracolo emotivo che suscitò un rinnovato senso della comunità nazionale, intesa come una realtà omogenea chiamata ad un comune destino. Questo entusiasmo patriottico e l’atmosfera di spiritualità nazionale confluirono successivamente nel modello nazista (liturgie di masse, fine del parlamentarismo, principio dell’obbedienza incondizionata al Führer). La fuga dalla modernità La moderna società industriale non è solo stratificata in classi, ma anche produttrice di nuovi tipi di rapporti umani: l’individuo immerso nella massa (nelle strade, stazioni, fabbriche, condomini, ecc.) in realtà è solo e vive tale isolamento con angoscia e dolore. In Germania nacque il Movimento giovanile, un fenomeno che investì la gioventù borghese alla fine dell’Ottocento, come forma di protesta nei confronti dell’impersonale società urbana costruita dagli adulti. Questi giovani si dedicavano ad escursioni e gite che li portavano a diretto contatto con la natura. All’interno di questi gruppi nacque il concetto di Führer: nei gruppi emergeva un leader, il quale pur sempre un pari, si distingueva per il suo carisma, per le sue qualità morali e fisiche, meritandosi l’unanime ammirazione e obbedienza, espressa con il saluto “heil” accompagnato dal braccio teso verso l’alto. Col tempo il movimento assunse un carattere sempre più nazionalistico. Il Movimento giovanile fu un fenomeno d’élite, mentre l’entusiasmo del 1914 coinvolse un numero elevatissimo di tedeschi, alla ricerca di nuove forme di aggregazione capaci di sconfiggere l’isolamento urbano. Molte persone, aderendo alla guerra, si percepirono parte di una comunità, si identificarono con la nazione, vincendo l’angoscia dell’isolamento. Per lo stesso motivo milioni di tedeschi avrebbero successivamente aderito al Partito nazista. La disillusione dei soldati Al momento della dichiarazione di guerra, i ragazzi che avevano aderito al Movimento giovanile si arruolarono in massa. Ottantamila di questi volontari caddero nella battaglia di Langemarck (nelle Fiandre), nel novembre 1914, falciati dalle mitragliatrici inglesi. La stessa disillusione sopraggiunse per i volontari inglesi. Nel loro immaginario la morte per la patria era qualcosa di glorioso e eroico (vedi poesia Wilfred Owen), ma in realtà si trovarono di fronte ad una morte industriale, di massa. Morire sventrati da una granata non aveva nulla di eroico, crolla così l’illusione della guerra romantica. Rivolte e ammutinamenti Man mano che la guerra di logoramento continuava, il malcontento divenne sempre più acuto fra i soldati al fronte e fra la popolazione. Gruppi minoritari, staccatisi dai vari Partiti socialisti dei diversi paesi, si riunirono a congresso in Svizzera a Zimmerwald (settembre 1915) e a Khienthal (aprile 1916), ma i loro appelli di pace che rilanciavano il tradizionale internazionalismo proletario restò inascoltato. Nel 1917 la situazione degenerò e si verificarono ammutinamenti di massa sia tra le truppe tedesche che tra quelle francesi (il comando francese però riuscì a recuperare l’obbedienza delle truppe con interventi tesi a migliorare le condizioni di vita dei soldati al fronte). Lenin in Russia riuscì a legare il comunismo al rifiuto della guerra e ciò si ripercosse anche su altri paesi, come la Germania, in cui i movimenti nazionalisti addossarono ai socialisti la responsabilità della sconfitta e tale retorica sarà poi ripresa da Hitler, secondo il quale la guerra era stata persa per il cedimento del fronte interno che aveva pugnalato alle spalle l’esercito ancora imbattuto. 64 Moudlo 2b: L’Italia dal 1914 al 1918 1 Il problema dell’intervento La scelta della neutralità Allo scoppio della guerra l’Italia era legata alla Germania e all’Austria-Ungheria per mezzo della Triplice Alleanza. Il capo di Stato Maggiore dell’esercito, generale Luigi Cadorna, sollecitava l’entrata in guerra a fianco delle truppe tedesche e austriache, ma il governo, presieduto dal liberale conservatore Antonio Salandra, decise che l’Italia sarebbe rimasta neutrale, in quanto la Triplice Alleanza era un trattato puramente difensivo e secondo il giudizio di Salandra non si era verificata una vera e propria aggressione nei confronti dei due Imperi alleati con l’Italia. Le ragioni di questa scelta erano legate alla constatazione dell’esaurimento delle ragioni che avevano portato l’Italia a firmare la Triplice Alleanza, ovvero il desiderio di frenare l’espansionismo francese nel Mediterraneo. Inoltre l’Austria-Ungheria non aveva alcuna intenzione di cedere Trento e Trieste all’Italia. I sostenitori della neutralità Invece di un grande movimento di solidarietà nazionale, la prospettiva della guerra generò in Italia un vasto dibattito e una violenta frattura dell’opinione pubblica, divisa tra interventisti e neutralisti. Il più autorevole dei neutralisti era Giovanni Giolitti, il quale aveva intuito che il conflitto sarebbe stato lungo ed estenuante e pensava che l’Italia avrebbe avuto maggiori vantaggi sfruttando la propria posizione di neutralità. Anche la Chiesa pensava fosse opportuno restare fuori dal conflitto, sia per ragioni di natura morale, in quanto il conflitto si stava rivelando un enorme massacro (papa Benedetto XV lo definì la guerra una “inutile strage”), sia per ragioni politiche, l’intervento italiano contro l’Austria-Ungheria avrebbe potuto contribuire alla sconfitta dell’unica grande potenza dichiaratamente cattolica. A favore della neutralità si schierarono anche i socialisti, poiché pensavano che la guerra mondiale altro non fosse che la continuazione della volontà imperialista degli stati di strappare con la forza ai rivali nuove regioni e che il proletariato non avrebbe ottenuto alcun beneficio da questa guerra, tutta a vantaggio dei capitalisti. Tuttavia, i socialisti italiani si limitarono a una opposizione verbale alla guerra, espressa dal motto “né aderire né sabotare”. Gli interventisti di sinistra Tra i favorevoli all’intervento vi erano innanzitutto gli intellettuali democratici, tra cui Gaetano Salvemini e Cesare Battisti (che sarebbe stato poi impiccato dagli austriaci nel 1916), eredi della tradizione mazziniana e risorgimentale, secondo cui la guerra rappresentava un “nuovo Risorgimento”, ovvero l’occasione per liberare Trento e Trieste e completare l’unificazione nazionale. Poi tra gli interventisti spiccarono i sindacalisti rivoluzionari, i quali, ispirati dalle teorie del filosofo francese George Sorel, vedevano nella guerra e nel suo inevitabile carico di morte, miseria e disordine sociale la condizione ideale per dare avvio alla rivoluzione proletaria. Su posizioni simili si schierò anche Benito Mussolini, che il 15 novembre 1914 fondò un nuovo giornale, “Il Popolo d’Italia”, proprio per sostenere la propaganda a favore dell’intervento. Benché il giornale riportasse come sottotitolo la dicitura “quotidiano socialista”, esso fu finanziato da numerosi gruppi di industriali, favorevoli al coinvolgimento del paese in guerra, e probabilmente anche dall’ambasciata francese. I nazionalisti I più accesi sostenitori dell’intervento furono i nazionalisti; il movimento era stato fondato da Enrico Corradini nel 1903 e aveva nella rivista “Il Regno” il principale mezzo di diffusione delle proprie idee. Corradini strumentalizzò la terminologia marxista per sostenere idee nazionaliste: riteneva che vi fossero nel mondo “Nazioni borghesi”, ovvero quelle che avevano costruito già da tempo i propri imperi e si erano arricchite, e “Nazioni proletarie”, ovvero quelle, fra cui l’Italia, che erano ancora alla ricerca di una propria affermazione politico-militare e di un impero coloniale. Le nazioni ricche, secondo Corradini, soffocavano quelle proletarie, destinate tuttavia ad emergere e a prendere il posto delle ormai declinanti potenze borghesi. Per favorire questo processo però era necessario schiacciare “l’ignobile socialismo”, che conduceva la nazione verso la guerra civile, esortando i proletari a combattere contro i borghesi. Inoltre, Corradini era nemico della democrazia e del parlamentarismo e riteneva che il potere dovesse essere 65 esercitato in modo autoritario da una élite ristretta, capace di individuare gli obiettivi della politica nazionale e di perseguirli con mano ferma. Gli intellettuali Le posizioni antidemocratiche e nazionaliste di Corradini trovarono numerosi consensi fra gli intellettuali, primo fra tutti Gabriele D’Annunzio. Nel più famoso dei suoi romanzi, Il piacere (1889), D’annunzio, influenzato anche dalla versione distorta della filosofia del superuomo di Nietzsche, criticava “il grigio diluvio democratico” dei suoi tempi, che non lasciva più spazio all’eroe e all’uomo eccezionale, schiacciato dalle masse25. Da una nuova generazione di intellettuali la guerra venne vista come evento affascinante e avvincente per eccellenza. Giovanni Papini, nel 1913 sulla rivista Lacerba, celebrò la guerra come uno strumento liberatore, capace di spazzar via dalla Terra l’umanità in esubero, le ottuse masse che soffocavano il genio. In termini simili Filippo Tommaso Marinetti definì la guerra la “sola igiene del mondo”. Marinetti diede vita nel 1909 al movimento artistico del Futurismo, preoccupato di adeguare l’arte alla realtà moderna, al XX secolo, visto come tempo della velocità. 2 L’Italia in guerra Il Patto di Londra Nella primavera del 1915 gli interventisti intensificarono la propaganda a favore della guerra e organizzarono numerose manifestazioni dei massa, in cui fu determinante il contributo coreografico di D’Annunzio. Alcuni di quei raduni rappresentarono l’avvio del nuovo modo di gestire la leadership politica, anticipando le liturgie di masse del periodo fascista. Il leader non era più una figura separata dal popolo, ma colui che sapeva emozionarlo. Chi partecipava al raduno era colpito dalle musiche, dai colori, dal contesto, ancor prima che dalle parole dell’oratore. Il risultato era una profonda carica emotiva, capace di travolgere ogni obiezione di tipo razionale. Il 26 aprile 1915, il governo italiano firmò il Patto di Londra, con cui si impegnava ad entrare in guerra entro un mese, a fianco di Francia, Gran Bretagna e Russia, contro Austria-Ungheria e Germania. L’accordo prevedeva, dopo la vittoria, che all’Italia sarebbero state assegnate Trento e Trieste, l’Alto Adige, l’Istria, la Dalmazia26 e una parte delle colonie tedesche. Il Patto per essere esecutivo doveva essere ratificato dal Parlamento, la cui maggioranza era però su posizioni neutraliste, simili a quelle di Giolitti. Tale atteggiamento suscitò la collera degli interventisti27. Il “maggio radioso” Il maggio del 1915 (ribattezzato da D’Annunzio “maggio radioso”) vide in tutte le principali città italiane scontri violenti fra neutralisti e interventisti. Resosi conto di non godere della fiducia della Camera, il 13 maggio Salandra diede le dimissioni, ma il re Vittorio Emanuele III, deciso sostenitore dell’intervento, gli conferì di nuovo l’incarico. A quel punto per i deputati votare di nuovo contro il Patto di Londra avrebbe significato sconfessare l’autorità del Re; pertanto il 20 maggio il Parlamento ratificò la decisione del governo, con il voto contrario dei socialisti, provocando l’ingresso dell’Italia in guerra (24 maggio). Di fatto il Parlamento era stato scavalcato e ciò determinò una sua perdita di prestigio che si ripercosse anche negli anni successivi alla fine del conflitto. Le operazioni militari Il fronte italiano era lungo circa 700 km e le operazioni militari si svolsero contemporaneamente nelle regioni del Trentino e del Carso28. Nel Trentino fu una guerra di montagna. Nella regione dell’altopiano del Carso, che 25 La stessa vita di D’Annunzio fu una continua ricerca di esperienze forti e di emozioni, nel completo disprezzo della morale corrente. Con questo spirito egli partecipò alla guerra mondiale e compì imprese spettacolari, come il siluramento delle navi austriache nel porto di Buccari e un volo su Vienna (1918). Nel 1919 guidò l’occupazione di Fiume e fu un importante punto di riferimento per il nascente movimento fascista, fino a quando Mussolini, preoccupato che il prestigio del poeta potesse oscurare il suo, non lo costrinse all’isolamento sul lago di Garda, nella sua residenza detta Vittoriale, in cui rimase fino alla morte nel 1938. 26 Con il nome Dalmazia si intende la costa orientale dell’Adriatico, abitata prevalentemente da slavi. Attualmente è politicamente suddivisa tra Croazia, Montenegro e Bosnia ed Erzegovina.) 27 In quell’occasione Mussolini scrisse: “Sono sempre più convinto che per la salute dell’Italia bisognerebbe fucilare, dico fucilare, nella schiena, qualche dozzina di deputati e mandare all’ergastolo un paio almeno di ex ministri. Non solo, ma io credo, con fede sempre più profonda, che il Parlamento in Italia sia il bubbono pestifero che avvelena il sangue della Nazione. Occorre estirparlo”. 28 Il Carso è un altopiano che si estende nel nord-est dell'Italia dai piedi delle Alpi Giulie al mare Adriatico (in provincia di Gorizia e di Trieste), attraverso la Slovenia occidentale e l'Istria settentrionale prosegue fino al massiccio delle Alpi Bebie all'estremo nord- 66 separa il fiume Isonzo da Trieste, furono combattute quelle che la storiografia indica come le 12 battaglie dell’Isonzo. Nel maggio 1916 gli austriaci lanciarono la loro spedizione punitiva (Strafexpedition) contro l’Italia, per punirla del voltafaccia, attaccando in forza il Trentino e avanzando per una ventina di chilometri, ma venendo infine fermato. Nell’agosto del 1916 l’Italia prese l’iniziativa e attaccò nella zona del Carso, conquistando Gorizia, ma senza riuscire a proseguire l’offensiva. Le perdite nell’esercito italiano furono pesantissime (solamente nel 1916 118 00 morti e 285 000 feriti) in quanto i comandanti applicavano la tattica dell’assalto frontale, senza badare alle perdite. La disfatta di Caporetto Con il crollo dell’esercito russo, nel 1917, gli austro-ungarici, sostenuti da divisioni scelte dei tedeschi, concentrarono tutte le loro truppe sul fronte italiano e pianificarono una massiccia offensiva sull’Isonzo, all’altezza del villaggio di Caporetto (oggi Kobarid, in Slovenia). Cadorna era stato informato del piano da alcuni disertori, ma non presto fede a quelle notizie, pertanto, quanto il 24 ottobre 1917, quando l’esercito austro-tedesco investì le prime linee con violentissimi bombardamenti, gli italiani furono presi alla sprovvista e il comando non rimase indeciso sul da farsi per alcuni giorni. I tedeschi ottennero così un successo superiore ad ogni loro aspettativa e l’esercito italiano fu costretto, incalzato dai nemici, ad una ritirata disordinata. Solo lungo la linea del fiume Piave fu possibile ricostruire un efficace sistema difensivo. L’episodio più critico fu l’ingorgo di migliaia di soldati sui pochi ponti che permettevano il passaggio del Tagliamento. Le province di Udine, Belluno, Treviso, Vicenza e Venezia furono occupate dagli austro-tedeschi. Circa un milione di persone si trovò sotto l’occupazione militare straniera, mentre 600 000 profughi furono costretti ad abbandonare le loro case. Il regime di occupazione fu estremamente duro (razzie disorganizzate prima e spoliazione sistematica poi, non mancarono violenze sessuali, come in Belgio nel 1914). L’ultimo anno di guerra Dopo Caporetto Cadorna venne esonerato; al suo posto fu nominato il generale Armando Diaz e il governo passò nelle mani di Vittorio Emanuele Orlando, il quale riuscì ad ottenere dagli alleati regolari rifornimenti alimentari e ingenti crediti, con cui fu possibile rilanciare l’economia di guerra italiana e scongiurare che il malcontento fra le masse degenerasse in aperta rivolta. Per diversi mesi il generale Diaz assunse un atteggiamento difensivo, consapevole della situazione di logoramento degli eserciti avversari. Nell’autunno 1918 la situazione di Germania e Austria-Ungheria era disperata. Diaz ordinò il contrattacco il 26 ottobre: nella regione di Vittorio Veneto, le truppe austro-ungariche non riuscirono a resistere e si disgregarono (vi furono numerosi ammutinamenti, soprattutto di soldati slavi e ungheresi). Il 3 novembre l’Austria-Ungheria firmava la resa, che prevedeva per il giorno seguente, il 4 novembre la resa delle ostilità. L’Italia usciva vincitrice dalla guerra, che le era costata 680 000 morti e un milione di feriti di cui la metà mutilati e invalidi. Tuttavia per i nazionalisti ciò che ottenne l’Italia dopo la Conferenza di pace era assolutamente inadeguato, pertanto il clima di scontro non si placò e anzi fu la coltura ideale per la nascita del movimento fascista. 3 Gli italiani in guerra Contadini soldati Dei 4 250 000 soldati italiani inviati al fronte il 45% era di origine contadina e moltissimi erano analfabeti. Fu la guerra ad avvicinare molti di loro alla scrittura, per tenere diari e per scrivere lettere alle famiglie. Questi mezzi di espressione aiutarono molti a scaricare la tensione e a superare il trauma della guerra (scrittura come strumento catartico), fungendo in certi casi come l’equivalente immaginario di quella fuga dalla trincea o di quella ribellione che risultava impossibile a causa della dura repressione dell’autorità militare. L’apparato repressivo delle autorità La corrispondenza dei soldati veniva sottoposta a censura (anche se in realtà solo poche lettere potevano essere effettivamente controllate), per impedire che i soldati esprimessero riserve e critiche nei confronti della guerra e degli ufficiali. ovest della Croazia, estendendosi così nell'Italia, nella Slovenia e nella Croazia. In particolare, il monte Carso è una modesta altura di 456 m, che si trova all'imboccatura della Val Rosandra, in provincia di Trieste. 67 Nel periodo tra il 1915 e il 1918 vennero chiamati alle armi circa 5 200 00 italiani, di questi 870 000 furono oggetto di denuncia all’autorità militare. Tra i denunciati il gruppo maggiore era quello dei renitenti alla chiamata (470 000), di questi circa 370 000 erano emigranti residenti all’estero. Autolesionismo e follia Tra i soldati si diffuse la pratica dell’autolesionismo, come mezzo per essere ritirati dal fronte. Le autorità militari repressero con durezza tale comportamento, così come la diserzione e i tentativi di consegnarsi al nemico. Il massimo del rigore era applicato agli episodi di ammutinamento e aperta ribellione; nei casi in cui non si trovava il diretto responsabile veniva perfino applicata la decimazione, che consisteva nel fucilare un certo numero di soldati, estratti a sorte dl gruppo nel quale si erano manifestati i disordini. Solo dopo la disfatta di Caporetto si cercò di dare maggior sostegno morale alle truppe, puntando più sulla propaganda che su una spietata disciplina. Tra i soldati cominciarono a girare dei giornali di trincea, costituiti soprattutto di immagini e vignette, per un pubblico in gran parte semi-analfabeta. Questi fogli possono essere considerati il primo tentativo in Italia di un giornale di massa a grande diffusione. Né la ferrea disciplina, né la propaganda impedirono a 40000 soldati di impazzire dopo una più o meno lunga permanenza al fronte. I medici di allora, impreparati rispetto al fenomeno della follia di guerra, spesso la scambiarono per simulazione, alla stregua dell’autolesionismo; in realtà si trattava di un fenomeno psichico ben preciso, interpretabile come meccanismo estremo di autodifesa messo in atto automaticamente dalla mente per fuggire gli orrori della guerra. 68 Modulo 3: Il comunismo in Russia L’arretratezza della Russia In campo politico l’Impero russo era ancora fermo alla monarchia assoluta, guidata dallo zar, che governava in modo autocratico (senza limitazioni), scavalcando sistematicamente la Duma (il parlamento russo istituito nel 1905 con soli poteri di controllo). Dal punto di vista economico, l’attività prevalente in Russia era l’agricoltura, che tuttavia versava in condizioni di arretratezza. La rivoluzione del febbraio 1917 A causa del prolungarsi del conflitto mondiale, la già fragile economia russa crollò definitivamente. La popolazione era ridotta alla fame e al freddo. Per questa ragione, a partire dal febbraio 1917 vi furono diverse manifestazioni di protesta (specialmente a Pietrogrado), che portarono all’abdicazione dello zar e alla nascita di un governo provvisorio, espresso dalla Duma. I Soviet Oltre al governo provvisorio si formò un altro centro di potere: i Soviet (consigli), che erano organi di autogoverno eletti nelle fabbriche e nei reggimenti. Ogni fabbrica e reggimento eleggeva un certo numero di delegati, che poi concorrevano a formare il soviet cittadino. Si era pertanto venuta a creare una situazione di dualismo di poteri: all’autorità ufficiale del governo provvisorio, si contrapponeva quella, non meno reale, dei soviet. Lenin e le tesi di aprile Grazie agli sconvolgimenti politici della rivoluzione di febbraio, il 3 aprile 1917, Lenin, capo della corrente bolscevica29 del partito socialdemocratico russo, poté tornare in patria. Appena giunto a Pietrogrado tenne alcuni discorsi, condensati poi in un breve documento noto come tesi d’aprile, in cui affermava: 1) la necessità di stipulare una pace separata con la Germania (al contrario, il governo provvisorio si era impegnato con le potenze dell’Intesa a non uscire dal conflitto); 2) che fossero ormai maturi i tempi per una rivoluzione socialista (nonostante la Russia fosse un paese ancora arretrato dal punto di vista industriale e privo di una vera classe di capitalisti, tuttavia, secondo Lenin, la guerra mondiale imperialista e i conseguenti sconvolgimenti, avrebbe portato alla rivoluzione, non solo la Russia, ma tutti i paesi dell’Europa industrializzata); 3) che occorreva risolvere il dualismo di poteri in modo che tutta l’autorità passasse nelle mani del proletariato. Alla linea dei menscevichi che, in nome del marxismo ortodosso, proponevano il sostegno al governo affinché la fase borghese della storia russa potesse consolidarsi, Lenin opponeva le due parole d’ordine: “pace immediata” e “tutto il potere ai soviet”. La rivoluzione di ottobre Nel settembre 1917 i bolscevichi ottennero la maggioranza all’interno dei soviet di Pietrogrado e Mosca e riuscirono a controllare il Congresso Panrusso dei soviet (grazie al contributo dato per sventare un tentativo di colpo di stato in agosto). A Pietrogrado, la notte del 25 ottobre 1917 (7 novembre), reparti armati bolscevichi assaltarono il Palazzo d’Inverno, sede del governo, e arrestarono numerosi ministri. Il giorno dopo il Congresso Panrusso dei soviet ratificò il colpo di stato, assunse il potere, emanò i primi decreti rivoluzionari e fu deciso di convocare un’Assemblea Costituente. Lenin, preoccupato di avere l’appoggio dei contadini, fece emanare il decreto sulla terra: “Ogni proprietà privata è abolita immediatamente e senza compenso”. Tutti i terreni diventavano proprietà nazionale ed erano messi a disposizione di tutti i contadini che desiderassero coltivarli. Erano vietati l’acquisto, la vendita e l’affitto dei terreni, nonché l’utilizzo di manodopera salariata. Nei mesi successivi furono nazionalizzate le banche e decretato il controllo operaio su tutte le imprese commerciali e industriali. In tal modo, venivano gettate le basi per la costruzione del socialismo. 29 Menscevichi e bolscevichi. Il Partito socialdemocratico russo, di ispirazione marxista e membro della Seconda Internazionale, era diviso in due correnti: quella minoritaria, detta menscevica, e quella maggioritaria, detta bolscevica. I menscevichi propendevano per un partito ramificato, di massa, ed erano fedeli alla concezione ortodossa del marxismo secondo cui non si può passare direttamente dall’assolutismo e dal feudalesimo al socialismo, pertanto essi appoggiavano il governo provvisorio con lo scopo di stabilizzare la fase borghese, rimandando ad un tempo futuro l’instaurazione del socialismo. I Bolscevichi, invece, erano favorevoli a un partito elitario, gestito da pochi dirigenti, rivoluzionari di professione, e ritenevano maturi i tempi per una rivoluzione socialista. 69 La dittatura del proletariato Lenin, nello scritto Stato e rivoluzione del 1917, ispirandosi al concetto di dittatura del proletariato di Marx ed Engels, riteneva che il proletariato dovesse conquistare lo stato, solo così sarebbe stato possibile respingere gli assalti della borghesia. Solo una volta che il proletariato avesse conquistato il potere si sarebbe potuto attuare il socialismo per poi passare finalmente alla società senza classi, in cui lo stesso stato si sarebbe dissolto. La dittatura del partito Tra la fine del 1917 e l’inizio del 1918 la dittatura del proletariato si trasformò in dittatura del partito: venne istituita la CEKA (Commissione straordinaria per la lotta contro la controrivoluzione e il sabotaggio), e fu attuato il cosiddetto Terrore rosso, che portò all’uccisione di molti nemici politici e capitalisti. Inoltre, nonostante alle elezioni (le prime a suffragio universale in Russia) i bolscevichi furono sconfitti dai social-rivoluzionari (che, a dispetto del nome, erano schierati su posizioni moderate), Lenin non lasciò il potere (fece disperdere l’assemblea dopo la prima riunione, sostenendo che il popolo fosse ancora condizionato dall’ideologia della classe dominante e che solo la linea politica dei bolscevichi poteva essere considerata rispondente agli interessi del proletariato). La guerra civile Uno dei motivi per cui il partito di Lenin aumentò i suoi consensi fu la decisione di giungere al più presto possibile ad una pace separata con la Germania. Il 3 marzo 1918, infatti, fu stipulato il trattato di BrestLitovsk: esso era quanto mai oneroso per la Russia, che perdeva molti importanti territori (fra i quali l’Ucraina), ma Lenin lo accettò ugualmente per poter avere quella tranquillità senza la quale sarebbe stato impossibile consolidare il nuovo regime. Tuttavia, Lenin dovette affrontare subito un’altra guerra, questa volta civile. Reparti legati allo zar non riconobbero il governo bolscevico ed iniziarono a lottare contro di esso. Alla fine del 1919 l’esercito comunista – la cosiddetta Armata rossa, completamente riorganizzata dal leader bolscevico Lev Trockij – riuscì a sconfiggere gli eserciti controrivoluzionari – la cosiddetta Armata bianca, sostenuta (sostenuta economicamente e militarmente anche da Francia e Inghilterra). Il comunismo di guerra Il problema principale negli anni 1917-1921 fu quello dell’approvvigionamento delle città, in cui si moriva di fame e di freddo. Il governo attuò il cosiddetto comunismo di guerra, cioè organizzò su vasta scala la requisizione dei raccolti. La Nuova Politica Economica Dopo il fallito tentativo di sollevare gli operai polacchi contro il proprio paese e far accogliere la Russia come la liberatrice di tutti i lavoratori, Lenin si rese conto della impossibilità di scatenare nell’immediato una generale rivoluzione europea e che, invece, fosse necessario dedicarsi al rafforzamento interno del regime. Ciò implicava però una svolta nella politica tenuta fino ad ora nei confronti dei contadini, ridotti alla fame a causa delle requisizioni. Nel marzo 1921, mentre le campagne russe soffrivano una micidiale carestia (che provocò la morte di 5 milioni di contadini), venne varata la cosiddetta NEP (Nuova Politica Economica), che lo stesso Lenin definì come una “ritirata” nel cammino verso il socialismo. In pratica, si introduceva di nuovo nelle campagne un’economia di mercato. La NEP favorì soprattutto i contadini che avevano a propria disposizione poderi sufficientemente ampi da poter immettere una parte del raccolto sul mercato. Questi agricoltori si trasformarono di fatto in imprenditori. Dal 1922 la Russia e i territori ad essa sottomessi si federarono in un’unica compagine statale che prese il nome di URSS (Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche). Lo stalinismo Lenin morì il 24 gennaio 1924, all’età di 54 anni. Nel 1927 risultò padrone assoluto del governo della Russia Stalin (Iosif Vissarionovic Dzugasvili), che già dal 1922 ricopriva la carica di segretario del partito. Stalin, in nome della lotto contro il frazionismo (già iniziata da Lenin), proibì ogni discussione interna al partito e arrivò fino a mettere sotto accusa, processare e condannare a morte, alcuni fra i maggiori dirigenti bolscevichi e fautori della rivoluzione, come Trockij, Zinov’ev, Kamenev, Bucharin. In tutti questi processi ci fu un elemento di spettacolarità: l’imputato era costretto ad autoaccusarsi pubblicamente dei peggiori crimini. La repressione, oltre all’ambito politico, coinvolse anche altri settori, come la burocrazia 70 statale e la cultura. Si stima che tra il 1936 e 1939, da 4 a 5 milioni di persone subirono la repressione: quattrocento o cinquecentomila furono fucilati, gli altri spediti nei campi di concentramento per molti anni. L’industrializzazione della Russia L’obiettivo principale di Stalin era quello di giungere in tempi brevi ad un livello di industrializzazione pari a quello degli altri paesi europei. Bisognava però passare da una produzione di beni di consumo all’industria pesante. Per far ciò nel 1929 fu varato il primo piano quinquennale, che prevedeva una rigida pianificazione statale dell’economia e della politica industriale (era l’antitesi del liberismo economico e ricordava quanto accadde in Germania durante la prima guerra mondiale per far fronte al blocco navale inglese). Tale politica economica statalista ottenne in effetti eccezionali risultati (dal 1929 al 1940 la produzione industriale sovietica triplicò). La collettivizzazione delle campagne Nel giro di dieci anni l’URSS divenne la seconda potenza industriale del mondo. I costi umani di tale impresa però vennero pagati soprattutto dai contadini. A partire dai primi mesi del 1928 si fece di nuovo ricorso alle requisizioni forzate, come al tempo del comunismo di guerra. Nel gennaio 1930 Stalin decise di procedere alla liquidazione dei kulaki (contadini benestanti, che si erano arricchiti soprattutto ai tempi della NEP) ed alla collettivizzazione delle campagne. Nel 1931, vennero deportati circa 1800000 individui (bollati come sfruttatori agricoli) in zone periferiche e semidesertiche, ove la maggior parte morì per stenti. Nel contempo, tutti gli altri contadini vennero obbligati a riunirsi in grandi aziende agricole collettive (dette kolchoz), unità produttive di vaste dimensioni, completamente controllate dallo stato. Migliaia furono i contadini che si rifiutarono, ma vennero arrestati e finirono in campo di concentramento. In definitiva, a costo di far partire la fame ai contadini, le città e i grandi centri industriali poterono essere regolarmente riforniti. I campi di lavoro Negli anni Trenta, giunse a piena maturazione anche il sistema dei campi di lavoro sovietici, ovvero strumenti di repressione e di reclusione degli avversari politici. Nel 1929, tutti i campi di concentramento sovietici furono raccolti sotto la sigla GULag e da luoghi deputati al terrore passano a centri finalizzati allo sfruttamento dei prigionieri (ad es. per la costruzione di grandi canali, come quello tra il Mar Baltico e il Mar Bianco, dove lavorarono 120 000 detenuti; o nelle miniere d’oro della Siberia orientale, dove ne lavoravano 138 000). Per la maggior parte dei prigionieri, non si trattava di detenuti politici, ma di individui normali che per qualche ragione, anche banale, si erano posti contro il regime: ad es. per essersi spostati dalle campagne alle città senza permesso, o per aver tenuto per sé una porzione di troppo di raccolto, o per non essere abbastanza zelanti in fabbrica. 71 Modulo 4: Il fascismo Le delusioni della vittoria L’Italia figurava tra i vincitori della Grande Guerra, ma i frutti di tanti sacrifici apparvero scarsi e deludenti. L’Italia, nel Patto di Londra, non si era limitata a rivendicare Trento e Trieste (regioni di cultura e tradizione italiana), ma aveva chiesto anche, in caso di vittoria, la Dalmazia (la costa orientale dell’adriatico), sebbene fosse abitata prevalentemente da slavi. Viceversa, il Patto non menzionava esplicitamente il porto di Fiume, la quale, nel dopoguerra, dichiarò la sua volontà di essere annessa al Regno d’Italia. Nella Conferenza di pace di Parigi, poiché l’Impero austro-ungarico si era dissolto e al suo posto erano sorti vari stati nazionali (Jugoslavia, Polonia, Cecoslovacchia, Austria, Ungheria), le rivendicazioni italiane sulla Dalmazia perdevano ogni significato. La delegazione italiana, però, tenne un atteggiamento rigido e ambiguo, chiedendo sia Fiume (in nome del principio di nazionalità), sia la Dalmazia (in nome del Patto di Londra). Di fronte all’opposizione degli Alleati, in particolare del presidente americano Wilson, il 24 aprile 1919 la delegazione italiana abbandonò Parigi in segno di protesta. Fu un gesto d’orgoglio accolto positivamente dall’opinione pubblica italiana, ma che non produsse nessun vantaggio pratico e comportò, anzi, l’esclusione dell’Italia dalla spartizione delle colonie tedesche in Africa e delle zone di influenza in Medio Oriente. D’Annunzio e la vittoria mutilata Cominciò allora a circolare, per opera di Gabriele D’Annunzio, la retorica della vittoria mutilata. D’Annunzio, nel settembre 1919, passò all’azione e ponendosi alla guida di alcuni reparti dell’esercito (9000 uomini), si impadronì militarmente di Fiume, nonostante il divieto imposto dal governo italiano. Gli uomini che parteciparono all’assalto erano soprattutto ex-combattenti (ex-arditi), che andranno a costituire il nerbo del movimento fascista, che di lì a poco si svilupperà. Nel settembre 1920 D’Annunzio promulga la Carta del Carnaro (una sorta di Costituzione), in cui la proprietà non era considerata un puro e semplice diritto, bensì una sorta di funzione sociale. La situazione economica e sociale Sotto il profilo finanziario, il Regno d’Italia era sprofondato in un abisso. Le spese erano alle stelle e il debito pubblico era salito. Ne seguì una pesante svalutazione della lira che comportò il rincaro di tutti i generi che l’Italia doveva importare dall’estero (carbone, petrolio, perfino grano, visto che la mobilitazione generale aveva portato al fronte molti contadini). Il prezzo del pane era mantenuto basso artificialmente, con ulteriori aggravi per le casse dello stato. Il paese, inoltre, era in preda all’inflazione. Di questa situazione i più scontenti e frustrati erano i ceti medi, i quali avevano visto progressivamente ridursi il divario che li separava dai semplici lavoratori. Tra gli operai serpeggiava sempre più il desiderio di “fare come in Russia”, ovvero di mettere in atto una rivoluzione socialista. Ma anche i contadini erano in fermento e iniziarono ad occupare le terre in varie regioni del paese (soprattutto Valle Padana e Puglia). Il Partito Popolare Italiano Nel gennaio 1919 nasce il Partito Popolare Italiano (PPI), che segna il rientro a pieno titolo dei cattolici sulla scena politica. Ciò accade in concomitanza con la richiesta, da più parti, di sostituire il sistema uninominale (l’elezione avviene sulla base di collegi elettorali: per ogni collegio viene eletto il candidato che ha ottenuto la maggioranza relativa dei voti) con un sistema proporzionale (i deputati di ogni forza politica sono designati in maniera corrispondente alla percentuale di suffragi ricevuti su scala nazionale), ritenuto maggiormente rappresentativo della volontà popolare. In un regime a suffragio universale maschile, come quello che Giolitti aveva introdotto nel 1912, il proporzionale rischiava di far ottenere ai socialisti una valanga di voti. Per scongiurare tale pericolo, i cattolici furono finalmente autorizzati dal Vaticano a costituire un loro partito politico (il PPI appunto), il cui leader era don Luigi Sturzo. Il PPI non voleva però rivolgersi solo ai cattolici, ma si presentava come forza aconfessionale (benché ispirata ai principi e agli ideali cristiani) e interclassista (mirava cioè ad una pacifica composizione degli interessi delle varie classi sociali, in particolare del proletariato e della borghesia), preoccupata, soprattutto, perlomeno nelle intenzioni di don Sturzo, delle esigenze dei ceti deboli. L’occupazione delle fabbriche All’interno del Partito Socialista, si apriva una spaccatura, tra gli operai che erano affascinati dall’esempio russo, e la dirigenza che prometteva la rivoluzione, ma all’atto pratico non faceva nulla per organizzarla. 72 Nel settembre del 1920 gli operai metalmeccanici occuparono le fabbriche (a cominciare dalle officine Alfa Romeo a Milano). Tra la borghesia si sparse il panico, ma il Partito Socialista dichiarò che questi episodi non dovevano essere assolutamente visti come l’inizio di una rivoluzione sociale. Alla fine il movimento operaio ne uscì sconfitto: il proletariato ne ricavò una pesante delusione e la borghesia si sentì ancor più spinta ad opporsi, con ogni mezzo, ai sovversivi rossi. L’ultimo governo Giolitti La rabbia della borghesia italiana si accentuò per via della politica di non intervento di Giolitti (tornato alla guida del governo nel 1920) durante gli scioperi, i quali in effetti “sbollirono da sé”. Nel novembre 1920 Giolitti fece intervenire l’esercito per far sì che D’Annunzio e i suoi abbandonassero Fiume, la quale fu dichiarata città libera (l’Italia intanto poteva annettersi l’Istria, in seguito ad un accordo con la Jugoslavia). Ciò provocò grande scandalo tra gli ex-combattenti. Nel 1921, Giolitti affrontò la grave situazione economica abolendo il prezzo politico del pane. Inoltre, introdusse alcune misure che scontentarono la borghesia: la nominatività dei titoli azionari (per un maggiore controllo fiscale) e la tassa di successione. Pertanto le tre più importanti decisioni prese da Giolitti – neutralità dello stato di fronte all’occupazione delle fabbriche; liquidazione della questione di Fiume; interventi finalizzati al risanamento della finanza pubblica – gli costarono l’ostilità della borghesia e dei ceti medi. Solo i socialisti potevano ormai salvare il governo con il loro appoggio, che tuttavia non ci fu. Pertanto nel maggio 1921 si tennero le elezioni politiche anticipate. Giolitti formò il cosiddetto Blocco nazionale, una lista di liberali, nazionalisti e anche esponenti fascisti: da un lato egli pensava di poter controllare il neonato movimento e sfruttarne i crescenti consensi; dall’altro voleva coagulare le forze conservatrici in funzione antisocialista e antipopolare. Tuttavia, i risultati non furono quelli sperati: il PSI perse voti e seggi dopo la scissione del Partito comunista d’Italia (PCd’I), ma si confermò partito di maggioranza relativa; il PPI aumentò i propri seggi. Giolitti dopo questo fallimento diede le dimissioni: non solo non aveva indebolito i partiti di massa, ma aveva ormai dato anche legittimità al fascismo. La crisi del sistema liberale era ormai al culmine. Benito Mussolini Mussolini fu esponente di spicco dell’ala radicale del Partito Socialista Italiano, e direttore del quotidiano socialista “Avanti!” dal 1912. Nel 1914, scoppiata la guerra, il PSI si schierò per il non-intervento dell’Italia; Mussolini, invece, fu un convinto interventista e abbandonato l’ “Avanti!”, fondò “Il Popolo d’Italia” (dal 1° agosto 1918 cambiò il sottotitolo da “quotidiano socialista” a “quotidiano dei combattenti e dei produttori”), in seguito a ciò fu espulso dal PSI. Il programma dei Fasci di combattimento Il 23 marzo 1919 Mussolini fondò (nel salone del Circolo dell’Alleanza industriale e commerciale, in piazza San Sepolcro a Milano) una nuova formazione politica denominata Fasci italiani di combattimento. Venne scelto come simbolo il fascio littorio (comprendente vari bastoni legati insieme e una scure), emblema del potere nella Antica Roma. La scelta del fascio rappresentava l’idea che se l’Italia fosse riuscita a diventare unita, eliminando i contrasti interni, fomentati soprattutto dai socialisti, sarebbe diventata una grande potenza, come nell’antichità. Il primo programma (pubblicato il 6 giugno 1919 su “Il Popolo d’Italia”) di questa nuova formazione era decisamente spostato a sinistra: vi erano, infatti, audaci rivendicazioni sociali, come la richiesta di una imposta a carattere progressivo sul capitale. Oltre a ciò, il programma puntava sulla necessità di una politica estera aggressiva per valorizzare l’Italia nel mondo. In sintesi, quindi, i Fasci italiani di combattimento, puntavano a fondere insieme due concetti che fin dai tempi di Marx e Mazzini erano sembrati antitetici, ovvero quelli di nazione e di socialismo. Lo squadrismo agrario All’inizio del 1920, i consensi del movimento di Mussolini erano ancora scarsi. La svolta avvenne nel 1921, dopo che era esplosa in Italia la grande stagione delle agitazioni socialiste (sciopero dei braccianti emiliani e occupazione delle fabbriche). A partire dal 1920, il fascismo aveva già abbandonato definitivamente ogni rivendicazione socialista e si era alleata con la borghesia, soprattutto in quei territori (Valle Padana e Puglie), maggiormente interessati dal cosiddetto biennio rosso 1919-1920 (mobilitazioni contadine, tumulti, manifestazioni operaie, occupazioni di terreni e fabbriche con, in alcuni casi, tentativi di autogestione). Finanziato, armato e rifornito di mezzi dai grandi agrari, il fascismo nel primo semestre del 1921 cominciò ad organizzarsi in squadre d’azione (i cui membri indossavano camice nere e praticavano la violenza organizzata) e a smantellare tutta l’organizzazione politica e sindacale di matrice socialista, bruciando 73 Case del popolo, distruggendo tipografie dei giornali e, perfino, uccidendo dirigenti e obbligando giunte municipali rosse alle dimissioni. La nascita del Partito nazionale fascista L’offensiva fascista si scatenò in tutta la sua violenza nel 1921. Le forze dell’ordine, in genere, non intervennero per difendere le vittime, anzi, spesso, si dimostrarono complici. Nel novembre 1921, il movimento dei Fasci si riorganizzò in Partito nazionale fascista (PNF). Il fascismo si era ormai schierato su posizioni di estremo conservatorismo sociale. La marcia su Roma Nel corso del 1922 Mussolini ottenne la fiducia di un numero sempre crescente di alti esponenti dello stato, dell’esercito e del mondo economico, che videro nel fascismo una sorta di cura per riportare all’ordine le classi lavoratrici. Il 28 ottobre 1922 venne messa in atto la marcia su Roma: circa 14000 squadristi si accamparono in alcune località vicino alla capitale, mentre nella maggior parte delle città italiane venivano occupati pacificamente le prefetture e gli altri centri di potere. Se lo stato avesse risposto con le armi, il fascismo sarebbe stato definitivamente spazzato via; Mussolini però sapeva che il re Vittorio Emanuele III stava ricevendo pressioni da più parti affinché fosse formato un governo in cui i fascisti fossero presenti in modo consistente. Il re rifiutò di firmare il decreto per instaurare lo stato d’assedio; anzi il 29 ottobre 1922 conferì a Mussolini l’incarico di formare il nuovo governo. Il fascismo non conquistò il potere con un colpo di stato paragonabile all’assalto al Palazzo d’inverno condotto dai bolscevichi. Esso, certo, utilizzò la violenza per farsi strada, ma tale violenza non fu in alcun modo esercitata contro lo stato e le sue autorità. Furono esse, all’opposto, che dapprima tollerarono le brutalità fasciste, poi concessero il potere a Mussolini. Il delitto Matteotti Salito al potere, nei primi due anni Mussolini procedette con cautela. Il primo esecutivo fu un governo di coalizione, nel quale vi erano anche due ministri popolari (contro il parere di don Sturzo); al generale Diaz fu affidato il ministero della Guerra. Mussolini si affrettò ad abolire i due provvedimenti più antiborghesi presi da Giolitti: l’innalzamento della tassa di successione e la nominatività dei titoli azionari; restituì, poi, ai privati la rete telefonica e abolì il monopolio delle assicurazioni sulla vita, nazionalizzate da Giolitti. Le violenze fasciste, nel frattempo, aumentarono e furono anche sciolte numerose amministrazioni guidate da socialisti e popolari. Venne anche abolita la festa del primo maggio. Nel dicembre 1922 venne istituito il Gran consiglio del fascismo, ufficialmente definito come “organo supremo, che coordina e integra tutte le attività del regime sorto dalla rivoluzione dell'ottobre 1922”; nel gennaio 1923 venne creata la Milizia volontaria per la sicurezza dello stato (MVSS), con la quale Mussolini cercò di inquadrare e “normalizzare” gli squadristi. Nel 1923, con la legge Acerbo, fu revisionata la legge elettorale: alla lista che avesse ottenuto il 25% dei voti complessivi sarebbero stati assegnati i due terzi dei seggi, mentre il restante terzo sarebbe stato distribuito tra le altre liste, su base proporzionale. Per ottenere la maggioranza, alle elezioni svoltesi il 6 aprile 1924 le squadre fasciste ricorsero a brogli e violenze, che vennero coraggiosamente denunciate in Parlamento dal deputato socialista Giacomo Matteotti. Il 10 giugno 1924 Matteotti venne rapito e ucciso. Tutta l’opposizione, per protesta, abbandonò la Camera, dando vita a quella che fu chiamata la secessione dell’Aventino. La speranza era che il re avrebbe obbligato Mussolini a dare le dimissioni, ma ciò non avvenne, così il capo del fascismo, in un discorso alla Camera il 3 gennaio 1925, poté assumersi “la responsabilità politica, morale, storica di quanto è avvenuto”, cioè del delitto Matteotti e di tutti gli altri crimini compiuti fino ad allora dal fascismo: “Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere – disse Mussolini - se tutte le violenze sono state il risultato di un determinato clima storico, politico, morale, a me la responsabilità di questo, perché questo clima storico, politico, morale io l’ho creato con una propaganda che va dall’intervento fino ad oggi”. La distruzione dello stato liberale A partire dal 1925 tutti gli elementi caratteristici dello stato liberale vennero eliminati: fu progressivamente soppressa la libertà di stampa, vennero chiusi i giornali antifascisti, mentre i più prestigiosi quotidiani vennero posti sotto il controllo del regime. Nel dicembre 1925 fu praticamente abolita la divisione dei poteri, con l’approvazione della legge sulle prerogative del Capo del Governo. Il Parlamento cessò di esercitare qualsiasi potere effettivo, in quanto nessun argomento poteva essere discusso da una delle due Camere senza la previa autorizzazione del Capo del Governo stesso. Ciò significava che il Capo del Governo non era più responsabile davanti alle Camere e solo il re avrebbe potuto revocargli l’incarico. Mussolini quindi non poté mai prescindere completamente dalla presenza del sovrano (ciò sarà decisivo per la caduta del fascismo nel 74 1943). Nel novembre 1926 furono approvate le cosiddette leggi fascistissime: fu vietato promuovere e costituire associazioni dirette a sovvertire gli ordinamenti dello stato e “distruggere o deprimere il sentimento nazionale”. In tal modo, di fatto, tutti i partiti ad eccezione del PNF vennero soppressi; tutti i 123 deputati di opposizioni che parteciparono all’Aventino furono dichiarati decaduti, venne reintrodotta la pena di morte e fu istituito il confino di polizia. Inoltre, i sindaci e i consigli comunali, da organi elettivi, diventarono podestà e consulta di nomina governativa; il sindacato fascista rimase l’unico rappresentante dei lavoratori, lo sciopero fu proibito in quanto reato. Infine, venne istituito un Tribunale speciale, incaricato di processare tutti gli antifascisti. Mussolini cerò di guadagnare al fascismo l’appoggio della Chiesa cattolica. A tal fine l’11 febbraio 1929 il Regno d’Italia stipulò con la Santa Sede i cosiddetti Patti del Laterano, che sancirono la nascita dello stato della Città del Vaticano e proclamarono il cattolicesimo religione ufficiale dello stato italiano. La nazione e lo stato Nell’articolo “Fascismo” redatto nel 1932 per l’Enciclopedia Italiana, Mussolini, che lo aveva redatto, spiegava come il suo movimento si distingueva sia dal liberalismo, sia dal socialismo marxista. Alla base vi erano i concetti di Nazione e di Stato. La nazione non è una semplice situazione di fatto, bensì un risultato, coscientemente generato dall’azione dello stato. Lo stato può esercitare la propria azione di creatore e di promotore della grandezza della nazione solo nella misura in cui tutti i singoli componenti accettano di subordinare il proprio interesse personale a quello collettivo e le varie classi sociali cooperano tra loro invece di combattersi (rifiuto del concetto marxista di lotta di classe). Mussolini, inoltre, esprime apertamente il rifiuto del concetto di democrazia, secondo il quale è il popolo stesso ad autogovernarsi: gli stati e le nazioni possono trionfare solo se guidati da un élite. Mobilitazione delle masse e stato totalitario Sotto il fascismo, le masse, da un lato, furono allontanate da ogni potere reale, dall’altro vennero sempre più mobilitate. Scrive lo storico Renzo De Felice: “Al contrario [dei regimi conservatori classici], il fascismo ha sempre teso a creare nelle masse la sensazione di essere sempre mobilitate, di avere un rapporto diretto con il capo (tale perché capace di farsi interprete e traduttore in atto delle loro aspirazioni) e di partecipare e contribuire non ad una mera restaurazione di un ordine sociale… bensì ad una rivoluzione dalla quale sarebbe gradualmente nato un nuovo ordine sociale migliore e più giusto di quello preesistente”. La meta ultima del fascismo (che pure reprimeva ogni forma di opposizione) era in realtà il consenso, o meglio la piena adesione al regime da parte del cittadino. Per ottenere ciò ogni ambito della vita del singolo cittadino italiano fu pervasa da elementi fascisti: scuola, spettacoli, cultura, sport si trasformarono tutti in canali di diffusione dell’ideologia fascista. Si diede massimo sviluppo alle organizzazioni educative fasciste30 e si predisposero imponenti raduni di massa, simili a quelli di D’Annunzio a Fiume, allo scopo di coinvolgere il maggior numero possibili di italiani e di trasmettere loro i valori fondamentali del regime, facendo leva più sull’immaginazione e sull’emozione, che sulla ragione31. 30 L'Opera Nazionale Balilla (ONB) fu un organo del Partito Nazionale Fascista (PNF) a carattere parascolastico e paramilitare. Fondata nel 1926 come ente autonomo, l'ONB confluì, insieme ai Fasci giovanili di combattimento, nella GIL (Gioventù Italiana del Littorio) a partire dal 1937. La denominazione fu ispirata alla figura di Giovan Battista Perasso detto "Balilla", il giovane genovese che secondo la tradizione avrebbe dato inizio alla rivolta contro gli occupanti austriaci nel 1746: un'immagine di modello rivoluzionario cara al regime fascista. 31 Mussolini fu profondamente ispirato dagli studi di Gustav Le Bon sulla Psicologia delle folle (1895): "Ho letto tutta l'opera di Le Bon - diceva Mussolini- e non so quante volte abbia riletto la sua <<Psicologia delle folle>>. È un’opera capitale alla quale ancora oggi spesso ritorno". 75 I cittadini e lo stato: tre modelli a confronto Regime zarista Democrazia Regime fascista Concentrazione di tutto il Separazione dei poteri Concentrazione di tutto il potere nella figura dello zar (legislativo, esecutivo, potere nella figura del Duce giudiziario) Passività delle masse e loro Partecipazione dei cittadini Mobilitazione continua delle esclusione dalla gestione della (tramite il voto) alla gestione masse, ma loro esclusione da vita dello stato della vita dello stato una reale gestione della vita dello stato L’uomo nuovo fascista e le leggi razziali Il mito a cui consapevolmente il fascismo si rifà è quello di Roma: l’Italia sarebbe dovuta tornare alla potenza e alla egemonia che aveva posseduto in antichità. Ciò sembrò realizzarsi quando nel 1935-1936 venne conquistata l’Etiopia e Vittorio Emanuele III fu proclamato imperatore. Il consenso verso il regime toccò in quel momento il suo vertice. Mussolini decise allora di accelerare l’operazione di creazione dell’uomo nuovo fascista. Nel 1938 furono introdotte anche in Italia le leggi razziali, con l’obiettivo di affermare l’idea di una superiorità razziale degli italiani. Non essendovi minoranze etniche significative, Mussolini ripiegò sugli ebrei, che erano in realtà presenti in Italia in numero esiguo e perfettamente integrati nella vita nazionale; molti di essi addirittura avevano aderito al fascismo e alcuni anche partecipato alla marcia su Roma. L’antisemitismo fu dunque un elemento tardivo del fascismo e non ebbe mai il ruolo centrale che rivesti nel nazionalsocialismo tedesco. Tuttavia a partire dal settembre 1938, le leggi antiebraiche fasciste furono ugualmente molto pesanti e umilianti. Gli studenti e insegnanti ebrei furono espulsi dalla scuola pubblica, a tutti gli ebrei venne vietato di prestare servizio militare, di ricoprire cariche pubbliche e di essere iscritti al PNF. Inoltre, come recitava un decreto del 17 novembre 1938, il matrimonio “dei cittadini italiani di razza ariana [= europei bianchi] con persone appartenenti ad altra razza” era vietato. La negazione della lotta di classe Nella Carta del lavoro del 1927, venne riconosciuto come unico sindacato legittimato a rappresentare il proletariato quello fascista, il quale dal canto suo rinunciava allo sciopero come strumento di lotta. Tale accordo fu poi integrato nel 1934 dalla legislazione sull’ordinamento corporativo, in base al quale i datori di lavoro e i prestatori d’opera impegnati in un determinato settore economico venivano riuniti in un’unica organizzazione, la corporazione, il cui scopo era quello di comporre pacificamente le vertenze fra le parti sociali. All’atto pratico, ciò significava la cancellazione di ogni potere contrattuale effettivo dei lavoratori (infatti, nel 1930, i salari in Italia erano tra i più bassi d’Europa). Il corporativismo divenne un aspetto caratterizzante del fascismo, tanto che nel 1939 la Camera dei deputati (eletta per l’ultima volta nel 1929) fu sostituita dalla Camera dei fasci e delle corporazioni. La politica economica del regime Dal punto di vista economico la preoccupazione principale de regime era quella di ridare stabilità e forza alla moneta. L’obiettivo era di fermare il cambio alla cosiddetta quota 90 (90 lire per una sterlina). Tale decisione provocò una forte limitazione del credito bancario, penalizzò gravemente le esportazioni e si coniugò con una pesante diminuzione dei salari; d’altro canto, la rivalutazione della lira garantì invece il valore dei risparmi dei ceti medi, che erano tra i principali sostenitori del fascismo. Inoltre, la quota 90 permise l’importazione a minor costo delle materie prime essenziali all’industria. Un altro aspetto fondamentale della politica economica fascista fu la cosiddetta battaglia del grano, lanciata da Mussolini nel 1926. L’Italia non era in grado, con la sola produzione nazionale, di provvedere alle proprie necessità alimentari. Nonostante a livello mondiale negli anni Venti i prezzi agricoli fossero in netto ribasso, il fascismo preferì puntare decisamente nella direzione del protezionismo e del raggiungimento dell’autosufficienza nel campo della produzione granaria (autarchia). I risultati quantitativi della campagna furono notevoli: la produzione nazionale di grano salì a 60 milioni di quintali nel 1930 e toccò gli 80 nel 1939. I risvolti negativi furono però numerosi: l’incremento della produzione di grano fu ottenuto mettendo a coltura cerealicola anche numerosi terreni in precedenza destinati a pascolo per l’allevamento o alla coltivazione di prodotti pregiati (come frutta e olive). Il prezzo del grano in Italia resto costantemente elevato (il 50% più alto che negli USA), obbligando la popolazione a una drastica riduzione dei consumi di grano pro-capite. 76 Lo stato industriale e banchiere La grande crisi economica del 1929 colpì anche l’Italia (nel 1932 si contava più di un milione di disoccupati). La strada scelta dal regime per far fronte alla disoccupazione fu simile a quella tracciata da Roosvelt negli USA, con il massiccio intervento dello stato nel campo dell’economia. Si avviò una politica di grandi spese per lavori di pubblica utilità, come la bonifica dell’Agro Pontino e le prime autostrade nel Nord. Furono istituiti, inoltre, l’IMI (Istituto Mobiliare Italiano) e l’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale). Nel primo caso, si trattò di una grande banca pubblica, incaricata di intervenire a sostegno delle industrie e delle banche coinvolte dalla crisi; a partire dal 1933, poi, tramite l’IRI, lo stato rilevò direttamente le aziende in difficoltà e ne assunse la gestione. Alla fine degli anni Trenta l’IRI possedeva il 44,5% del capitale azionario italiano. Nonostante questa presenza dello stato nella vita economica (secondo un modello economico definibile come “economia mista”), il regime fascista non fu in grado di preparare il paese a sostenere una guerra moderna. Nel momento in cui Mussolini, nel 1940, decise si entrare in guerra, l’Italia non era assolutamente pronta, né sotto il profilo economico, né sotto quello militare. Economia di mercato Socialismo Economia mista Stato di riferimento Stati Uniti (prima del Unione Sovietica Italia (dopo il 1929) 1929) Caratteristica Le imprese private Lo stato è l’unico Coesistenza di imprese fondamentale sono gli unici soggetti soggetto economico private e stato come economici soggetti economici Vantaggi economici Il regime di Lo stato pianifica la Lo stato sostiene le concorrenza stimola la produzione e lo imprese che sono in produttività e sviluppo economico difficoltà, in tempo di l’innovazione crisi Rischi economici Le imprese sono In assenza di Lo stato si assume abbandonate a se concorrenza, la oneri di gestione stesse in tempo di crisi produttività e sempre maggiori, che l’innovazione tendono pesano sul bilancio a calare pubblico 77 Modulo 5: Il Nazismo 1 La Germania: sconfitta militare e proclamazione della repubblica Ottobre 1918: reparti della marina e dell’esercito si ammutinarono; si formarono migliaia di consigli di operai, soldati e marinai In Baviera fu proclamata una repubblica democratica Il 9 novembre il Kaiser Guglielmo II fuggì nei Paesi Bassi e a Berlino venne proclamata la repubblica. Il governo provvisorio fu affidato al socialdemocratico Ebert, che come primo atto firmò l’armistizio con Gran Bretagna e Francia (11 novembre 1918). Che cosa significa «socialdemocrazia» Fino alla rivoluzione bolscevica indicava il movimento socialista nelle sue varie tendenze, riformiste e rivoluzionarie Dopo l’affermazione del comunismo di Lenin, la prospettiva socialdemocratica inclinò sempre più verso il riformismo La socialdemocrazia contemporanea accetta l’economia di mercato, la proprietà privata e le istituzioni liberaldemocratiche, ma propone una politica di maggior solidarietà e giustizia sociale, attraverso un intervento dello stato in favore delle fasce più povere La «settimana di sangue» 30 dicembre 1918 gli spartachisti (fra cui Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht) fondarono il Partito comunista tedesco (Kpd) e a Berlino, agli inizi di gennaio 1919, organizzarono una insurrezione. Il governo provvisorio socialdemocratico reagì duramente (settimana di sangue) e centinaia di militanti rivoluzionari fucilati sommariamente nelle piazze. Luxemburg e Liebknecht vennero trucidati dai Freikorps (formazioni volontarie paramilitari) Elezioni 1919. Governo di coalizione Alle elezioni del 1919 i socialdemocratici (Spd) ottennero il 38% e formarono un governo di coalizione con i cattolici del Zentrum e i liberaldemocratici. Il nuovo governo introdusse riforme sociali (giornata lavorativa di otto ore, potenziamento del sistema delle assicurazioni sociali – sanità, pensioni, indennità di malattia, disoccupazione) e firmò il trattato di Versailles (giugno 1919) accettando pesanti condizioni Agosto 1919 fu approvata la Costituzione di Weimar (dal nome della città dove si tenne l’Assemblea costituente) La pugnalata alla schiena A firmare la capitolazione furono i politici del nuovo governo socialdemocratico, che furono bollati dalla propaganda di estrema destra come traditori (“criminali di novembre”) che avevano “pugnalato alla schiena” la Germania. Secondo tale propaganda se essi non avessero incitato il popolo alla rivolta (ammutinamenti e proteste), le truppe tedesche avrebbero potuto continuare il conflitto. Naturalmente si trattava di una falsificazione storica, visto che la Germania era ormai allo stremo, ma la polemica si fece ancora più violenta quando la Repubblica di Weimar firmò il pesantissimo trattato di pace, imposto alla Germania dai vincitori, riunitisi a Versailles il 18 gennaio 1919, in una Conferenza a cui la Germania non fu ammessa. La data e il luogo avevano un valore simbolico, perché il 18 gennaio 1871 a Versailles, Guglielmo I era stato incoronato Kaiser del Reich tedesco (unificazione della Germania). Il trattato di pace Il trattato di pace imposto alla Conferenza di Versailles, prevedeva in pratica l’annullamento della Germania come grande potenza politica e militare ed ebbe tre tipi di conseguenze: Amputazioni territoriali Limitazioni militari Indennità di guerra Amputazioni territoriali La Germania fu privata di tutti i possedimenti coloniali In Europa dovette cedere alla Francia l’Alsazia-Lorena, di cui si era impadronita nel 1871 Un’ampia porzione di territorio prussiano passò al neonato stato polacco La regione della Prussia Orientale fu separata dal resto del Reich mediante un corridoio, che permetteva alla Polonia di avere uno sbocco sul mare a Danzica (Danzica fu dichiarata città libera. Il 1 ottobre 1939 fu occupata dai tedeschi. I russi la conquistarono nel marzo 1945 e la assegnarono alla Polonia, di cui oggi rappresenta uno dei principali centri industriali) 78 Il Corridoio di Danzica Limitazioni militari e occupazioni Alla Germania fu vietato di possedere sottomarini, carri armati, aviazione da guerra, artiglieria pesante, mentre la flotta (che era stata l’orgoglio del Reich e uno dei principali motivi di attrito con la Gran Bretagna) fu drasticamente ridotta a poche decine di navi. Infine, all’esercito fu vietato di superare le 100.000 unità. Inoltre, la Saar – regione tedesca vicino al confine con la Francia e ricca di giacimenti carboniferi – fu occupata dagli alleati; e la Renania fu smilitarizzata. Indennità di guerra L’articolo 231 del Trattato recitava: “La Germania riconosce la responsabilità propria e dei suoi alleati per tutte le perdite e i danni subiti dai governi alleati e dai loro cittadini in conseguenza dell’aggressione della Germania e dei suoi alleati”. La Germania era quindi considerata la principale (per non dire unica) responsabile del conflitto e dovette pagare tutti i danni che esso aveva provocato. L’entità dei risarcimenti fu fissata in 269 miliardi di marchi oro, ridotti a 132 nel 1921, pagabili in 40 rate annuali. Occupazione Ruhr e inflazione Nel 1923 la Germania chiese di poter ritardare il pagamento della quota d’indennità di guerra prevista per quell’anno. Francia e Belgio respinsero la richiesta e per protesta invasero il bacino carbonifero della Ruhr. Il governo tedesco esortò la popolazione a mettere in atto uno sciopero generale per bloccare la produzione di carbone, assicurando che avrebbe comunque pagato gli stipendi agli operai. Ciò tuttavia accelerò il processo di inflazione già in atto nel paese e portò a una enorme svalutazione del marco, che perse praticamente ogni valore (un dollaro USA nell’agosto 1923 venne quotato 4 milioni e 600 mila marchi, in settembre 100 milioni e in novembre 4200 miliardi; il pane raggiunse il prezzo di 428 miliardi di marchi al chilogrammo e il burro 5600 miliardi al chilogrammo). I più danneggiati da questa situazione erano i piccoli risparmiatori (il ceto medio), che nel giro di poche settimane videro spazzato via dall’inflazione ciò che con grandi sacrifici avevano risparmiato nell’arco di una vita. La ripresa L’economia tedesca poté riprendersi solo grazie all’aiuto degli Stati Uniti che vararono nel 1924 il piano Dawes: diluzione nel tempo delle rate di riparazione e ampi finanziamenti all’industria tedesca (la quale si riprese e raggiunse nel 1929 i livelli d’anteguerra) Anche dal punto di vista politico la repubblica di Weimar sembrava aver trovato un compromesso tra la socialdemocrazia (politica di riforme), l’esercito (disposto a sostenere la repubblica purché venisse abbandonata ogni ipotesi rivoluzionaria) e i grandi gruppi capitalistici. Il contraccolpo della crisi del ‘29 Tuttavia quando nell’ottobre 1929 gli USA furono colpiti dalla grande crisi, la Germania fu il paese europeo più colpito: la produzione industriale si dimezzò e i disoccupati raggiunsero nel 1932 i sei milioni , pari a un terzo della popolazione attiva (non è un caso che proprio in questi anni i voti del partito nazista abbiano avuto un vertiginoso incremento) 2 L’ASCESA DI HITLER Hitler e il Partito nazionalsocialista Adolf Hitler era nato nel 1889 a Braunau am Inn, una cittadina austriaca al confine con la Germania; nel 1907 si trasferì a Vienna per iscriversi all’Accademia delle arti figurative, respinto restò nella capitale; scoppiata la guerra, si arruolò volontario, ferito e decorato due volte, ricevette la notizia della sconfitta in ospedale. Rimasto in Germania Hitler si stabilì a Monaco di Baviera, ove aderì ad un minuscolo partito locale (il DAP di Drexel), di cui ben presto divenne leader. Dal 1920 questo movimento prese il nome di Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori (Nationalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei: NSDAP). I suoi obiettivi furono espressi, nel 1920, in un programma composto di 25 punti (vedi pag. 158), contenente elementi antisemiti, nazionalisti e persino socialisti. Il partito disponeva di squadre militari (le SA, Sturmabteilungen, «Reparti d’assalto», per colpire i militanti di sinistra) Approfondimento Confronto tra primo programma NSDAP e primo programma dei Fasci di combattimento (analogie e differenze) Il fallito colpo di stato del 1923 e il Mein Kampf Hitler, il 9 novembre 1923, tentò, con le SA, un colpo di stato in Baviera, noto come putsch (=golpe) di Monaco, con l’intento di prendere il potere in quella regione per poi organizzare una sorta di marcia su Berlino (come la marcia su 79 Roma fascista). Il colpo di stato fallì e Hitler fu arrestato e condannato a 5 anni di carcere (ne scontò poco più di uno) nella fortezza di Landsberg, in Baviera. Qui, nel luglio 1924, iniziò a scrivere il Mein Kampf (= La mia battaglia), completato nel 1925. Nel testo, Hitler riprende la leggenda della pugnalata alla schiena, cioè l’idea secondo cui la Germania sarebbe stata sconfitta per colpa dei marxisti, ai quali viene attribuita la responsabilità delle rivoluzioni di novembre 1918; ma a ciò aggiunge un elemento nuovo, ovvero l’affermazione per cui quei marxisti, in realtà, sarebbero stati manovrati dagli ebrei, i quali quindi rappresenterebbero i veri nemici del popolo tedesco. Il bolscevismo giudaico Hitler è convinto che gli ebrei stiano da secoli congiurando segretamente per la conquista del mondo e per raggiungere questo fine si servono come arma del marxismo, attraverso cui intendono distruggere la coesione interna di una nazione. In alcuni passi del Mein Kampf, Hitler menziona Mussolini e afferma di averlo ammirato. Tuttavia, va notato come, nel caso di Hitler, l’antisemitismo sia stato sin dall’inizio l’elemento centrale della sua concezione politica, mentre per il fascismo esso fu un elemento tardivo. Il razzismo di Hitler Il profondo legame tra antimarxismo e antisemitismo avvicina l’ideologia hitleriana ad uno scritto adottato dai Bianchi (gli avversari dei bolscevichi) durante la guerra civile degli anni 1918-1920 in Russia, chiamato Protocolli dei Savi Anziani di Sion (si trattava in realtà di un falso prodotto dalla polizia zarista, nei primi anni del XX secolo). Nella visione di Hitler l’antisemitismo si era fuso con le teorie razziste nate alla fine del Settecento e sviluppatesi nell’Ottocento, secondo cui esiste una razza, quella ariana (gli europei di pelle chiara e lingua indoeuropea) che possiede caratteristiche superiori alle altre e ha quindi diritto di dominarle. L’ebreo, secondo Hitler, vuole distruggere ciò che l’ariano ha costruito e per farlo si serve del marxismo. Poiché la dottrina comunista non potrebbe penetrare in una comunità di ariani, per diffonderla gli ebrei devono inquinare il popolo e imbastardirlo dal punto di vista razziale, privandolo della sua originaria purezza. Lo spazio vitale Il lebensraum fu un’idea-forza mai abbandonata e portata alle estreme conseguenze Questo concetto era stato elaborato dal nazionalismo tedesco molto prima della nascita del nazismo e rifletteva una visione del mondo extraeuropeo come spazio «colonizzabile» da popoli biologicamente e culturalmente superiori, assai diffusa nell’età dell’imperialismo, così come diffusa era la visione socialdarwinista, che giustificava la violenza, esaltava la lotta come segno del diritto dei popoli più forti ad affermarsi L’ascesa del Partito nazista La crisi del 1929 ebbe effetti dirompenti sull’economia tedesca. Ciò ebbe ripercussioni anche sul piano politico: a sinistra si moltiplicarono le adesioni al Partito comunista (KPD) e a destra esplosero i consensi ai nazisti, che nelle elezioni del 1930 ottennero un clamoroso successo, passando da 12 a 107 deputati, con oltre 6 milioni di voti. Alle presidenziali di marzo 1932 i partiti di governo (quindi anche la SPD) appoggiarono la rielezione dell’anziano generale Hindenburg alla guida della Repubblica, per bloccare la candidatura di Hitler. Hindenburg venne rieletto con 19 milioni di voti contro i 13,4 milioni di Hitler. Alle successive elezioni del luglio 1932 lo scontro politico si radicalizzò ancora: i comunisti ebbero 6 milioni di voti, ma i nazisti ne ottennero più del doppio, grazie all’appoggio della piccola borghesia e anche delle classi popolari. La presa del potere Alle nuove elezioni anticipate del novembre 1932 la NSDAP si riconfermò partito di maggioranza relativa con il 33,1% dei suffragi . Il 30 gennaio 1933 Hitler fu nominato cancelliere dal presidente della Repubblica Hindenburg. Questo primo esecutivo era un governo di coalizione , soltanto due erano i ministri della NSDAP. Focus sulla nomina di Hitler a cancelliere Sull’onda del successo elettorale di luglio 1932 (Nsdap al 38%) Hitler pretese che gli venisse affidato il governo, ma Hindenburg rifiutò Nel novembre 1932 per la Nsdap ci fu una battuta d’arresto (33%), ma il paese era ormai ingovernabile e c’erano 6 milioni di disoccupati, inoltre le SA spadroneggiavano in un clima da guerra civile I cattolici del Zentrum non escludevano un dialogo con Hitler, mentre le sinistre erano divise tra socialdemocratici e comunisti 30 Gennaio 1933: von Papen (leader Zentrum) convinse Hindenburg ad affidare a Hitler la carica di cancelliere, nella 80 convinzione che fosse «preso a servizio» (il vecchio maresciallo Ludendorff, eroe della Prima guerra mondiale, invece inviò per scritto a Hindenburg una tragica e veritiera profezia: «Predìco solennemente che quest’uomo maledetto farà sprofondare il nostro paese nel baratro e getterà sulla nostra nazione un carico indicibile di sofferenze. Le generazioni future vi malediranno nella tomba per ciò che avete fatto») Primo appello alla nazione di Hitler «Il presidente del Reich ha fatto appello a noi impartendoci l’ordine di dare alla nazione, con la nostra unanimità, la possibilità della rinascita. Noi facciamo pertanto appello al popolo tedesco, perché voglia sottoscrivere anch’esso questo gesto di conciliazione. Il governo della sollevazione nazionale vuole lavorare e lavorerà. Non è lui che ha diretto per quattordici anni la nazione tedesca verso la catastrofe, ma esso la vuole riportare in alto. È deciso a riscattare in quattro anni le colpe di quattordici anni… Popolo tedesco, dacci quattro anni e giudicaci» Confronta questo discorso con quello di Mussolini all’insediamento del suo primo governo L’incendio del Reichstag L’occasione per trasformare in dittatura l’autorità a cui Hitler era arrivato attraverso libere elezioni fu offerta dall’incendio del Reichstag, la sede del Parlamento a Berlino, del 27 febbraio 1933. Dell’attentato fu accusato un agitatore comunista (ma non è escluso che fossero stati gli stessi nazisti), Nella loro propaganda Hitler e i suoi addossarono ogni responsabilità ai comunisti, così il 28 febbraio (il giorno dopo l’incendio) il governo emanò un decreto con cui eliminò ogni forma di opposizione: la polizia poteva arrestare qualsiasi persona, senza doverne dichiarare il motivo; alla polizia era concesso di spiare chiunque, di disperdere le assemblee, di sciogliere associazioni e chiudere giornali, il tutto per la sicurezza dello stato. Le elezioni e la rapida costruzione della dittatura Con i propri capi in prigione e senza accesso alla stampa, i comunisti furono pesantemente sconfitti alle successive elezioni (5 marzo 1933), e a quei deputati comunisti (e alcuni socialdemocratici) che furono eletti al Reichstag non fu permesso, dalle SA, di prendere il loro posto in parlamento. Hitler fu sospinto al potere con il 44% dei voti e costrinse i partiti minori (nazionalisti, 8%) a dargli la maggioranza dei due terzi per il suo Decreto dei pieni poteri, che gli diede il diritto di governare per decreto e sospendere molte libertà civili (Hitler sfrutterà una legge già inclusa nella Costituzione di Weimar per abolire la divisione dei poteri). La costruzione della dittatura Il Partito comunista fu messo fuori legge e i suoi parlamentari privati del mandato Hitler ottenne dal parlamento (con la sola eccezione dei socialdemocratici) – in un’aula dominata da una grande svastica, con le SA e SS che piantonavano le uscite – i pieni poteri: chiusura giornali di opposizione, sciolto il partito socialdemocratico; «legge contro la formazione di nuovi partiti» (NSDAP unico partito legale) 20 marzo 1933 viene istituito il primo campo di concentramento, a Dachau, per prigionieri politici Il 10 maggio in tutte le piazze furono bruciati i libri proscritti dal regime («Azione contro lo spirito non tedesco») 30 giugno 1934: notte dei lunghi coltelli (eliminazione di Röhm e delle SA) 4 luglio: una legge dichiara disciolti tutti i partiti tranne quello nazionalsocialista Alla morte di Hindenburg, 2 agosto 1934, Hitler assunse la carica di capo dello stato, concentrando su di sé tutti i poteri Successivamente ci furono altre elezioni, ma con il sistema della lista unica, con consensi del 99% Notte dei lunghi coltelli Fu l'epurazione che ebbe luogo in Germania per ordine di Adolf Hitler fra il 30 giugno e il 2 luglio 1934, ai danni dei i vertici delle SA (i reparti paramilitari del partito nazista) guidati da Röhm, e di altri (oppositori del regime, vecchi nemici o ex compagni politici di Hitler, e alcune persone estranee alla vita politica o militare tedesca). Secondo i dati forniti il 13 luglio dallo stesso Cancelliere del Reich, furono assassinate 71 persone, ma il totale delle vittime fu stimato tra le 150 e 200; di 85 di esse si conosce il nome Perché l’epurazione delle SA? Le SA rischiavano di danneggiare con le loro perduranti violenze l’immagine di Hitler come restauratore dell’ordine Le SA si erano messe in competizione con l’esercito, con il quale Hitler invece voleva rafforzare i rapporti, dato che al momento rimaneva l’unica istituzione ancora autonoma Inoltre, fra Hitler e Röhm (il quale vagheggiava una «seconda rivoluzione»), i contrasti erano emersi già dal 1925 Contrasti Hitler-Röhm e nascita SS Röhm pretendeva che le "sue" SA non divenissero subalterne al partito, rifiutando che i comandanti dei reparti eseguissero ordini che non provenissero direttamente da lui Atteggiamento questo che, unito alla sua omosessualità, che nel 1925 lo vide coinvolto in uno scandalo, lo indusse a rassegnare le dimissioni e a espatriare in Bolivia. 81 Mentre il capo di Stato Maggiore della SA si trovava all'estero, Hitler, desideroso di possedere una guardia di sicurezza personale, iniziò a costituire una unità di élite di cui avrebbero potuto far parte solo uomini di sicura stirpe ariana e di incondizionata fedeltà nei suoi confronti, ossia le SS (Schutzstaffel, «squadre di protezione»), a cui, il 6 gennaio 1929, Heinrich Himmler fu posto a capo. Nel 1931 Röhm fu richiamato per la pressione delle SA (80.000 uomini), ma le SA e SS erano dichiarate indipendenti (anche le divise erano diverse: nere le SS, tradizionalmente brune le SA) Göring e Himmler Il ministero degli Interni fu inizialmente controllato da Göring , il quale utilizzò gli uomini delle SA per occupare i postichiave della polizia. In seguito l’organizzazione di tutte le forze di polizia passò al capo delle SS, Himmler , il quale nel 1935 organizzò la polizia segreta di Stato, Gestapo. Come governa Hitler Il sistema nazista prevede una pluralità di centri di potere (il partito , la Gestapo , il piano quadriennale per lo sviluppo economico guidato da Göring, le organizzazioni di consenso). Hitler governava con il metodo del caos organizzato : lasciava i centri di potere in concorrenza fra loro e gli ordini spesso non erano espliciti Strumenti repressivi SS (Schutzstaffel) Gestapo (Geheime Staatspolizei, Polizia segreta di stato) Incarcerò, eliminò o costrinse all’esilio ogni oppositore Organizzazioni per irreggimentare la società e per il consenso Fronte del lavoro: inquadrava tutti i lavori dal punto di vista sindacale, assistenziale e ricreativo Corporazioni: articolazioni dello stato che inquadravano i membri delle diverse attività economiche e professionali Gioventù hitleriana: irreggimentò la formazione dei giovani Ministero per la Propaganda e l’Educazione popolare, retto da Goebbels: utilizzò la comunicazione di massa, radio e cinematografo, riti collettivi, adunate all’ombra della svastica, eventi sportivi (olimpiadi del 1936 a Berlino) Identificazione tra Führer e masse La violenza nazista Repressione politica (in seguito al consolidamento del regime venne attenuandosi) Repressione sociale : ripulitura della società tedesca da categorie di persone ritenute incompatibili con essa (zingari, vagabondi, prostitute, alcolizzati, omosessuali) Politica razziale : risanamento biologico del popolo tedesco L’operazione eutanasia Provvedimenti del 1933 per la sterilizzazione di persone con handicap fisici o turbe psichiche o neurologiche ereditarie Operazione eutanasia dall’autunno 1939: eliminazione coatta di malati mentali attraverso gassazioni (e cremazioni) e iniezioni letali. Nel 1941, in seguito alla pubblica protesta del vescovo cattolico Clemens von Galen, Hitler diede ordine di interrompere l’operazione. Da 70000 a 90000 persone furono eliminate, tra cui 5000 bambini. L’operazione eutanasia fu una specie di prova generale del genocidio degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale La persecuzione contro gli ebrei Leggi di Norimberga del 1935: privavano i non ariani della cittadinanza del Reich e proibivano i matrimoni fra ariani e ebrei Successivamente, la notte dei cristalli del 9-10 novembre 1938: devastazione di negozi, incendi delle sinagoghe, uccisioni Requisizione dei beni appartenenti agli ebrei, arresti, deportazioni nei campi di concentramento, obbligo di portare sugli abiti la stella gialla Politica economica Politica autarchica (autosufficienza economica, sostituendo le importazioni con produzioni interne) Dirigismo : obiettivi fissati e politica economica centralizzata . La dominante presenza dello stato non intaccò il sistema capitalistico, ne accentuò il carattere monopolistico: forte saldatura tra interessi dei grandi gruppi industriali e il regime Due obiettivi principali della politica economica del regime Piena occupazione, obiettivo politico prima ancora che economico, perché mirava a conquistare il consenso. Questo obiettivo fu raggiunto: la Germania fu il paese che riuscì a uscire più rapidamente dalla crisi economica Preparare il paese alla guerra: accelerata politica di riarmo, spese militari al 50% dell’intera spesa dello stato alla vigilia 82 della Seconda guerra mondiale. 1936 anno di lancio del piano economico quadriennale, Hitler affermò: «l’armata tedesca deve essere in stato di impiego entro quattro anni». Fu molto stretto il legame tra economia, politica e guerra. Questione dello spazio vitale: non nel mondo coloniale, ma nell’Europa dell’Est, terra di slavi, ebrei e bolscevichi 83 Modulo 6: Democrazia e liberalismo in Europa e negli Stati Uniti fra le due guerre Il declino politico ed economico dell’Europa Negli anni precedenti il 1914, l’Europa era stata il centro economico del mondo. Il commercio mondiale si basava sull’esportazione dei manufatti industriali europei nel resto del mondo e sull’importazione di materie prime o di derrate alimentari sui mercati del Vecchio Continente. La guerra modificò radicalmente questa situazione: Francia e Inghilterra avevano potuto sconfiggere gli Imperi Centrali solo con l’appoggio degli USA, verso i quali si erano pesantemente indebitati. La situazione economica in Inghilterra Tra il 1913 e il 1925 le esportazioni britanniche erano diminuite del 25%. La Gran Bretagna restò, comunque, tenacemente attaccata alla propria tradizionale politica di libero scambio e all’obiettivo di riportare la sterlina al gold standard (la convertibilità della sterlina in oro). La sterlina pesante (rivalutata) rendeva ancora più difficili le esportazioni e ostacolò gli interventi contro la crescente disoccupazione di massa. Per rendere concorrenziali le merci britanniche si ricorse alla diminuzione dei salari, che di fatto fu all’origine dell’acutissima conflittualità sociale. La forza della democrazia inglese Malgrado questo drammatico contesto sociale ed economico, la democrazia parlamentare della Gran Bretagna non corse alcun pericolo, grazie al tenace attaccamento di tutti gli strati sociali del paese (della borghesia, come del proletariato) al parlamentarismo. Va sottolineato come il Partito laburista (la principale forza di sinistra del paese) fin dal suo apparire seguiva una linea riformista, socialdemocratica (anche perché, a differenza di quanto era accaduto negli altri paesi, era il partito a nascere dal sindacato, dalle Trade Unions, più attento al concreto e al sociale che alle questioni politiche, e non viceversa). I laburisti giunsero anche al potere dopo la vittoria elettorale del 1923, ma ciò non fu percepito come un pericolo per l’ordine politico e sociale. L’industria americana negli anni Venti Negli anni Venti gli USA erano lo stato capitalista più forte del mondo, la sua economia si caratterizzava su un altissimo livello di concentrazione industriale e finanziaria: un ristretto numero di banche controllava la maggior parte del credito e poche gigantesche compagnie dominavano interi settori (acciaio, energia elettrica, estrazione del petrolio). Oltre a questi colossi vi era una schiera di grandi industrie che servivano lo sterminato mercato interno di beni di consumo, protetto da altissimi dazi doganali. Fra le industrie che andavano assumendo un ruolo sempre più importante vi era quella dell’automobile. La prima utilitaria prodotta su vasta scala fu il Modello T della Ford (il primo esemplare fu prodotto nel 1908 ed era accessibile a pochi, ma nel 1926 negli USA circolava un auto ogni 5 abitanti). Il calo verticale dei costi di produzione dilatò la platea dei possibili compratori e l’auto da bene di lusso divenne un prodotto destinato al consumo di massa. Ciò fu reso possibile dall’applicazione di nuovi sistemi di organizzazione del lavoro adottati da Henry Ford, in particolare fu usata la catena di montaggio, introdotta per la prima volta nelle fabbriche automobilistiche di Detroit nel 1913. Lo sviluppo dei consumi di massa fu reso possibile dall’enorme sviluppo della produzione, ma anche dalla distribuzione incentrata sui grandi magazzini e dalle vendite rateali. Nella distribuzione nacquero veri e propri colossi come la “A & P” che nel 1932 aveva una rete di 15000 negozi. Per quanto riguarda le vendite rateali, si tenga presente per esempio che il 60% delle automobili era acquistato a rate. La pubblicità divenne un mezzo sempre più diffuso, così come le trasmissioni radiofoniche e il cinema. L’altra faccia dello sviluppo Tra il 1922 e il 1928 i profitti aumentarono del 76%, ma i salari industriali solo del 30%. Più della metà delle famiglie americane aveva un reddito appena sufficiente per sopravvivere. Inoltre, lo sviluppo degli “anni ruggenti” si accompagnò con una ondata di xenofobia, intolleranza, e comportamenti reazionari. Segnali vistosi di questo clima furono: I limiti posti all’immigrazione Il proibizionismo: la legge varata nel 1920 e rimasta in vigore fino al 1933, vietava la produzione e la vendita di ogni tipo di bevanda alcolica. L’equazione alcol = immigrati, neri, comunisti, sfaccendati, e la speranza puritana di sradicare per sempre il vizio portarono a dure risultati: a) la crescita del consumo di alcolici (clandestini) del 10% e la proliferazione di locali che vendevano sottobanco birra e liquori; b) l’aumento di bande criminali che controllavano il mercato degli alcolici (oltre che del gioco, 84 prostituzione, droga) La rinascita del Ku Klux Klan, che arrivò fino a 4 milioni di aderenti. L’episodio più noto di questo clima d’intolleranza e xenofobia fu la condanna di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, due italiani emigrati negli USA che nel 1921 vennero accusati di aver ucciso due persone durante una rapina. Malgrado le numerose prove di innocenza e la massiccia mobilitazione pubblica, furono uccisi sulla sedia elettrica nel 1927. A loro sfavore giocò il fatto che erano stranieri e di sinistra (anarchici), che in quegli anni equivaleva quasi a dire antiamericani e delinquenti. Nel 1977 il governatore del Massachussets li riabilitò pubblicamente. L’inizio della grande depressione La situazione era più critica nel settore dell’agricoltura. Esso aveva registrato un vertiginoso incremento durante la guerra mondiale, allorché i contadini europei erano al fronte e non potevano coltivare i loro campi. Ma dopo il 1920 l’agricoltura europea aveva ripreso gradualmente a funzionare, così i prezzi dei prodotti agricoli USA subirono un pesante ribasso e il mercato andò incontro ad una crisi di sovrapproduzione. Molti agricoltori, che al tempo della prosperità si erano indebitati, andarono in rovina, e non potendo più pagare le rate, persero la propria terra. Con il passare degli anni, la crisi agricola innescò quel processo di contrazione dei consumi che sta alla base della grande depressione. Il disastro cominciò a manifestarsi in tutta la sua ampiezza nell’ottobre 1929; la Borsa di New York (sita in Wall Street), dopo un periodo di forsennata speculazione finanziaria, registrò un brutale ribasso del valore dei titoli, in quanto le aziende non possedevano più un livello di prosperità effettivamente corrispondente all’elevata quotazione in Borsa delle loro azioni. Il 24 ottobre 1929 (giovedì nero) Wall Street crollò: in preda al panico, gli operatori finanziari (molti si suicidarono) presero a vendere, pur di liberarsi di titoli che perdevano valore di minuto in minuto. Nel giro di un mese il valore dei titoli si abbassò del 40%. Un regime economico basato sull’aumento costante della produzione si stava scontrando con una stasi della domanda, con l’incapacità del mercato di assorbire l’emissione sempre crescente dei prodotti sfornati dalle fabbriche. Le cause della crisi del 1929 Si trattò di una crisi di sovrapproduzione. Una parte troppo alta del reddito nazionale andava ad una ristretta cerchia di persone, impedendo così a operai, contadini, impiegati di incrementare i consumi. I prodotti americani trovarono minori sbocchi all’estero, perché le economie dei paesi europei tornarono a produrre e la politica protezionistica degli USA spingeva gli altri paesi ad adottare misure analoghe. Negli anni Venti l’enorme facilitazione creditizia e la diffusione delle vendite rateali fece crescere l’indebitamento nei confronti delle banche da parte di imprese e privati. Con il crollo della Borsa, le banche chiusero i “rubinetti” del credito, causando una catena di fallimenti di imprese, di contadini che si videro portare via la terra e di tutti coloro che si erano indebitati per comprare a rate casa e automobile. La prospettiva dei guadagni rapidi aveva alimentato la speculazione, facendo salire artificiosamente i prezzi dei titoli azionari e degli immobili. La crisi americana ebbe una ricaduta disastrosa sull’Europa, in particolare sulla Germania, che si era rialzata dalla crisi del dopoguerra grazie agli aiuti americani. Dimensioni e significato storico della crisi Scoppiata in un settore specifico, quello finanziario, la crisi si manifestò in tutti gli altri comparti, fino a travolgere l’intera economia, negli USA e poi in tutti i paesi industrializzati. Nel 1931 gli effetti raggiunsero l’Inghilterra, che si ritrovò costretta a modificare radicalmente i pilastri della propria economica: abolì la parità aurea (svalutando la sterlina), introdusse pesanti dazi protezionistici, in modo da difendere il proprio mercato interno (si avviava a conclusione l’epoca del liberismo economico). Il New Deal Presidente degli Stati Uniti nel 1929 era il repubblicano Herbert Hoover, profondamente legato alla dottrina del liberismo economico classico, fiducioso nella capacità del mercato di autoregolarsi, e convinto che ogni intervento dello stato nella sfera economica equivalesse ad un opprimente socialismo nemico dell’individuo e della sua libertà di iniziativa. Il paese venne dunque lasciato a se stesso mentre la vita di milioni di americani 85 passava brutalmente dalla prosperità degli anni Venti alla drammatica miseria dei primi anni Trenta. Le campagne si riempirono di vagabondi (vedi il romanzo Furore di John Steinbeck) e alla periferia delle metropoli si ammassarono baraccopoli improvvisate. Nel 1932 venne eletto il democratico Franklin Delano Roosevelt, il quale capì che per affrontare la gravità della situazione bisognava violare l’ortodossia liberista. Nonostante le critiche accademiche, egli si circondò di un Brain Trust (concentrazione di cervelli) che elaborò una serie di metodi nuovi. Innanzitutto, come primo passo del New Deal (Nuovo Corso), si abbandonò la convertibilità del dollaro in oro e il vincolo del pareggio del bilancio, scegliendo di andare incontro a un deficit nei conti dello stato, pur di far ripartire il meccanismo inceppato dell’economia. L’idea centrale del New Deal consisteva nel far intervenire lo stato nella vita economica (nel 1936 questa idea trovò un’ufficializzazione scientifica nell’opera Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, del grande economista inglese John Maynard Keynes). In questo modo un numero crescente di individui avrebbe di nuovo avuto a propria disposizione delle risorse, del denaro da spendere in beni di consumo o in derrate alimentari. Così, l’intero meccanismo avrebbe ripreso a funzionare, sia le fabbriche che gli agricoltori avrebbero di nuovo avuto un mercato. A tal fine l’amministrazione Roosevelt intraprese una grande campagna di lavori pubblici (come le grandi dighe e i rimboschimenti). All’inizio del 1934, lo stato era riuscito a trovare un impiego a più di 4 milioni di disoccupati, negli anni seguenti furono creati due milioni di posti di lavoro all’anno. Inoltre, la Federal Bank Reserve accentrò il controllo delle banche, furono garantite assicurazioni sui depositi bancari e fu introdotta una riforma fiscale per una più equa distribuzione delle ricchezze. Nel 1937 la produzione industriale era tornata ai livelli del 1929. Malgrado ciò nel 1939 il paese contava ancora 9 milioni e mezzo di disoccupati. Solo lo scoppio della seconda guerra mondiale, con il rilancio della produzione per sostenere lo sforzo bellico, pose fine alla grande depressione. STATO LIBERALE STATO TOTALITARIO Garantisce la libertà di pensiero e il confronto Presuppone che una data ideologia incarni la delle diverse opinioni verità assoluta Permette l’esistenza di molti partiti e garantisce Esiste un unico partito, che controlla libere elezioni completamente lo stato Garantisce la libertà di stampa e di espressione Reprime come pericolosa ogni forma di dissenso ideologico e politico L’ordinamento dello stato poggia sul principio Il potere legislativo e il potere giudiziario sono della separazione dei poteri controllati dal governo Il potere della polizia è limitato e regolato dalla Il potere della polizia (emanazione del governo) legge è assoluto DEFINIZIONE FIGURA DI RIFERIMENTO AMBIGUITÀ E RISCHI LIBERISMO Dottrina economica: lo stato non deve intralciare la dinamica dell’economia Adam Smith LIBERALISMO Dottrina politica: lo stato deve garantire i diritti dell’uomo John Locke Lo stato si disinteressa Lo stato tutela gli dei cittadini più deboli, interessi solo dei in tempo di crisi cittadini proprietari di beni DEMOCRAZIA Dottrina politica: lo stato deve garantire a tutti i cittadini un livello di vita dignitoso J.J. Rousseau Lo stato limita in modo eccessivo la libertà d’azione dei cittadini (democrazia totalitaria) La nuova organizzazione del lavoro Anche nelle società non soggette a regime totalitario, vi fu un pericolo di massificazione degli esseri umani, a causa di una rigida organizzazione del lavoro, in cui la creatività personale cessava e lasciava il posto alla meccanica esecuzione delle precise istruzioni ricevute. La catena di montaggio era il simbolo della spersonalizzazione del lavoratore nel mondo contemporaneo. Essa portò a termine il processo di divisione del lavoro che l’applicazione della macchina al processo produttivo aveva introdotto nell’Inghilterra della fine 86 del Settecento. Nella catena di montaggio, il processo produttivo era scomposto in un numero elevatissimo di operazioni elementari (secondo il modello taylorista) e il lavoratore era chiamato a compiere sempre e solo il medesimo movimento (vedi il film del 1936, Tempi moderni di Charlie Chaplin). Inoltre, la società contemporanea portava al conformismo dei comportamenti e alla massificazione dei gusti, influenzati anche da moderni mezzi di comunicazione di massa. 87 Moudlo 7: La seconda guerra mondiale 1 Le origini del conflitto I trattati di Rapallo e Locarno Negli anni Venti le relazioni tra Germania e Unione Sovietica furono cordiali, come mostra la firma del Trattato di Rapallo nel 1922, che prevedeva l’attivazione di un regolare commercio fra i due paesi. Il primo dicembre 1925 la Germania firmò anche il Trattato di Locarno, con cui accettava come definitivo l’assetto territoriale fissato dai vincitori a Versailles, in particolare la Germania rinunciava all’Alsazia-Lorena, ma il trattato rimaneva ambiguo circa le sorti dei confini orientali, la cui revisione non era esclusa a priori. La Società delle Nazioni Il trattato di Locarno prevedeva anche l’ingresso della Germania nella Società delle Nazioni, organismo voluto da Wilson, per promuovere la collaborazione internazionale. La capacità d’azione della Società delle Nazioni fu messa alla prova quando il Giappone occupò la Manciuria nel 1931. Essa condannò l’intervento giapponese, ma di fatto non fu capace di prendere alcun provvedimento. Da un lato la condanna formale irritò profondamente il Giappone (che uscì dalla Società delle Nazioni), dall’altro mostrò l’impotenza dell’organismo nel mettere davvero un argine alle violazioni del diritto internazionale. Per questo la Società elaborò un complesso sistema di sanzioni economiche che divennero effettivamente operanti, per la prima volta, nel 1935, in occasione dell’aggressione italiana all’Etiopia. La politica estera tedesca negli anni 1933-1936 Con l’avvento al potere di Hitler cessò il rapporto di collaborazione tra Germania e URSS. Anche con le altre potenze europee i rapporti cominciarono a farsi più tesi, come nel caso dell’Italia, quando Mussolini si oppose al tentato colpo di stato nazista in Austria. Nel 1934, infatti, i nazisti austriaci tentarono un colpo di stato, assassinando il cancelliere Dollfus, contrario all’unione con la Germania, come da diverse parti si richiedeva in nome del principio di nazionalità, dopo la fine dell’Impero asburgico. Mussolini minacciò di intervenire militarmente, e la crisi fu superata solo dopo che il governo austriaco ebbe riacquistato il controllo della situazione. Nel 1935, con un referendum gli abitanti della Saar scelsero la riunificazione con la Germania, scaduti i 15 anni di occupazione francese previsti dal trattato di pace. La prima violazione del Trattato di Versailles si ebbe nel marzo 1935, quando venne ripristinata in Germania la coscrizione obbligatoria. Nell’aprile, Francia, Gran Bretagna e Italia si riunirono a Stresa e concordarono di mantenere l’assetto europeo esistente. Nel maggio 1935 Hitler annunciò solennemente che la Germania ripudiava le residue clausole sul disarmo del Trattato di Versailles. La conquista italiana dell’Etiopia L’Italia, nell’estate del 1935, era alleata di Francia e Gran Bretagna. Mussolini, tuttavia, aveva già deciso di conquistare l’Etiopia, per trasformare l’Italia in una grande potenza (laddove lo stato liberale aveva sempre fallito, come nella disfatta di Adua del 1896). Gran Bretagna e Francia non avevano in Etiopia interessi significativi e non sollevarono particolari obiezioni. D’altro canto, l’Etiopia faceva parte della Società delle Nazioni. Nei primi giorni d’ottobre 1935, l’esercito italiano varcò il confine con l’Etiopia; subito la Società delle Nazioni emanò delle sanzioni economiche contro l’Italia, ma si trattava di misure blande, in quanto seppur vietasse il commercio con l’Italia agli stati membri della Società, tuttavia non venne proibita l’esportazione verso l’Italia di ferro, acciaio, carbone, petrolio. Quindi le sanzioni non impedirono al regime fascista di portare avanti la guerra (anche con l’uso di gas asfissianti). Il 9 maggio 1936, il re d’Italia venne proclamato dal Duce “Imperatore d’Etiopia”. Nonostante la reazione di Francia e Inghilterra fu debole (ad esempio l’Inghilterra non chiuse il canale di Suez), a Mussolini parve ugualmente di essere stato tradito e ciò incrinò al cosiddetto “fronte di Stresa” (l’intesa fra Francia, Inghilterra e Italia). Hitler approfittò di questa nuova situazione per denunciare il Patto di Locarno e occupare la Renania smilitarizzata (7 marzo 1936). 88 La guerra civile spagnola I rapporti tra Italia fascista e Germania nazista (fino a quel momento tiepidi a causa della questione austriaca) a partire dalla conquista dell’Etiopia si fecero sempre più stretti, al punto che nel novembre 1936 Mussolini proclamò solennemente l’esistenza di un Asse Roma-Berlino. Nel 1931 la Spagna era diventata una repubblica in seguito alla vittoria delle forze di sinistra; ma nel 1933 la coalizione di destra espresse un governo che attuò una sanguinosa repressione degli scioperi dei minatori delle Asturie. Le nuove elezioni del 1936 furono vinte da una coalizione di sinistra, il Fronte popolare. Il 7 luglio 1936, il generale Francisco Franco, che comandava le truppe stanziate in Marocco, si mise alla guida di una rivolta contro il governo e cercò di impadronirsi del potere con l’appoggio della grande borghesia, dei proprietari terrieri e della Chiesa. Ne seguì una sanguinosa guerra civile, che si concluse nel 1939, con la vittoria delle forze reazionarie. La guerra civile vide il coinvolgimento di varie potenze. L’Italia fascista sostenne i ribelli, inviando armi e truppe e anche la Germania mandò aiuti a Franco (il bombardamento compiuto dagli aerei tedeschi sulla città di Guernica fu immortalato dal celebre quadro di Pablo Picasso). La repubblica fu invece appoggiata dall’Unione Sovietica, Francia e Inghilterra, invece, optarono per il non intervento. La politica estera tedesca negli anni 1937-1938 Il 25 novembre 1936 la Germania firmò il Patto anti-Comintern (Internazionale Comunista) con il Giappone, in direzione antisovietica e il 6 novembre 1937 anche l’Italia fu accolta nel Patto. La Francia, che si considerava il vero garante dell’ordine uscito da Versailles, era ormai il principale ostacolo alla politica estera tedesca, cioè al programma hitleriano di espansione verso est. La politica delle grandi potenze occidentali nei confronti di Hitler fu inizialmente ambigua o debole. In particolare l’Inghilterra era disponibile ad accettare una revisione dei confini tedeschi fissati a Versailles, a patto che ciò non alterasse eccessivamente l’equilibrio europeo. Tale politica condotta dal primo ministro Neville Chaberlain fu detta di appeasement (pacificazione, mediante concessioni). La prima mossa tedesca nei confronti dello scardinamento dell’ordine di Versailles, fu l’Anschluss, l’annessione dell’Austria al Terzo Reich, il 13 marzo 1938. Questa volta tale atto non suscitò più alcuna reazione da parte dell’Italia. Subito dopo, Hitler sollevò la questione dei tre milioni di tedeschi presenti entro i confini della Cecoslovacchia e il 29 settembre 1938 fu convocata a Monaco una Conferenza a quattro: Hitler, Mussolini, Chamberlain, Deladier (primo ministro francese), in cui si decise, senza interpellare il governo della Cecoslovacchia, che essa doveva cedere al Terzo Reich la regione dei Sudeti (popolata da quasi tre milioni di tedeschi e un milioni di cechi). Chamberlain disse: “credo che sia la pace per il nostro tempo”. Si trattava di un’illusione, basata sull’ipotesi errata che Hitler fosse un politico tradizionale e che la sua aspirazione fosse solo quella di permettere alla Germania di contare di più in Europa. L’obiettivo finale del Führer era invece la conquista degli immensi spazi orientali e la sua meta era l’egemonia continentale. Nel marzo 1939 la Germania occupò anche il resto della Cecoslovacchia, creando il protettorato di Boemia e Moravia. L’Inghilterra accettò anche questa nuova aggressione, giustificandola con il fatto che la Boemia nell’Ottocento aveva fatto parte della Confederazione germanica ed era stata legata all’Austria fino al 1918. Questi territori diverranno tristemente noti anche per il campo di concentramento di Terezin (Theresienstadt), che raccoglieva tra gli altri molti bambini. Il patto di non aggressione russo-tedesco Hitler rivolse alla Polonia una perentoria richiesta: entrare a far parte del Patto anti-Comintern. Il 26 marzo 1939, la Polonia rifiutò ufficialmente, Hitler decise allora di invaderla. L’occupazione avrebbe irrimediabilmente compromesso l’equilibrio europeo; ormai pienamente consapevole delle intenzioni egemoniche di Hitler, il 30 marzo 1939 Chamberlain pronunciò una solenne dichiarazione di garanzia di indipendenza della Polonia. La Germania si trovò costretta ad appoggiarsi all’Italia, con la quale il 22 maggio 1939 firmò il Patto d’acciaio, un’alleanza militare che sarebbe dovuta scattare immediatamente qualora una delle due parti contraenti “venisse ad essere impegnata in complicazioni belliche”. Nell’agosto 1939 Hitler, consapevole della debolezza militare dell’Italia, giocò a sorpresa la carta sovietica. Poiché l’attacco alla Polonia avrebbe provocato l’intervento angolo-francese, Hitler scelse di giungere ad un provvisorio accordo tattico con Stalin, offrendogli un patto di non aggressione, che fu firmato il 23 agosto 1939, dai rispettivi ministri degli esteri, Molotov e von Ribbentrop. Questo patto aveva anche un protocollo 89 segreto che prevedeva una vera e propria spartizione della Polonia stessa. Nelle intenzioni di Hitler il patto avrebbe dovuto indurre Francia e Inghilterra a non intervenire a fianco della Polonia, ma se anche le due potenze occidentali avessero dichiarato guerra, Hitler si era garantito di evitare l’impegno dell’esercito tedesco su due fronti. 2 La dinamica della guerra La guerra lampo in Polonia La seconda guerra mondiale ebbe inizio il 1° settembre 1939, quando le truppe tedesche penetrarono in territorio polacco. Il 3 settembre, Inghilterra e Francia dichiarano guerra alla Germania. Il 28 settembre Varsavia capitolò, si trattò di una guerra lampo, favorita da due nuove armi che resero la seconda guerra mondiale un conflitto radicalmente diverso rispetto alla prima: l’aviazione e il carro armato. In verità, per la Germania la guerra lampo era una necessità, visto che non era ancora del tutto pronta dal punto di vista del riarmo e della produzione bellica. L’intervento sovietico Il 17 settembre, da est, anche l’Armata Rossa, con l’obiettivo di occupare la porzione di Polonia che era stata assegnata all’URSS dal Protocollo segreto siglato assieme al patto di non aggressione Molotov-Ribbentrop. Germania e Russia si accordarono sulle rispettive sfere di influenza nell’Europa orientale, il che permise all’URSS di sottomettere gli stati baltici della Lettonia, dell’Estonia e della Lituania. Anche la Finlandia avrebbe dovuto cedere, nelle intenzioni di Stalin una parte del proprio territorio all’URSS; i finnici si opposero e iniziò un conflitto che si risolse a favore dell’Armata Rossa nella primavera del 1940. Il 14 dicembre 1939, in conseguenza di questa aggressione, l’Unione Sovietica fu espulsa dalla Società delle Nazioni, mentre in Inghilterra da più parti si proponeva di intervenire a fianco della Finlandia contro la Russia, considerata in quel momento alleata del Terzo Reich. Dunque, alla fine del 1939, la guerra mondiale avrebbe potuto prendere un indirizzo diverso da quello che poi effettivamente assunse. La guerra in Occidente nel 1940 In Occidente la guerra divampò solo nella primavera del 1940. Dapprima l’esercito tedesco occupò la Danimarca e la Norvegia, poi l’Olanda, il Belgio e la Francia. Risultarono decisivi la velocità e la capacità d’urto delle forze corazzate tedesche, appoggiate dall’aviazione, che aggirarono da nord la linea fortificata Maginot (un sistema di fortificazioni collegate tra loro che si estendeva lungo tutto il confine con la Germania, dalla Svizzera fino al Belgio) e sfondarono il fronte alleato vicino a Sedan, così facendo, isolarono le armate nemiche impegnate nel Nord della Francia. La disfatta anglo-francese fu totale; l’unico successo consistette nel fatto che gli inglesi riuscirono a evacuare dal porto di Dunkerque 200000 soldati britannici e 140000 francesi. [il 10 giugno l’Italia entra in guerra, di questo ci occuperemo in seguito] Il 14 giugno 1940 le truppe tedesche entrarono trionfalmente a Parigi, il governo francese fu costretto alla resa. La Francia fu divisa in due zone: il Nord fu posto sotto il diretto controllo tedesco, al Sud (a Vichy) venne instaurato un governo conservatore, disposto a collaborare con i nazisti e guidato dal maresciallo Pétain. Il 19 luglio in un discorso al Reichstag, Hitler offrì alla Gran Bretagna la pace; a Londra, il 10 maggio era diventato primo ministro Winston Churchill, il più fiero avversario della politica di appeasement condotta da Chamberlain. Il nuovo governo inglese respinse l’offerta hitleriana. Lo Stato Maggiore tedesco iniziò a progettare l’invasione della Gran Bretagna, con il nome in codice “Operazione leone marino”. Nel corso dell’estate 1940, ebbe luogo la cosiddetta battaglia d’Inghilterra, caratterizzata dallo sforzo dei bombardieri tedeschi di mettere fuori uso gli aeroporti inglesi, di acquistare il dominio assoluto dei cieli e di rendere possibile l’invasione dell’isola. L’aviazione inglese, tuttavia, riuscì ad infliggere gravi perdite a quella avversaria, in virtù della superiorità tecnica dei propri caccia (gli Spitfire) e del rivoluzionario utilizzo dei radar. Ciò indusse Hitler a rimandare l’invasione della Gran Bretagna. L’attacco tedesco all’Unione Sovietica Nel settembre 1940 Hitler aveva rinunciato al progetto di invadere la Gran Bretagna; ma fin dall’estate aveva progettato di procedere contro l’URSS, visto che la sconfitta della Francia gli aveva assicurato quella 90 “sicurezza alle spalle” da lui considerata essenziale per la guerra contro la Russia. Il 27 settembre 1940 la Germania strinse con Italia e Giappone il Patto tripartito. Nell’estate 1940, la Germania occupò la Romania, che aderì al Patto tripartito insieme a Ungheria e Slovacchia. Si stava delineando la strategia di accerchiamento per un attacco alla Russia, ma i piani di Hitler subirono un ritardo di un paio di mesi a causa della necessità di intervenire in aiuto dell’Italia in Africa – in Libia l’esercito italiano era incalzato dagli inglesi - e nei Balcani – in Albania il contingente italiano era in difficoltà contro i greci. L’offensiva (denominata in codice Operazione Barbarossa) iniziò il 22 giugno 1941, cogliendo di sorpresa Stalin, che fino all’ultimo aveva prestato fede al patto di non aggressione. La speranza di Hitler era di sconfiggere l’URSS con una nuova guerra lampo. Il fine era quello di conquistare lo spazio vitale (il Lebensraum) per il Volk tedesco e sfruttare le immense risorse della Russia, trasformando la sua popolazione in una moltitudine di schiavi. L’arresto dell’offensiva sul fronte orientale L’attacco tedesco alla Russia registrò, in un primo momento, un successo clamoroso (penetrando per 800 Km), tuttavia a nord Leningrado non capitolò e a sud la conquista dell’Ucraina non significò il collasso dell’industria bellica sovietica. Le truppe di Hitler arrivarono in novembre fino ai sobborghi di Mosca; ma il 5 dicembre quando già l’inverno russo infieriva e causava terribili problemi ai soldati tedeschi, l’esercito sovietico contrattaccò, provocando la definitiva cessazione della guerra lampo e la sua trasformazione in una micidiale guerra di logoramento. Stalin inoltre adottò la tattica della terra bruciata (“Non bisogna lasciare una sola locomotiva, non un vagone, non un chilo di grano, un litro di carburante”). Il progressivo allargamento del conflitto nel 1941 L’Inghilterra godeva già, fin dall’autunno del 1940, dell’appoggio politico ed economico degli Stati Uniti. Nel 1941 l’aiuto americano trovò un’espressione più efficace mediante la Legge affitti e prestiti, con cui il Presidente aveva il potere di mettere risorse americane a disposizione di quegli stati la cui sconfitta avrebbe rappresentato un pericolo per la sicurezza USA. Di questi aiuti ne approfittarono in primis la Gran Bretagna, l’URSS invece venne aiutata solo a partire dal novembre 1941. Fin dal 1937 il Giappone era in guerra con la Cina, di cui aveva conquistato le regioni settentrionali e orientali. Nel 1941, l’impero nipponico si trovò di fronte a una alternativa: Hitler lo sollecitava a intervenire in Siberia, ad occupare Vladivostock e a schiacciare l’URSS su due fronti. Il Giappone però rifiutò e non aprì le ostilità contro l’URSS (preferì impegnarsi nella conquista dei possedimenti francesi e olandesi in Estremo Oriente). Fino alla sconfitta della Germania, l’URSS a sua volta non dichiarò guerra al Giappone, che condusse pertanto solo una sorta di guerra regionale in Estremo Oriente, dettata da propri interessi economici. L’entrata in guerra del Giappone Il 24 luglio, l’esercito giapponese entrò nella regione di Saigon, nell’Indocina francese. Roosvelt reagì il 26 luglio annunciando il blocco di tutti i beni giapponesi negli USA e l’embargo di ogni prodotto nei confronti del Giappone. A tale chiusura delle forniture si associarono anche la Gran Bretagna, i paesi del Commonwealth e l’Olanda. Fu allora che il Giappone si decise per la guerra nei confronti delle potenze occidentali. Il 7 dicembre 1941, l’aviazione nipponica attaccò la base americana di Pearl Harbor, nelle Hawaii: quattro corazzate furono affondate ed altre dieci navi vennero gravemente danneggiate, tuttavia le portaerei non si trovavano in porto al momento dell’incursione, che sortì quindi un effetto limitato dal punto di vista militare. Nei primi mesi del 1942 il Giappone riportò notevoli successi: furono conquistati i principali possedimenti inglesi e americani in Asia orientale (Hong Kong, Singapore, Filippine) e l’occupazione della Birmania portò l’esercito giapponese praticamente ai confini con l’India britannica. La prima vera battuta d’arresto si verificò il 4 giugno 1942, al largo delle isole Midway, allorché l’aviazione americana riuscì ad affondare quattro grandi portaerei nipponiche, permettendo agli USA di acquisire una superiorità aeronavale nel Pacifico. Stalingrado L’11 dicembre 1941 Hitler dichiarò guerra agli Stati Uniti (già in uno stato di semi-belligeranza con la Germania, per via dell’appoggio economico alla Gran Bretagna). Nell’estate del 1942, l’esercito tedesco riprese la sua avanzata in territorio sovietico. Ma Hitler commise un errore strategico, attaccando contemporaneamente il Caucaso e Stalingrado, con il risultato che nessuno dei due obiettivi venne conseguito. Nel novembre 1942, l’Armata Rossa passò al contrattacco e riuscì ad accerchiare i 250000 soldati della VI Armata tedesca impegnata a Stalingrado. Hitler vietò al generale von Paulus ogni ritirata, con il risultato che 91 una volta assediati i tedeschi, il 31 gennaio 1943, furono costretti ad arrendersi. Quella di Stalingrado fu la battaglia decisiva di tutta la guerra. L’organizzazione della produzione bellica in Germania Hitler decise nel 1943 una mobilitazione di tutte le risorse tedesche: per la prima volta in Germania gli investimenti diretti ai beni di consumo furono ridotti e il tenore di vita ridimensionato. Albert Speer nel settembre 1943 assunse la carica di Ministro per l’Armamento e la Produzione di guerra. I risultati ottenuti da Speer furono miracolosi (nel 1944 la Germania produceva una quantità di cannoni pesanti, aerei, carri armati ben più grande di quella del 1942), soprattutto se si considera che nel 1943 le incursioni aeree anglo-americane sui centri industriali della Germania si fecero sempre più massicce. Per sopperire alla carenza di manodopera si deportarono in Germania tecnici e operai dai territori occupati (si arrivò ad una presenza di 7 milioni di lavoratori stranieri, fra cui francesi, belgi e olandesi – trattati in modo relativamente decente – e russi e polacchi – trattati come schiavi). Le Conferenze di Teheran e di Casablanca del 1943 A Casablanca (13-24 gennaio 1943) Churchill, Roosvelt decisero di non interrompere la guerra fino alla resa incondizionata della Germania. Tale formula aveva lo scopo di rassicurare Stalin, timoroso che gli anglo-americani lasciassero l’URSS a dissanguarsi da sola contro il Terzo Reich. Nella Conferenza di Teheran (22-26 novembre 1943), a cui partecipò anche Stalin, fu deciso che entro il 1944 gli anglo-americani avrebbero aperto un secondo fronte in Francia, dopo quello già aperto in Italia, dopo lo sbarco in Sicilia nel luglio 1943 [lo vedremo meglio in seguito]. Estate 1944: sbarco in Normandia e offensiva sovietica Il 6 giugno 1944 gli anglo-americani procedettero all’invasione della Francia, che ebbe inizio con lo sbarco in Normandia. Fu un’operazione colossale (200000 uomini, 6500 mezzi da sbarco, 200 navi da guerra, 13000 aerei), che si concluso alla fine di agosto, quando ormai gli Alleati erano riusciti a sbarcare in Francia più di 2 milioni di uomini, 438000 veicoli e tre milioni di tonnellate di rifornimenti. Il 25 agosto, Parigi venne liberata. Le prime truppe ad entrare nella capitale furono francesi. Si trattava di reparti che avevano aderito ad un appello lanciato all’indomani della disfatta, il 18 giugno 1940, dal generale Charles De Gaulle. Rientrato a Parigi, De Gaulle assunse la carica di Presidente della Repubblica francese. Il 20 luglio 1944, un gruppo di ufficiali mise in atto un attentato contro Hitler, mettendo una bomba nel suo quartier generale, in Prussia Orientale. Hitler sopravvisse all’esplosione e subito attuò una brutale repressione che colpì tutti i militari e i funzionari civili sospettati. Inoltre, la Germania cercò di reagire all’offensiva nemica mettendo in funzione una serie di nuove armi, ovvero gli aerei a reazione e i razzi a lunga gittata, noti con le sigle V1 e V2, capaci di colpire Londra e l’Inghilterra meridionale, ma che a causa degli insopportabili costi di produzione non furono impiegati. Il 23 giugno 1944 l’Armata Rossa scagliò l’offensiva decisiva sul fronte orientale, catturando 350000 tedeschi e aprendo così le porte della Polonia e dell’Europa centrale. L’avanzata si fermò a Budapest e alle porte di Varsavia, conquistata solo nel gennaio 1945. La fine della guerra in Europa All’inizio del 1945, gli eserciti degli Alleati penetrarono da est a ovest all’interno del territorio tedesco, devastato dai bombardamenti (come quello massiccio di Dresda). Il 25 aprile 1945, sovietici e americani riuscirono a incontrarsi a Torgau, sul fiume Elba, nel cuore della Germania. Il 12 aprile, morto improvvisamente Roosvelt, fu eletto nuovo presidente Harry S. Truman, il quale non mutò linea politica, sebbene fosse ben più diffidente nei confronti di Stalin rispetto al suo predecessore. Chiuso nel suo Führerbunker di Berlino, Hitler perse completamente il controllo della situazione. Non solo continuava a dirigere eserciti e divisioni corazzate ormai inesistenti, ma, cosa ancor più grave, comunicò a Speer il cosiddetto Ordine Nerone, con cui auspicava la completa distruzione del suo popolo, reo di averlo tradito e di non essere stato all’altezza dell’impresa. L’ordine diceva: “tutti gli impianti militari, di trasporto, di comunicazione, industriali e di approvigionamento che il nemico può in qualsiasi modo utilizzare nell’immediato e in tempi ravvicinati per la prosecuzione del conflitto vanno distrutti”. L’ordine di distruzione totale non fu eseguito. Il 30 aprile Hitler si tolse la vita, esortando i suoi seguaci a proseguire l’osservanza delle leggi razziali la lotta contro il giudaismo internazionale. I russi intanto avevano già sferrato l’attacco finale contro Berlino, che riuscirono a conquistare definitivamente il 2 maggio. La resa ufficiale avvenne 5 giorni dopo, in modo da permettere alla maggior parte dei soldati tedeschi di consegnarsi prigionieri agli anglo-americani invece che ai russi. Alla mezzanotte dell’8 92 maggio 1945, in Europa la seconda guerra mondiale era ufficialmente finita. La fine della guerra in Asia Nel Pacifico si giunse alla pace solo ai primi di settembre 1945. Il Giappone era allo stremo (due terzi della flotta mercantile affondati, fabbriche chiuse, situazione alimentare tragica, bombardamenti sulle città – l’8 marzo, in una sola incursione su Tokyo, persero la vita 83000 persone, 20000 in più di tutti i civili inglesi periti nell’intero conflitto per le incursioni aeree), eppure voleva a tutti i costi resistere per evitare l’umiliazione della resa incondizionata; tanto che in marzo e giugno l’occupazione delle isole giapponesi di Iwo Jima e Okinawa costarono agli americani migliaia di morti. Il generale MacArthur, nella primavera del 1945, pronosticò che un’invasione del Giappone avrebbe richiesto l’impiego di almeno 5 milioni di soldati e la morte di un milione. Truman sollecitò l’intervento sovietico contro il Giappone, a cui l’URSS dichiarò guerra l’8 agosto; ma a quella data, ormai, gli Stati Uniti avevano già impiegato l’arma nucleare. La prima bomba atomica fu fatta esplodere a titolo sperimentale il 16 luglio ad Alamogordo, nel New Mexico; il 6 agosto, invece, venne bombardata Hiroshima (l’80% degli edifici venne raso al suolo, 70000 persone uccise all’istante, 40000 feriti, molti svilupparono conseguenze patologiche, come leucemie e forme tumorali); il 9 agosto, una seconda bomba fu sganciata su Nagasaki (40000 morti, 60000 feriti). A quel punto il Giappone chiese la resa, ufficialmente stipulata il 2 settembre 1945 a bordo di una corrazzata americana all’ancora nella baia di Tokyo. 3 L’Italia nella seconda guerra mondiale La non belligeranza Nel momento in cui elaborò i piani per l’invasione della Polonia, lo Stato Maggiore tedesco non tenne neanche conto di un eventuale contributo italiano e l’Italia non fu consultata. In teoria il Patto d’acciaio implicava il sostegno dell’Italia alla Germania in guerra, ma Mussolini optò per la non belligeranza, che significava appoggio politico alla Germania, senza diretta partecipazione al conflitto. L’Italia non era pronta dal punto di vista militare e economico a sostenere una guerra, ma, sarebbe potuta intervenire nel giro di due o tre anni. Tuttavia, la repentina sconfitta della Francia sconvolse i piani di Mussolini, che il 10 giugno 1940 annunciò la decisione di scendere in campo. L’intervento L’Italia non era assolutamente preparata a sostenere il peso di una guerra moderna: la sua industria era dipendente dall’estero per le materie prime (ferro, carbone, petrolio); sul piano militare le carenze erano clamorose (nessun sistema di difesa contro i bombardamenti; assenza di aerei, carri armati e artiglieria moderni; le navi non erano muniti di radar). La ragione per cui Mussolini scelse ugualmente di gettare il paese nel conflitto era basata su un errato calcolo: sconfitta la Francia (Parigi fu occupata il 14 giugno 1940), secondo Mussolini, l’Inghilterra sarebbe scesa a patti con la Germania, e se l’Italia avesse partecipato al conflitto avrebbe potuto sedersi al tavolo dei vincitori. Invece, nel 1940 la Gran Bretagna respinse ogni offerta di armistizio, così l’Italia si ritrovò in un conflitto che non aveva possibilità di vincere e nel giro di poco si trasformò in un satellite della potenza tedesca. La guerra parallela I risultati dei primi mesi di guerra, mostrarono l’incoscienza della scelta di Mussolini. Il 6 aprile 1941, in Etiopia, le truppe italiane subirono gravi sconfitte e gli inglesi occuparono Addis Abeba, riportando sul trono il negus Selassiè. Il 28 dicembre 1940 Mussolini aveva dichiarato guerra alla Grecia. Avviando la Campagna di Grecia, egli voleva mostrare che l’Italia non era una semplice pedina tedesca e poteva condurre una guerra parallela, con obiettivi propri. L’insuccesso fu totale e l’esercito italiano fu salvato solo dall’intervento tedesco. Nel medesimo anno, in Africa settentrionale, le truppe italiane guidate dal maresciallo Graziani ottennero inizialmente alcuni successi contro gli inglesi, ma dal dicembre 1940, le truppe britanniche contrattaccarono mettendo in difficoltà gli italiani, che persero la Cirenaica. L’offensiva inglese in Libia poté essere tamponata solo dall’arriva di un contingente, l’Afrika Korps, guidato dal generale Erwin Rommel. Le sconfitte del 1942-1943 La guerra in Africa del Nord proseguì fino al 1943, con sostanziali sconfitte. Nell’autunno 1942 gli inglesi scatenarono una grande offensiva nei pressi di El Alamein e ricacciarono indietro le truppe italiane e tedesche. Gli Alleati erano divenuti i padroni dell’intero Mediterraneo. La controffensiva sovietica nel novembre 1942 portò alla completa disfatta del corpo di spedizione che 93 Mussolini aveva inviato in URSS. Gli alpini furono costretti a una terribile ritirata in mezzo alla neve (molti dei soldati e ufficiali sopravvissuti alla ritirata, dopo l’8 settembre 1943, si unirono alla Resistenza). Il fronte interno In Italia, la situazione economica ed alimentare era diventata drammatica (gli alimenti erano razionati: 150 grammi di pane al giorno per persona, 400 gr di grassi e 500 di zuccheri; i prezzi aumentarono enormemente ma i salari rimasero fermi). Nella primavera del 1943, scoppiarono una serie di scioperi, prima a Torino (5 marzo) e poi a seguire in diverse industrie milanesi. A questi scioperi parteciparono fascisti e non fascisti e segnarono per la prima volta una netta incrinatura del consenso del popolo italiano nei confronti del fascismo. Dall’altra parte, anche la borghesia cominciava a prendere le distanze da Mussolini, come dimostrano le dimissioni del conte Cini da Ministro delle Comunicazioni, il 14 giugno 1943. Lo sbarco in Sicilia degli Alleati Nella notte tra il 10 e l’11 luglio 1943, gli Alleati attaccarono la Sicilia. Mussolini si rifiutò di intavolare trattative di pace con gli anglo-americani e ciò determinò la crisi definitiva del fascismo. Il re, infatti, desideroso di sganciare la monarchia dal fascismo, progettò, insieme con l’esercito un colpo di stato per estromettere Mussolini e dare al paese un nuovo governo. Il 19 luglio Roma fu pesantemente bombardata e Mussolini non ebbe coraggio di porre a Hitler la questione del ritiro dell’Italia dal conflitto. Il re prese allora accordi con il generale Ambrosio e con il comandante dei Carabinieri per arrestare Mussolini il 26 luglio, in occasione dell’udienza che in quel giorno il Duce avrebbe avuto presso il sovrano. La seduta del Gran Consiglio del Fascismo, la notte tra il 24 e il 25 luglio, fece precipitare gli eventi. Un gruppo di alti esponenti del partito decise di sfruttare l’occasione della riunione del supremo organo per mettere sotto accusa Mussolini e chiederne la destituzione. Tale nucleo era guidato da Dino Grandi (ambasciatore a Londra dal 1932 al 1939 e poi Presidente della Camera) e Galeazzo Ciano (genero di Mussolini e Ministro degli Esteri dal giugno 1936 al febbraio 1943). La caduta del fascismo (25 luglio 1943) La riunione del Gran Consiglio del Fascismo ebbe inizio alle 17 del 24 luglio 1943; Grandi pose in votazione un proprio ordine del giorno che esautorava Mussolini da ogni potere. Grandi e i suoi sostenitori prospettavano una sorta di fascismo senza Mussolini, di regime autoritario senza la dittatura personale del Duce; inoltre, essi puntavano allo sganciamento dalla Germania e a firmare un armistizio con gli angloamericani. La drammatica riunione durò dieci ore ed ebbe termine alle 2,40 del mattino del 25 luglio, dopo l’approvazione dell’ordine del giorno Grandi. Mussolini, in realtà, non riteneva vincolante tale votazione, perché il Gran Consiglio aveva una funzione solo consultiva e non deliberativa, pertanto non prese nell’immediato alcun provvedimento, ma chiese di essere al più presto ricevuto dal re, il quale, invece, vide nella votazione la legittimazione del colpo di stato che stava per attuare e che ebbe effettivamente luogo il pomeriggio di quello stesso 25 luglio. Recatosi alla residenza di Vittorio Emanuele III, Mussolini si sentì dire dal sovrano che egli non era più il capo del governo e che al suo posto il re aveva già nominato il maresciallo Pietro Badoglio. Mussoli fu arrestato e portato in una località segreta. Alle 22,45 del 25 luglio furono trasmessi due radiomessaggi al popolo italiano, nei quali si annunciavano la destituzione di Mussolini, la nomina di Badoglio alla guida del governo e l’assunzione da parte del re del comando delle Forze Armate; nel contempo si dichiarava anche che la guerra continuava. L’armistizio dell’8 settembre Il governo Badoglio stipulò con gli Alleati un armistizio, che venne firmato a Cassibile, in Sicilia, il 3 settembre; tuttavia, per timore della reazione tedesca, il patto non venne reso noto fino all’8 settembre. In quel giorno Badoglio si rassegnò a diffondere via radio la notizia che l’Italia aveva cessato le ostilità con la Gran Bretagna e gli Stati Uniti. Ma nel contempo, sebbene il testo del comunicato lasciasse intendere che ci sarebbe immediatamente stata una dura reazione da parte tedesca, i comandanti dei vari reparti dell’esercito furono lasciati del tutto privi di ordini e di indicazioni operative coerenti (vedi comunicato). In seguito all’armistizio, l’Italia al Nord subì l’occupazione tedesca. Le truppe tedesche affluirono sempre più numerose dal Brennero e occuparono il territorio nazionale. La mancanza di direttive provocò un caos generalizzato e la maggio parte dell’esercito si disgregò (al grido “Tutti a casa!”). Molti reparti furono catturati dai tedeschi praticamente senza resistenza; vi furono anche episodi di opposizione armata, come a Cefalonia, ma vennero stroncati sanguinosamente dai tedeschi. Il re e il governo, il 9 settembre abbandonarono in segreto la capitale e si rifugiarono a Brindisi, appena liberata dagli Alleati. 94 La Repubblica Sociale Italiana Il 12 settembre 1943, un reparto di paracadutisti tedeschi liberò Mussolini, che era detenuto in un albergo nella zona del Gran Sasso. Portato in Germania, il Duce ottenne da Hitler il permesso di ricostruire uno stato fascista in Italia; nacque la Repubblica Sociale Italiana (RSI), nota anche come Repubblica di Salò (dal nome della cittadina dove aveva luogo il ministero degli esteri). La RSI, in realtà, fu trattata dai tedeschi al pari di uno territorio conquistato e l’Italia occupata fu sottoposta ad uno spietato sfruttamento economico. Inoltre, iniziarono anche le deportazioni di ebrei, radunati a Fossoli, verso i campi di sterminio. Furono pochi i giovani che rispondevano ai bandi di arruolamento della Repubblica di Salò e tra coloro che si arruolavano, molti erano quelli che alla prima occasione disertavano, di questi una parte andò ad ingrossare le file della Resistenza. La svolta di Salerno Nella primavera del 1944 Vittorio Emanuele III accettò di nominare come luogotenente del regno il proprio figlio Umberto e di abdicare in suo favore non appena Roma fosse stata liberata dagli Alleati. Nello stesso tempo il leader del PCI Palmiro Togliatti dichiarò che il suo partito era disposto a partecipare ad un governo di unità nazionale, rinviando la questione istituzionale (mantenimento della monarchia o instaurazione della repubblica) al periodo successivo alla vittoria. Fu la cosiddetta svolta di Salerno, dove il governo si era trasferito. La decisione di Togliatti nasceva dalla consapevolezza che la Resistenza era un fenomeno unitario: ufficiali filo-monarchici combattevano al fianco di intellettuali favorevoli ad una svolta in senso repubblicano e democratico dello stato, per non parlare del fatto che partigiani comunisti collaboravano con partigiani di matrice cattolica. Subito dopo la liberazione di Roma (4 giugno 1944) fu possibile la formazione di un governo aperto a tutte le formazioni politiche antifasciste, presieduto dall’anziano leader del socialismo riformista Ivanoe Bonomi. Il problema dell’insurrezione popolare Nell’Italia Centrale si aprì un dibattito circa il ruolo della Resistenza e in particolare circa il rischio di feroci rappresaglie naziste in seguito a operazioni partigiane, ad esempio in seguito all’attentato partigiano di via Rasella a Roma, nel corso del quale morirono 33 soldati tedeschi (23 marzo 1944), l’esercito tedesco reagì con l’operazione delle Fosse Ardeatine, nel corso della quale furono uccise 335 persone. La Resistenza nel Nord Italia Nell’Italia centro-settentrionale, a partire dall’agosto 1944 (insurrezione di Firenze), la sollevazione popolare si fece sempre più massiccia. In Toscana, in particolare, la Resistenza assunse un elevato livello di efficienza militare. L’insurrezione divenne il grande obiettivo politico dell’organismo dirigente della Resistenza, il Comitato di Liberazione Nazionale per l’Alta Italia (CLNAI). Il 13 novembre 1944, il generale inglese Alexander rivolse un proclama ai “patrioti al di là del Po”, esortandoli a “cessare le operazioni su larga scala” e a “non esporsi in azioni troppo arrischiate”. Era di poche settimane prima l’eccidio di Marzabotto (tra il 29 e 5 ottobre 1944, un reparto di SS comandato da Reder distrusse numerosi paesi anientandone gli abitanti; le vittime furono complessivamente 1676). Nonostante l’invito alla moderazione l’attività politica del CLNAI continuò, con l’obiettivo di coinvolgere settori sempre più ampi della popolazione nell’attività antifascista, in modo da garantire per il futuro un assetto più democratico alle istituzioni. In effetti, l’importanza storica della Resistenza, come scrive Chabod, sta nel fatto che tutte le classi parteciparono, e si trattò di una rinnovata partecipazione attiva, decisa, delle masse alla vita politica. La fine della guerra in Italia All’inizio dell’aprile 1945, gli anglo-americani iniziarono la loro ultima e decisiva offensiva in Italia; dopo le prime sconfitte tedesche, in tutte le principali città dell’Italia settentrionale scattò l’insurrezione popolare diretta dal CLNAI, che il 25 aprile, a Milano, assunse i pieni poteri “in nome del popolo italiano e quale delegato del Governo italiano”. Mussolini, che aveva tentato di fuggire in Svizzera, venne arrestato il 27 aprile a Dongo e lì fucilato il giorno seguente; il suo corpo (assieme a quello della sua amante Claretta Petacci e di altri gerarchi fascisti giustiziati) venne poi appeso a testa in giù a Milano, in Piazza Loreto, ove pochi mesi prima era stato ucciso un gruppo di partigiani. 95 La Resistenza, come si è detto, ebbe prevalentemente un carattere unitario. Tuttavia, ci furono episodi di tensioni, legati alla più vasta questione del rapporto con la Jugoslavia di Tito. Il 7 febbraio 1945 a Porzus nella regione del Venezia Giulia, venti italiani del movimento di resistenza, di orientamento cattolico-moderato, vennero uccisi da un gruppo di partigiani comunisti, essi pure italiani. 96 Modulo 8: Il secondo dopoguerra e l'ordine bipolare Gli stati nazionali nati dalla dissoluzione dell'Impero austro-ungarico Dalla dissoluzione dell'Impero austro-ungarico avvenuta dopo la fine della prima guerra mondiale nascono una molteplicità di stati nazionali. Per quanto si fosse cercato di costruire questi stati secondo un principio di omogeneità linguistico-culturale, tuttavia in essi erano presenti consistenti minoranze. Tra le nuove entità politiche vi erano: L'Austria, ridotta a stato di dimensioni insignificanti. L'Austria desiderava essere annessa alla Germania, ma, per evitare di rafforzare quest'ultima, gli Alleati glielo proibirono. La Cecoslovacchia, nata dall'unione di due gruppi con storie molto diverse: i cechi e gli slovacchi. L'Ungheria, era lo stato che aveva subito più di tutti amputazioni territoriali. La Jugoslavia, fra tutti gli stati nati nel 1919 era il più fragile e contraddittorio. Il vero smantellamento del sistema di Versailles iniziò nel 1938: i tedeschi dapprima occuparono la regione dei Sudeti e successivamente l'intera Cecoslovacchia. Quando la guerra scoppiò tutta l'area mitteleuropea (Romania, Bulgaria, Ungheria, Austria, Cecoslovacchia) era divenuta un satellite della Germania. Queste regioni furono liberate dai Russi. Nella seconda metà del 1944, l'Armata Rossa occupò la Romania e la Bulgaria, nel febbraio i Sovietici conquistarono l'Ungheria, l'Austria e la Cecoslovacchia. Per quanto riguarda la Jugoslavia, la situazione si presentava molto complessa e carica di tensioni. Essa nacque dall'unione, al regno di Serbia, del Montenegro, della Croazia, della Slovenia e della Bosnia-Erzegovina. Si trattava di popolazioni molto diverse; croati e sloveni erano cattolici e utilizzavano l'alfabeto latino, i serbi erano per lo più ortodossi e usavano i caratteri cirillici. In Bosnia-Erzegovina c'era una consistente minoranza di musulmani. I rapporti tra serbi e croati si deteriorarono in fretta. I serbi, che si ritenevano i vincitori della guerra (i croati e gli sloveni avevano sostenuto l'Austria-Ungheria), volevano occupare tutti i posti di potere. La tensione raggiunse livelli elevatissimi e vi furono numerosi assassini politici. In questo scenario nel 1941 si inserì l'invasione degli eserciti italiano e tedesco. Il paese venne smembrato (la Slovenia andò al Reich, mentre la Dalmazia all'Italia) e si creò il nuovo stato indipendente di Croazia, guidato dal movimento ultranazionalista degli ustascia (ribelli), i quali misero in atto enormi massacri contro gli ebrei, gli zingari e soprattutto i serbi (si stimano fino a 600000 vittime). Agli ustascia si opposero i nazionalisti serbi fedeli alla monarchia, ma soprattutto i partigiani comunisti guidati da Tito (nome vero: Jossip Broz). Nel 1943 Tito ottenne il sostegno militare inglese e, impadronitosi delle armi italiane abbandonate dopo l'8 settembre, tenne testa ai tedeschi fino all'arrivo dell'Armata Rossa, insieme alla quale entrò a Belgrado il 20 ottobre 1944. La questione della Venezia Giulia Tito era un comunista convinto, ma era animato anche da un marcato nazionalismo slavo e desiderava allargare i confini della nuova Jugoslavia, puntando ad annettere l'intera Venezia Giulia e quindi a spostare la frontiera con l'Italia al Tagliamento. Nel settembre 1943 con il collasso dell'esercito italiano, le truppe di Tito assunsero il controllo dell'Istria. L'occupazione militare jugoslava fu accompagnata da una lunga serie di rappresaglie e violenze nei confronti degli italiani presenti in quelle regioni (carabinieri, insegnanti, impiegati, ecc.). Alcune centinaia di persone (forse 700) vennero arrestate e uccise, e poi gettati nelle foibe (a volte vi erano gettati anche da vivi), che sono profonde cavità carsiche naturali. L'intervento delle forze tedesche obbligò i partigiani di Tito a ritirarsi dopo circa un mese di occupazione; i nazisti insediarono il loro comando a Trieste, presso la risiera di San Sabba, che divenne centro di transito per prigionieri destinati alla deportazione in Austria, Germania e Polonia. All'inizio del maggio 1945 le forze jugoslave di Tito entrarono a Trieste e riconquistarono l'intera Istria. Le violenze del 1943 si ripeterono su scala maggiore. Probabilmente, 4-5000 furono le vittime, per la maggior parte infoibate, nel periodo compreso tra l'occupazione jugoslava di Trieste (primo maggio) e l'ingresso delle truppe inglesi nella stessa Trieste (12 giugno 1945). Il 10 febbraio 1947, a Parigi, venne firmato il trattato di pace. Dalle regioni assegnate alla Jugoslavia, fuggirono verso l'Italia oltre 300000 persone. Fu un esodo di dimensioni enormi (solo da Pola, capoluogo dell'Istria, partirono 30000 italiani). ** La Conferenza di Yalta Il 4 febbraio 1945, Roosevelt, Churchill e Stalin si riunirono a Yalta, in Crimea, per riflettere sul futuro assetto dell'Europa post-bellica. In questo incontro non venne ancora deciso (come invece spesso si afferma) che l'Europa sarebbe stata divisa in due grandi sfere di influenza, piuttosto si lasciava ampio spazio all'autodecisione dei popoli. 97 La nascita dell'ONU La speranza di Roosevelt era di poter continuare la collaborazione con i sovietici anche dopo la sconfitta di Hitler. A tal fine promosse la nascita dell'Organizzazione delle Nazioni Unite, con l'obiettivo di conservare la pace e la sicurezza a livello mondiale. Stalin però era preoccupato che l'ONU potesse trasformarsi in uno strumento di attuazione di una politica antisovietica da parte dei paesi capitalisti. Pertanto, a Yalta, Stalin ottenne che all'interno del Consiglio di Sicurezza (organismo direttivo dell'ONU, composto da 5 membri permanenti e 10 variabili), le cinque più importanti potenze (USA, URSS, Gran Bretagna, Francia e Cina, membri permanenti) godessero del diritto di veto. L'ONU nacque ufficialmente il 26 giugno 1945, dopo un'apposita conferenza a San Francisco in cui furono fissati i principi di fondo e lo statuto. La Conferenza di Potsdam I tre grandi stati vincitori si incontrarono di nuovo a Potsdam dal 17 luglio al 2 agosto 1945. Il nuovo presidente americano, Harry Truman, era molto più diffidente nei confronti di Stalin, così nel maggio 1945 interruppe gli aiuti all'URSS (fino ad allora erogati con la Legge affitti e prestiti). A Potsdam si diede esecuzione alla decisione già presa a Yalta di dividere la Germania in 4 zone d'occupazione (americana, britannica, francese, sovietica); inoltre, ogni potenza occupante poteva effettuare prelievi di impianti industriali o altro, a titolo di riparazione, direttamente nella zona amministrata. La dottrina Truman Stalin iniziò la “sovietizzazione” di tutta l'area occupata dall'Armata Rossa (ovvero gran parte dell'Europa orientale). A tal proposito Churchill disse che una cortina di ferro si era stesa sulle regioni orientali del continente e fece un appello agli Stati Uniti per bilanciare la crescente potenza sovietica. L'appello fu effettivamente accolto: il 12 aprile 1947, in un celebre discorso al Congresso il presidente americano fissò la cosiddetta dottrina Truman, in cui si diceva che obiettivo politico primario degli USA era il “contenimento del comunismo”, in modo da impedire che altre regioni d'Europa o del mondo finissero sotto controllo sovietico. Con la costituzione dei due blocchi si cominciò a parlare di guerra fredda. Il termine era stato usato già nel 1945 da George Orwell che, riflettendo sulla bomba atomica, preconizzava uno scenario in cui le due grandi potenze, non potendo affrontarsi direttamente, avrebbero finito per dominare e opprimere tutti gli altri. Nel 1947 fu ripreso dal consigliere presidenziale Bernard Baruch e dal giornalista Walter Lippmann per descrivere l'emergere delle tensioni tra due alleati della seconda guerra mondiale. La fase più critica e potenzialmente pericolosa della guerra fredda fu quella compresa fra gli anni cinquanta e settanta. Già dai primi anni ottanta i due blocchi avviarono un graduale processo di distensione e disarmo; tuttavia la fine di questo periodo storico viene convenzionalmente fatta coincidere con la caduta del Muro di Berlino (9 novembre 1989). Un altro obiettivo statunitense era quello di creare un libero mercato globale, potenzialmente mondiale. Tale obiettivo, già iniziato nel 1941 con la firma della Carta Atlantica tra USA e GB, fu ribadito con gli accordi monetari di Bretton Woods del 1944, finalizzati a stabilizzare i cambi delle monete, ancora fluttuanti dopo l'abbandono della parità aurea negli anni Trenta. Gli accordi prevedevano 1) l'obbligo per ogni paese di adottare una politica monetaria tesa a stabilizzare il tasso di cambio ad un valore fisso rispetto al dollaro, che veniva così eletto a valuta principale, consentendo solo delle lievi oscillazioni delle altre valute; 2) il compito di equilibrare gli squilibri causati dai pagamenti internazionali, assegnato al Fondo Monetario Internazionale (o FMI). Il piano istituì sia il FMI che la Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo (detta anche Banca mondiale). Il Piano Marshall Gli USA misero in atto un grandioso piano di aiuti per rilanciare la produzione industriale dei paesi europei, noto come Piano Marshall (dal nome dell'allora Segretario di Stato, George Marshall). In un primo tempo, gli Stati Uniti offrirono fondi anche a Polonia e Cecoslovacchia, ma Stalin vietò loro di accettarli. Da quel momento gli aiuti vennero garantiti solo a quei governi che non vedessero la partecipazione dei comunisti: il piano divenne una formidabile arma di pressione, finalizzata a garantire agli USA l'allineamento di quei paesi (come la Francia e l'Italia) che avevano al proprio interno dei forti partiti comunisti. Il Piano Marshall fu approvato dal Congresso nel marzo 1948 e fu sospeso nel 1952, dopo aver erogato complessivamente aiuti per 13812 milioni di dollari. Il Cominform e la condanna di Tito Al Piano Marshall, l'URSS rispose con la fondazione del Cominform (Ufficio d'informazione dei partiti comunisti), finalizzato a coordinare l'azione politica dei partiti comunisti di tutto il mondo (in modo analogo a quello che era il Comintern, o Internazionale comunista). Nel gennaio 1949 fu creato anche il Comecon (Comitato di assistenza economica), che ufficialmente doveva rappresentare uno strumento di cooperazione economica tra le “democrazie popolari” legate all'URSS, ma che in realtà permetteva a Stalin di utilizzare le risorse dei paesi occupati durante la guerra 98 per rilanciare l'economia sovietica. Dal 1949 anche l'URSS ha la bomba atomica. Il 28 giugno 1948, il Partito comunista jugoslavo venne espulso dal Cominform, perché Tito stava cercando di fare una politica nazionale indipendente dagli URSS (tale politica si concretizzò negli anni '60 con la fondazione del Movimento dei Non Allineati). Oltre alla condanna di Tito, Stalin ordinò che fossero eliminati tutti quei dirigenti comunisti che potevano aspirare all'indipendenza dall'URSS e dar vita a vie nazionali verso il socialismo. In Ungheria, Cecoslovacchia, Bulgaria e Polonia vennero organizzati grandi processi spettacolari con numerose condanne a morte e ergastoli. Il blocco di Berlino Nel marzo 1948 gli Alleati riunificarono la Germania Ovest e diedero vita ad una riforma del sistema monetario. Per reazione, i russi bloccarono ogni accesso alla città di Berlino, la quale, nel 1945, pur essendo nella zona sovietica, era stata anch'essa a sua volta divisa in quattro settori. La zona amministrata dalle tre potenze occidentali si trovava dunque circondata interamente da un territorio controllato dai sovietici (lo scopo era indurre gli Alleati ad abbandonare la città). Il 26 giugno 1948, iniziò un ponte aereo, il cui compito era quello di rifornire di tutto i 2,5 milioni di berlinesi residenti nella zona non sovietica. Il ponte aereo ebbe completo successo, tanto che nel maggio 1949, i sovietici allentarono il blocco. Il 4 aprile 1949 nacque il Patto Atlantico, cui aderirono, oltre agli USA e il Canada, anche i principali paesi dell'Europa occidentale (Gran Bretagna, Francia, Olanda, Belgio, Lussemburgo, Danimarca, Italia, Norvegia, Portogallo). A partire dal 1952 il Patto Atlantico venne chiamato NATO (North Atlantic Treaty Organization). Nel 1955 i paesi dell'Europa orientale si unirono in un'alleanza militare nota con il nome di Patto di Varsavia, sotto il rigido controllo di Mosca. ** Le democrazie popolari Il 23 maggio 1949 venne dato vita alla Repubblica Federale Tedesca (RFT o FDR) sul territorio amministrato dagli angloamericani. Come risposta, il 7 ottobre 1949 nacque la Repubblica Democratica Tedesca (RDT o DDR) nelle regioni amministrate dai sovietici. Quest'ultima, insieme agli altri stati dell'Europa dell'est controllati dai sovietici, veniva detta “democrazia popolare”, con riferimento al concetto di dittatura del proletariato formulato da Lenin in Stato e rivoluzione, ma che in realtà significava totale allineamento alle direttive di Mosca. Dopo la morte di Stalin (5 marzo 1953), il potere in Unione Sovietica passò a Nikita Krusciov. A partire dal 16 giugno 1953 a Berlino Est la popolazione iniziò a manifestare contro gli aumenti del prezzo del pane e di altri generi alimentari primari. Le truppe sovietiche d'occupazione riportarono l'ordine con la forza. La versione ufficiale parlava di operai sobillati da agenti stranieri; in realtà si trattava del primo segnale del fatto che le democrazie popolari potevano reggersi solo con l'uso della repressione e con il sostegno dell'esercito russo. Il XX Congresso del PCUS Nel 1953, la Jugoslavia e l'Unione Sovietica iniziano un percorso di riconciliazione. Anche nei confronti dell'Occidente Krusciov era pronto ad una nuova politica e, durante il XX Congresso del Partito tenutosi nel febbraio 1956, lanciò l'idea della coesistenza pacifica, dettata anche dal fatto che le due superpotenze disponevano ora di armi, come la bomba H, in grado di provocare un disastro di proporzioni inimmaginabili, in caso di guerra. La vera importanza storica del XX Congresso del PCUS stava nel fatto che Krusciov denunciò Stalin come un dittatore criminale e violento e rivelò, inoltre, che Lenin, nel suo testamento, aveva raccomandato di rimuovere Stalin dalla carica di segretario, ritenendolo dispotico e pericoloso. La crisi del 1956 in Polonia Con la sua clamorosa denuncia, Krusciov intendeva consolidare il proprio potere, mediante la denuncia dei suoi avversari politici come complici dei crimini di Stalin, ma le conseguenze furono dirompenti ben oltre le sue aspettative. Il primo paese dell'Europa dell'Est in cui si registrarono gli effetti della destalinizzazione fu la Polonia, in cui nel giugno 1956 migliaia di operai scesero in sciopero. Dopo aver tentato senza successo di bloccare l'elezione di Gomulka (che era stato rimosso dalla carica nel 1948, nell'ambito delle epurazioni staliniste conseguenti alla rottura con Tito) a segretario del Partito comunista polacco, Krusciov, nell'ottobre 1956, accettò che la Polonia entrasse in una nuova fase della propria storia comunista, i cui primi atti furono la riabilitazione di migliaia di innocenti processati in epoca stalinista e la liberazione di Wyszynski, arcivescovo di Varsavia. La rivolta ungherese del 1956 A differenza dell'ottobre polacco, la rivolta ungherese dell'autunno 1956 ebbe altro esito. Dopo una prima grande manifestazione, l'URSS prima fece intervenire l'esercito a Budapest, ma poi accettò che Imre Nagy (dirigente comunista 99 in precedenza condannato per deviazionismo) venisse nominato Presidente del Consiglio. Nagy, tuttavia, invece di allinearsi alle direttive di Mosca, diede vita ad un governo di coalizione, comprendente anche elementi non comunisti e soprattutto dichiarò che l'Ungheria usciva dal Patto di Varsavia. L'estrema speranza dei ribelli era che l'ONU intervenisse a sostegno dell'Ungheria, in caso di aggressione russa. Ma ciò non avvenne, anche perché in tal caso il rischio di un nuovo conflitto mondiale sarebbe stato elevato. Così il 4 novembre 1956 i carri armati sovietici attaccarono per la seconda volta Budapest. Dopo quattro giorni di scontri violentissimi, Nagy fu arrestato, processato a porte chiuse, e impiccato il 16 giugno 1958. La Francia di De Gaulle e l'Europa del Mercato Comune In quegli anni la Francia era impegnata a reprimere la ribellione esplosa in Algeria (sua colonia già dall'Ottocento). Mentre aumentava nell'opinione pubblica la disponibilità ad un ritiro francese dal paese nordafricano, i coloni francesi d'Algeria diedero vita a un comitato di salute pubblica pronto a compiere un colpo di stato in Francia, con l'aiuto dell'esercito. Per salvare la situazione, si fece ricorso alla prestigiosa figura del generale De Gaulle. Il 1° giugno 1958, De Gaulle divenne Presidente della Repubblica, dopo che la Costituzione venne modificata in modo che la figura del Presidente potesse esercitare tutte le principali funzioni di governo. De Gaulle cercò innanzitutto di chiudere la questione dell'Algeria, a cui fu concessa piena indipendenza nel 1962. Da quel momento De Gaulle si dedicò al rilancio del prestigio internazionale della Francia, tentando di fare uscire il suo paese dalla logica bipolare e auspicando la trasformazione dell'Europa occidentale in una terza forza, guidata dalla Francia, capace di trattare alla pari con URSS e USA. Sebbene De Gaulle, perseguendo questa politica di grandezza, avesse gradualmente sganciato la Francia dalla NATO, tuttavia accettò che il proprio paese entrasse a far parte della Comunità Economica Europea (CEE), la cui nascita era prevista dal Trattato di Roma, stipulato il 25 marzo 1957. Tale organismo consisteva nella creazione di un vasto mercato comune europeo, all'interno del quale circolassero liberamente, senza dazi e limitazioni, materie prime, manufatti industriali e prodotti agricoli. Al trattato avevano aderito seri paesi (Italia, Germania Federale, Francia, Olanda, Belgio e Lussemburgo) e l'inizio del processo era fissato per il 1° gennaio 1959. ** La caccia alle streghe negli USA Negli Stati Uniti la denuncia, da parte del governo e degli organi di stampa, della violazione dei diritti dell'uomo compiuti dai regimi comunisti era all'ordine del giorno. Tuttavia, negli anni Cinquanta, anche nella democratica America, non sempre i diritti erano rispettati. Vi fu in particolare, tra il 1950 e il 1954, una commissione d'inchiesta contro il comunismo, guidata dal senatore Joseph McCarthy, che, sotto la spinta di una sorta di isteria collettiva e del ricorso alla teoria del complotto, compì una lunga serie di abusi giudiziari. Nella maggior parte dei casi le accuse, rivolte a persone comuni come a noti personaggi pubblici, di essere spie al servizio dei russi, erano prive di fondamento, eppure migliaia di persone furono condannate o videro la propria carriera distrutta. Il caso più noto è quello dei coniugi Julius ed Ethel Rosenberg, che, nonostante gli abusi e le numerose irregolarità procedurali, vennero giudicati colpevoli di spionaggio a favore dell'URSS e giustiziati nel 1953. Le proteste dei neri negli anni Cinquanta Mentre il maccartismo volgeva al termine, cominciò a prendere campo la protesta dei cittadini neri americani, per ottenere parità di diritti. Il primo significativo episodio si ebbe a Montgomery, in Alabama, dove la popolazione nera nel 1956 boicottò i trasporti pubblici, sui quali vigeva una rigida separazione. A guida della clamorosa iniziativa vi era Martin Luther King, un giovane pastore della Chiesa battista. King rifiutava la violenza come strumento di lotta, in quanto sosteneva che l'uso della violenza non avrebbe mai potuto generare una pacifica convivenza, ma solo altro odio. La protesta di Montgomery si concluse con successo, in quanto nel novembre 1956 la Corte suprema dichiarò incostituzionali le leggi segregazioniste dello stato dell'Alabama. Già nel 1954 la Corte suprema aveva condannato la prassi della separazione scolastica (si noti che nel 1896 invece la Corte suprema aveva sancito la legittimità della pratica di erogare servizi uguali ma separati). A questo nuovo orientamento della Corte suprema si opposero fortemente gli stati del Sud. L'episodio più grave si ebbe a Little Rock, in Arkansas, dove nel 1957 gli studenti neri che volevano entrare in una scuola tradizionalmente frequentata da bianchi, dovettero essere scortati dall'esercito. Vi fu un aspro conflitto fra potere centrale (garante del dettato costituzionale) e potere periferico (portavoce dei sentimenti razzisti della popolazione bianca). La Nazione dell'Islam Negli anni Cinquanta vi fu un imponente esodo di neri dal Sud, dove ormai scarseggiava il lavoro nei campi, verso il Nord industrializzato. I nuovi arrivati si accalcavano in zone squallide e degradate, dove proliferava delinquenza e prostituzione. Fu in questo contesto che crebbe Malcom X, un giovane delinquente, che in carcere entrò in contatto con i seguaci di Elijah Muhammad, fondatore di un movimento chiamato la Nazione dell'Islam (noto anche con il nome di 100 Black Muslims), di cui Malcom X divenne uno dei leader. Il movimento professava la natura diabolica dell'uomo bianco, da cui quindi bisognava prendere le distanze, rifiutandone il mondo e i valori. I seguaci dei Musulmani Neri erano soliti sostituire il proprio cognome con una X, in memoria dell'ignota tribù africana di provenienza. Il nazionalismo nero considerava il mondo bianco irrimediabilmente permeato di razzismo e incapace di redenzione, pertanto l'integrazione con esso era impossibile. La lotta per l'integrazione Mentre la Nazione dell'Islam diffondeva questa nuova dottrina soprattutto fra i neri delle grandi città, Martin Luther King continuava la sua lotta nonviolenta contro il potere razzista bianco degli stati del Sud. In seguito a violenze subite durante una pubblica dimostrazione organizzata da King nel 1963 a Birmingham in Alabama, le principali associazioni antirazziste organizzarono una grande marcia su Washington, che ebbe luogo il 28 agosto del 1963. Nel 1964 a Martin Luther King venne conferito il premio Nobel per la pace. Nel marzo 1965 si ebbe a Selma (in Alabama) un'altra clamorosa esplosione di violenza razzista: i dimostranti neri che marciavano pacificamente furono bastonati dalla polizia, che arrestò moltissime persone, fra cui lo stesso King. In risposta a queste violenze, il presidente Johnson presentò al Congresso il Voting Rights Bill, con cui si eliminavano i test di cultura generale necessari per poter votare. Sul piano dei diritti si può dire che la battaglia dei neri per l'integrazione era vinta, sebbene il razzismo fosse tutt'altro che spento: l'assassinio di Martin Luther King il 4 aprile 1968 ne fu la tragica prova. Il 21 febbraio 1965, in circostanze poco chiare, anche Malcom X era stato assassinato. La situazione divenne esplosiva nei ghetti neri, dove si fece strada un nuovo movimento radicale, chiamato Black Power. A tutt'oggi la questione razziale negli USA rimane un problema aperto. La vittoria della rivoluzione cubana Il 4 ottobre 1957, i sovietici riuscirono a mettere in orbita il primo satellite artificiale, denominato Sputnik, mostrando di possedere vettori missilistici capaci di raggiungere qualsiasi regione del territorio americano. Due anni dopo, nell'isola di Cuba, ad appena 90 km dalle coste della Florida, risultò vittoriosa una rivoluzione di matrice comunista. Cuba, era sotto stretto controllo politico e militare di Washington. Le grandi compagnie statunitensi facevano affari controllando interamente l'economia dell'isola, basata soprattutto sulla coltura della canna da zucchero; mentre la popolazione viveva nelle campagne in condizioni di estrema miseria. Nel 1956, un gruppo di intellettuali, tra cui Fidel Castro e Ernesto Guevara, detto Che, diedero vita ad una guerriglia contro il governo del dittatore Fulgencio Batista. Nel 1959 la rivoluzione si concluse vittoriosamente e i ribelli diedero vita a un regime di tipo socialista. Le banche, le industrie, le imprese e gran parte delle terre, vennero nazionalizzate e Fidel Castro divenne arbitro assoluto della vita politica. Nel 1961, i servizi segreti statunitensi (la CIA) finanziarono e organizzarono una spedizione militare di fuoriusciti cubani decisi a rovesciare il governo di Castro. Il 17 aprile, in una località detta Baia dei Porci, sulla costa meridionale dell'isola, fu tentato uno sbarco che però si risolse in un fallimento totale, in quanto la popolazione cubana, che gli esuli pensavano si sarebbe unita a loro, appoggiò il nuovo regime (anche perché questo aveva nel frattempo attuato una riforma agraria finalizzata a redistribuire la proprietà delle terre e si era distinto per una massiccia lotta all'analfabetismo). Vista l'impossibilità di rovesciare il regime rivoluzionario per via militare, il governo di Washington ricorse all'embargo economico, cioè al blocco di ogni relazione commerciale fra USA e Cuba. L'Unione Sovietica, allora, si fece avanti presso il governo castrista come nuovo partner commerciale, offrendo petrolio in cambio di zucchero. Il Muro di Berlino Nel 1961, si ebbe una seconda crisi berlinese (dopo quella del 1953), causata questa volta dalla continua fuga di tedeschi della Repubblica Democratica verso la Germania occidentale. In genere la fuga aveva come prima tappa Berlino Ovest, nacque così l'idea di porre, fra Berlino Est e Berlino Ovest, un'insuperabile barriera, il cosiddetto Muro di Berlino, che divenne il simbolo fisico della divisione politica dell'Europa. L'operazione venne messa in atto all'una di notte del 13 agosto 1961, bloccando tutti i passaggi con del filo spinato, poi con il tempo, prese corpo un complesso murario sofisticato, lungo 166 km e dotato di 285 torri di controllo. L'obiettivo del Muro non era quello di impedire l'ingresso ad un nemico, ma la fuga ai cittadini di uno stato e di una città, per cui il Muro era più simile al recinto di una prigione che ad un sistema difensivo. Di fronte a questo intervento gli americani furono colti di sorpresa e tutto quello che fecero fu di rassicurare i cittadini di Berlino Ovest che non sarebbero stati abbandonati qualora ci fossero stati tentativi dei sovietici di annettere l'intera città. Nel giugno 1963 Kennedy si recò in visita ufficiale a Berlino Ovest, dove pronunciò il celebre discorso che si concluse con la storica frase “Ich bin ein Berliner”. 101 La crisi dei missili a Cuba Nel 1962, per rispondere all'installazione di missili americani in Turchia, alle frontiere con l'URSS, i sovietici iniziarono a Cuba la costruzione di una serie di postazioni missilistiche, capaci di minacciare direttamente il vicino territorio statunitense. Tali installazioni vennero scoperte dagli americani nel corso delle ricognizioni aeree compiute tra il 15 e il 18 ottobre 1962. Kennedy, a differenza di quanto sperava Krusciov, non accettò senza reagire il fatto compiuto e ordinò un blocco navale al largo di Cuba, dichiarando che qualunque imbarcazione diretta all'isola sarebbe stata fermata e perfino affondata se avesse rifiutato di arrestarsi. I sovietici si resero conto che uno scontro armato con gli USA non era mai stato così prossimo ad esplodere e che c'era la possibilità di una sua degenerazione in conflitto nucleare. Krusciov, dapprima ordinò alle navi russe dirette a Cuba di diminuire la velocità o di invertire la propria rotta, e poi offrì agli USA di ritirare i missili da Cuba in cambio dell'equivalente ritiro dei missili americani in Turchia e della solenne dichiarazione che gli Stati Uniti non avrebbero più tentato di invadere l'isola caraibica e di rovesciare il governo di Castro. Questa prova di forza indebolì Krusciov, il quale, nel 1964, dopo esser stato accusato di aver condotto una politica estera troppo avventata, venne obbligato a dimettersi. Il suo posto fu preso da Leonid Breznev, che avrebbe guidato l'URSS fino al 1982 (anno sua morte). Kennedy, venne assassinato a Dallas, in Texas, il 22 novembre 1963. La protesta studentesca negli Stati Uniti Nei decenni seguenti il 1945, si registrò negli USA una diffusione capillare dell'istruzione e un continuo aumento del numero degli studenti universitari. A partire dagli anni Sessanta, gli studenti universitari divennero un soggetto sociale di peso rilevante e diedero vita ad un vasto fenomeno di protesta che, iniziato negli USA, si diffuse nei principali paesi europei. Epicentro della protesta fu l'università di Berkeley, dove, nel 1964, molti studenti diedero vita a occupazioni e contestazioni, contro le modalità di gestione dell'università. Negli anni successivi molti studenti parteciparono attivamente anche alle campagne per i diritti della minoranza nera. In seguito, il principale bersaglio della contestazione divenne la guerra del Vietnam, nella quale gli Stati Uniti si trovarono coinvolti a partire dall'inizio degli anni Sessanta (in un primo tempo solo come fornitori di aiuti militari, ma gradualmente come combattenti a fianco del governo sudvietnamita contro la guerriglia alimentata dal regime comunista costituitosi nella parte settentrionale del paese). Il conflitto generò fra i giovani un crescente malessere, che raggiunse il suo apice nell'ottobre del 1967, quando più di 50000 giovani marciarono verso il Pentagono (quartier generale delle forze armate statunitensi). Il sessantotto in Europa Nei principali paesi europei, la protesta studentesca esplose nel 1968 e si scagliava principalmente contro la società capitalistica che riduceva l'uomo alla pura dimensione economica e subordinava l'individuo alle esigenze della produzione e del profitto. Le proteste più importanti si ebbero a Parigi, nel maggio del 1968, quando agli studenti che contestavano le rigide regole universitarie si unirono anche gli operai e i cittadini, mobilitati dai sindacati e dai partiti di sinistra. Uno degli obiettivi dei contestatori era ottenere le dimissioni di De Gaulle, il quale, invece, sciolse il Parlamento e convocò nuove elezioni, nelle quali ottenne una grande vittoria, spiegabile con il fatto che probabilmente l'elettorato francese si era spaventato dai disordini di maggio. Tuttavia, l'anno successivo, ad una successiva consultazione per un referendum, De Gaulle subì una grave sconfitta, che lo costrinse a rassegnare le dimissioni, nell'aprile 1969. La primavera di Praga Mentre i giovani dell'Occidente chiedevano più spazio per la creatività individuale (la fantasia al potere), l'Europa orientale era alle prese con il problema della libertà e dei diritti umani in termini più concreti. Nella Cecoslovacchia stalinista non si era ancora verificato un movimento di protesta come in Polonia e Ungheria, in quanto l'economia lì godeva di una relativa prosperità. Ma la situazione iniziò a degenerare a partire dal 1962, quando alcuni generi alimentari cominciarono a sparire dal mercato e soprattutto quando la popolazione della Slovacchia diede i primi segnali di malcontento nei confronti della politica accentratrice del governo di Praga. Questi primi segnali di crisi spinsero i sovietici a porre come capo del Partito comunista lo slovacco Aleksander Dubček, il quale, resosi conto che il Partito comunista non godeva più da tempo della fiducia della gente, si propose di rinnovare radicalmente la funzione del Partito, dando la possibilità alla gente di rivolgere critiche e ascoltando le richieste della base. Dubček in sostanza proponeva un socialismo dal volto umano, che sapeva farsi interprete delle aspirazioni concrete della popolazione. Breznev dapprima fece pressioni su Dubček affinché ripristinasse la censura e ponesse un freno al dibattito politico che, nel corso della prima metà del 1968 (di qui l'espressione primavera di Praga), si era liberamente manifestato all'interno della Cecoslovacchia. Il 20 agosto 1968, vista la determinazione di Dubček, Breznev si decise di soffocare l'esperimento del socialismo dal volto umano con un intervento militare delle truppe del Patto di Varsavia analogo a quello ungherese del 1956, mostrando definitivamente che era impossibile riformare un partito comunista di modello leninista. 102 ** Lo sviluppo economico degli anni Cinquanta e Sessanta Gli anni fra il 1950 e il 1970 furono un periodo di cambiamenti sociali e di sviluppo economico senza precedenti. Insieme agli Stati Uniti, i due stati che registrarono i successi più clamorosi furono il Giappone e la Germania Federale, la cui rinascita economica è stata favorita proprio dagli aiuti americani, erogati con l'intento di farne dei partner politici ed evitare il rischio di un loro avvicinamento all'URSS. Stati Uniti, Germania Federale e Giappone, all'inizio degli anni Settanta, erano in testa alla classifica dei paesi esportatori, ma la loro vertiginosa crescita produttiva si inseriva comunque in un più vasto e globale scenario di sviluppo economico, legato alle grandi trasformazioni che si erano prodotte dopo la seconda guerra mondiale. Dopo il 1945, infatti, in America e in Europa, si registrò un vertiginoso calo della popolazione occupata nelle campagne e, contemporaneamente, una grande espansione industriale, che godette dell'introduzione della meccanizzazione del lavoro, sicché la manodopera eccedente nelle campagne fu assorbita con facilità nei grandi centri urbani. Società dei consumi e Welfare State Il grande sviluppo degli anni Cinquanta e Sessanta si spiega innanzitutto con il basso costo del petrolio (un barile di greggio costava meno di due dollari). Il modello di sviluppo imitò quello degli Stati Uniti negli anni Venti: l'obiettivo della produzione industriale era quello di fornire ad un numero sempre crescente di cittadini beni di consumo che, in tempi passati, erano stati a disposizione solo di un gruppo ristretto di privilegiati. Fu soprattutto l'automobile il simbolo della nuova situazione economica e sociale. Tuttavia, tale strategia economica, basata sull'incremento costante della quantità di beni di consumo immessi sul mercato, poteva reggere solo se i potenziali consumatori erano messi in grado di acquistare i prodotti stessi, ovvero se fosse loro garantito in maniera continuativa un elevato potere d'acquisto. Ma poiché una simile scelta di tenere gli stipendi alti, se da un lato permetteva alle persone di acquistare i beni e i servizi prodotti dall'industria, dall'altro rischiava di comprimere i profitti degli imprenditori e quindi di frenare gli investimenti. Per questa ragione il potere d'acquisto dei salari venne sostenuto anche da parte delle autorità pubbliche, attraverso l'aumento dell'erogazione di servizi sociali (pensioni, assistenza sanitaria, istruzione gratuita). Con la nascita del Welfare State (Stato del benessere o Stato assistenziale), una quota importante del salario, che in passato le famiglie dovevano accantonare per far fronte alle disgrazie improvvise, alle malattie o alla vecchiaia, divenne improvvisamente disponibile per i consumi. Il capitalismo post-bellico applicò i correttivi al sistema introdotti dal New Deal roosveltiano e teorizzati dall'economista inglese John Maynard Keynes, attraverso una presenza dello stato nella vita economica e sociale: tutti i governi occidentali accettarono di garantire la piena occupazione e lo sviluppo industriale al prezzo di un crescente deficit di bilancio. I problemi esplosero a partire dagli anni Settanta e negli Ottanta: poiché i deficit finanziari rischiarono di uscire dal controllo, per evitare la bancarotta i governi dovettero intervenire, limitando il Welfare State. Il nuovo scenario economico degli anni Settanta Alla fine degli anni Sessanta iniziarono i primi segnali di crisi: negli USA l'attività produttiva cominciò a rallentare e la disoccupazione a crescere. Per favorire l'esportazione, nel 1971 il presidente Nixon decise di svalutare il dollaro, abbandonando il rapporto fisso fra moneta e oro stabilito dagli accordi di Bretton Woods del 1944. A seguito della guerra del Kippur (tra Israele da un lato e Egitto e Siria dall'altro, iniziata il 6 ottobre 1973), i paesi arabi dapprima bloccarono ogni fornitura di petrolio a tutti gli stati che avevano sostenuto Israele e poi, quando le vendite ripresero, aumentarono notevolmente il prezzo del greggio, portandolo a 11,65 dollari al barile (attualmente oscilla intorno ai 100 dollari). Oltre al prezzo aumentato, c'è da sottolineare il peso che il consumo di energia prodotta dalla combustione di petrolio aveva assunto nella vita economica dei paesi industrializzati. Il risultato della rivoluzione dei prezzi petroliferi del 1973 fu l'immediato arresto del grande sviluppo produttivo, a cominciare dall'industria dell'automobile. Ciò determino, di conseguenza, nei paesi industrializzati, un aumento generalizzato della disoccupazione e un aumento vertiginosa dell'inflazione. Le strategie per fronteggiare la crisi Per affrontare la nuova situazione economica, si cercò di ridurre i costi di produzione, attraverso innovazioni tecnologiche capaci di sostituire l'intervento umano. L'automazione dei processi produttivi pose fine alla tradizionale equazione tra espansione economica e aumento dell'occupazione: la tecnologia sempre più sofisticata introdotta nelle fabbriche provocò il licenziamento di un gran numero di lavoratori scarsamente qualificati (negli USA colpì soprattutto la manodopera nera). In Inghilterra e negli Stati Uniti, verso la fine degli anni Settanta si diffuse una politica economica neo-liberista. 103 Reagendo all'orientamento keynesiano tale impostazione affermava che lo stato doveva gradualmente ritirarsi dalla scena economica e sociale, cioè diminuire drasticamente la quantità di servizi offerti (in modo da ridurre l'indebitamento dello stato), attenuare la tassazione e incentivare la libera iniziativa. Il primo a impostare la politica di un grande stato secondo questo orientamento neo-liberista fu il primo ministro britannico Margaret Thatcher (alla guida del paese dal 1979 al 1990), e successivamente da Ronald Reagan (presidente USA dal 1981 al 1989). Reagan ridusse le imposte del 25% in tre anni, attendendosi un grande rilancio dell'economia, in quanto era fiducioso che gli imprenditori avrebbero reinvestito in attività produttive tutto ciò che risparmiavano. In realtà, ciò non si verificò, in quanto gli imprenditori preferirono capitalizzare i risparmi e indirizzarli verso i consumi di lusso. Paradossalmente, inizialmente la strategia neo-liberista aggravò il deficit della spesa pubblica, che raddoppiò dal 1981 al 1982: da un lato le spese statali per i pubblici servizi erano state fortemente ridimensionate, dall'altro le condizioni del bilancio dello stato non erano mai state così critiche. Inoltre, poiché Reagan perseguì anche l'obiettivo della superiorità militare americana, sul bilancio federale pesò notevolmente il raddoppio (in quattro anni) delle spese per gli armamenti. A partire dalla fine del 1982, si assistette ad una forte ripresa dell'economia americana. Tuttavia, poiché il deficit del bilancio pubblico restava altissimo, le spese sociali vennero ulteriormente compresse: il tenore di vita del lavoratore americano medio si abbassò, mentre crebbero a dismisura sia il numero di coloro che erano privi di qualsiasi tutela relativa alle malattie e alla vecchiaia, sia la percentuale dei veri e propri poveri. Dal 1979 al 1986, si persero 7 milioni di posti di lavoro. Il lento declino della potenza sovietica L'URSS iniziò a spendere somme gigantesche nella costruzione di armamenti nucleari. Nonostante ciò il divario tecnologico tra le due superpotenze aumentò. Infatti, il 21 luglio 1969 non furono i russi, ma gli americani i primi astronauti che sbarcarono sulla Luna: persino nel campo dei voli spaziali , che aveva visto i sovietici come precursori, gli Stati Uniti si erano ormai lasciati indietro il tradizionale avversario. La disparità tecnologica si aggravò intorno alla metà degli anni Ottanta. Inoltre, nel dicembre 1979, l'URSS intervenne militarmente nel vicino Afghanistan, ove un regime militare filosovietico incontrava crescenti difficoltà a mantenersi al potere. La guerra assorbì numerose risorse economiche e umane e un diffuso malumore fra la popolazione russa. L'URSS non riuscì mai a controllare davvero l'intero paese e, infine, fu costretta a ritirarsi nel febbraio 1989. Solidarnosc in Polonia Segni di malessere non tardarono a manifestarsi anche nei paesi satellite dell'URSS, soprattutto in Polonia, dove, a seguito degli scioperi degli operai nei cantieri navali di Danzica, nel 1980 il governo fu costretto a permettere la nascita di un sindacato libero, che prese il nome di Solidarnosc (= solidarietà), guidato da Lech Walesa. Anche se nel 1981 Solidarnosc fu momentaneamente sciolto dal Governo militare guidato da Jaruzelski, tuttavia, come vedremo, in seguito esso sarà riabilitato e avrà un ruolo decisivo nella vita politica del paese. La perestrojka di Michail Gorbacev Nel novembre 1982 morì Breznev, che con la sua politica aveva portato l'URSS al vertice della sua potenza militare, ma anche ad una situazione di stagnazione economica. Solo nel 1985 il Partito osò percorrere una strada diversa eleggendo segretario Michail Gorbacev, il quale, nato nel 1931, a differenza dei suoi predecessori, non aveva collaborato con il regime stalinista. Gorbacev credeva nel socialismo, ma voleva coniugarlo con la democrazia e con il rispetto dei diritti dell'uomo e del cittadino. Gorbacev, a partire dal febbraio 1986 lanciò un grande programma di ristrutturazione (perestrojka) del sistema sovietico, basato sulla trasparenza (glasnost) e sulla libertà di discussione e di critica. Nell'aprile 1986, esplose un reattore della centrale nucleare di Cernobyl in Ucraina: la nube radioattiva sprigionata dall'esplosione dapprima provocò immensi danni nelle regioni circostanti, e poi investì diversi paesi europei. L'episodio mostrò il disordine e l'inefficienza che regnavano persino nel settore dell'industria atomica e la necessità di procedere in fretta a drastiche riforme anche nei campi che si credevano più avanzati e moderni. Per far ciò si dovevano trovare risorse e Gorbacev pensò di intervenire prima di tutto sul settore militare. Con questo obiettivo, intraprese con il presidente americano Reagan una serie di trattative per ridurre il numero dei missili e delle testate nucleari, perseguì una politica di riconciliazione con la Cina e pose fine alla presenza russa in Afghanistan. La crisi del socialismo nei paesi dell'Europa orientale Le popolazioni dell'Europa orientale si resero conto che nella nuova situazione che si era venuta a determinare, nel caso di un'azione politica e sociale da parte dell'opposizione, l'URSS non sarebbe più intervenuta a sostegno delle dittature socialiste dei vari paesi. Così, nel corso del 1989, la situazione precipitò in tutti i principali stati del socialismo reale. 104 In Polonia, Jaruzelski concordò con Solidarnosc (ricostituitosi dopo lo smantellamento del 1981) lo svolgimento di elezioni cui potevano partecipare anche candidati non comunisti: tenutesi nel giugno 1989, queste prime libere consultazioni furono un trionfo per Solidarnosc (a capo del governo venne eletto il cattolico Tadeus Mazowieski, collaboratore di Walesa). In Ungheria, oltre alla riabilitazione di Imre Nagy e degli altri leader della rivolta del 1956, il 28 maggio 1989 le autorità decisero di disattivare nel territorio ungherese la “cortina di ferro” e quindi eliminare i limiti al libero transito degli individui attraverso le proprie frontiere. In dicembre, i regimi comunisti furono rovesciati anche in Cecoslovacchia, Bulgaria e Romania (a parte la Romania, dove il dittatore Ceausescu venne ucciso da una rivolta popolare, in tutti questi altri paesi il cambiamento avvenne senza spargimenti di sangue). I nuovi governi avviarono un rapido smantellamento dell'economia pianificata e diretta dallo stato, adottando un liberismo radicale. Il risultato, tuttavia, non fu quello previsto, poiché l'economia di questi paesi era del tutto impreparata ad affrontare di colpo le dure leggi del mercato internazionale. Nel giro di pochi anni il prodotto interno lordo scese e soprattutto aumentò vertiginosamente la disoccupazione. La riunificazione della Germania Dal settembre 1989, attraverso l'Ungheria i tedeschi dell'Est cominciarono di nuovo ad emigrare in massa verso la Germania Occidentale. Il 9 novembre 1989, le autorità comuniste tedesche presero atto dell'impossibilità di fermare l'esodo con la forza e emanarono una nuova normativa che in pratica significava la completa liberalizzazione della circolazione fra le due Germania. Non appena la notizia si diffuse, la popolazione di Berlino Est si precipitò in massa contro il Muro, che venne demolito in più punti, cancellando il simbolo più esplicito e odioso della separazione dell'Europa in due schieramenti ideologici e militari contrapposti. A questo punto, il cancelliere della Germania Federale Helmut Kohl, si batté per la riunificazione della Germania, che venne ufficialmente raggiunta il 3 ottobre 1990. Anche per la Germania Orientale un simile repentino passaggio all'economia di mercato si rivelò decisamente traumatico: moltissime aziende dovettero chiudere o vennero assorbite da imprese dell'Ovest, mentre la disoccupazione toccò la punta del 17,5%. Il governo centrale dovette intervenire con sovvenzioni ingenti e continue. Solo un'economia forte come quella tedesca poteva permettersi un onere simile. La radicalizzazione dello scontro politico in URSS Nel 1989, alle elezioni per il Congresso del popolo (un nuovo organismo destinato a sostituire il Soviet supremo e a cui poterono per la prima volta partecipare anche candidati che non si riconoscevano nel partito o che addirittura l'avevano osteggiato, come Andrej Sacharov, che insieme a Aleksandr Solzenicyn era stato uno dei più attivi oppositori della dittatura comunista) venne eletto Gorbacev, il quale però si trovò schiacciato fra due schieramenti nemici, da un lato la componente più conservatrice e tradizionalista del PCUS, che guardava con sospetto alla perestrojka, dall'altra coloro che propugnavano il totale abbandono del socialismo e l'adozione immediata dell'economia di mercato, guidati dall'emergente figura di Boris Eltsin. Eltsin sostenne anche i movimenti separatisti (le repubbliche baltiche – Lettonia, Estonia, Lituania – e la Georgia avevano avviato un processo di secessione), ritenendo che la Russia dovesse liberarsi dalle altre repubbliche dell'Impero (ormai divenute solo un peso economico) e dovesse adottare il modello capitalistico e liberista. La disgregazione dell'URSS Nel giugno 1991 Eltsin vinse le elezioni per la carica di Presidente della repubblica russa (Gorbacev rimaneva invece il capo dell'URSS, con il risultato che il presidente della Russia e quello dell'URSS praticavano politiche contrastanti). Nell'agosto 1991 ci fu un tentativo di colpo di stato comunista: i ribelli, con l'obiettivo di riportare l'ordine comunista nel paese, arrestarono Gorbacev e si preparavano a fare altrettanto con Eltsin, ma la popolazione scesa in piazza a loro difesa e così i congiurati, per evitare un massacro fra la popolazione moscovita, desistettero (gli alti esponenti coinvolti nel complotto furono arrestati e Gorbacev venne liberato). Nell'autunno 1991, il PCUS e il Parlamento vennero sciolti. L'8 dicembre 1991 i capi di Russia, Ucraina, e Bielorussia s'incontrarono per firmare l'accordo che dichiarava dissolta l'Unione Sovietica e la sostituiva con la Comunità degli Stati Indipendenti (CSI) e Gorbacev diede le dimissioni il 25 dicembre, mentre sul Cremlino la bandiera rossa fu sostituita dal tricolore russo (bianco, rosso e azzurro). Anche in Russia il repentino passaggio al libero mercato ha provocato un vero e proprio dissesto economico e una gravissima disoccupazione. La disgregazione della Jugoslavia Mentre la Cecoslovacchia si divise pacificamente in due stati, la repubblica ceca e la repubblica slovacca, in Jugoslavia il rinascere dei nazionalismi portò a conseguenze assai drammatiche. Dopo la morte di Tito (1980) ripresero vigore in Serbia le ambizioni egemoniche. Intanto, il 25 giugno 1991, Slovenia e 105 Croazia dichiararono la propria indipendenza dalla federazione jugoslava. In Croazia si trovavano moltissimi serbi, che essendo fatti oggetto di discriminazione, si organizzarono in formazioni armate (sostenute dall'esercito della Repubblica di Serbia) per ottenere a loro volta l'indipendenza dalla Croazia. Da entrambe le parti si fece un feroce e sistematico ricorso alla pulizia etnica. Nel 1992, il conflitto si estese anche alla Bosnia-Erzegovina, dove erano presenti anche numerosi musulmani. Intorno a Sarajevo e nel resto della Bosnia infuriò una lotta brutale fra serbi, da un lato, musulmani e croati dall'altro. L'intervento delle Nazioni Unite non sortì nessun effetto moderatore. Un compromesso capace di porre fine (temporaneamente) alla guerra di Bosnia fu raggiunto solo dopo tre anni di violenze, nel dicembre 1995 e suggellato a a Dyton, negli Stati Uniti. Il bilancio della guerra nella ex Jugoslavia fu terribile: esso fu il più sanguinoso conflitto europeo del Novecento escluse le guerre mondiali. La guerra in Kosovo Nel 1998, il presidente serbo Slobodan Milosevic decise di procedere a una pulizia etnica in Kosovo, regione della Serbia, abitata da molti cittadini di origine albanese, considerati dai nazionalisti serbi come semplici usurpatori. Per tutto il 1998, gli albanesi furono oggetto di violenze (che causarono la distruzioni di centinaia di villaggi e produssero migliaia di profughi). Nel 1999, l'esercito serbo intensificò le violenze e ciò spinse gli Stati Uniti e i paesi della NATO ad intervenire con bombardamenti su Belgrado e altre città serbe. Quando i bombardamenti si fecero più intensi, Milosevic accettò di interrompere le violenze e di ritirare le truppe serbe dal Kosovo, che venne presidiato dalla NATO. Nell'autunno 2000, Milosevic fu costretto ad abbandonare il potere, dopo aver perso le elezioni. L'Unione Europea dopo gli accordi di Maastricht Il 7 febbraio 1992, nella città olandese di Maastricht si riunirono i ministri degli stati membri della Comunità Europea, che nel frattempo si era allargata a 12 paesi (Francia, Germania, Italia, Gran Bretagna, Irlanda, Danimarca, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Grecia, Spagna, Portogallo). A Maastricht venne ufficialmente firmato il trattato che istituiva l'Unione Europea, un organismo finalizzato ad affrontare in modo comune questioni di fondamentale importanza, come lo sviluppo tecnologico, la tutela dell'ambiente, la sanità, ecc. Ma le prospettive più concrete di una reale integrazione ci furono in campo economico, con la decisione di istituire una nuova moneta unica europea (l'Euro), destinata a sostituire le diverse valute nazionali. Per garantire forza e sicurezza alla nuova moneta, era necessario che i paesi rispettassero rigidi parametri economici. L'Italia, al momento della decisione non rientrava nei parametri (per es. aveva un rapporto deficit/pil troppo elevato), ma, malgrado ciò, il governo presieduto da Romano Prodi, con interventi finanziari drastici, riuscì a raggiungere l'ambizioso obiettivo dell'ingresso nell'unione monetaria, allorché essa venne varata all'inizio del 1999 (dal 1/1/1999 l'euro divenne la moneta ufficiale nei mercati finanziari, ma la circolazione monetaria ebbe effettivamente inizio il 1/1/2002). 106 Moudlo 9: L'Italia repubblicana 1 La nascita della repubblica Il governo Parri Nel giugno 1945, nasce il primo governo italiano del dopoguerra, formato dai partiti che componevano il CLN. A presiederlo fu chiamato Ferruccio Parri, vicecomandante delle forze partigiane e leader del Partito d'Azione (Partito che era l'evoluzione del movimento Giustizia e Libertà di Carlo Rosselli ed Emilio Lussu). Dopo la fine della guerra, in diverse regioni italiane si registrarono numerose violenze ed esecuzioni sommarie contro ex fascisti. Il governo non reagì con risolutezza contro queste violenze e, piuttosto che reprimere con la forza queste violenze e anche le rivendicazioni che nel frattempo stavano avendo luogo da parte di quelle masse popolari che avevano sostenuto il movimento della Resistenza, Parri preferì rassegnare le dimissioni. De Gasperi, Togliatti e Dossetti Il 10 dicembre 1945 divenne presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, segretario della Democrazia cristiana (DC), l'organizzazione politica dei cattolici che, nel 1942-43, era risorta dalle ceneri del Partito popolare disciolto dai fascisti nel 1926. Nel 1946, il leader comunista Togliatti, ministro della Giustizia nel governo De Gasperi, annunciò l'amnistia per gli esponenti della Repubblica di Salò ancora in carcere. Con quest'atto i comunisti rinunciavano all'idea della rivoluzione, perseguendo invece l'obiettivo della realizzazione di una serie di significative riforme in campo sociale e politico. Fra i cattolici, vi era una componente riformista, guidata da Giuseppe Dossetti, che riteneva possibile un'intesa con i militanti comunisti sui problemi reali delle masse. Il referendum istituzionale e L'Assemblea Costituente Il 2 giugno 1946 ebbe luogo il referendum istituzionale per decidere se l'Italia dovesse restare una monarchia o diventare una repubblica e contestualmente si tennero le elezioni per l'Assemblea Costituente. Un mese prima del voto Vittorio Emanuele III aveva abdicato a favore del figlio Umberto II. La consultazione (a cui per la prima volta parteciparono anche le donne) risultò favorevole alla repubblica (12,7 milioni di voti per la repubblica contro 10,7 milioni per la monarchia; al Centro-Nord la maggioranza di voti andò alla repubblica, al Sud e nelle isole alla monarchia). Dopo il voto Umberto di Savoia con la sua famiglia partì per l'esilio in Portogallo. Le elezioni per la Costituente videro l'affermazione dei tre grandi partiti di massa: Democrazia cristiana (35%), Partito socialista (20%) e Partito comunista (19%), mentre ottennero scarsi consensi periodo altri grandi protagonisti del precedente il fascismo, come il Partito d'azione (1,5%). L'Assemblea Costituente, riunitasi per la prima volta il 25 giugno 1946, elesse come nuovo capo dello stato, per sostituire il deposto sovrano, Enrico de Nicola, il quale fu incaricato di svolgere le funzioni di presidente della Repubblica fino all'entrata in vigore della nuova Costituzione, che intanto si stava elaborando. La stesura materiale della costituzione fu affidata a una commissione di 75 membri, tra cui un ruolo decisivo per l'intesa sui principi fondamentali fu svolto da Dossetti. La nuova Costituzione entrò in vigore il 1° gennaio 1948. Da una parte, venne recepita l'impostazione tipicamente liberale secondo cui lo stato si impegnava a garantire i diritti dell'uomo e del cittadino, considerati inviolabili (art. 2). Nel contempo, secondo la concezione cattolica, l'essere umano veniva considerato come persona che vive in “formazioni sociali”, prima fra tutte la famiglia, che lo stato si impegnava a tutelare. Infine, mentre la tradizione liberale era preoccupata soprattutto di porre dei limiti al potere dello stato nei suoi rapporti con il singolo cittadino, la Costituzione recepì (art. 3) l'ideale democratico e socialista secondo cui lo stato doveva rimuovere tutti gli ostacoli di ordine economico e sociale che potevano ridurre di fatto la libertà e l'uguaglianza. Allo stato la Costituzione attribuì l'importante compito di promuovere lo sviluppo della piena dignità umana di ogni cittadino, attraverso il riconoscimento del diritto al lavoro (art. 4). Il governo senza le sinistre Un discorso a parte merita l'approvazione dell'art. 7, relativo ai Patti Lateranensi. La DC era favorevole ad inserirli in Costituzione senza modifiche, gli altri partiti erano perplessi (in quanto ritenuti in contrasto con il principio di uguaglianza di tutti i cittadini davanti allo stato proclamato nell'art. 3). Togliatti impose al PCI di votare a favore dell'approvazione dell'art. 7, ritenendolo il prezzo da pagare per avere l'appoggio della DC nell'attuazione di riforme sociali destinate a migliorare le condizioni di vita dei lavoratori e delle masse popolari. Tuttavia, ottenuto il voto sui Patti Lateranensi, nel maggio 1947 De Gasperi considerò chiusa la fase politica apertasi con la svolta di Salerno, caratterizzata dalla presenza dei comunisti nell'esecutivo, e procedette alla formazione di un nuovo governo senza le sinistre. A guidare la politica economica fu Luigi Einaudi, che diede una forte impronta liberista alle scelte del governo. 107 Le elezioni del 1948 (18 aprile) Per tutta la campagna elettorale, l'Azione Cattolica fece una dura propaganda contro l'avversario comunista, che venne demonizzato e presentato come un pericolo per la morale cristiana. Le elezioni del 18 aprile 1948 si svolsero in un contesto emotivamente esasperato, che registrarono il duro scontro soprattutto tra cattolici e comunisti. Un ruolo propagandistico importante lo rivestirono gli aiuti economici provenienti dall'America, la quale aveva fatto sapere che una eventuale vittoria comunista avrebbe comportato l'immediato arresto delle sovvenzioni. Le elezioni videro una clamorosa affermazione della DC (48,5%), contro il Fronte Popolare (31%), ovvero la lista che riuniva socialisti e comunisti. Tale vittoria sanciva la definitiva collocazione dell'Italia nello schieramento dei paesi occidentali. Il 14 luglio 1948, Togliatti fu ferito in un attentato con quattro colpi di pistola: nei giorni immediatamente seguenti si ebbero scioperi e tumulti, ma la direzione del PCI si affrettò a richiamare i propri militanti alla calma (e così fece la CGIL, Confederazione Generale Italiana del Lavoro, che a quell'epoca era un'organizzazione sindacale che raccoglieva oltre ai comunisti anche i socialisti e i cattolici). Non appena fu tornata la calma, i cattolici diedero vita alla CISL (Confederazione Italiana Sindacati Liberi), mentre i socialisti e i socialdemocratici nel 1950 diedero vita a un terzo sindacato, la UIL (Unione Italiana del Lavoro). In quegli anni la tensione rimase comunque altissima, soprattutto a causa della disoccupazione. 2 Gli anni Cinquanta e Sessanta All'indomani della vittoria elettorale del 1948, De Gasperi formò un governo di coalizione, che comprendeva, oltre alla DC, anche altri partiti laici (repubblicani, liberali, socialdemocratici – questi ultimi, guidati da Giuseppe Saragat, erano nati da una scissione dal partito socialista). In vista delle nuove elezioni del 1953, De Gasperi, con lo scopo di ottenere un esecutivo più stabile, propose una riforma elettorale, secondo la quale il raggruppamento che avesse raggiunto il 50% dei suffragi avrebbe ottenuto il 65% dei seggi. Le opposizioni attaccarono De Gasperi e bollarono la proposta come “legge truffa”. Alle elezioni del 1953 la DC perse voti, mentre crebbero i consensi ai partiti di destra (in particolare ai neofascisti del Movimento sociale italiano – MSI – che raggiunse il 5,8%). Il PCI di fronte alla fine dello stalinismo Nel 1956 Krusciov, durante il XX Congresso del PCUS, demolì il mito di Stalin, denunciandone i crimini. Togliatti, in un'intervista ufficiale, continuò a sostenere la sostanziale validità dell'esperienza sovietica, al di là di tutti gli errori e gli eccessi di Stalin. Alla fine del 1956, si verificò l'intervento sovietico in Ungheria, il PCI giustificò in tutto e per tutto la versione di Mosca degli avvenimenti, presentati come un complotto internazionale per rovesciare il socialismo in Ungheria. Quest'accettazione acritica destò forte dissenso e profonda indignazione fra i militanti, molti dei quali (circa 400000, soprattutto intellettuali) lasciarono il partito, fra questi Italo Calvino. Anche i socialisti, colsero l'occasione della crisi ungherese, per sganciarsi definitivamente dai comunisti. In un suo intervento alla Camera, il leader socialista Nenni condannò senza reticenze l'intervento sovietico. Il miracolo economico Negli anni 1958-1963, l'Italia visse una straordinaria epoca di progresso produttivo, che ricevette il nome di “miracolo economico”. I settori trainanti di questo incremento della produzione furono soprattutto quelli dell'automobile (nel 1953 la Fiat lanciava la 600, la prima utilitaria destinata al consumo di massa) e degli elettrodomestici (destinati sia all'esportazione che al consumo interno). Le ragioni che resero possibile il miracolo furono essenzialmente l'enorme serbatoio di disoccupati in cerca di lavoro, che quindi erano disposti ad accettare anche salari molto bassi, e il prezzo conveniente del petrolio. L'industrializzazione fu tuttavia un fenomeno essenzialmente settentrionale, per questo, in quegli anni, i grossi centri industriali attirarono un gran numero di emigrati dal Sud dell'Italia. I governi di centrosinistra Dopo le elezioni del 1953, De Gasperi si era ritirato dalla vita politica e il suo posto, alla guida della DC, venne preso da Amintore Fanfani, il quale era fautore di una nuova strategia politica, che prevedeva l'apertura a sinistra. Tale linea politica si concretizzò negli anni Sessanta, dopo che il PSI aveva definitivamente troncato i legami con i comunisti. Nel 1962 Fanfani fu a capo di un governo che non comprendeva ancora i socialisti al suo interno, ma era comunque da loro sostenuto in Parlamento. Tra i più significativi provvedimenti di questo esecutivo vi fu la creazione dell'ENEL, nata dopo la nazionalizzazione delle imprese produttrici di elettricità (per i socialisti, doveva essere il primo passo per introdurre nell'economia italiana regole capaci di tenere sotto controllo pubblico lo spontaneismo selvaggio del miracolo economico). 108 Il 5 dicembre 1963 il Parlamento votò la fiducia ad un esecutivo comprendente anche esponenti socialisti, presieduto da Aldo Moro, il governo venne definito di centrosinistra. La protesta studentesca I numerosi governi di centrosinistra che si susseguirono fra il 1963 e il 1969 (da cui ci si attendeva un'opera di modernizzazione del paese, soprattutto del Sud, e riforme importante sul fronte dell'urbanizzazione e dei servizi) non riuscirono a dare un'efficace risposta ai gravi problemi dell'Italia. Pertanto, a cominciare dal 1967 e per una durata di circa quindici anni, ebbe inizio una lunga stagione di proteste e forti tensioni sociali. I primi ambienti che si misero in moto furono quelli studenteschi. Nel 1962 c'era stata la riforma dell'obbligo scolastico, innalzato fino ai 14 anni, e l'introduzione della Scuola media unica, identica e obbligatoria per tutti i ragazzi. In Italia crebbe in maniera esponenziale il numero degli alunni che proseguivano gli studi e crebbe notevolmente anche il numero degli iscritti alle Università, senza tuttavia che queste fossero pronte ad assorbire questo impetuoso incremento. Fu proprio nelle università che già dall'autunno 1967 si verificarono occupazione e proteste. La nascita dei movimenti di estrema sinistra Negli stessi anni in cui il PCI assumeva, non senza fatica, una posizione critica nei confronti del modello socialista sovietico (nell'agosto 1968 i carri armati sovietici intervennero in Cecoslovacchia per porre fine all'esperienza del socialismo dal volto umano di Dubcek), dall'ambiente del movimento studentesco emersero numerose e radicali aspirazioni di tipo rivoluzionario. La contestazione era nata per l'incapacità del sistema universitario di far fronte al vertiginoso aumento delle iscrizioni, ma ben presto investì ogni forma di autoritarismo, fino a esaltare la Cina e Cuba come modelli sociali alternativi. Gli studenti, inoltre, si proposero l'obiettivo di entrare in collegamento con la classe operaia per risvegliarne le capacità rivoluzionarie. Nell'autunno 1969 cominciarono a nascere numerosi gruppi rivoluzionari, come Potere Operaio e Lotta Continua, il cui obiettivo era organizzare la rivoluzione proletaria. Tantissimi giovani erano convinti che la società capitalistica fosse sul punto di crollare, per lasciare il posto ad una nuova società egualitaria e giusta, e ritenevano che fosse lecito usare la violenza contro coloro che si opponevano all'avanzata della nuova realtà. L'autunno caldo Nel 1969 la protesta si estese alla classe operaia e si verificò il cosiddetto “autunno caldo”, che vide una serie di violenti scontri e duri confronti tra industriali e lavoratori. A seguito di queste lotte, gli operai ottennero non solo cospicui aumenti salariali, ma anche innovazioni di tipo normativo, grazie ai quali gli ambienti di lavoro divennero più sicuri. Nel 1970, il Parlamento approvò lo Statuto dei Lavoratori, che era previsto dalla Costituzione ma non era mai stato redatto. In esso si ponevano precisi limiti all'autorità dei datori di lavoro e si vietavano le discriminazioni dei lavoratori per motivi politici. La strategia della tensione Gli ambienti di estrema destra risposero alla rinnovata tensione rivoluzionaria con determinazione. A partire dal 1969, iniziò il periodo delle stragi, con l'esplicito scopo di spargere il terrore e sovvertire lo stato democratico. Anche l'estrema sinistra era disponibile ad usare la violenza per i propri fini rivoluzionari (negli anni Settanta sarebbero nati numerosi gruppi terroristici di sinistra, come Prima linea, Nuclei armati proletari, e soprattutto, le Brigate rosse). Va comunque precisato che il terrorismo rosso colpì sempre singoli individui, mentre la violenza nera, di estrema destra, colpiva alla cieca, nelle piazze, nei locali pubblici o sui treni, con l'obiettivo di spaventare le masse. L'episodio iniziale di questa offensiva del terrorismo nero – chiamata anche strategia della tensione – ebbe luogo a Milano il 12 dicembre 1969, quando una bomba venne fatta esplodere alla Banca dell'Agricoltura in piazza Fontana, provocando 16 morti e 87 feriti. In un primo tempo la polizia seguì la pista anarchica e arrestò Pietro Valpreda e Giuseppe Pinelli. Quest'ultimo in circostanze misteriose, morì alla Questura di Milano cadendo da una finestra durante gli interrogatori (il 17 maggio 1972 il commissario Luigi Calabresi venne ucciso da un commando con colpi d'arma da fuoco, dopo una lunga propaganda dei gruppi di estrema sinistra che lo additava come responsabile della morte di Pinelli). Valpreda nel 1985 venne definitivamente prosciolto. Dal 2001 al 2005 vi furono diversi processi in cui alcuni esponenti di estrema destra furono condannati per la strage, tuttavia, ancora oggi non è stata fatta completa chiarezza sull'accaduto. Nel corso degli anni seguenti, numerosi ordigni vennero fatti esplodere con modalità analoghe: a Brescia, in Piazza della Loggia, il 28 maggio 1974 (8 morti e 94 feriti); sul treno Italicus nei pressi di Bologna il 4 agosto 1974 (12 morti e 105 feriti); alla stazione di Bologna il 2 agosto 1980 (83 morti e 200 feriti). 109 3 Gli anni di piombo Il compromesso storico Il 2 settembre 1973, il presidente del Cile Salvador Allende, che aveva tentato di introdurre nel suo paese radicali riforme sociali, venne rovesciato e ucciso da un colpo di stato militare. Il drammatico fallimento dell'esperimento cileno colpì profondamente l'opinione pubblica italiana e spinse il segretario del PCI, Enrico Berlinguer, preoccupato per la grave situazione italiana e per il rischio di una svolta reazionaria e di un colpo di stato anche nel nostro paese (si tenga presente che vi era stato un tentativo di colpo di Stato in Italia durante la notte tra il 7 e l'8 dicembre 1970, organizzato da Junio Valerio Borghese e condotto sotto la sigla Fronte Nazionale, in stretto rapporto con Avanguardia Nazionale), a proporre una strategia radicalmente nuova. Scrisse Berlinguer il 28 settembre 1973: “La gravità dei problemi del paese, le minacce sempre incombenti di avventure reazionarie e la necessità di aprire alla nazione una sicura via di sviluppo economico, di rinnovamento sociale e di processo democratico rendono sempre più urgente e maturo che si giunga a quello che può essere definito il nuovo grande “compromesso storico” tra le forze che raccolgono e rappresentano la grande maggioranza del popolo italiano”. Berlinguer proponeva, in sostanza, alla DC un'alleanza programmatica capace da un lato di affrontare i problemi economici e sociali dell'Italia, e dall'altro di contrastare le spinte eversive che, da destra e da sinistra, minacciavano la democrazia. Il PCI, inoltre, in quegli anni, si stava sganciando dal modello sovietico. Lo stesso Berlinguer aveva affermato nel 1976 che anche in caso di vittoria elettorale comunista, l'Italia non avrebbe abbandonato l'Alleanza Atlantica con gli Stati Uniti. Egli coniò l'espressione eurocomunismo, per indicare il tentativo di una via al socialismo diversa da quella russa e da quella della socialdemocrazia occidentale. Nello stesso tempo, il presidente della DC Aldo Moro, stava formulando una constatazione sulla “democrazia bloccata”, nel senso che non era possibile procedere ad un'alternativa di governo paragonabile a quella tipica dei paesi anglosassoni. In Italia, secondo Moro, il fatto che il principale partito d'opposizione fosse il PCI non dava affatto la garanzia che qualora avesse vinto il sistema democratico sarebbe stato mantenuto. Per questa ragione, per Moro, l'evoluzione del PCI non poteva essere ignorata. Il processo di democratizzazione del PCI andava quindi sostenuto mediante il suo coinvolgimento nella maggioranza di governo. Il PCI avrebbe potuto condurre fino in fondo la propria evoluzione, trasformarsi da partito leninista in forza politica riformatrice e, quindi, costituire una potenziale alternativa di governo per il paese. La solidarietà nazionale e le Brigate rosse Nell'agosto 1976, il democristiano Giulio Andreotti guidò il primo governo che non vide i comunisti all'opposizione. Invero, essi non partecipavano al governo e neppure votarono la fiducia in Parlamento, tuttavia, astenendosi dal voto, permettevano al governo di avere una maggioranza parlamentare. Questo singolare governo della non-sfiducia durò due anni. Nel 1978, infatti, lo stesso Andreotti, dopo aver concordato un programma con i comunisti, presiedette un esecutivo che in Parlamento avrebbe ricevuto il voto positivo del PCI, anche se nessun esponente di questo partito aveva dirette responsabilità ministeriali. La votazione della fiducia di tale governo di solidarietà nazionale era prevista per il 16 marzo; la mattina di quel medesimo giorno, tuttavia, in via Fani a Roma, Aldo Moro venne rapito, mentre cinque uomini della sua scorta vennero uccisi a freddo nel corso dell'operazione. L'attentato fu compiuto dalle Brigate rosse, un gruppo che aveva iniziato a organizzarsi nel 1970, sotto la guida di Renato Curcio e Alberto Franceschini, e che dal 1974 aveva iniziato un'offensiva finalizzata a colpire il cuore dello stato. Erano cominciati allora, e sarebbero durati sino al 1981, i cosiddetti anni di piombo. Il sequestro e l'uccisione di Moro L'obiettivo politico che le BR volevano raggiungere con il sequestro Moro era quello di impedire che il PCI fosse coinvolto nella normale dinamica democratica e che rinunciasse definitivamente alla prospettiva rivoluzionaria. Tuttavia, la lotta armata non era affatto condivisa dalla grande maggioranza degli operai italiani. Nelle ore immediatamente seguenti il sequestro Moro, i tre grandi sindacati CIGL, CISL e UIL, proclamarono subito uno sciopero di protesta, esortando i lavoratori a rifiutare la logica della violenza e a contrapporsi ai terroristi. La vicenda del sequestro Moro durò fino al 9 maggio 1978, allorché le BR uccisero Moro e il suo cadavere fu ritrovato in un luogo – via Caetani – che non a caso era a metà strada tra la sede della DC e quella del PCI. Nei due mesi in cui Moro fu tenuto prigioniero, le BR proposero di scambiare Moro con 13 brigatisti detenuti in carcere. Il mondo politico si divise: i socialisti, guidati dal nuovo segretario Bettino Craxi, riteneva che fosse necessario trattare per salvare la vita di Moro; il PCI preoccupato soprattutto di mostrare la propria avversione nei confronti di un gruppo estremista che si definiva comunista, sostenne invece la linea della fermezza; tale linea venne fatta propria anche dalla DC e soprattutto dal governo. Nei mesi e anni successivi numerose persone furono uccise dalle BR (tra cui: Guido Rossa, un operaio genovese iscritto al 110 PCI e “colpevole” di aver denunciato un impiegato della sua fabbrica che svolgeva attività terroristica; Vittorio Bachelet, professore all'Università di Roma e noto intellettuale; Walter Tobagi, un giovane giornalista del Corriere della Sera). Solo quando vennero introdotte consistenti riduzioni di pena per i terroristi pentiti, cioè disposti a collaborare, fu possibile smantellare l'intera organizzazione delle Brigate rosse. Lo scenario politico degli anni Ottanta Il 31 gennaio 1979, il governo di solidarietà nazionale presieduto da Andreotti diede le dimissioni; un gran numero di militanti del PCI, infatti, non riteneva più produttiva l'alleanza con la DC. Nell'autunno 1980 si concluse la fase storica apertasi con le contestazioni dell'autunno 1969. A Torino, in occasione di una vertenza FIAT, poiché l'azienda minacciava la cassa integrazione per 24000 lavoratori e il licenziamento di 14000 operai, il sindacato proclamò uno sciopero a oltranza. Dopo circa venti giorni di sciopero, sebbene l'azienda avesse annunciato il ritiro dei licenziamenti, il sindacato non sospese la protesta, richiedendo la cancellazione totale anche della cassa integrazione. Il 14 ottobre circa 40000 dipendenti (in prevalenza impiegati e quadri) sfilarono per le vie di Torino e chiesero la riapertura della fabbrica. Il giorno dopo il sindacato, costretto a porre termine alla linea dura, siglò un compromesso con l'azienda, in base al quale i licenziamenti venivano trasformarti in cassa integrazione. A partire da quel momento, con un sindacato indebolito e diviso, gli industriali procedettero alla ristrutturazione dei processi produttivi, che prevedevano l'introduzione di innovazioni tecnologiche e la riduzione del numero dei lavoratori. A seguito di queste drastiche misure, l'economia italiana riprese a crescere e mantenne elevatissimi livelli di produzione per tutti gli anni Ottanta: nel 1987, l'Italia superò la Gran Bretagna e divenne la quinta potenza industriale del mondo. Tuttavia, il bilancio dello stato rimaneva critico e di anno in anno il debito pubblico continuava ad aumentare, tanto che all'inizio degli anni Novanta, appariva come una vera e propria voragine. 111