1 Rino CAMMILLERI La liberazione di Vienna: Innocenzo XI tratto

Rino CAMMILLERI
La liberazione di Vienna: Innocenzo XI
tratto da: Rino CAMMILLERI, I Santi militari, Piemme, Casale Monferrato 1992, p. 205s.
Nacque nel 1611 e si chiamava Benedetto Odescalchi, di nobile famiglia. Ben presto orfano, finì gli studi e fu
comandante della milizia urbana di Como. Dopo la cessazione dalla carica, si perfezionò negli studi giuridici
e si fece sacerdote. Nel clero ebbe rapida carriera, anche in virtù delle sue capacità di energico
organizzatore. Dopo una serie di vicende che sarebbe lungo enumerare qui, fu eletto Pontefice nel 1676. Fu
un papa attento alle missioni nei paesi extraeuropei; cercò di combattere la schiavitù degli africani, si oppose
come poté al protestantesimo e impose il catechismo a tutti, fanciulli o soldati che fossero, ben sapendo
come le eresie andassero di pari passo con l'ignoranza.
Ma l'opera più grandiosa della sua vita (e il motivo per cui lo menzioniamo qui) fu la Crociata contro i Turchi.
Questi erano da oltre un secolo a Budapest e ora si accingevano ad assediare Vienna. Innocenzo cercò di
unire la Cristianità per attaccarli prima che fosse troppo tardi: ci riuscì in parte, perché Luigi XIV di Francia
non solo si defilò, ma favorì il nemico in tutti i modi per amore delle sue personali mire espansionistiche. Il
papa, tuttavia, ottenne lo stesso di poter stringere in lega l'imperatore e il re di Polonia, unione che permise
la liberazione di Vienna nel 1683 a opera del condottiero polacco Jan Sobieski (che dopo la vittoria scrisse
così al papa: «Veni, vidi, Deus vicit»). Una seconda «santa lega» tra l'imperatore, Venezia e la Russia
permise la liberazione di Budapest nel 1686, vittoria cui il papa dedicò la festa del Nome di Maria (2
settembre).
Innocenzo quasi rovinò le casse papali per finanziare l'impresa, ma salvò per sempre l'Europa. Il re
d'Inghilterra Giacomo II così ebbe a dire: «E il Santo Padre, che come liberò Vienna, così ha espugnato
Buda. Da secoli non si vedeva più un papa simile sulla cattedra di Pietro».
L'anno dopo una flotta di navi veneziane, pontificie, toscane e dell'Ordine di Malta liberavano Atene e tutto il
Peloponneso, ma il papa non visse abbastanza per vedere liberati anche i Balcani e le definitive vittorie di
Eugenio di Savoia.
Morì nel 1689 a ottant'anni, dopo aver vissuto poveramente e sempre con la stessa veste per tutto il
pontificato, continuamente afflitto da terribili calcoli renali.
Qualche "spirito sensibile" alle disgrazie turche (ma non a quelle cristiane) potrà forse arricciare il naso
davanti a questo papa "guerrafondaio". Ognuno, naturalmente, è libero di pensare quel che vuole, ma resta
un fatto incontestabile: è lui che dobbiamo ringraziare se oggi le nostre donne non portano il chador, non è
vietato bere vino e birra, gli adulteri non vengono lapidati e ai ladri non è mozzata la mano destra. Il mondo
occidentale oggi non è una meraviglia, questo è vero, ma non so se ci piacerebbe vivere in regime di
fondamentalismo coranico.
La violenza è una brutta cosa (anche se sarebbe preferibile distinguere tra "violenza" tout-court e "uso
legittimo della forza") e la guerra non è una situazione in cui nessuno si fa male. Ma quei Turchi impalavano
e scuoiavano anche gli ambasciatori, né sentivano ragioni di sorta. Chi scrive se ne intende un po' di vite di
Santi e può assicurare che quasi tutti quelli che cercarono di predicare ai Turchi con dolcezza finirono
ammazzati con raffinatezze di crudeltà. Uno dei pochi a portare la pelle a casa fu San Francesco, ma non
riuscì a convincere nessuno né a fermare la guerra.
Il Beato Raimondo Lullo era un sostenitore del dialogo, due tre secoli prima di Innocenzo XI. Per tutta la vita
si dedicò a fondare scuole in cui i frati imparavano l'arabo e la cultura islamica, per cercare di penetrare
pacificamente nel modo di ragionare di quelli che occupavano la Terrasanta. Lui stesso, che fu chiamato
doctor illuminatus, era detentore di un'incredibile cultura in merito. Finì accanito predicatore della Crociata
per la quale tentò inutilmente di unificare tutti gli Ordini Militari. Morì lapidato dai musulmani mentre cercava
di confutare Maometto sulla pubblica piazza.
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Quel beato non piacerà all'Islam
di Vittorio Messori
Il caso Marco d’Aviano
[Dal "Corriere della Sera", 14 Gennaio 2003]
I Patti Lateranensi sono chiari: piazza san Pietro è territorio vaticano, ma la responsabilità di mantenervi
l’ordine spetta allo Stato italiano. Per questo le autorità ecclesiastiche stanno spiegando ai funzionari della
nostra polizia - ottime persone, ma digiune di agiografia - perché occorrerà raddoppiare la vigilanza il
prossimo 27 aprile. E non certo perché in quella domenica il Papa beatificherà don Giacomo Alberione,
fondatore dei Paolini, e quattro religiose, fondatrici di altrettante congregazioni. Il fatto è che, rompendo gli
indugi dopo anni di esitazione, a quei cinque candidati agli altari, Giovanni Paolo II ne ha aggiunto un sesto il
cui nome, a più di tre secoli dalla morte, suscita ancora la venerazione di molti cattolici e il fremito d’ira di un
certo mondo islamico. In effetti, quel giorno di aprile, salirà alla gloria padre Marco d’Aviano, cappuccino, che
dal 1699 riposa, veneratissimo, nella viennese Cripta dei Cappuccini accanto agli imperatori asburgici.
Renzo Martinelli, il giovane, rampante regista di Vajont, ha già in cantiere un film per la tv: «Senza di lui dice - oggi le italiane, e non solo loro, porterebbero il burqa». Ne è convinto anche Carlo Sgorlon, che al
religioso ha dedicato il bel libro Marco d’Europa. E Pasolini stesso, autore di un testo teatrale sulle atrocità
dei turchi in Friuli, conosceva bene quel suo antico corregionale. La devozione popolare per lui è viva non
solo nel nostro Nord Est ma in Austria, in Ungheria, in tutta la ex-Jugoslavia, dove la sua statua campeggia
in molte piazze.
A quella venerazione si contrappone l’ostilità di un fondamentalismo musulmano che non ha dimenticato che
il sogno di un’Europa sottomessa ad Allah si infranse il 12 settembre del 1683 sotto le mura di Vienna, con
l’assalto travolgente di una coalizione cristiana compattata e galvanizzata dalla parola infuocata di padre
Marco.
Tre, soprattutto, erano le cause di beatificazione «politicamente scorrette» che Giovanni Paolo II si è trovato
sul tavolo. C’era, ovviamente, Pio IX, il Papa del Sillabo, di Porta Pia, del «caso Mortara». Le resistenze
furono aggirate abbinando la glorificazione del «Papa cattivo» (stando alla tenace leggenda nera) a quella
del «Papa buono» per definizione. Un esorcismo che strappò un sorriso agli addetti ai lavori: sapevano
bene, infatti, che la venerazione di Giovanni XXIII per Pio IX era tale che Roncalli aveva previsto di terminare
il Concilio proprio con la beatificazione per acclamazione del suo predecessore ottocentesco. C’era poi - e
c’è ancora - l’altra causa spinosa. Quella di Isabella di Castiglia, la Regina Cattolica, invisa agli ebrei per
l’espulsione dei marranos, agli islamici per la cacciata dei moriscos, ai liberali di ogni specie per
l’Inquisizione.
Da tempo, è in corso uno scontro di lobbies: ai potenti gruppi avversi alla grande sovrana si contrappongono
i suoi devoti, riuniti attorno all’arcivescovo di Valladolid e a buona parte dell’episcopato sudamericano. In
effetti - contrariamente, anche qui, agli schemi demagogici - proprio tra gli indios vigoreggia da sempre la
devozione verso la regina che finanziò il viaggio di Colombo e iniziò la Conquista. Comunque, sinora la
causa isabellina non è stata sbloccata ed è prevedibile che neppure la decisione e il coraggio di Papa
Wojtyla verranno a capo in tempi brevi di un’avversione che unisce forze anticattoliche tanto potenti.
E’ giunto ora in porto, invece, il lungo viaggio di Marco d’Aviano. Già a sedici anni, il futuro cappuccino, nato
in Friuli nel 1631, fuggì dal seminario, contando di imbarcarsi per Candia dove i veneziani resistevano
eroicamente all’assedio turco. Rimandato indietro prima ancora di partire e ordinato poi sacerdote, padre
Marco si segnalò come oratore e, soprattutto, come taumaturgo: le sue prediche, richieste avidamente in
tutta Europa, erano contrassegnate da continui prodigi. Lo stesso Imperatore Leopoldo d’Asburgo ne fece
uno dei suoi più ascoltati consiglieri.
A Vienna, il cappuccino ritornò nel 1683 in circostanze drammatiche: i Turchi avevano devastato tutti i
Balcani e, messa a ferro e a fuoco l’Ungheria, giunsero a porre l’assedio alla capitale imperiale. I 150 mila
guerrieri di Allah erano guidati dallo spietato Gran Visir, Kara Mustafà, il cui piano prevedeva l’islamizzazione
dell’intera Europa Centrale. La Francia (come già a Lepanto) tradì la cristianità: mirando a indebolire
l’Imperatore, il Re Sole era giunto a stringere patti con gli Ottomani. L’esercito che avrebbe dovuto liberare
Vienna dall’assedio non comprendeva che 70 mila uomini, tra imperiali, polacchi guidati dal re Giovanni
Sobiesky, bavaresi, sassoni, volontari italiani che avevano risposto all’appello disperato del Papa. Le truppe
coalizzate non erano solo scarse, ma anche paralizzate dalle rivalità tra i capi. La situazione fu sbloccata,
con prodigi di passione e di persuasione, proprio da padre Marco, inviato dal Papa e il cui prestigio era
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immenso non solo tra i cattolici ma anche tra le truppe protestanti. Su indicazione del cappuccino il comando
fu assunto dal re di Polonia e l’esercito giunse in vista di Vienna quando la città, ormai allo stremo, stava per
capitolare. All’alba del 12 settembre di quel 1683, il religioso celebrò la messa sul Kahlenberg, la collina che
sovrasta la città, servito all’altare dai re e dai principi dei coalizzati. Dopo una predica infiammata, in un misto
di italiano, tedesco, latino, tenendo alta la sua croce di legno, padre Marco si gettò in ginocchio, pregando,
mentre le truppe andavano all’assalto. I cristiani erano la metà dei musulmani e, a differenza di questi, non
avevano artiglieria, ma l’impeto con cui si gettarono sui soldati di Allah travolse ogni difesa. La battaglia fu
violentissima e breve, in poche ore 20 mila turchi giacquero sul terreno e i superstiti fuggirono,
abbandonando tutto, compreso l’harem "mobile" del Gran Visir. La minaccia islamica al cuore stesso
dell’Europa era sventata. Il padre d’Aviano fu tra i primi ad entrare in Vienna liberata e celebrò nella
cattedrale il Te Deum . Negli anni seguenti, la sua attività instancabile fu decisiva per la liberazione di
Budapest e di Belgrado. Se i turchi furono incalzati e ricacciati verso Istanbul, il merito è della "Lega santa"
nella quale il cappuccino era riuscito a fare entrare anche Venezia, come sempre ondeggiante e ambigua.
Quando morì, nella sua povera cella singhiozzavano, in ginocchio, l’Imperatore e la consorte: vollero che
l’umile religioso, cui si doveva la salvezza d’Europa, fosse ospitato nel loro mausoleo.
Le circostanze tragiche fecero di Marco d’Aviano uno straordinario suscitatore di eroismi guerrieri, un
abilissimo diplomatico per la causa dell’unità cristiana. Ma, in realtà, era un uomo di pace, del tutto alieno
dagli intrighi della politica: un frate che visse fedele alla Regola francescana e che esercitò sino in fondo le
virtù cristiane, sempre nostalgico della pace del chiostro.
Buono e generoso, lontano da ogni fanatismo ed avverso a ogni crudeltà, sempre si affannò per salvare vite,
per mitigare la sorte dei prigionieri, per esortare al perdono, alla misericordia, alla ricerca dell’accordo. Se
intervenne nella mischia, non fu che per legittima difesa di una cristianità aggredita. Si spinse a consigliare
piani strategici ai generali e trattati ai governanti, ma sempre e solo per allontanare la minaccia mortale
sull’Europa cristiana. Non a caso i musulmani del suo tempo guardarono a lui con rispetto, se non con
ammirazione. E’ solo il fondamentalismo recente che lo ha trasformato in un "nemico", tanto da costringere a
misure straordinarie di sicurezza quando, tra pochi mesi, il Papa ne proclamerà finalmente, urbi et orbi, la
gloria.
© Corriere della Sera
Padre Marco nacque ad Aviano (UD) il 17 novembre 1631. In età conveniente, i genitori lo affidarono al
collegio dei Gesuiti di Gorizia. Un giorno, al rientro degli allievi da una passeggiata, mancò all’appello: era
fuggito per andare a convertire i Turchi! Dopo due giorni di cammino batté sfinito alla porta dei Cappuccini
di Capodistria, dove sentì la chiamata di Dio. Il 21 novembre 1648 vestì l’abito nel noviziato di Conegliano
(TV). Ordinato sacerdote il 18 settembre 1655, fu successivamente nominato superiore del convento di
Belluno, poi di quello di Oderzo (TV) e nel 1675 fu trasferito a Padova. Voleva dedicarsi esclusivamente
alla preghiera e alla contemplazione, ma i suoi superiori lo richiamavano spesso per tenere le prediche in
chiesa e per realizzare le missioni popolari. Iniziò anche ad operare dei miracoli.
L’apostolo dell’Impero
La sua fama di predicatore e di taumaturgo si diffuse non solo nel Veneto, ma per tutta Europa. Dovunque
si recasse a predicare, la sua presenza era un avvenimento che attirava folle e sconvolgeva le
popolazioni. Le sue prediche erano solitamente accompagnate da eclatanti conversioni e guarigioni
miracolose. Sollecitato dai superiori, egli intraprese lunghi viaggi all’estero nel corso dei quali strinse
rapporti privati e diplomatici con molti governanti.
Nel 1680 si recò nel Tirolo. Fu accolto trionfalmente a Innsbruck, dove il duca Carlo V di Lorena venne
personalmente a incontrarlo. Giuntogli davanti, si gettò in ginocchio e non volle alzarsi prima di avergli
baciato i piedi. Più tardi volle fare con lui la confessione generale e ricevere la comunione. Carlo V gli
chiese anche una grazia personale: essendosi fratturato la gamba destra in una caduta da cavallo, non
poteva camminare che con l’aiuto delle grucce. Appena ricevuta la benedizioni di padre Marco, i dolori
scomparvero e non ebbe più bisogno di alcun sostegno. Il duca divenne suo figlio spirituale.
Da Innsbruck proseguì per la Baviera, dove ricevette un’accoglienza non meno trionfale da parte del duca
reggente Massimiliano Filippo. In una sola giornata, padre Marco compì ben 117 guarigioni miracolose,
diligentemente certificate da documenti che il duca stesso fece stendere e pubblicare. Da Monaco si recò
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a Salisburgo, dove il principe arcivescovo lo trattò quasi alla stregua di un messaggero celeste. La
cattedrale era troppo piccola per contenere le folle.
Scendendo lungo il Danubio, padre Marco andò a Linz, dove lo ricevette con rispetto e venerazione
l’imperatore Leopoldo I. L’imperatrice volle addirittura riceverlo in ginocchio. Vi si trattenne quindici giorni,
durante i quali s’instaurò tra Marco e Leopoldo un rapporto destinato ad avere notevoli effetti sulla vita
politica del tempo. L’imperatore trovò nel frate cappuccino il proprio confidente e consigliere.
L’8 ottobre padre Marco era a Neuburg. Allo sbarco venne a riceverlo il conte palatino Filippo Guglielmo
con i sei figli e lo accompagnò personalmente alla sua residenza, dove la consorte e le cinque figlie lo
ricevettero in ginocchio. Il giorno dopo, mentre predicava nella chiesa di S. Pietro, una statua della
Madonna cominciò a muoversi rivolgendo il suo sguardo verso il pulpito. La notizia del miracolo si diffuse
in tutta la Germania, rincuorando i cattolici e gettando i protestanti nello stupore.
L’apostolato di padre Marco aveva, infatti, un forte impronta anti-protestante. Nelle sue prediche non
mancava mai di rivolgere agli eretici ferventi appelli perché ritornassero all’ovile. Le conversioni furono
così numerose che i capi protestanti dovettero proibire ai propri correligionari di assistere alle prediche del
cappuccino italiano.
La crociata contro i turchi
Dopo trionfali viaggi per Paesi Bassi, Germania, Svizzera e Italia settentrionale, le vicende del tempo
ricondussero padre Marco in Austria, dove fu accolto dall’Imperatore ormai diventato suo figlio spirituale.
Nei loro numerosi e lunghi colloqui, un tema ricorreva costantemente: la minaccia turca. Dopo un periodo
di decadenza, la potenza musulmana si era risvegliata sotto l’egida del gran visir Kara Mustafá e
incombeva sull’Europa. Costui non nascondeva i suoi terribili progetti: espugnare Vienna e Praga,
spezzare le forze cristiane sul Reno, e marciare su Roma per fare di San Pietro le scuderie del sultano
Maometto IV.
Papa beato Innocenzo XI già da tempo tentava in tutti i modi di unire i principi cristiani in una Lega Santa
contro la mezzaluna. Gli unici accorsi all’appello del Sommo Pontefice, però, erano la Polonia di Jan III
Sobieski ed alcuni stati germanici come la Baviera, la Renania e la Sassonia. Il comando delle forze
cristiane, che allora contavano 40.000 uomini, fu affidato a Carlo V di Lorena, cognato dell’Imperatore e
discepolo di padre Marco.
Nell’aprile 1683 un’armata turca di 150.000 uomini e trecento cannoni si mise in marcia sotto il comando
del sultano Maometto IV in persona e del suo gran visir Kara Mustafá. L’Imperatore scrisse allora a padre
Marco: “Il nemico viene con una potenza e un sì numeroso esercito, che da cento anni in qua non se n’era
visto uno di simile”. Il 12 luglio le avanguardie turche arrivarono ai dintorni di Vienna.
Cappellano dell’esercito imperiale
In tali circostanze drammatiche, padre Marco d’Aviano fu convocato dal Papa come cappellano
dell’esercito imperiale. “Veramente è necessaria la presenza di vostra paternità — scriveva il conte
palatino Filippo Guglielmo — perché prevedo che senza di essa non faremo niente”. Effettivamente
rivalità, ambizioni e interessi personali minacciavano di rallentare, se non di impedire, qualsiasi azione
militare da parte cristiana. Fu qui che provvidenzialmente si inserì l’azione personale di padre Marco. Nel
consiglio di guerra del 5 settembre, egli riuscì ad appianare tutte le divergenze. Il comando supremo fu
conferito a Jan III Sobieski.
L’8 settembre, festa della natività di Maria, prima di dar inizio alla marcia verso Vienna, padre Marco volle
preparare spiritualmente l’esercito. Di fronte alle truppe schierate, a tutti i comandanti e al fior fiore della
nobiltà tedesca e polacca, celebrò la Santa Messa servita dallo stesso Jan Sobieski. Il re di Polonia
scrisse a sua moglie: “Padre Marco ci ha rivolto un’esortazione straordinaria. Ci ha domandato se
avevamo fiducia in Dio; e alla nostra unanime risposta che l’avevamo piena e intera, ci ha fatto ripetere
con lui più volte: Gesù! Maria! Gesù! Maria! Poi ci ha fatto recitare l’atto di dolore e ha impartito la solenne
benedizione papale”.
Dopo la funzione padre Marco passò in rassegna tutto l’esercito con la croce in mano, rivolgendo ai
singoli corpi parole di fede e d’incoraggiamento. La sera dell’11, alla vigilia della battaglia, egli celebrò la
Messa, poi tenne un breve e infiammato discorso, e alla fine, da una posizione soprelevata, lesse a gran
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voce una preghiera da lui stesso composta per impetrare l’assistenza divina sulle armi cristiane; poi col
suo crocifisso benedisse l’esercito.
All’alba del 12 i cristiani si lanciarono all’attacco con un tale impeto, da travolgere in poche ore le difese
ottomane e costringere Kara Mustafá alla ritirata. Durante la battaglia padre Marco non smise di andare di
schiera in schiera a rincuorare e a benedire i combattenti, spingendoli sempre avanti contro i seguaci di
Maometto. Ogni volta che vedeva i turchi lanciarsi all’attacco, alzava verso di loro il crocifisso, dicendo:
“Ecco la croce del Signore, fuggite schiere avversarie!” La vittoria dei cristiani fu totale.
Già all’indomani della vittoria, padre Marco cominciò a incitare i capi cristiani a continuare la crociata,
riprendendo immediatamente i combattimenti. A partire da quel momento divenne, nelle parole di un
prelato veneziano, “il braccio destro della Santa Lega”. Nel febbraio 1684 scrisse a Leopoldo I: “Sono
dispostissimo a servire la vostra maestà cesarea nell’armata con il sangue e con la vita”. Come
cappellano dell’esercito, padre Marco manteneva vivo fra i soldati l’ideale per il quale combattevano: la
loro non era una guerra qualsiasi, era una crociata.
Egli riuscì a vedere la sconfitta definitiva dell’Islam in Europa partecipando, sempre in prima linea, alle
battaglie di Budapest (1684-1686), Neuhäu-sel (1685), Mohacz (1687) e Belgrado (1688), fino alla pace di
Karlowitz (1689). Il 25 luglio 1699 fu costretto a letto a Vienna, ed il 13 agosto morì assistito
dall’Imperatore. Dopo solenni funerali, il suo corpo ebbe l’insigne favore di riposare nella cripta dei
Cappuccini di Vienna, a fianco dei resti mortali dei membri della Famiglia Imperiale.
Il suo processo canonico fu avviato da S. Pio X nel 1912. Motivi prettamente ideologici (erano in molti a
non voler esaltare un personaggio così combattivo!) ne ritardarono, però, la conclusione fino al 27 aprile
2003.
http://www.paginecattoliche.it/modules.php?name=News&file=article&sid=487
Renato CIRELLI
La battaglia di Vienna del 1683
tratto da: Voci per un «Dizionario del pensiero forte».
Lo scenario politico-militare nella seconda metà del Seicento, il secolo terribile che aveva sconvolto e
cambiato per sempre l'Europa, si presenta tutt'altro che pacifico. La Guerra dei Trent'Anni (1618-1648),
iniziata come guerra di religione, era continuata come conflitto fra la Casa regnante francese dei Borbone e
gli Asburgo per togliere a questi ultimi l'egemonia sulla Germania, che derivava loro dall'autorità imperiale.
Per raggiungere questo scopo il primo ministro francese Armand du Plessis, cardinale duca di Richelieu
(1585-1642), inaugurando una politica fondata sul solo interesse nazionale a scapito degli interessi
dell'Europa cattolica, si allea con i principi protestanti.
I Trattati di Westfalia del 1648 sanciscono l'indebolimento definitivo del Sacro Romano Impero e sulla
Germania, devastata e divisa fra cattolici e protestanti e frazionata politicamente, si stabilisce l'egemonia del
re di Francia Luigi XIV (1638-1715). Il ruolo dominante raggiunto in Europa spinge il Re Sole ad aspirare alla
stessa corona imperiale e, in questa prospettiva, egli non esita a cercare l'alleanza degli ottomani,
indifferente a ogni ideale cristiano ed europeo. Sul finire del secolo l'Europa cristiana è prostrata e ripiegata
su sé stessa fra divisioni religiose e lotte dinastiche, mentre la crisi economica e il calo demografico,
conseguenti alla guerra, completano il quadro e la rendono oltremodo vulnerabile.
L'offensiva turca
L'impero ottomano, che aveva ormai conquistato i paesi balcanici fino alla pianura ungherese, il 1° agosto
1664 era stato fermato nella sua avanzata dagli eserciti imperiali guidati da Raimondo Montecuccoli (16091680) nella battaglia di San Gottardo, in Ungheria.
Poco dopo però, sotto l'energica guida del Gran Visir Kara Mustafà (1634-1683), l'offensiva turca riprende,
incoraggiata incoscientemente da Luigi XIV nella sua spregiudicata politica anti-asburgica, e approfitta della
debolezza in cui versano l'Europa e l'Impero.
Solo la Repubblica di Venezia contende ai Turchi ogni isola dell'Egeo e ogni metro di Grecia e di Dalmazia
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combattendo orgogliosamente da sola la sua ultima e gloriosa guerra, che culmina con la caduta di Candia
nel 1669, difesa eroicamente da Francesco Morosini il Peloponnesiaco (1618-1694).
Dopo Creta, nel 1672 la Podolia - parte dell'odierna Ucraina - viene sottratta alla Polonia e nel gennaio del
1683, a Istanbul, vengono inastate le code di cavallo di battaglia in direzione dell'Ungheria e un immenso
esercito si mette in marcia verso il cuore dell'Europa, sotto la guida di Kara Mustafà e del sultano Maometto
IV (1642-1693), con l'intento di creare una grande Turchia europea e musulmana con capitale Vienna.
Le poche forze imperiali - appoggiate da milizie ungheresi guidate dal duca Carlo V di Lorena (1643-1690) tentano invano di resistere. Il grande condottiero al servizio degli Asburgo prende il comando benché ancora
convalescente di una grave malattia che lo aveva portato sull'orlo della morte, dalla quale - si dice - l'abbiano
salvato le preghiere di un padre cappuccino, il venerabile Marco da Aviano (1631-1699). Il religioso italiano,
inviato del Papa presso l'Imperatore e instancabile predicatore della crociata anti-turca, consiglia che tutte le
insegne imperiali portino l'immagine della Madre di Dio. Da allora le bandiere militari austriache manterranno
l'effigie della Madonna per due secoli e mezzo, fino a quando Adolf Hitler (1889-1945) le farà togliere.
Le «campane dei turchi»
L'8 luglio 1683 l'esercito ottomano muove dall'Ungheria verso Vienna, vi giunge il 13 luglio e la cinge
d'assedio. Durante il percorso ha devastato le regioni attraversate, saccheggiato città e villaggi, distrutto
chiese e conventi, massacrato e schiavizzato le popolazioni cristiane.
L'imperatore Leopoldo I (1640-1705), dopo aver affidato il comando militare al conte Ernst Rüdiger von
Starhemberg (1638-1701), decide di lasciare la città e raggiunge Linz per organizzare la resistenza della
Germania contro il tremendo pericolo che la sovrasta.
Nell'impero suonano a stormo le «campane dei turchi», com'era già accaduto nel 1664 e nel secolo
precedente, e inizia la mobilitazione delle risorse militari imperiali, mentre l'imperatore tesse febbrilmente
trattative per chiamare a raccolta tutti i principi, cattolici e protestanti, sabotato da Luigi XIV e da Federico
Guglielmo di Brandeburgo (1620-1688), e chiede l'immediato intervento dell'esercito polacco, appellandosi al
supremo interesse della salvezza della Cristianità.
Papa Innocenzo XI
In questo momento drammatico dà i suoi frutti la politica europea e orientale da anni promossa dalla Santa
Sede, soprattutto per merito del cardinale Benedetto Odescalchi (1611-1689), eletto Papa con il nome di
Innocenzo XI nel 1676, beatificato nel 1956 da Papa Pio XII (1939-1958).
Convinto custode del grande spirito crociato, il Pontefice, che da cardinale governatore di Ferrara si era
guadagnato il titolo di «padre dei poveri», ispira una politica lungimirante tesa a creare un sistema di
equilibrio fra i principi cristiani per indirizzare la loro politica estera contro l'impero ottomano. Avvalendosi di
abili e decisi esecutori come i nunzi Obizzo Pallavicini (1632-1700) e Francesco Buonvisi (1626-1700), il
venerabile Marco da Aviano e altri, la diplomazia pontificia media e concilia i contrasti europei, pacifica la
Polonia con l'Austria, favorisce l'avvicinamento con il Brandeburgo protestante e con la Russia ortodossa,
difende perfino gli interessi dei protestanti ungheresi contro l'episcopato locale, perché tutte le divisioni della
Cristianità dovevano venir meno davanti alla difesa dell'Europa dall'Islam. E, nonostante gli insuccessi e le
incomprensioni, nell'«anno dei Turchi» 1683 il Papa riesce a essere l'anima della grande coalizione cristiana,
trova il denaro in tutta Europa per finanziare le truppe di grandi e di piccoli principi e paga personalmente un
reparto di cosacchi dell'esercito della Polonia.
L'assedio
Intanto a Vienna, invasa dai profughi, si consuma la via crucis dell'assedio, che la città sopporta
eroicamente. 6.000 soldati e 5.000 uomini della difesa civica si oppongono, tagliati fuori dal mondo, allo
sterminato esercito ottomano, armato di 300 cannoni. Tutte le campane della città vengono messe a tacere
fuorché quella di Santo Stefano, chiamata Angstern, «angoscia», che con i suoi incessanti rintocchi chiama
a raccolta i difensori. Gli assalti ai bastioni e gli scontri a corpo a corpo sono quotidiani e ogni giorno può
essere l'ultimo, mentre i soccorsi sono ancora lontani. Sollecitato dal Papa e dall'imperatore, alla testa di un
esercito, muove a marce forzate verso la città assediata il re di Polonia Giovanni III Sobieski (1624-1696),
che già due volte aveva salvato la Polonia dai turchi. Finalmente il 31 agosto si congiunge con il duca Carlo
di Lorena, che gli cede il comando supremo, e, quando viene raggiunto da tutti i contingenti dell'impero,
l'esercito cristiano si mette in marcia verso Vienna, dove la situazione è ormai drammatica. I turchi hanno
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aperto brecce nei bastioni e i difensori superstiti, dopo aver respinto diciotto attacchi ed effettuato
ventiquattro sortite, sono allo stremo, mentre i giannizzeri attaccano, infiammmati dai loro predicatori, e i
cavalieri tatari scorazzano per l'Austria e la Moravia. L'11 settembre Vienna vive con angoscia quella che
sembra l'ultima notte e von Starhemberg invia a Carlo di Lorena l'ultimo disperato messaggio: "Non perdete
più tempo, clementissimo Signore, non perdete più tempo".
La battaglia
All'alba del 12 settembre 1683 il venerabile Marco da Aviano, dopo aver celebrato la Messa servita dal re di
Polonia, benedice l'esercito schierato, quindi, a Kalhenberg, presso Vienna, 65.000 cristiani affrontano in
battaglia campale 200.000 ottomani.
Sono presenti con le loro truppe i principi del Baden e di Sassonia, i Wittelsbach di Baviera, i signori di
Turingia e di Holstein, i polacchi e gli ungheresi, il generale italiano conte Enea Silvio Caprara (1631-1701),
oltre al giovane principe Eugenio di Savoia (1663-1736), che riceve il battesimo di fuoco.
La battaglia dura tutto il giorno e termina con una terribile carica all'arma bianca, guidata da Sobieski in
persona, che provoca la rotta degli ottomani e la vittoria dell'esercito cristiano: questo subisce solo 2.000
perdite contro le oltre 20.000 dell'avversario. L'esercito ottomano fugge in disordine abbandonando tutto il
bottino e le artiglierie e dopo aver massacrato centinaia di prigionieri e di schiavi cristiani. Il re di Polonia
invia al Papa le bandiere catturate accompagnandole da queste parole: "Veni, vidi, Deus vicit". Ancor oggi,
per decisione di Papa Innocenzo XI, il 12 settembre è dedicato al SS. Nome di Maria, in ricordo e in
ringraziamento della vittoria.
Il giorno seguente l'imperatore entra in Vienna, festante e liberata, alla testa dei principi dell'impero e delle
truppe confederate e assiste al Te Deum di ringraziamento, officiato nella cattedrale di Santo Stefano dal
vescovo di Vienna-Neustadt, poi cardinale, il conte Leopoldo Carlo Kollonic (1631-1707), anima spirituale
della resistenza.
Il riflusso dell'islam
La vittoria di Kalhenberg e la liberazione di Vienna sono il punto di partenza per la controffensiva condotta
dagli Asburgo contro l'impero ottomano nell'Europa danubiana, che porta, negli anni seguenti, alla
liberazione dell'Ungheria, della Transilvania e della Croazia, dando inoltre possibilità alla Dalmazia di restare
veneziana. E' il momento in cui maggiormente si palesa la grandezza della vocazione e della missione della
Casa d'Austria per il riscatto e per la difesa dell'Europa sud-orientale. Per svolgerla, essa mobilita sotto le
insegne imperiali le risorse di tedeschi, ungheresi, cèchi, croati, slovachi e italiani, associando veneziani e
polacchi, costruendo quell'impero multietnico e multireligioso, che darà all'Europa Orientale stabilità e
sicurezza fino al 1918.
La grande alleanza, che riesce a prender vita all'ultimo momento grazie a Papa Innocenzo XI, ricorda
l'impresa e il miracolo realizzati un secolo prima grazie all'opera di Papa san Pio V (1504-1572) a Lepanto, il
7 ottobre 1571. Per la svolta impressa alla storia dell'Europa Orientale la battaglia di Vienna può essere
paragonata alla vittoria di Poitiers del 732, quando Carlo Martello (688-741) ferma l'avanzata degli arabi. E
l'alleanza che nel 1684 viene sancita con il nome di Lega Santa vede un accordo unico fra tedeschi e
polacchi, fra impero e imperatore, fra cattolici e protestanti, animata e promossa dalla diplomazia e dallo
spirito di sacrificio di un grande Papa, tutto teso al perseguimento dell'obiettivo della liberazione dell'Europa
dai turchi.
In quell'anno si realizza una fraternità d'armi cristiana che dà vita all'ultima grande crociata e che, dopo la
vittoria e cessato il pericolo, è presto dimenticata; ma, dopo Vienna, in Europa le «campane dei turchi»
tacciono per sempre.
Per approfondire: vedi un quadro generale della situazione europea nel secolo XVI in AA.VV., Storia
d'Europa, vol. IV: L'Età Moderna. Secoli XVI-XVIII, Einaudi, Torino l995; una storia della Casa d'Austria in
Adam Wandruska, Gli Asburgo, trad. it., TEA, Milano l993; approfondimenti specifici in Ekkehard Eickhoff,
Venezia, Vienna e i Turchi. Bufera nel Sud-est europeo 1645-1700, trad. it., Rusconi, Milano l991; e in Jan
Wladislaw Wos, La Polonia. Studi storici, introduzione di Paolo Bellini, Giardini, Pisa 1992, capitolo VII:
Giovanni III Sobieski e la battaglia di Vienna (1683), pp. 153-177.
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UN SANTO CONTRO I TURCHI di Marco Respinti
In Austria lo chiamano Vater Markus von Aviano. Quando morì, il 13 agosto 1699, al suo capezzale
pregavano l’imperatore sacro e romano Leopoldo I d’Asburgo e l’imperatrice consorte Eleonora.
Se non ci fosse stato lui, e con lui il re polacco Jan Sobieski, oggi l’Occidente sarebbe tutta un’altra cosa.
Non è una boutade: lo storico inglese Edward Gibbon (non ceto uno zelatore del cristianesimo) è famoso per
aver detto che se Carlo Martello non avesse fermato i mori nel 732 a Poitiers, ai suoi tempi – il secolo XVIII –
il bestseller di Londra sarebbe stato il Corano.
Padre Marco d’Aviano nasce, “furlan”, il 17 novembre 1631. Cappuccino nel 1648, è sacerdote nel 1655. Nel
luglio 1683 il musulmano Kara Mustafà assedia Vienna. In settembre, per ordine di Papa Innocenzo XI,
Marco è sul posto. L’8 settembre (fausto, quell’anno) pronuncia un discorso memorabile durante la santa
Messa servita dal sovrano polacco e benedice l’esercito garantendo l’indulgenza plenaria. È la guerra.
Vienna è liberata il 12. Padre Marco ritiene la vittoria opera della Beata Vergine Maria. E il pontefice
estenderà la festa del Nome di Maria, celebrata in quella data, alla Chiesa universale.
Nel 1686 Buda viene liberata dopo 145 anni di giogo turco e il cappuccino è lì. Si spende anche a favore
della Lega di Augusta, che include i protestanti nella lotta cristiana contro la Mezzaluna.
Il 27 aprile 2003, Papa Giovanni Paolo II lo proclama beato.
Padre Marco d'Aviano: La battaglia di Vienna e Loreto
tratto da: santuarioloreto.it
Padre Marco, al secolo Carlo Domenico Cristofori, nacque ad Aviano (Pordenone) nel 1631. Studiò da
giovane presso i gesuiti. Nel 1648 entrò nell'ordine dei cappuccini e, ordinato sacerdote, si diede
all'apostolato della parola e della penna, divenendo presto famoso. Nel 1680 fu inviato in Germania dove
divenne confidente e consigliere di molti principi, tra i quali l'imperatore Leopoldo I d'Austria che lo chiamava
suo angelo tutelare. Fu al suo fianco nel 1683 come protagonista durante l'assedio di Vienna. Morì in quella
città nel 1699 e fu sepolto nella chiesa dei cappuccini.
Il nome di Padre Marco torna ora alla ribalta, dopo lungo tempo di ingiustificato oblio. Viene considerato uno
dei personaggi più importanti del suo tempo, soprattutto in riferimento al suo ruolo determinante, come
cappellano generale, nella vittoriosa battaglia di Vienna dell'11 settembre 1683, definita da qualche storico
"la madre di tutte le battaglie" perché ha chiuso il discorso militare con i turchi, desiderosi di occupare
l'Europa, decretando il loro irreversibile declino militare ed economico.
L'attenzione per il cappuccino oggi è considerevole. E' noto il romanzo scritto da Carlo Sgorlon "Marco
d'Europa", che nel titolo già evidenzia la sua grandezza. Il romanzo viene ora riproposto tra gli Oscar
Mondadori con un nuovo titolo: "Il taumaturgo e l'imperatore". Recentemente, Giuseppe Baiocchi, giornalista
della Rai, colpito della coincidenza dell'11 settembre, data della vittoria di Vienna del 1683 e data dell'attacco
alle Torri gemelle del 2001, ha messo a frutto le sue conoscenze storiche e ha ricostruito le vicende di quella
storica battaglia. Sulla base di tale ricostruzione, il regista Renzo Martinelli si è messo all'opera per
realizzare una riproduzione cinematografica dell'evento e ha cominciato a girare il suo Marco d'Aviano. Il
regista ha rilasciato questa dichiarazione al "Corriere della Sera" (12 febbraio 2002, p. 37): "Sarà una
pellicola piena di effetti spettacolari, ma di grande portata storica. Mi proporrò di illustrare la personalità del
frate predicatore anche per sottolineare la sua straordinaria attualità. Marco credeva fermamente alla
necessità di affermare l'identità culturale dell'Occidente di fronte alla sfida dell'Islam".
Il riconoscimento più alto al cappuccino di Aviano viene però dalla Chiesa. Infatti, il prossimo 27 aprile,
Giovanni Paolo II lo proclamerà beato, riconoscendo in lui l'esercizio eroico delle virtù cristiane. [...].
Padre Marco ha legato il suo nome al santuario di Loreto, perché dopo la vittoriosa battaglia di Vienna,
mentre il re polacco Giovanni Sobieski entrava trionfante a Vienna, lui lo accompagnava mostrando
un'immagine della Madonna di Loreto, alla cui intercessione fu attribuita quella memorabile vittoria.
Riproduciamo qui di seguito uno scritto di p. Arsenio d'Ascoli, già direttore della Congregazione Universale,
apparso nel suo volume "I papi e la Santa Casa" (Loreto, 1969, pp. 54ss), nel quale sono descritti gli aspetti
"lauretani" della battaglia di Vienna e il ruolo di padre Marco d'Aviano.
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"Dopo un secolo dalla disfatta di Lepanto (1571) i turchi tentavano per terra di sommergere l'Europa e la
cristianità. Maometto IV al principio del 1683 consegna a Kara Mustafà lo Stendardo di Maometto facendogli
giurare di difenderlo fino alla morte. Il Gran Visir, orgoglioso della sua armata di 300 mila soldati, promette di
abbattere Belgrado, Buda, Vienna, straripare in Italia, giungere fino a Roma e collocare sull'altare di S. Pietro
il trogolo del suo cavallo.
Nell'agosto del 1683 il Cappuccino P. Marco d'Aviano è nominato Cappellano Capo di tutte le armate
cristiane. Egli rianima il popolo atterrito, convince Giovanni Sobieski ad accorrere con la sua armata di 40
mila uomini.
L'immagine della Madonna è su ogni bandiera: Vienna aveva fiducia solo nel soccorso della Madonna. La
città era assediata dal 14 luglio e la sua resa era questione di ore.
Sul Kahlemberg, montagna che protegge la città dalla parte del nord, in una cappella, il P. Marco celebrò la
Messa servita dal Sobieski dinanzi a tutta l'armata cristiana disposta a semicerchio. P. Marco promise la più
strepitosa vittoria. Alla fine della Messa, come estatico, invece di dire: "Ite Missa est", gridò: "Joannes
vinces", cioè: "Giovanni vincerai".
La battaglia iniziò all'alba dell'11 settembre. Un sole splendido illuminava le due armate che stavano per
decidere le sorti d'Europa. Le campane della città fin dal mattino suonavano a stormo, le donne e i bambini
erano in chiesa a implorare aiuto da Maria. Prima di sera l'armata turca era in rotta, lo stendardo di
Maometto nelle mani di Sobieski, la tenda del Gran Visir occupata.
Il popolo era impaziente di contemplare il volto dell'eroe. Sobieski, preceduto dal grande Stendardo di
Maometto, vestito di azzurro e di oro, montato sul cavallo del Gran Visir, il giorno seguente fece il suo
ingresso solenne in città fra un delirio di popolo. Per ordine di Sobieski il corteo si diresse verso la chiesa
della Madonna di Loreto in cui si venerava una celebre immagine della SS. Vergine. A Lei era dovuta la
vittoria e ai suoi piedi tutto il popolo si prostrò riconoscente.
Fu celebrata una S. Messa e Sobieski rimase sempre in ginocchio come assorto. Il predicatore salì il pulpito
e fece un grande discorso di circostanza, applicando a Giovanni Sobieski il testo evangelico: "Fuit homo
missus a Deo cui nomen erat Joannes" ("Ci fu un uomo inviato da Dio, il cui nome era Giovanni").
La cerimonia proseguì grandiosa e solenne nella sua semplicità con particolari gustosi che mettono in rilievo
la fede e la bonomia di Sobieski. L'assedio aveva disorganizzato molte cose e la Chiesa di Loreto non aveva
più cantori. "Non importa" disse Sobieski, e con la sua voce potente intonò ai piedi dell'altare il "Te Deum",
che il popolo proseguì ad una sola voce.
L'organo e la musica non erano necessari: il coro della folla vi supplì con pietà, commozione, entusiasmo. Il
clero sconcertato non sapeva come concludere, e sfogliava messali e rituali per cercare un versetto.
Sobieski lo trasse d'imbarazzo: senza troppo badare alle rubriche, ne improvvisò uno e la sua voce sonora si
innalzò ancora potente su la folla: "Non nobis, Domine, non nobis!" ("Non a noi, Signore, non a noi!"). I
sacerdoti risposero piangendo: "Sed nomini tuo da gloriam" ("Ma al tuo nome dà gloria").
Sobieski inviò subito un messaggio al B. Innocenzo XI per annunziargli la vittoria. I termini della missiva
mostrano l'umiltà e la fede dell'eroe: "Venimus, vidimus, et Deus vicit" ("Siamo venuti, abbiamo veduto, e Dio
ha vinto").
Una solenne ambasciata portava al Papa il grande stendardo di Maometto IV, la tenda del Gran Visir e una
bandiera cristiana riconquistata ai Turchi.
Il B. Innocenzo XI, riconoscente alla Madonna di Loreto per la grande vittoria, inviò al Santuario la bandiera
ritolta ai Turchi e la tenda. La bandiera si conserva ancora nella Sala del Tesoro. La tenda fu portata
personalmente da Clementina, figlia di Sobieski, sposa a Giacomo II Re d'Inghilterra. Con la tenda fu
confezionato un prezioso baldacchino che si usa solo nelle grandi solennità; una parte servì per un
"apparato in quarto per pontificali".
Anche il Papa, come Sobieski, attribuiva la vittoria alla Vergine. Il suo ex voto fu l'istituzione di una festa in
onore del S. Nome di Maria. Il 25 novembre 1683 un atto della Congregazione dei Riti la estendeva a tutta la
Chiesa e la fissava nella domenica fra l'ottava della Natività di Maria e S. Pio X l'ha fissata per il 12
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settembre, giorno anniversario della vittoria.
Dopo la grande battaglia di Vienna, sotto le macerie fu trovata una bella immagine della Madonna di Loreto,
nei cui lati era scritto: "In hac imagine Mariae victor eris Joannes; In hac imagine Mariae vinces Joannes"
("In questa immagine di Maria sarai vincitore, o Giovanni; in questa immagine di Maria vincerai, o Giovanni").
Era certo un'immagine portata lì da S. Giovanni da Capistrano, più di 2 secoli prima, nelle lotte contro i
Turchi in Ungheria e a Belgrado.
Sobieski volle che P. Marco la portasse nell'ingresso trionfale a Vienna il giorno dopo la vittoria. La portò con
sé inseguendo il nemico e con essa riportò splendide vittorie contro i Turchi. La fece poi collocare nella sua
Cappella e ogni giorno faceva celebrare dinanzi a Lei la S. Messa e cantare le Litanie Lauretane.
Nella Cappella Polacca a Loreto il prof. Gatti ha voluto ricordare questo episodio collocando nel quadro della
parete di destra il P. Marco d'Aviano con il quadro della Madonna di Loreto in mano.
Il B. Innocenzo XI mise l'impronta della S. Casa con l'iscrizione: "Santa Maria di Loreto, pregate per noi",
negli "Agnus Dei" del primo e settimo anno del suo Pontificato.
San Giovanni Nepomuceno Sacerdote e martire
20 marzo
Napomuk, Boemia, 1330 - Praga, Boemia, 1383
Nacque nel 1330 a Napomuk, in Boemia, fu consacrato sacerdote a Praga e divenne predicatore di corte del
re Venceslao. La moglie del re, Giovanna di Baviera, conosciutolo, lo scelse come confessore. Il re, corrotto,
sospettava che Giovanna gli fosse infedele e la tormentava spesso per conoscere ciò che esisteva solo nella
sua mente. Si rivolse così a Giovanni per conoscere le confessioni della donna. Ma il santo si rifiutò di
rispondere. Nonostante le minacce Giovanni si mostrò inflessibile. Tale fermezza gli costò la condanna ad
essere gettato nel fiume Moldava. Sul ponte della città tra il sesto e il settimo pilastro venne gettato nella
corrente. Era l'anno 1383. (Avvenire)
Etimologia: Giovanni = il Signore è benefico, dono del Signore, dall'ebraico
Emblema: Palma, cinque stelle, abito talare
Martirologio Romano: A Praga in Boemia, san Giovanni Nepomuceno, sacerdote e martire, che nel
difendere la Chiesa patì molte ingiurie da parte del re Venceslao IV e, sottoposto a torture e supplizi, fu
infine gettato ancora vivo nel fiume Moldava.
Il suo culto dovrebbe tornare in auge, visti i sempre maggiori rischi di alluvioni ed esondazioni che
minacciano il nostro territorio. Ma lui, Giovanni di Nepomuk, che di ponti acque ed alluvioni varie da sempre
è il protettore, emerge dalle nebbie della storia in contorni un po’ sfocati al punto che nei primi decenni del
secolo scorso ne fu messa in dubbio addirittura l’esistenza e pertanto numerose sue statue sono state
abbattute o rimosse. Cominciamo subito dalla tradizione più antica, messa in dubbio specialmente in ambito
protestante, in cui si parla dell’eroismo di un certo “Magister Jan”, originario di Nepomuk in Boemia, che pur
di non tradire il segreto della confessione viene gettato vivo nella Moldava, morendovi per affogamento.
Protagonisti di questo macabro fatto di cronaca nera che si tinge di martirio, oltre al già citato prete Giovanni,
c’è naturalmente un re corrotto e vizioso, non a caso ribattezzato il “re fannullone”, quasi a confermare che
l’ozio è davvero il padre dei vizi. E poiché, sempre per rimanere nell’ambito della sapienza popolare, “chi ha
il difetto ha il sospetto”, ritiene che viziosi al pari di lui debbano essere tutti, a cominciare dalla regina sua
moglie, da lui quotidianamente tradita con le cortigiane di turno e dalla quale ovviamente pretende una
fedeltà adamantina. E tale è davvero questa povera regina, che nella fede ha cercato conforto alla sua
disastrata situazione coniugale, trascorrendo ore intere in preghiera e accostandosi spesso alla confessione
dal prete Giovanni, ottimo predicatore e famoso direttore di coscienze. Nella mente malata di re Venceslao si
è introdotto intanto anche il tarlo della gelosia, che prima gli fa immaginare una tresca della moglie con il
confessore e poi l’esistenza di un amante di cui il prete non può non essere a conoscenza. Crede di averne
conferma il giorno in cui questi lo svergogna nel bel mezzo di un pranzo luculliano, davanti ad illustri ospiti,
perché lo ha sentito ordinare, forse per scherzo, certamente con dubbio gusto, di far arrostire il cuoco che
non ha fatto cuocere bene l’arrosto. Il prete Giovanni, che sa fin troppo bene di cosa sia capace la testa
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matta del re, gli urla in faccia i suoi doveri di sovrano e di cristiano. Re Venceslao se la lega al dito e giura a
se stesso di fargliela pagare; così un giorno, prima con le buone, poi con le minacce, gli ordina di raccontare
per filo e per segno cosa la regina gli ha detto in confessione, nella speranza di sapere così finalmente
qualcosa sulle di lei presunte vicende amorose. Non ha però fatto i conti con la ferma volontà e l’eroismo del
prete Giovanni, che fermamente convinto dell’inviolabilità della confessione gli oppone un netto rifiuto. Il re si
vendica così di questo e dell’altro “sgarbo” facendolo gettare di notte nel fiume, il 20 marzo 1393; oggi
ancora si indica il posto esatto del ponte da dove sarebbe stato gettato e la gente qui passando si toglie il
cappello, perché quel prete è stato subito venerato come martire e, per via della morte che ha fatto, lo
invocano contro tutti i danni e i pericoli che possono venire dall’acqua. All’epoca della Controriforma, poi, i
Gesuiti ne propagandano il culto in polemica con la teologia protestante che rifiuta il carattere sacramentale
della confessione, e così Giovanni da Nepomuk (o Nepomuceno) diventa il “martire del confessionale”. Sarà
per questo motivo, o forse piuttosto perché le cronache si sono intrecciate e confuse, che compare un altro
(o sempre il medesimo?) prete Giovanni, sempre di Nepomuk, intelligente, culturalmente ben equipaggiato,
benvoluto dall’arcivescovo di Praga che lo vuole suo vicario. Sullo sfondo sempre il medesimo re Venceslao,
che secondo questa tradizione, oltre che vizioso e corrotto, si dimostra anche usurpatore dei diritti della
Chiesa. Per i suoi intrighi politici vorrebbe trasformare un’abbazia in sede vescovile da assegnare a persona
di suo gradimento, ma anche in questo caso si scontra con l’intransigente volontà di Giovanni, che non gli
cede neanche sotto le torture e che per questo viene gettato nel fiume il 16 maggio 1383. Certamente meno
suggestiva della prima, anche questa tradizione conferma in ogni caso la resistenza del prete Giovanni allo
strapotere del re e nulla, almeno in teoria, vieterebbe che, di entrambe potrebbe essere stato protagonista
l’unico eroico prete. Perché da un prete che, per non tradire la confessione, si lascia anche ammazzare ci si
può aspettare di tutto.
Autore: Gianpiero Pettiti
S. Giovanni Nepomuceno è il martire del sigillo sacramentale.
Nacque nel 1330 a Napomuk, in Boemia. Cominciò gli studi ecclesiastici nella città di Praga e fu consacrato
sacerdote dall’arcivescovo di quella città.
Appena ordinato, si diede con zelo alla sacra predicazione, e il re Venceslao lo volle come predicatore di
corte. Non passò molto tempo che l’arcivescovo, per dargli un premio volle eleggerlo canonico della
cattedrale e l’imperatore lo propose alla sede vescovile di Leitometitz. Spaventato il buon canonico di tanti
onori e responsabilità, riuscì a persuadere il sovrano a ritirare la sua proposta.
La moglie di Venceslao, la piissima Giovanna di Baviera, conosciutolo, lo elesse per suo confessore e
direttore di spirito. La buona regina passava ore intere dinanzi al Santissimo Sacramento, fuggiva anche
l’ombra del peccato ed era a tutti esempio di grande virtù. Però il re, corrotto, sospettava che Giovanna gli
fosse infedele e la tormentava spesso per conoscere ciò che esisteva solo nella sua mente. Riuscendo
naturalmente infruttuose tutte le sue investigazioni, e non essendo ancora convinto dell’innocenza della
consorte, deliberò di interrogare il suo confessore e farsi rivelare da lui, o per amore o per forza, quanto la
regina gli diceva in confessionale.
Chiamato a sé Giovanni, lo interrogò in belle maniere e con promesse di onori gli intimò di parlare.
Il Santo rabbrividì alla proposta e rispose con coraggio che in quella richiesta non poteva assolutamente
obbedirlo. Dopo essere stato minacciato della prigionia, e anche di peggio, fu richiamato dopo qualche
giorno a svelare quanto gli era stato ordinato. Ma Giovanni si mostrò inflessibile sia quella volta che una
terza, quando il re lo invitò a un pranzo. All’ennesimo fermo rifiuto il re ordinò ai suoi sgherri di gettarlo nel
fiume Moldava che passa per Praga. Di notte, perché non vi fosse il pericolo di una sommossa del popolo.
Giovanni venne condotto sul ponte della città e, tra il sesto e il settimo pilastro (dove ancora una croce
ricorda il delitto), venne gettato nella corrente. Era l’anno 1383.
Il mattino seguente però sulle sponde del fiume galleggiava un cadavere circondato da una luce misteriosa.
Fu tratta alla riva e si riconobbe Giovanni. Tutta la città fu sottosopra appena chiarito il mistero e conosciuto
l’autore del misfatto.
Con una processione, il corpo fu portato alla vicina chiesa di S. Croce, mentre ogni persona, piangente,
accorreva a baciargli i piedi e a raccomandarsi alla sua intercessione.
Autore: Antonio Galuzzi
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SANTA ELISABETTA D’UNGHERIA
Un nuovo ordine sociale
Arricchita dalla fede Cattolica, l’Europa giunse a nuovi gradi di civilizzazione e cultura sulle rovine dell’antica
Roma pagana. Un nuovo ordine sociale ricevette la sua vitalità dalle virtù sociali e personali adottate nella
vita della famiglia cristiana. Ciò non fu mai così chiaro come nel Medio Evo quando nelle case reali
d’Europa ci furono sovrani che erano dei santi. Questi uomini e donne - valorosi e virtuosi - valutarono la loro
santità come apice della loro nobiltà. Le nazioni cattoliche o prosperarono con la benedizione di Dio, o
pagarono le conseguenze dell’ infedeltà nei confronti dei loro doveri sacri.
In testimonianza della forza della Grazia di Dio, i guerrieri magiari, una delle comunità più violente e più
difficili da sottomettere, diedero alla Cristianità alcuni dei suoi più santi monarchi. Questa linea reale iniziò
con la conversione del capo dei Magiari, Geza, nel 975 AC , il cui figlio, S.Stefano, divenne re
d’Ungheria e regnò dal 1000 al 1038. Stefano e i suoi discendenti fecero di tutto per estendere l’influenza
della fede cristiana anche al di fuori del loro paese e in tutta Europa.
S.Elisabetta d’Ungheria brilla in questa famiglia come una delle stelle più lucenti. Nel breve arco di tempo
della sua vita terrena, 24 anni, realizzò mirabilmente i disegni di Dio prima come principessa, poi come
moglie, madre e vedova, insegnando a se stessa e trasmettendo alle generazioni seguenti l’incomparabile
valore della rinuncia a se stessi e della carità al servizio di Dio.
Stella Meravigliosa
Il padre di S.Elisabetta, Andrea II, ricco e potente re d’Ungheria, Galizia e Lodomeria, iniziò a regnare nel
1205. Era descritto come "valoroso, intraprendente, pio, generoso ed ottimista, che non ha mai pensato al
domani". Per rinforzare i legami politici sposò la contessa tedesca Gertrude di Andechs-Meran, diretta
discendente di Carlo Magno. La sorella della regina Gertrude, Hedwig, moglie del duca di Slesia, fu
proclamata Santa. Un’altra sorella era Badessa Benedettina e due fratelli erano cardinali, meglio detti
"principi della Chiesa".
Elisabetta nacque verso la metà del 1207, nel palazzo reale a Pozsony, odierna Bratislava, sul Danubio. I
suoi primi tre anni passarono felicemente con la sorella Maria e il fratello Bela, che un giorno sarebbe
succeduto al padre come re Bela IV. Fin dalla sua più tenera età Elisabetta amò la musica, la danza e
giocare in campagna, ma la sua più grande gioia era fare l’elemosina per alleviare le sofferenze dei poveri.
L’amore di Elisabetta bambina per la virtù e la preghiera corrisponde perfettamente al suo nome, che in
ebraico significa "adoratrice di Dio" o "consacrata a Dio". Ma non c’era per Elisabetta neanche la più remota
opportunità di seguire la strada della zia materna, la badessa Benedettina. Seguendo il costume di quel
tempo, suo padre, per ragioni politiche, combinò il suo matrimonio quando lei era ancora neonata. Stabilì
che Elisabetta sarebbe diventata Duchessa di Thuringia.
Hermann I, Langravio (Conte) di Thuringia, regione della Germania orientale, era patrono delle arti e uno dei
sovrani più ricchi ed influenti di tutta Europa al principio del XIII secolo. Era cugino dell’imperatore del Sacro
Romano impero, Federico II. Il Wartburg, suo storico castello, era centro di magnificenza e cultura. Ma
nonostante la gloria del suo regno, questo era pieno di scompiglio: i principi feudali erano in guerra l’un l’altro
ed in conflitto con le autorità reali ed imperiali. Le relazioni amichevoli e il supporto alle potenti nazioni
straniere erano importanti allora come non mai. Hermann non aveva perso tempo nel raccogliere
informazioni su possibili alleanze vantaggiose cercando una moglie appropriata per il suo giovane figlio
Ludwig [Ludovico].
La felice realizzazione di tale intento giunse piuttosto inaspettata. Un pomeriggio, il grande Kingslohr,
padrone dei "minnesingers", o trovatori tedeschi, intimorì tutti al castello di Wartburg con una sbalorditiva
profezia: "Vedo una meravigliosa stella brillare in Ungheria" - disse in trance - "i suoi raggi giungono fino
a Marburg, e da qui si estendono in tutto il mondo. Sappiate inoltre che lì è nata al mio signore, re
d’Ungheria, una figlia il cui nome è Elisabetta. Lei sarà data in matrimonio al figlio del vostro principe,
diventerà una Santa e la sua santità allieterà tutta la Cristianità".
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Il Langravio Hermann prese le parole di Kingslohr molto sul serio, e iniziò un’indagine scrupolosa tra tutti
coloro che venivano dall’Ungheria, per sapere di quella principessa nata in quella notte. Compiaciuto di tutto
ciò che udiva di lei, iniziò a fare progetti per il fidanzamento di Elisabetta con suo figlio.
Felicemente inconsapevole di tutte le strategie politiche che la circondavano, Elisabetta, a soli quattro anni,
dovette all'improvviso rinunciare alle gioie dell’infanzia innocente. Giunse infatti dalla lontana Turingia un
drappello di cavalieri per prendere la principessa e portarla alla sua nuova casa. Secondo i costumi
dell’epoca, sarebbe cresciuta lì con il suo futuro marito e la sua famiglia, così avrebbe appreso
quell'educazione e modi convenzionali tipici di una corte reale per poter diventare una buona moglie per il
futuro sovrano.
I cavalieri di Thuringia scortavano un’ambasciata con due carrozze al seguito. Dopo tre giorni di feste e di
servizi religiosi, lasciarono l’Ungheria con tredici carrozze, caricate con la dote di Elisabetta e i magnifici
doni per la corte di Turingia. Come ricordano antiche cronache: "Molti e meravigliosi vasi d’oro e
d’argento; i più preziosi diademi, anelli, collane, cinture piene di gioielli; un bagno d’argento, innumerevoli
vestiti, cuscini e copriletti di seta color porpora; cose di un tale valore e bellezza che mai erano state viste
nella terra di Thuringia."
Oltre queste meravigliose cose, vi erano sei stupendi cavalli arabi per Elisabetta, insieme ad attendenti e
cavalieri. Al suo seguito c'erano anche servitori ungheresi così come le sue personali ancelle, due delle quali
le rimarranno amiche fedeli fino alla fine. E' a loro che siamo debitori di molte informazioni biografiche su
Santa Elisabetta.
Prima di partire, re Andrea pose sua figlia, "luce dei suoi occhi e gioia della sua vita," nelle mani del conte
Walter di Varila: "Promettimi sulla fede di cavaliere cristiano che sarai sempre un vero amico della mia
bambina e che la proteggerai." Varila promise: "La proteggerò e le sarò sempre fedele." La regina Gertrude
diede il suo addio alla sua bambina piuttosto freddamente, dicendo: "Agisci come una principessa."
Successivamente la bambina saprà che la madre due anni dopo era stata uccisa da un gruppo di ribelli.
Il viaggio dal suo luogo natale alla sua nuova casa, la città di Eisenach, in Turingia, durò diversi mesi,
poiché l’entourage reale fu salutato lungo la strada con molte feste. Alla fine giunsero al castello di
Wartburg, una costruzione sulla vetta di una montagna circondata da più di cento miglia di scura foresta,
massiccio castello centenario che serviva da fortificazione per i villaggi circostanti. Le pareti esterne erano
spesse dieci piedi e quelle interne sei. Così viene descritto: "Mura di pietre con pesanti cancelli e torri di
controllo, il ponte levatoio, gli inaccessibili parapetti, una prigione sotterranea, una fortificazione stretta, alta,
dove ci sono preziosi possessi e gli approvvigionamenti extra sono immagazzinati su diversi piani con
coperture a volta, cantine scure ed umide, cucine e panetteria, stanze dei servi e giardini e stalle…"
Al suo arrivo la principessa fu accolta dal Langravio Hermann Langrave e da sua moglie Sophia, che le
presentò la sua nuova famiglia: il suo fidanzato, Ludwig, di undici anni, e gli altri suoi figli, Hermann, 10
anni, Agnes, 4, Hermann Raspe e Conrad. A questa famiglia si aggiunsero altri sei bambini nobili di
Thuringia, come compagni di gioco di Elisabetta. Due, chiamati Guda e Isentrude, saranno i suoi più cari
amici per tutta la vita. Il fidanzamento ufficiale dei due ragazzi ebbe luogo nella Cappella del castello,
dove il vescovo benedì Elisabetta e Ludwig.
Fu "amore a prima vista", per quanto possibile tra bambini. Tra loro si chiamavano "fratello e sorella." La loro
gioia era farsi compagnia e quando erano piccoli trascorsero quanto più tempo possibile insieme, ma come
futuri sovrani di un regno potente entrambi avevano molto da imparare.
Sotto la tutela della madre di Ludwig, Sophia, Elisabetta e le sue compagne studiarono tedesco,
francese, latino, la storia del reame, musica, letteratura e ricamo, così come la cura dei lini, tappezzerie e
guardaroba. Di capitale importanza, comunque, era l’addestramento dettagliato sul come essere " una futura
regina di Landgrave."
Nel frattempo Ludwig effettuava i suoi esercizi come futuro sovrano di Thuringia. Come era tradizione per
chi doveva divenire cavaliere, divenne "paggio" all’età di sette anni. Imparò a servire i signori e le dame con
modi perfetti. Come cavaliere, avrebbe avuto i propri attendenti, un’armatura ed un cavallo. Anche a lui fu
insegnato il latino, francese, musica, matematica, abilità equestri e le arti militari.
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Si dice che Ludwig fosse ineguagliabile dal punto di vista fisico e mentale. Era il ritratto perfetto di un
cavaliere medievale: "alto, ben proporzionato, affascinante, attirava chiunque gli si avvicinasse, abile nei
discorsi, prode ed intrepido." Fu Elisabetta ad elevare queste qualità ad un livello soprannaturale,
insegnando a Ludwig ad agire per amore di Dio.
Questa è una delle caratteristiche che contraddistingue la Santa che diventerà Elisabetta. Lei non ha mai
voluto, neanche per un minuto, qualcosa che non fosse in conformità alla volontà di Dio, e ha sempre
sentito che la sua unione con Ludwig era voluta dal Signore. Amando Ludwig, obbediva alla volontà
Divina, quindi, amava Dio. Automaticamente questo spostò il loro amore su un altro piano, tenendolo lontano
dall’essere macchiato dal mero affetto carnale. Erano pronti ad acquisire la santità voluta per loro
dall’Eccelso Dio.
Fu provvidenziale che Ludwig avesse preso il suo addestramento educativo così seriamente, poiché dovette
iniziare a regnare in giovane età, a causa della morte del padre nel 1217. La causa della tragica morte del
vecchio Landgrave è attribuibile alle sue difficoltà politiche ed alle sue alleanze contro la Chiesa, che
sfociarono nella sua scomunica. Nel medioevo la scomunica era considerata una punizione estrema.
Questa censura più seria fu imposta per la correzione dell’offensore e per la difesa del fedele.
Per un sovrano la scomunica significava esclusione da tutti i servizi divini, dalla preghiera pubblica e dai
sacramenti della Chiesa, e se avesse perseverato sarebbe stato costretto a perdere il suo ufficio, ed i suoi
sudditi sarebbero stati sciolti dall’obbligo di fedeltà a lui. Questo colpo, insieme alla perdita di suo figlio
Hermann, lo fecero uscire di senno e per qualche tempo Ludwig ha dovuto agire al suo posto. Poi un giorno
Landgrave andò a cavalcare e non tornò mai più.
Elisabetta fu molto colpita per la morte di suo suocero, per chi cioè, oltre Ludwig, l'aveva amata più di
chiunque altro. Pregò intensamente per la sua anima. Elisabetta e Ludwig piansero sulla seguente preghiera
trovata nel libro delle preghiere di Sophia Landgrave: "A Te, Gesù, raccomando l’anima del Tuo servo,
Hermann, che anche se si è macchiato di qualche crimine o peccato, è ancora una Tua creatura per cui il
Sacro Sangue di Cristo è stato versato e che ripone in Te le sue speranze. Proteggilo dal male oggi e
sempre. Rendilo libero dal potere e dalla violenza dei suoi nemici. Salvalo dalla paura del corpo e
dall’improvvisa morte. Lo raccomando a Te con la speranza e la fede che possa essere salvato."
Dopo un periodo di lutto, Ludwig fu fatto cavaliere all’età di diciotto anni, piuttosto che all’età consueta di
ventuno, e prese il nome di Ludwig IV [Ludovico IV], Landgrave di Thuringia. Il vescovo di Naumberg
presiedette l’elaborata cerimonia. Secondo l'uso del tempo feudale, Ludwig pagò l’omaggio a Federico II
come suo vassallo e a sua volta ricevette l'omaggio dei suoi nobili sudditi.
Conosciuto per la sua onestà e nobiltà d’animo, il giovane Langravio fu molto rispettato dagli altri sovrani. Il
suo cappellano privato lo descriveva come "allegro, coraggioso, pio, modesto, casto e solo." Elisabetta fu
felice del pegno di Ludwig: "La mia anima appartiene a Dio, la mia vita al mio sovrano, il mio cuore alla mia
signora, Elisabetta, ed il mio onore a me stesso." Per rispetto ai poveri, ordinò che la tradizionale cerimonia
fosse ridotta ad un banchetto. Ciò irritò la corte, che lo accusò di essere stato influenzato da Elisabetta.
Santa nella Corte del Sovrano
Fin dal principio, Elisabetta disprezzò le vanità della vita di corte. Fu spesso rimproverata per la sua
mancanza di attenzione ai dettagli tradizionali. Ma non fu la noncuranza che la rese diversa, ma piuttosto la
sua profonda spiritualità, che le fecero apparire le vanità del mondo insignificanti e senza importanza.
Come sacrificio, non avrebbe voluto indossare alcun segno distintivo del suo rango nei giorni Santi. In
quanto principessa aveva un guardaroba pieno di splendidi abiti, che indossava solo per adempiere agli
obblighi del suo stato e per compiacere suo marito. Anche quando appariva in abiti splendenti, le donne al
suo servizio sapevano che sotto portava una camicia penitenziale, per non permetterle di divenire troppo
attaccata alle vanità terrene.
Già a dodici anni Elisabetta stupì la corte per la sua noncuranza nei confronti di sfarzi e feste. Nella festa
dell’Assunzione fu obbligata a partecipare alla Messa solenne in abiti magnifici: "Ciò significava che lei e le
principesse sarebbero state vestite con ricchi abiti di seta e velluto, lunghe maniche ricamate e sopravvesti
con pelliccia, con magnifici lunghi mantelli portati dai paggi, guanti cuciti con perle e pietre preziose, e le loro
persone sarebbero state adornate con catene d’oro e gioielli. Le giovani principesse probabilmente non
indossavano il tradizionale cappuccio di lino ma veli sciolti e coroncine sui capelli fluenti. Entrando nella
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Chiesa adornata si inginocchiarono prima dinanzi il crocifisso, poi Elisabetta, invece di raggiungere il suo
posto d’onore insieme agli altri, si tolse la corona lasciandola dinanzi alla croce e rimase prostrata al suolo
con il viso coperto."
Tutti gli occhi si voltarono verso la futura sposa di Landgrave. Quando sua madre la corresse così come
voleva il protocollo, Elisabetta rispose, "Come posso io, creatura miserabile, continuare ad indossare una
corona di dignità terrena, quando vedo il mio Re, Gesù Cristo, coronato con delle spine?"
Con tutto il suo cuore desiderava ricevere il Nostro Divino Signore nella Santa Comunione, ma doveva
aspettare, così come richiesto dalla tradizione, che fosse dodicenne. Solo a Guda, la sua più cara amica,
confidò che Gesù si era mostrato a lei molte volte nell’Eucarestia e nella povertà. Un giorno, mentre
distribuiva il cibo al cancello del castello, vide Gesù tra i mendicanti. Lui toccò quelli intorno a Lui ed i loro
volti cambiarono in Lui, mostrandole che poteva vederlo nei poveri, negli ammalati, deformi ed indesiderati.
Non poteva più permettere che la sua naturale ripugnanza la tenesse lontana dai poveri, o che fosse
respinta dalla loro sporcizia o bruttezza. Sapeva per certo che Nostro Signore le stava chiedendo di
prendersi cura degli afflitti. Questo causò un tumulto a corte, dove già la consideravano una straniera
e la chiamarono la "piccola zingara ungherese". Se non fosse stato per il fidanzamento con Ludwig, che
perorò la sua causa, la vita le sarebbe stata insopportabile.
La pietà di Elisabetta era così presente nelle sue azioni che avrebbe persino potuto giocare nella
consapevole presenza di Cristo. Oltrepassate le mura esterne della cappella del castello, avrebbe baciato
riverentemente le pietre. Siccome cresceva in maturità, questo irritava le donne di corte, le imbarazzava e
borbottavano che era troppo santa, pregava troppo e sarebbe dovuta diventare una suora invece di
fidanzarsi con un principe.
A questo punto giunse la notizia che le cose in Ungheria non andavano molto bene. Suo padre, re
Andrea, che aveva promesso di condurre una Crociata, aveva invece fatto una spedizione pacifica
attraverso Gerico ed il Mar Rosso, e si ritirò dopo un breve incontro con i Saraceni. Tale umiliazione, insieme
alla sua incapacità di restituire il denaro che avevo preso in prestito per la spedizione, fu la causa della sua
caduta. Ora l’alleanza ungherese non sembrava più così promettente per i Thuringiani e così cominciarono
a riconsiderare la scelta di Elisabetta come partito per il futuro Landgrave.
La questione cominciò ad essere ampiamente discussa e subito la madre di Ludwig convocò un
Consiglio a sua insaputa. Il principale rimprovero nei confronti di Elisabetta fu la sua pietà e la sua
prodigalità verso i poveri. Non le potevano essere affidati dei soldi per il bene del reame. Elisabetta venne a
conoscenza del Consiglio e si difese da sola. Dopo aver pregato per molte ore, confidò a Walter de Varila, il
cavaliere a cui era stata affidata dal padre, che temeva una cospirazione per separarla dal suo amato
Ludwig.
Varila aggirò il Consiglio di corte e chiese direttamente a Ludwig quali fossero le sue intenzioni riguardo la
sorte di Elisabetta. Ludwig, puntando ad una delle vette più alte di Thuringia, disse che anche se quell’intera
montagna fosse diventata oro, lui non l’avrebbe scambiata con la sua Elisabetta. "Mi è cara più di ogni
altra cosa sulla terra e non avrò nessun’altra come sposa se non lei."
Quando la determinazione di Ludwig fu manifesta, il mormorio cessò ed Elisabetta fu trattata più
gentilmente. Altre prove però cominciarono ad intervenire, creando molti ostacoli per le nozze. La più grande
fu la falsa scomunica di Ludwig da parte di un arcivescovo che aveva tentato di prendersi le sue terre.
Ludwig rifiutò di cedere ai suoi diritti per delle richieste ingiuste e raggruppò le sue truppe per combattere,
costringendo il prelato ad ammettere il suo errore e ad estinguere la scomunica per lui e suo padre.
Un santo matrimonio
Finalmente, nella primavera del 1221, Elisabetta e Ludwig si sposarono. Lei aveva quattordici anni
mentre lui ne aveva ventuno. L’intero regno era presente, così come un corteo di inviati del Regno Magiaro,
che recarono doni dalla terra natia della sposa. Elisabetta era ora una "Langravia di Turingia" nonché
"Signora di Wartburg". Dopo una settimana di feste, la vita tornò alla normalità e la nuova coppia fu libera di
governare il castello senza l’interferenza della madre di Ludwig, ritiratasi alla vita monastica nel convento
cistercense di Santa Caterina, costruito da suo marito.
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Il castello di Wartburg ancora una volta divenne il centro di attività ed allegria. Questo subì dei cambiamenti
da parte dei nuovi Landgrave, inclusa una stanza dei banchetti più grande. Tornarono i trovatori e
ricominciarono tempi felici, senza le stravaganze del regno precedente. Ludwig era molto fiero di sua moglie
prodigamente vestita, ma era inconsapevole dei motivi religiosi che si celavano dietro la sua apparenza.
"Non è per il piacere carnale o la vanità che io mi adorno così," confidò, "Dio mi è testimone, ma solo
attraverso la carità cristiana posso rimuovere da mio fratello [dal mio sposo] tutte le occasioni di
scontentezza o peccato, se qualcosa in me potesse dispiacergli, e lui può amare me nel Signore, e Dio, che
ha consacrato le nostre vite sulla terra, può unirci in Paradiso." Ed ancora: "È in Dio che io amo mio marito;
possa Lui, che santificò il matrimonio, concederci la vita eterna."
La santità di questa giovane sposa è meglio descritta da San Francesco da Sales che disse di lei: "Giocava
e danzava ed era presente alle riunioni di ricreazione, senza pregiudizio per la sua devozione, che era
profondamente radicata nella sua anima. La sua devozione crebbe tra le feste e le vanità cui la sua
condizione sociale la espose. I grandi fuochi sono alimentati dal vento, mentre quelli piccoli sono estinti, se
non protetti da questo."
La nuova sala per i banchetti dava loro nuove opportunità di intrattenere. Una notte un narratore tedesco di
storie apparve nell’abito grigio dell’ordine appena fondato dei Frati Minori. Intrattenne la festa con i suoi
racconti del "povero piccolo ricco uomo" chiamato Francesco e del suo nuovo ordine. Elisabetta fu
favorevolmente scossa da tutto ciò che aveva udito e desiderò diventare una seguace di San Francesco ed
aiutarlo a ricostruire la Chiesa. Trovò la sua strada nell’aiutare i poveri.
I poveri
Quando Ludwig era assente lei si toglieva i suoi ricchi abiti e vestiva come una contadina in lutto. Poi
andava per il villaggio ad aiutare i suoi sudditi e ad ascoltare i loro problemi. Vide come vivevano ed
apprese cosa realmente pensavano dei loro sovrani; apprese come odiavano le persone ricche che lo
diventavano a loro spese. I contadini lavoravano duramente, dovevano pagare tasse pesanti e spesso dai
nobili erano trattati male. Le sue ancelle la accompagnavano in queste missioni di misericordia… finché, da
sola, andò alla colonia dei lebbrosi. Portò cibo e vestiti, ma - cosa ancora più importante - portò l’amore e
la consolazione dell’insegnamento Cattolico.
Era il ritratto perfetto della Carità Cristiana, ed usò i molti mezzi a sua disposizione per pagare debiti,
comprare cibo e vestiti e per pulire, prendersi cura e seppellire i morti. La sua carità sfidò l’intero sistema
feudale. Sicuramente le azioni di Elisabetta non accrebbero la sua popolarità a corte. Ancora una volta vinse
il pettegolezzo.
Elisabetta cominciò a sentire un grande conflitto dentro di sé e si sentì come se stesse conducendo una
doppia vita. Nonostante lei e Ludwig partecipassero ogni giorno alla Messa, c’erano molti doveri mondani cui
badare. Temeva che il suo amore per suo marito competesse con quello per Dio. Un giorno durante la
Messa cominciò a piangere mentre fissava Ludwig durante la Benedizione. Ludwig, inconsapevole del
motivo del suo dolore, lasciò la cappella e al suo ritornò la trovò ancora in lacrime. Anche lui iniziò a
piangere quando lei gli spiegò il motivo della sua tristezza. Fu profondamente colpito dalla purezza del suo
animo.
Si mortificava spesso alzandosi nel mezzo della notte per pregare al lato del letto. Ludwig, allungandosi,
trovava le sue fredde mani strette alla coperta, e cingendole con le sue diceva: "Risparmiati, piccola sorella."
Una volta la incontrò mentre correva per la strada con il suo grembiule pieno di pane per i poveri. Quando le
chiese cosa stesse portando, lei lasciò cadere il grembiule… ed invece di pane comparvero magnifiche e
fresche rose...
Una volta, dopo aver trascorso tutto il giorno distribuendo elemosina tra i poveri, a Ludwig accadde di
ritornare con un seguito di nobili ungheresi, venuti nel nome del re Andrea per sondare la situazione
della figlia e per invitare la nuova coppia in Ungheria. Elisabetta aveva appena dato via tutti i suoi
bellissimi abiti ed indossava una grezza camicia di lana. Vedendo la preoccupazione di Ludwig, disse: "Non
mi sono mai vantata di ciò che indossavo. Ma parlerò di ciò con Dio, cosicché possa darsi che non notino i
miei vestiti." Quando entrò nella grande sala, gli Ungheresi la guardarono compiaciuti poiché "i suoi abiti
erano di seta, giacinto e brillavano con una rugiada di perle!" Successivamente, quando Ludwig la interrogò,
lei rispose dolcemente: "Quando piace a Dio, Lui sa il modo per fare tali cose."
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Ludwig ed Elisabetta accettarono l’invito di recarsi in Ungheria, ed abitarono nel Castello di Pozsony,
dove lei era nata. Fu festeggiata e lodata con regali da suo padre, che non avrebbe mai più rivisto.
Nonostante il felice ritorno a casa, Elisabetta fu in pensiero perché sapeva che i soldi utilizzati per questo
viaggio provenivano dai soldi delle tasse prelevate dai poveri del regno. Fu affranta all’idea che i sovrani
pensassero più al potere, alla comodità e al denaro piuttosto che ai loro sudditi. Desiderò condurre una vita
semplice e cercò di convincere Ludwig ad accettare i suoi desideri. Lui le spiegò gentilmente che era loro
dovere governare e che i loro sudditi non li avrebbero rispettati se avessero vissuto con meno dispendio.
Avanzando nella Santità
In quegli anni i Frati Minori giunsero in Germania con il loro appello a tutti i Cristiani di praticare la carità
verso i poveri. Furono invitati da Elisabetta e Ludwig al loro castello, dove cercarono di aiutarli in ogni
modo possibile. Elisabetta costruì una cappella per i frati, e per gratitudine San Francesco le mandò il suo
mantello logoro per ringraziarla. Divenne uno dei più grandi tesori di Elisabetta. In risposta alle sue
preghiere, uno dei frati divenne suo maestro spirituale. Sotto la sua guida lei si avvicinò sempre di più a
Nostro Signore, la cui Passione era la sua devozione primaria e la fonte della sua forza.
Il 28 Marzo 1222, mentre il marito non c’era, nacque il primo figlio di Elisabetta. Ludwig fu immensamente
felice quando apprese la notizia. Lo chiamarono Hermann, come suo padre. Appena possibile, la giovane
madre portò il figlio alla cappella di Santa Caterina, per presentarlo a Dio. Lo portò nella stessa culla
d’argento che aveva portato lei a Thuringia dieci anni prima.
Ora la preoccupazione che questo figlio potesse essere un legame verso la terra, tenendo il suo cuore
lontano da Dio, la ossessionava, ma il suo confessore le disse: "Il tuo dovere ora è verso tuo figlio… Dio si
rallegra se ognuno pratica la virtù secondo la sua posizione di vita. Tu sei una sovrana, una moglie ed
una madre. È molto difficile, ma non impossibile praticare la povertà pur essendo un ricco sovrano. Ma tu
potrai praticare altre virtù come la pazienza, l’umiltà e la carità così come fai ora. Potrebbe essere la volontà
di Dio che tu rimanga così come sei. La tua più grande offerta potrebbe essere rinunciare alla tua
volontà."
Seguendo questo buon consiglio, divenne una vera seguace di San Francesco. Uno dei suoi preferiti atti di
carità era verso i lebbrosi, ed una volta sua cognata, Agnes, incontrò Ludwig al suo ritorno a casa per dirgli
che Elisabetta era andata troppo oltre con la sua carità. Entrarono in casa e chiusero le tende, per mostrare
a Ludwig che il suo letto era stato dato ad un lebbroso. Nel momento in cui lui fissò l’uomo, i lineamenti
sfigurati cambiarono dinanzi ai loro occhi nel volto di Cristo. Ludwig disse gentilmente: "Elisabetta, cara
sorella, è Cristo che hai lavato, cibato e di cui ti sei presa cura. Facciamo tutti e due ciò che possiamo per
servirlo, servendolo nei Suoi poveri che soffrono." Così costruirono un ospedale per i lebbrosi.
Ludwig si accorse che non aveva a che fare con una donna comune, e qualche volta i suoi miracoli lo
spaventavano. Scrisse al Papa per chiedere un direttore spirituale per lei e che fosse inviato Padre Conrad.
Ma prima del suo arrivo nacque un altro figlio, una bambina che chiamarono Sophia, come la madre di
Ludwig.
Diversamente dai Francescani, il nuovo confessore di Elisabetta provò ad essere aspro e severo. Con il
permesso di Ludwig ed in sua presenza, Elisabetta promise a Padre Conrad che gli avrebbe obbedito in
tutto tranne in ciò che riguardava i suoi obblighi matrimoniali. Fece anche il voto di osservare la castità
perpetua nel caso in cui fosse divenuta vedova.
Conrad rivelò, dopo la morte di Elisabetta, che nel momento in cui fece questo voto, Dio gli permise di
vedere la radiosità della sua anima in tutta la sua bellezza. Lui pregò perché avesse la capacità di guidare
una tale anima, affidata alle sue cure. Una volta le fece promettere di non mangiare alcun cibo proveniente
dal lavoro ingiusto del contadino o che fosse cresciuto su terre prese con forza.
Nell’inverno del 1225, Agnes, la sorella di Ludwig, lasciò Watburg per sposarsi. Questo liberò Elisabetta
dalla lunga pena della presenza della cognata. Comunque una nuova prova la attendeva. Quell’inverno fu
uno dei peggiori nella storia dell’Europa a causa di allagamenti, carestia, peste e vaiolo. Ludwig era
fuori al servizio dell’imperatore, lasciando così nelle mani di Elisabetta, che aveva solo 19 anni, la
responsabilità di castelli, villaggi e vassalli.
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Appena l’inverno terminò, i contadini presero d’assalto il castello di Wartburg per il grano. Gli amministratori
sbarrarono la strada. Quando Elisabetta udì ciò pianse e andò personalmente nei villaggi per distribuire
quanto più cibo possibile. Gli amministratori non le disobbedirono completamente, ma furono determinati
affinché non desse via la riserva di grano.
Disperata, la regina Landgrave vendette i suoi gioielli di famiglia per comprare del cibo e quando questo finì,
ordinò che i granai fossero aperti. "Non moriremo di fame se saremo generosi. Dobbiamo avere fede",
diceva. Ma i cavalieri e le dame di corte reagirono contro Elisabetta e si unirono agli amministratori e al
Balivo nel bloccare la linea di condotta della regina. Lei pregò, e finalmente il Balivo aprì le porte. Elisabetta
ottenne quindi 900 pagnotte di pane cotte al forno ogni giorno, furono aperte cucine per le zuppe e fu
costituito un ospizio per bambini e ragazzi.
Finalmente il crudele inverno passò, ma fu seguito subito da un’epidemia di vaiolo. I defunti giacevano per
le strade. Elisabetta portò i suoi bambini nella loro cappella privata e pregarono: "Signore Dio, affido me
stessa, i miei bambini e tutta la mia famiglia a Te. Proteggimi mentre compio la Tua volontà e concedimi la
forza per farlo." Così uscì per curare i malati e seppellire i morti, rendendo sudari i veli che indossava.
Nelle aree rurali, le donne ed i loro servi la aiutavano ed Elisabetta costruì un piccolo ospedale sulla
strada situata ai piedi del castello. In Germania fu il primo ospedale costruito da laici. Giunse l’estate e
per le strade il calore rese insopportabile l’odore delle malattie e della morte. Ma ciò non ostacolò Elisabetta
nel compimento della sua opera di carità che portò avanti fin quando la piaga terminò.
Con l’arrivo dell’autunno, un nuovo raccolto e il ritorno di Ludwig erano la promessa di un inverno migliore.
Ma appena si avvicinò alla città, il Maresciallo ed il Balivo lo informarono del grano distribuito e lo avvertirono
delle sue perdite. Dopo aver ascoltato i loro reclami, chiese loro: "Mia moglie sta bene? Questo è tutto ciò
che voglio sapere; il resto non ha importanza. Lasciate che dia ai poveri ciò che vuole; fin quando avrò il suo
amore, sono contento." Poi andò con loro ai granai. Quando li aprirono si accorsero che erano
miracolosamente pieni fino all’orlo. La spiegazione di Elisabetta fu: "Ho dato a Dio ciò che è di Dio e
Lui ha conservato ciò che è vostro e mio."
La croce di Elisabetta
Ciò di cui Ludwig non parlò alla moglie al suo ritorno fu della disastrosa situazione politica
dell’imperatore. Allora Federico era minacciato di essere scomunicato, per non aver adempiuto alla
promessa fatta di condurre una Crociata una volta eletto imperatore. Il dovere di Ludwig era ora di
impegnarsi prontamente nel seguire l'imperatore ed indossare la Croce del Crociato.
Lui non voleva comunicare la notizia alla sua amata moglie, ma quando lei lo scoprì casualmente, anche se
in qualche modo aveva il sospetto che sarebbe successo, quasi svenne dal dolore. Ludwig la consolò,
ricordandole che quando erano giovani avevano parlato di diventare crociati e che era una tradizione per i
sovrani di Turingia difendere la Terra Santa. La sua eroica moglie rispose: "Non ti tratterrò. È la volontà di
Dio. Ho dato tutta me stessa a Lui ed ora devo dare anche te."
Prima di partire, Ludwig radunò cavalieri e vassalli che sarebbero rimasti e ordinò loro di prendersi cura delle
donne e dei bambini. "Il nostro paese è in pace," disse, "Ora lascio il mio pacifico regno, la mia amata
moglie, i miei piccoli bambini, tutto ciò che mi è caro, e parto come pellegrino di Cristo. Vi imploro di pregare
per me ogni giorno, cosicché, secondo la volontà di Dio, possa tornare sano e salvo al mio regno." Padre
Conrad fu reso responsabile delle chiese e dei monasteri del regno. Ludwig richiamò sua madre affinché
potesse aiutare a prendersi cura della sua famiglia ed in modo particolare di Elisabetta, che era in attesa del
loro terzo figlio. Lasciò poi tutto ciò che riguardava i suoi affari nelle mani del fratello Enrico.
Alla vigilia di San Giovanni Battista, il 23 Giugno del 1227, giunse il momento di dirsi addio. Ludwig baciò
sua madre e benedì i suoi figli, ma Elisabetta non riuscì a staccarsi da lui. Cavalcò con lui per due giorni sino
ai confini della Turingia, dove Ludwig le disse di ritornare, poiché doveva assumere il comando delle truppe
che lì si erano riunite. Data la separazione molto dolorosa, lui le mostrò il suo anello, e le disse di credere a
qualunque messaggio lei ricevesse da parte sua se accompagnato dall’anello. "Possa Dio che è in cielo
benedirti, piccola sorella. Possa Lui benedire il bambino che stai per partorire. Con il Suo aiuto sarai
capace di portare avanti ciò di cui eravamo d’accordo. Ricorda la nostra vita felice, il nostro santo amore,
e non dimenticarmi mai nelle tue preghiere."
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Lei lo seguì con gli occhi, molto tristi, finché non riuscì più a vederlo, ed al ritorno i suoi occhi si
trasformarono in ornamenti del dolore. Trascorse i suoi giorni aspettando la nascita del suo nuovo bambino,
pregando, facendo penitenza e prendendosi cura dei poveri e dei malati.
Nel frattempo, dopo un lungo ed arduo viaggio attraverso le Alpi, Ludwig e le sue truppe incontrarono
l’imperatore in Italia, a Brindisi. La febbre decimò le truppe, ma loro continuarono verso Otranto. Lì
Ludwig stesso morì e gli furono impartiti gli Ultimi Riti della Chiesa. Quando stava per morire, diede il suo
anello ad un cavaliere fidato, ordinandogli di darlo a sua moglie e di riferirle della sua morte. Morì l'11
Settembre del 1227, all’età di ventisette anni. La sua ultima volontà fu di essere seppellito in Turingia.
Dopo un difficile viaggio i cavalieri giunsero con la cattiva notizia della morte di Ludwig quando Elisabetta
aveva dato alla luce il loro terzo figlio, una bambina che venne chiamata Gertrude. Aspettarono prima di
darle la notizia.
Quando infine la udì urlò: "Non questo! È morto! È morto! Il mio caro fratello è morto! Ora per me tutto il
mondo e le sue gioie sono morte." Svenne e fu riportata a letto. Per otto giorni pianse in solitudine. L’intero
castello pianse la perdita del suo amato sovrano, ma il suo dolore era impareggiabile. Alla fine Elisabetta,
fortificata dalle preghiere, superò il suo dolore, e chiamò il cavaliere affinché le raccontasse i dettagli delle
ultime ore del suo caro marito.
Cacciata dal castello
Prima che la pesante neve dell’inverno cadesse nel 1227, il cognato di Elisabetta prese piena autorità del
regno come erede, dichiarandosi ufficialmente Langravio, annunciando al popolo che era stato forzato a
fare questo perché la regina era un’incompetente e una gran spendacciona. Non disse loro però che
aveva prelevato tutti i fondi di Elisabetta e dei suoi bambini.
Chiaramente, i nobili lo supportarono e continuarono a parlare crudelmente di lei, ora che Ludwig non
era più lì per difenderla. Alla fine Elisabetta fu cacciata dal castello di Wartburg e lasciata per le strade
del villaggio. Neanche un’anima venne in sua difesa. Alle persone del villaggio, molte delle quali erano
state aiutate da lei, fu ordinato di rifiutarle l’ospitalità.
Trascorse la sua prima notte in una fattoria dove i maiali erano stati messi fuori per far posto a lei e
ai suoi figli. Le sue ancelle fedeli le rimasero accanto, ma i suoi tre bambini furono affidati alle cure
degli amici di Ludwig. Per vari mesi lei sopportò questo duro trattamento, sostenendosi tessendo, filando e
vivendo ovunque fosse accolta.
Alla fine questa situazione scandalosa fu rettificata grazie all’insistenza dello zio materno di Elisabetta,
l’abate di Kitzingen, e di suo fratello, il vescovo di Bamberg, che mandarono a prendere lei ed i suoi
bambini e li accolsero in convento.
Dopo l'opportuno soccorso ed il soggiorno al convento, che divenne per tutta la vita la casa della piccola
Sofia, lo zio di Elisabetta la chiamò al castello di Pottenstein, tra le montagne di Franconia. Questo
potente prelato sperava di far sposare sua nipote ventunenne con l’imperatore Federico, da poco vedovo,
non avendo alcuna idea del precedente voto di Elisabetta. All’udire i suoi piani Elisabetta ricorse alla
preghiera, e lasciò il suo bell’abito da sposa all’altare di Nostra Signora, in un monastero vicino, come pegno
della sua determinazione nel mantenere il suo voto.
Le sue preghiere ebbero subito risposta, poiché improvvisamente fu richiamata a Turingia per la
sepoltura dei resti di suo marito. La nera bara, coperta da una croce, fu aperta e lei fissò le ossa
imbiancate del suo caro Ludwig. Quando recuperò la forza di parlare, pregò ad alta voce:
"Signore, Ti ringrazio per avermi confortato con la vista da lungo desiderata delle ossa di mio marito. Sai che
sebbene lo abbia amato così profondamente, non mi rammarico per il sacrificio che il mio caro ha offerto a
Te, e che anche io ho offerto a te. Darei il mondo intero per riaverlo, implorerei volentieri il mio pane con lui,
ma Ti prendo come testimone del fatto che contro la Tua volontà non lo richiamerò in vita anche se potessi
farlo al prezzo di un solo capello. Ora rimetto lui e me nella Tua misericordia. Possa la Tua volontà
essere portata a termine in noi."
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Elisabetta, che era ancora regina, chiamò in causa i vassalli ed i cavalieri fedeli che avevano riportato a casa
il corpo del marito. Li ringraziò per la loro fedeltà e li informò su quanto era accaduto dopo la morte del loro
signore. Loro si impegnarono a difendere i suoi diritti e quelli dei suoi bambini, ed obbligarono Enrico
a restituire ad Elisabetta la posizione che le spettava di diritto. Elisabetta però rifiutò di vivere di nuovo a
Wartburg, e si ritirò nel castello di famiglia a Marbourg-Hess, con un reddito appropriato e ciò che rimaneva
della sua dote, che era ormai trascurabile.
Ultimi giorni di gloria
Padre Conrad, sua guida spirituale, ha scritto riguardo a questo periodo: "Dopo la morte di suo marito,
Elisabetta tendeva alla più alta perfezione, e mi chiedeva come poteva fare per essere più meritevole,
diventando un’eremita, stando in un convento o in qualche altro modo. La sua mente era fissa sul desiderio
di implorare porta a porta, e con molte lacrime mi implorò di permetterle di farlo." Ma P.Conrad le ordinò di
prendere tutto ciò che aveva ed usarlo per i poveri. Le fu permesso di unirsi al Terz'Ordine di San
Francesco, ad essere la prima donna a farlo, e due suoi compagni fedeli la seguirono.
A quel tempo il Terz'Ordine era conosciuto come "Fratelli e le Sorelle della penitenza" ed era più severo di
oggi. I membri indossavano abiti grezzi, recitavano l’ora canonica, digiunavano la maggior parte dell’anno e
si astenevano dal mangiare carne quattro giorni a settimana. Elisabetta si adeguò perfettamente a queste
penitenze e prese i voti il Venerdì Santo, rinunciando a tutto. Quanto ai suoi figli, Hermann andò al
castello Kreuzburg per essere educato e addestrato come Langravio, e le due ragazze furono mandate
in convento.
Non è sorprendente che re Andrea mandasse a chiamare sua figlia affinché tornasse a vivere
comodamente in Ungheria. Lei rispose con questo messaggio: "Dite a mio padre che sono più felice qui
che nel mio castello. Chiedigli di pregare per me e di chiedere alla corte di fare lo stesso. Di' al mio buon
padre che io pregherò sempre per lui."
Suo padre provò a convincerla di tornare una seconda volta, mandandole il fidato cavaliere Walter di Varila,
che cercò di riportarla a casa. Come atto finale di rinuncia, Padre Conrad le ordinò di mandare via i due servi
fedeli, che erano stati la sua unica consolazione umana, e li sostituì con una contadina grezza e scostumata
ed una vecchia sorda.
Nel Novembre del 1231 Padre Conrad fu sul punto di morire. La sua preoccupazione principale era la
cura dell’anima di Elisabetta. Lei lo rassicurò con queste parole: "Caro Padre, non avrò bisogno di
protezione. Non sei tu che morirai, ma io."
Quattro giorni dopo Elisabetta fu colpita dalla febbre. Quando la notizia che lei era gravemente malata
si propagò, grandi folle accorsero a vederla. Per dodici giorni si vide un continuo flusso di visitatori. Alla
fine Elisabetta chiese che le porte fossero chiuse, per rimanere da sola con Dio e preparare la sua anima.
Padre Conrad ascoltò la sua confessione e le diede il Viatico. Guda ed Isentrude, i suoi amici, vennero per
dirle addio, e lei diede loro ciò che di più caro possedeva, il mantello di San Francesco. Quando si avvicinò
la mezzanotte la sua felicità e la sua gioia crebbero, e disse:
"A quest’ora la Vergine Maria diede al mondo il suo Redentore. Parliamo di Dio e del piccolo Gesù, poiché
ora è mezzanotte, l’ora in cui Gesù nacque e stette in una mangiatoia, e così creò una nuova stella che non
era mai stata vista prima; a quest’ora lui giunse per redimere il mondo; redimerà anche me; a quest’ora uscì
dalla morte, e salvò le anime imprigionate; libererà anche la mia da questo mondo miserabile."
Dopo una pausa riprese: "O Maria, assistimi! Il momento è arrivato quando Dio convoca il Suo amico alla
festa nuziale. Lo Sposo cerca la sua sposa… Silenzio!... Silenzio!"
Questo accadde la notte del 19 novembre del 1232; lei non aveva ancora ventiquattro anni. Un antico
manoscritto riferisce che sua figlia, la piccola Gertrude, di quattro anni e nella lontana Marbourg, disse:
"Sento le campane suonare a morto a Marbourg; in questo momento la cara signora, mia buona mamma, è
morta." Nella toga stracciata in cui morì, Elisabetta fu seppellita su sua richiesta nella cappella
dell’ospedale da lei fondato.
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Poco dopo la sua morte, Padre Conrad scrisse un resoconto dettagliato della vita di Elisabetta, le sue
virtù ed i miracoli, in vista dell'investigazione giuridica della Chiesa sulla sua santità.
La morte non bloccò gli atti di carità di Elisabetta verso i bisognosi. I miracoli che lei aveva nascosto
durante la sua vita divennero manifesti a tutti coloro che invocarono la sua intercessione, soprattutto
a coloro che pregavano presso la sua tomba. I rapporti in cui si mostravano i 130 miracoli attribuiti alla santa
furono mandati a Roma per la sua canonizzazione.
Non solo gli ammalati furono guariti e tante difficoltà miracolosamente risolte, ma furono documentati anche
miracoli di risurrezione, attribuiti a S.Elisabetta d'Ungheria. Questi testimoniano la sua stupefacente forza
di intercessione e la sua grande compassione per i genitori che soffrono per la morte dei loro figli. In cinque
casi attestati, i bambini furono restituiti alla vita grazie alle preghiere dei loro genitori rivolte a questa
magnifica Santa, unite al voto di fare la carità in suo onore.
La Domenica di Pentecoste del 1235, solo quattro anni dopo la sua morte, Elisabetta fu canonizzata
dal Papa Gregorio IX, in presenza della madre di Ludwig e dei due fratelli, dei suoi cari amici Guda ed
Isentrude, di Walter di Varila, e dei suoi figli: Hermann di 14 anni, Sophia di 12 e Gertrude di 8.
Nella traslazione delle sue reliquie, nel 1236, giunse l’imperatore Federico, che posò la sua corona sulla
sua tomba e disse: "Poiché non ho potuto incoronarla Imperatrice in questo mondo, almeno la incorono oggi
come regina immortale nel regno di Dio."
Conclusione
La vita di Santa Elisabetta d'Ungheria è stata un esempio di perfetta conformità alla volontà di Dio e di
fedeltà alla propria posizione nella vita. Fu circondata da ricchi, eppure non si lasciò mai distrarre
dall’amore verso i poveri. Era profondamente innamorata di un uomo che la ricambiava, eppure non ha mai
messo Dio al secondo posto nel suo cuore. Aveva tutto e non sentiva bisogno di nulla; ciò che riceveva lo
regalava.
Non fu mai amareggiata quando la fortuna le si voltò contro. Accettò il dolore della morte del marito in
maniera realmente cristiana, ed accolse la propria con la medesima rassegnazione.
La sua storia non è una leggenda, ma si pone come una lezione affinché tutti possiamo imitarla. Sia che tu
viva in un castello o in un appartamento, S.Elisabetta d'Ungheria ti invita a seguire i suoi passi verso il trono
di Dio, accettando la Sua volontà nella tua vita. Santa Elisabetta d’Ungheria, prega per noi.
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San Giovanni da Capestrano Sacerdote
23 ottobre - Memoria Facoltativa
Capestrano, L'Aquila, 1386 - Ilok, Croazia, 23 ottobre 1456
Era nato a Capestrano, vicino all'Aquila, nel 1386, da un barone tedesco, ma da madre abruzzese. Studente
a Perugia, si laureò e divenne ottimo giurista, tanto che Ladislao di Durazzo lo fece governatore di quella
città. Ma caduto prigioniero dei Malaspina, decise di farsi francescano, diventando amico di san Bernardino
e difendendolo quando, a causa della devozione del Nome di Gesù, venne accusato d'eresia. Anch'egli così
prese come emblema il monogramma bernardiniano di Cristo Re. Il Papa lo inviò suo legato in Austria, in
Baviera, in Polonia, dove si allargava sempre di più la piaga degli Ussiti. In Terra Santa promosse l'unione
degli Armeni con Roma. Aveva settant'anni, nel 1456, quando si trovò alla battaglia di Belgrado investita dai
Turchi. Per undici giorni e undici notti non abbandonò mai il campo. Ma tre mesi dopo, il 23 ottobre, Giovanni
moriva a Ilok, in Slavonia, oggi in Croazia orientale. (Avvenire)
Patronato: Giuristi
Etimologia: Giovanni = il Signore è benefico, dono del Signore, dall'ebraico
Martirologio Romano: San Giovanni da Capestrano, sacerdote dell’Ordine dei Minori, che difese
l’osservanza della regola e svolse il suo ministero per quasi tutta l’Europa a sostegno della fede e della
morale cattolica. Con il fervore delle sue esortazioni e delle sue preghiere incoraggiò il popolo dei fedeli e si
impegnò nella difesa della libertà dei cristiani. Morì presso Ujlak sulla riva del Danubio nel regno di Ungheria.
Dalla data tradizionale del 28 marzo, il nuovo Calendario della Chiesa ha riportato al 23 ottobre, data
effettiva della sua morte, la memoria facoltativa di San Giovanni da Capestrano, uno dei due Santi che, nelle
opere d'arte del '400, vengono rappresentati con lo stemma di Cristo Re.
Il primo è San Bernardino da Siena, che mostra lo stemma raggiante sulla tipica tavoletta di legno, da lui
alzata su tutte le piazze come simbolo di libertà e pegno di pace. Il secondo è San Giovanni da Capestrano,
che sventola invece quel luminoso stemma sopra una bandiera spiegata, garrente nell'aria di una ideale
battaglia.
Era nato a Capestrano, vicino all'Aquila, nel 1386, da un barone tedesco, ma da madre abruzzese, e il
biondo incrocio tra il cavaliere tedesco e la fanciulla abruzzese veniva chiamato " Giantudesco ". " I miei
capelli, i quali sembravano fili d'oro - ricorderà da vecchio -io li portavo lunghi, secondo la moda dei mio
paese, sicché mi facevano una bella danza ". Studente a Perugia, si laureò e divenne ottimo giurista, tanto
che Ladislao di Durazzo lo fece governatore di quella città. Ma da Perugia si vedeva, sul fianco del Subasio,
la rosea nuvola di Assisi, e Giantudesco, caduto prigioniero dei Malaspina, meditò in carcere sulla vanità del
mondo, come aveva già fatto il giovane San Francesco.
Non volle perciò tornare alla vita mondana e uscito di carcere si fece legare dalla corda francescana,
entrando nell'Ordine, dove San Bernardino propugnava, nel nome di Gesù, la riforma della cosiddetta "
osservanza ".
Giantudesco entrò in intimità col Santo riformatore. Lo difese apertamente e valorosamente quando, a causa
della devozione del Nome di Gesù, il Santo senese venne accusato d'eresia. Anch'egli così prese come
emblema il monogramma bernardiniano di Cristo Re e lo portò nelle sue dure battaglie contro gli eretici e
contro gl'infedeli. Il Papa lo nominò Inquisitore dei Fraticelli; lo inviò suo legato in Austria, in Baviera, in
Polonia, dove si allargava sempre di più la piaga degli Ussiti. In Terra Santa promosse l'unione degli Armeni
con Roma.
Ovunque c'era da incitare, da guidare e da combattere, Giantudesco alzava la sua bandiera fregiata dal
raggiante stemma di Gesù o addirittura una pesante croce di legno, che ancora si conserva all'Aquila, e si
gettava nella mischia, con teutonica fermezza e con italico ardore.
Aveva settant'anni, nel 1456, quando si trovò alla battaglia di Belgrado investita dai Turchi. Entrò nelle
schiere dei combattenti, dove era più incerta la sorte delle armi, incitando i cristiani ad avere fede nel nome
di Gesù. " Sia avanzando che retrocedendo - gridava, ~ sia colpendo che colpiti, invocate il Nome di Gesù.
In Lui solo è salute! ".
Per undici giorni e undici notti non abbandonò mai il campo. Ma questa doveva essere la sua ultima fatica di
combattente. Tre mesi dopo, il 23 ottobre, Giantudesco moriva a Villaco, nella Schiavonia, consegnando ai
suoi fedeli la Croce, emblema di Cristo Re, che egli aveva servito, fino allo stremo delle sue forze.
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S. GIOVANNI DA CAPESTRANO (1386-1456
APOSTOLO DELL'EUROPA UNITA
Non si può certo dire che fu un uomo tutto casa e chiesa, o meglio, visto che era un frate, tutto convento e
cappella. Ha avuto una vita movimentata, molto varia e ricca di esperienze. Ha girato prima l’Italia e poi
l’Europa, ma non per turismo religioso o per convegni di aggiornamento con soggiorno in alberghi a varie
stelle... ma per predicare. E non dimentichiamo che, nel Quattrocento, lo stesso “viaggiare” era sinonimo di
fatica, dormire poco, soffrire la fame e la sete con pericoli vari e imprevedibili: ogni giorno una buona dose di
disagio di vario genere con avventure non sempre a lieto fine.
Nel 1453 era caduta la città di Costantinopoli, la capitale dell’Impero Romano d’Oriente. L’impressione fu
enorme. Il senso della minaccia sulla cristianità europea era tangibile e incombente. La paura e l’angoscia
erano tornate prepotenti e si facevano sentire con forza su larghi strati della popolazione. Anche se non su
tutti. Davanti ad ogni avvenimento doloroso c’è sempre un certo numero di apatici, che sono poi quelli dagli
ideali ristretti e dagli orizzonti che coincidono esattamente con il proprio benessere e tornaconto. Fu così
anche allora.
Il nuovo pericolo che minacciava l’Europa era costituito dall’avanzata sanguinaria e apparentemente
inarrestabile dell’Islam e dei Turchi. Furono i papi Niccolò V e poi il successore Callisto III che organizzarono
una crociata in difesa della fede cristiana e dell’Occidente intero minacciati dal pericolo ottomano-islamico.
Ma sul campo è stato Giovanni da Capestrano, un umile frate, a raccogliere la sfida e darsi da fare, con la
predicazione, per reclutare uomini. Purtroppo solo gli Ungheresi, i più direttamente minacciati, risposero al
suo appello.
Con un esercito di quasi 5.000 uomini si mise in cammino verso Belgrado, fortezza che era stata chiusa in
una tenaglia dalle truppe di Maometto II e dalla flotta turca. Fu dapprima un comandante ungherese, lo
Hunyadi, dietro suo impulso a rompere l’assedio navale con un attacco che riportò pieno successo il 14
luglio 1456. Una settimana dopo arrivò anche la vittoria terrestre. E questa ebbe come protagonista assoluto
Giovanni da Capestrano che guidò l’attacco. Un frate trasformatosi in generale vittorioso. Fu questa azione a
difesa dell’Occidente che gli meritò in seguito l’appellativo di “Apostolo dell’Europa Unita”. Ma gli costò
anche la vita. Contrasse infatti la peste e ne morì tre mesi dopo nel convento di Ilok, in Croazia. Era il 1456.
Anno della Battaglia di Belgrado dell’Europa contro i Turchi, come viene indicato nei libri di storia.
Giovanni: inquisitore e predicatore in Italia
Giovanni nacque il 24 giugno 1386 a Capestrano non lontano da L’Aquila, nell’Abruzzo. I suoi genitori erano
di nobili origini. La prima istruzione l’ebbe in famiglia da uno speciale pedagogo. E ancora adolescente
conobbe il dolore: subì infatti, per rappresaglia, l’uccisione di ben dodici persone del parentado e la
distruzione della stessa casa. Giovanni studiò diritto canonico e diritto civile a Perugia. Diventò anche
giudice di questa città facendosi notare e ricordare per la sua integrità morale e imparzialità. Stava per far
rientro in paese per guadagnare un po’ di denaro e così autofinanziarsi gli studi per la promozione al
dottorato, quando, nel 1415 in seguito ad un conflitto tra Perugia e Rimini, cadde prigioniero. Come sarà
alcuni secoli dopo per Sant’Ignazio di Loyola che si convertì durante la prigionia, così fu per Giovanni da
Capestrano (cf box a pag. 18). Alcuni anni dopo entrò tra i francescani osservanti, divenendo sacerdote nel
1417.
La sua vita si può dividere in due grandi periodi. Il primo comprende la sua attività in Italia fino al 1451; il
secondo la sua predicazione nell’Europa centrale e la partecipazione alla battaglia di Belgrado, e la morte
(1456).
Nel primo periodo furono tre i principali interessi di Giovanni: la predicazione, la difesa della ortodossia
cattolica e la riforma dei frati minori.
A partire dal 1422 cominciò a predicare a L’Aquila davanti a grandi folle, che rimanevano estasiate alle sue
parole e al suo entusiasmo. Folle enormi lo seguiranno anche a Roma, Siena, Perugia, Milano, Padova,
Vicenza, Venezia e altre città. Fece anche alcune puntate in Spagna e in Terra Santa. La sua predicazione,
specialmente durante l’Avvento e la Quaresima, fu un grande aiuto per il rinnovamento spirituale e dottrinale
delle popolazioni italiane del tempo. Diventato un predicatore famoso, Giovanni ne conobbe un altro
grandissimo, Bernardino di Siena, di cui divenne amico (e difensore quando venne accusato di idolatria). Fu
quest’ultimo a comunicargli la devozione al nome di Gesù (condensato nelle famose tre lettere IHS che
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significavano Jesus Hominum Salvator, Gesù Salvatore degli uomini). Per le sue conoscenze del diritto
Giovanni veniva anche chiamato dai papi come paciere e come diplomatico incaricato di delicate missioni.
Venne nominato in seguito inquisitore dei Fraticelli e chiamato così a combattere il fraticellismo: una setta
che pretendeva di praticare “alla lettera e senza glosse” la regola di San Francesco, professando diverse
dottrine dichiarate eretiche dalla Chiesa. Proprio per il successo che ebbe come riformatore dell’ordine
francescano si meritò l’appellativo di “Colonna dell’Osservanza”.
Altro incarico che svolge con molto zelo e efficienza, anche senza i risultati desiderati, fu la sua attività di
inquisitore degli Ebrei (1427) o meglio la sua battaglia contro l’usura, grandemente ed efficientemente
praticata da questi, che ha poi lasciato su di loro lungo i secoli seguenti una fama poco bella.
Giovanni si era adoperato presso papi, principi e governatori di città, e specialmente presso la regina
Giovanna di Napoli, per far applicare le leggi contro l’usura in generale e contro gli Ebrei in modo particolare,
cercando di costringere questi ultimi ad osservare le disposizione del diritto ecclesiastico e civile del Regno.
Non ebbe grande successo anche perché non godette degli appoggi importanti su cui lui contava.
Un predicatore per l’Europa
Dal 1451 al 1456 abbiamo il secondo periodo della vita di Giovanni quello propriamente “europeo”. Su
istanza di papa Niccolò V egli partì per l’Austria insieme a dodici compagni (tra i quali uno dei suoi biografi,
un certo Nicola della Fara). Fu lo stesso imperatore Federico III a richiedere la sua presenza come
predicatore (predicò in Baviera, nella Turingia, nella Sassonia, Slesia ed in Polonia, parlando in latino e
aiutato da un interprete), come riformatore dei frati conventuali, come inquisitore degli Ebrei e anche per
cercare di riconvertire gli hussiti di Boemia. Questi erano i seguaci del riformatore Jan Hus, arso come
eretico nel 1415 (e “riabilitato” da Giovanni Paolo II nel dicembre ’99, quando espresse il “profondo
rammarico per la crudele morte inflitta a Jan Hus e per la conseguente ferita, fonte di conflitti e divisioni, che
fu in tal modo aperta nelle menti e nei cuori del popolo boemo”). Gli storici dicono che questo tentativo di
“riconversione” fu un fallimento nonostante qualche compromesso raggiunto.
Ma questo punto nel programma di Giovanni diventava secondario rispetto al pericolo incombente posto
dall’Islam che avanzava insieme ai Turchi. Si dedicò completamente a questo obbiettivo fino alla morte.
Che messaggio ci lascia Giovanni da Capestrano? Anzitutto la sua totale dedizione per la causa del
Vangelo, attraverso la predicazione in Italia e nell’Europa centrale contrastando le eresie del tempo. Egli
“può restare come esempio di un uomo che, in quello scorcio finale del Medio Evo, seppe capire problemi e
aspirazioni, angosce e attese del suo uditorio, e cercò di ripresentare il Vangelo in quella situazione... Un
messaggio ... resta per i predicatori di tutti i tempi, quello di farsi ricercatori e annunciatori del senso attuale
che deve avere la rivelazione divina per ogni generazione e cultura” (A. Pompei).
Giovanni da Capestrano ha lasciato una profonda impressione nella Chiesa del Quattrocento, per la sua
predicazione travolgente e convincente (e le sue prediche non erano propriamente uno show: duravano
infatti dalle due alle tre ore, con qualche eccezione... ancora più a lungo). Fu un uomo di successo
apostolico per le conversioni spettacolari operate, per i suoi poteri taumaturgici che esercitava per la povera
gente, e non ultimo anche per la sua multiforme santità. “Giovanni appare come un discepolo di Cristo, del
quale segue l’esempio per quanto la sua condizione umana glielo consente.
L’imitazione di Cristo è dunque primordiale ed il modello evangelico guida la vita di Giovanni. La profonda
pietà e la grandissima umiltà del santo colpirono i suoi contemporanei; egli si imponeva prove umilianti,
come attraversare la città di Perugia, della quale fu giudice, malvestito e in groppa ad un asinello. Il suo
amore per la pace, legato ad un innato senso della giustizia ed una ardente carità nei confronti del prossimo,
lo pongono nella categoria dei santi. La sua vita è condotta nel segno dell’austerità: accatta il suo pane,
porta quotidianamente il cilicio, digiuna tutti i giorni in eguale misura” (da Storia dei Santi e della Santità
cristiana, vol. I).
Un santo ancora oggi, per molti aspetti, significativo.
MARIO SCUDU SDB
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Conversione e missione di Giovanni da Capestrano
Giovanni era stato fatto prigioniero in una delle tante liti e guerre tra le varie città italiane nel ’400. In questo
caso tra Perugia e Rimini. Dopo un tentativo di evasione, viene di nuovo imprigionato e durante la prigionia
chiede a Dio di essere liberato. Uno dei suoi primi biografi, Nicola di Fara, scrisse che Giovanni ebbe una
visione, che lo portò alla conversione e alla sua futura missione.
«Gli apparve nell’aria un uomo, che vestiva l’abito dei francescani e che così gli si rivolgeva: “A chi parli con
tanta arroganza?”. Pieno di terrore Giovanni gli chiese: “Che cosa vuole Dio da me?”. E l’uomo gli rispose:
“Non vede che cosa Dio ha scelto di fare di te? Non vede l’abito che porto? In questo modo insegnerai
Religione”. Giovanni rispose: “Farò quel che Dio mi comanda e la proclamerò, poiché questo è il volere di
Dio”.
L’uomo scomparve ma egli ebbe un’altra visione: gli fu mostrata la terra quasi nell’oscurità, in un’ombra fitta,
e in mezzo alle tenebre c’era un raggio di luce e verso questa luce affluivano molti popoli, innumerevoli folle.
Sempre egli pensò e credette che l’uomo che gli era apparso fosse il beato Francesco. Nessuno può negare
che i popoli che andavano verso la luce fossero gli Italiani, i Tedeschi, i Boemi, gli Ungheresi, i Rumeni, i
Russi e gli Slavi; e il raggio di luce era Giovanni stesso, che diffuse la dottrina divina» (Nicola di Fara).
Giovanni da Capestrano, santo. Capestrano è una pittoresca cittadina d'Abruzzo, distante quarantadue km.
da L'Aquila, già dominio dei conti di Celano, di cui Antonio, padre del nostro G., era feudatario. G. vi nacque
il 24 giugno 1386. L'educazione pedagogica ed i primi elementi culturali del Trivio e del Quadrivio gli vennero
impartiti in famiglia, giusta la prassi della nobiltà.
Sua madre, parimenti capestranese, forse del casato Amici, essendo egli l'ultimo dei figli, gli voleva un bene
particolare. Suo padre morí prematuramente, e forse tragicamente, sul principio del Quattrocento. In diverse
prediche tenute in Germania lo stesso G. riferisce di avere avuto in Capestrano cinque nemici principali che
in due giorni trucidarono dodici persone della sua parentela, quattro fratelli, ed incendiarono le case paterna
e materna.
Tra il 1405 e il 1406 si recò all'università di Perugia, detta Casa di S. Gregorio o Sapienza, fondata dal card.
Niccolò Capocci verso il 1361 per studenti poveri, sottoposti a regolari statuti disciplinari, e vi scelse la
facoltà giuridica, che durava sei anni. Il 7 febbraio 1411 figura tra i quattro studenti provetti, consiglieri del
rettore Filippo di Petrucciolo.
Dopo tale data, finiti brillantemente gli studi, di G. non si trovano piú notizie negli archivi perugini per circa
due anni. È probabile che nel frattempo sia tornato a Capestrano per concludere il suo matrimonio (mai
consumato) con la figlia del conte di San Valentino, promesso fin dal 1403; oppure, come molti ritengono,
che, invitato dal re Ladislao, sia andato a far parte della giuria nella Grande Vicaria di Napoli.
Il 14 aprile 1413 venne nominato nuovo podestà di Perugia Coluccio dei Grifi da Chieti, il quale, in base ai
regolamenti, doveva eleggersi sei giudici per l'amministrazione della giustizia nei diversi rioni della città. Il
quinto degli eletti fu precisamente il nostro G., cui venne assegnato il rione di Porta S. Susanna, il piú difficile
a governarsi.
La sua condotta in detto ufficio fu irreprensibile; mai un sopruso, mai un'ingiustizia; non si lasciò corrompere
né dalle minacce dei potenti, né dal danaro dei ricchi; donde, mentre i buoni lo coprivano di lodi, i colpevoli
andavano maturando propositi di vendetta. Nel luglio 1415, Braccio da Montone con ribelli e fuorusciti,
nemici del governo popolare di Perugia che parteggiava per il governo di Napoli, riuscí ad occupare la città.
Vi furono stragi vendicative e retate di prigionieri, rinchiusi nel castello di Torgiano.
Narrano i suoi biografi che G. venne incarcerato nella torre di Brufa, da cui cercò di evadere. Il progetto fallí
poiché, durante la discesa dalla finestra, cadde a terra fratturandosi una gamba, per cui fu facile riprenderlo
e gettarlo in piú dura ed oscura prigione. Qui una notte ebbe la visione di s. Francesco d'Assisi, che lo invitò
ad entrare nel suo Ordine; ed egli, dopo essersi riscattato con una forte somma, si diresse al convento di
Monteripido presso Perugia, chiedendo d'esservi ammesso. Vestí l'abito francescano il 4 ottobre 1416, anno
trentesimo di sua vita.
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Saputo questo, la sua sposa si recò da lui, supplicandolo di non abbandonarla, ma egli la convinse a
tornarsene in famiglia e a mantenersi vergine. Tormentavano il novizio forti tentazioni sensuali, i ricordi della
brillante vita secolare, una lunga malattia, penitenze irragionevoli inflittegli dal maestro fra Onofrio per
sperimentarne la pazienza, ecc. In questo nuovo mondo devoto, ma amarissimo, G., moltiplicando preghiere
ed atti di virtú eroiche, giungeva alla professione il 4 ottobre 1417.
Non sappiamo dove egli espletò il curriculum degli studi teologici; forse rimase nello stesso convento anche
perché la nascente Osservanza non aveva ancora scuole organizzate. Fin dall'inizio del suo apostolato si
dimostrò profondo conoscitore dello scibile ecclesiastico: citava la Bibbia letteralmente, allegava testi
patristici, sosteneva polemiche dichiarava di preferire s. Tommaso tra gli scolastici. Il 14 novembre 1418,
essendo già diacono, dovette ottenere da Martino V, in Mantova, la dispensa per ascendere al sacerdozio,
poiché nel secolo, quale giudice, aveva comminate talvolta delle pene corporali che avevano portato al
decesso. Nella stessa circostanza il papa lo nominò inquisitore dei Fraticelli, ribelli ed anarchici contro
l'ordine morale e sociale, specie nell'Italia centrale.
Da allora egli non ebbe piú residenza fissa, tante furono le mansioni affidategli dai ministri generali, dai
pontefici e dai regnanti. Nel 1422 si trovava in Abruzzo per erigervi, con autorizzazione apostolica, alcuni
conventi per l'Osservanza. Durante la Quaresima del 1426, con un drappello di aquilani, corse a Roma,
dov'era stato condotto s. Bernardino da Siena accusato di idolatria perché faceva adorare il Nome di Gesú
(JHS) siglato su tavolette. Egli difese l'amico senese con grande successo e tornato a L'Aquila perorò cosí
bene la causa di lui e del S. Nome che da allora la sigla bernardiniana passò a far parte dello stemma
cittadino.
Sull'inizio dell'anno seguente fu invitato a Lanciano per pacificare la città con quella di Ortona a Mare, in
guerra tra loro a causa del conteso porto di S. Vito a Mare. Dopo molte prediche e negoziati la pace venne
finalmente firmata il 17 febbraio 1427, ed a ricordo furono costruiti i conventi di S. Angelo della Pace in
Lanciano e di S. Maria della Pace in Ortona. Si deve anche a G. la riconciliazione di Sulmona con i suoi
fuorusciti ed esiliati politici, favorita dalla regina Giovanna II di Napoli e dalla contessa Cantelmi di Popoli. A
L'Aquila si deve pure a lui l'associazione permanente "dei Pacieri".
Alla sua lotta contro i Fraticelli seguí quella contro gli ebrei. Stando a Napoli, informò la regina che essi,
noncuranti delle disposizioni canoniche e forti dei privilegi dei principi, angariavano i cristiani. Giovanna col
decreto del 3 maggio 1427 autorizzava G. a costringerli all'osservanza del diritto ecclesiastico e civile in tutto
il regno. Essi, potentissimi, entro l'anno medesimo ottenevano che la regina moderasse il suo decreto e cosí
fece anche Martino V che l'aveva approvato: peraltro il santo non omise mai di levare la voce contro gli abusi
da essi commessi.
La predicazione di G. si potrebbe seguire quasi di giorno in giorno sulla scorta dei suoi sermoni e delle
lettere. La fama della sua santità ed i miracoli che talvolta operava lo facevano accogliere ed ascoltare come
un messo di Dio. La folla degli uditori era tanta che spesso, non bastando le chiese ad accoglierla, lo
costringeva a parlare nelle piazze o nei campi; ma anche allora gli uditori per poterlo ascoltare e vedere,
dovevano salire sui tetti e sugli alberi. Si afferma che la sua eloquenza superasse quella dei piú illustri
contemporanei: Bernardino da Siena, Alberto da Sarteano, Giacomo della Marca, Roberto Caracciolo da
Lecce. Per esser libero d'andare predicando dovunque rinunciò ai vescovati di Chieti e de L'Aquila. Nel 1434
predicò a Ferrara, dove inveí contro la nuova moda muliebre, e piú tardi vi ritornò per riformare le Clarisse di
S. Guglielmo.
Nel 1435 si trovava nel napoletano per appoggiare il card. Vitelleschi nel tentativo di restaurare il dominio
pontificio in quel regno, conteso tra Renato d'Angiò ed Alfonso d'Aragona. Nell'anno seguente era a
Bologna, ove Eugenio IV aveva trasferito la sua sede, e presso di lui difese vigorosamente il Terz'Ordine
Francescano. Nel 1437 a Venezia difese la causa dei Gesuati, ed il patriarca s. Lorenzo Giustiniani lo
nominò inquisitore nella sua diocesi. Predicò la Quaresima del 1438 a Verona, trattando dell'interesse e
dell'usura, donde l'origine del trattato De Cupiditate; quella del 1439 a Trento, pacificando il principe vescovo
con la città e celebrando il sinodo diocesano, in cui svolse argomenti che leggiamo nello Speculum
Clericorum. Durante l'estate del detto anno intervenne al concilio ecumenico di Firenze, e si schierò a favore
del primato del vescovo di Roma, negato dal conciliabolo di Basilea, e della riunione dei Greci alla Chiesa
latina. Portò poi sempre con sé la Bolla dell'unione sancita, e dettò il celebre trattato De auctoritate Papae et
concilii. Nello stesso tempo venne mandato a Gerusalemme, dove, per riformare la Palestina francescana,
elesse un nuovo custode e un nuovo sindaco apostolico.
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Tornato in Italia, sostò due anni a Milano, predicandovi la Quaresima sulla base del suo Speculum
conscientiae e persuadendo il duca Filippo Maria Visconti a non riconoscere l'antipapa Felice V (Amedeo di
Savoia). Ebbe poi l'ordine di portarsi al nord della Francia per estendervi l'Osservanza e sconfiggere i partiti
che tenevano ancora per l'antipapa. A Besançon raggiunse l'accordo con s. Coletta di Corbie sulla regola
delle Clarisse, visitò i conventi della Borgogna, celebrò il Natale a Verdun. Nei Paesi Bassi riuscí a pacificare
il duca Filippo con la città di Gand; per la visita a Parigi delegò il p. Giovanni Maubert e per le province
tedesche p. Enrico da Werl, dovendo egli partecipare al capitolo generale di Padova del 9 giugno 1443,
dopo il quale veniva eletto vicario generale degli Osservanti cismontani, carica che andò ad iniziare alla
Verna, scrivendo la prima circolare, norma di vita per i suoi dipendenti.
Scrisse nove trattati di dogmatica, quattordici di morale, sei di diritto canonico, dieci di carattere francescano,
compresa la Vita di s. Bernardino, molte lettere ed innumerevoli sermoni. Nel 1444 il magistrato aquilano lo
mandò suo mediatore alla corte di Napoli per risparmiare alla capitale abruzzese una seconda distruzione
minacciata da Alfonso d'Aragona perché, nella lotta intrapresa per la conquista della corona napoletana
contro Renato d'Angiò, aveva sostenuto le parti di questo sino all'ultimo. L'ambasciata riuscí e L'Aquila fu
salva. G. è pure benemerito della città per avervi fondato l'ospedale di S. Salvatore. Il 20 maggio moriva a
L'Aquila, Bernardino da Siena. Il capestranese, che allora predicava la crociata contro i Turchi in Sicilia,
accorse subito, predicò le sue glorie, registrò i miracoli che accadevano ed iniziò il processo per la sua
canonizzazione. Superate tutte le difficoltà, il 24 maggio 1450, festa di Pentecoste, Bernardino fu iscritto nei
fasti dei santi da Niccolò V. Tra i conventi e le chiese che G. fece costruire in onore del nuovo santo,
primeggiano quelli de L'Aquila e di Verona.
Mentre predicava a Venezia la Quaresima del 1452, ricevette l'ordine da Niccolò V di portarsi negli stati
tedeschi dove era desiderato dall'imperatore Federico III, su consiglio di Enea Silvio Piccolomini, poi Pio II. Il
28 aprile con dodici compagni iniziava il lungo viaggio verso Pontafel, riconciliando dissidenti, riformando
religiosi, operando miracoli, dovunque accolto come un apostolo. Fu in Carinzia, Austria, Ungheria,
Transilvania, Polonia, Turingia, Moravia, Boemia ecc. Ci sono pervenute le prediche tenute a Vienna,
Ratisbona, Amberga, Norimberga, Bamberga, Breslavia, Erford, Hall, Lipsia, Bratislavia, polemiche
sostenute contro gli Ussiti di Boemia e lettere spedite da altre regioni e paesi.
Nuovi avvenimenti nazionali trasformavano l'apostolo in soldato. L'esercito turco, dopo la conquista di
Costantinopoli (23 maggio 1453), cercava, attraverso gli stati balcanici, di raggiungere l'Ungheria. I principi
d'Europa, terrorizzati, divisarono di preparare una crociata. La sua organizzazione fu curata dal capitano G.
Hunyadi, da G. da Capestrano e dal card. legato G. Carvajal, i quali, percorrendo città e castelli, poterono
reclutare un discreto esercito, composto quasi interamente di popolani fervorosi, ma privi d'istruzione
militare. Perciò l'Hunyadi e il Carvaial consigliavano di venir a patti col nemico, ma G. li indusse ad
affrontarlo, pur col pericolo di disfatta. La battaglia di Belgrado, combattuta prima sulla fortezza detta
Cittadella e poi sul Danubio dal 14 al 22 luglio 1456 si concludeva con la vittoria dei crociati. La notizia
giunse a Roma il 6 agosto, e Callisto III istituí, in memoria, la festa della Trasfigurazione di Cristo, simbolo
dell'Europa trasfigurata in letizia.
G. scontò con la vita la vittoria riportata. A causa dei grandi disagi della guerra, contrasse la penosa malattia
che lo portò alla morte nel convento da lui fondato ad Ilok (Villaco) il 23 ottobre 1456. II suo decesso fu un
vero lutto internazionale, ma anche glorioso per le continue visite di magnati e di pellegrini devoti presso la
sua salma specialmente durante gli otto giorni in cui rimase insepolta. Il processo per la sua canonizzazione
durò duecentotrentaquattro anni, nonostante i tanti miracoli, le continue lettere postulatorie di corporazioni,
vescovi e regnanti, e la bravura dei postulatori della causa, a cominciare da s. Giacomo della Marca; il
motivo si deve alle vecchie accuse di Enea Silvio che lo disse vanaglorioso, per avere attribuito solo a sé la
vittoria di Belgrado (trascurando Hunyadi), e perché, a parere del card. Carvajal, durante i preparativi di
guerra s'era dimostrato nervoso e poco arrendevole ai suoi ordini. Finalmente, in base a documenti coevi, si
giunse a dimostrare che nelle lettere a Callisto III, G. aveva detto meno di quel che aveva fatto, che il suo
nervosismo, se vero, era spiegabilissimo dato lo stato di guerra, e che se egli avesse obbedito ciecamente al
Carvajal la vittoria di Belgrado non si sarebbe avuta.
Cosí Leone X il 31 dicembre 1514 permise alla diocesi di Sulmona di celebrare la festa del b. G. da
Capestrano e l'indulto fu esteso a tutta la Chiesa da Gregorio XV il 10 settembre 1622. La canonizzazione fu
celebrata da Alessandro VII il 16 ottobre 1690, e fissata la festa liturgica per l'Ordine Francescano al 23
ottobre. Il postulatore Giovanni Battista Barberio si adoperò perché il santo venisse proclamato apostolo
dell'Europa, ma senza successo.
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Con la canonizzazione crebbe il culto del santo specie nel paese natio e nell'Ungheria, dove una delle
province francescane porta il suo nome. Nella ricorrenza del quinto centenario della nascita (ipotizzato al
1885), la sua festa liturgica venne estesa a tutta la Chiesa e fissata al 28 marzo. L'Aquila lo venera come
suo comprotettore. Anche il quinto centenario della morte (1956) è stato celebrato con solenni
manifestazioni religiose e civili e molte pubblicazioni. Monaco di Baviera gli ha eretto una Chiesa con
monumento antistante; altra Chiesa gli è stata dedicata nel Giappone.
Cfr. CHIAPPINI A., Giovanni da Capestrano in Bibliotheca Sanctorum, VI, Roma 1965, col. 645-652.
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