Daniele M. Cananzi* La forma dello spirito umano e lo spirito della forma giuridica: per l’estetica del diritto Il pensiero come atto vivente presuppone la vita, anche contenutisticamente P. YORCK VON WARTENBURG L’intensità delle relazioni odierne solleciterebbe a trasformare l’ascolto in rimeditazione silenziosa prima di entrare nel dialogo. Ma la tematica così interna ai miei studi sulla forma e sull’estetica del diritto ed una affettuosa esortazione del mio maestro Bruno Romano a prendere la parola quasi mi obbligano ad intervenire, cosa che faccio con gioia. Mi limiterò ad esplicitare alcune delle questioni che mi sono venute oggi in mente ascoltando attentamente le varie relazioni; sperando che l’estemporaneità di queste poche considerazioni non finisca per essere eccessivamente disordinata. Tante le domande che nascono dall’ascolto tanto delle parole dei relatori quanto delle chiose e delle considerazioni a margine ma tutt’altro che marginali che Mercadante, da par suo, ha inteso acutamente sussurrare. Devo dire che esco da qui con molte più domande di quelle che avevo questa mattina, sia per quanto attiene al tema sia – come si diceva anche nella mattinata – circa le sorti della filosofia del diritto ed i suoi esiti. Di questo non posso che ringraziare Avitabile, l’organizzatrice di questa occasione fruttuosa. * Università di Roma “Sapienza”. 248 INTERVENTI ‘Forma e formalismo’, il diritto ‘tra’: questo è un titolo interessante. Si pensava archiviata la questione del formalismo nel dibattito novecentesco, come archiviata sembrava la questione del positivismo data la felice tesi di Satta più volte evocata, ed invocata a giusto titolo anche oggi: «il formalismo comincia dove dove il diritto finisce»1, potremmo dire il diritto c’è dove il formalismo non c’è ancora. La ‘questione della forma’ – che per altro io considero ancora in larga parte inedita o poco edita – ha molto poco a che fare col formalismo ma forse non se ne può liberare. Si finisce nel formalismo ogni volta che si prende la forma ‘per se stessa’, ogni volta che della forma si smarrisce quel senso di vitalità che è differenza tra forma e forma, tra la forma dell’arte e la forma inerme e inerte (come molto bene insegna Pareyson con la sua teoria della formatività, spesso e non a caso richiamata dai giuristi e filosofi attenti)2 ma anche ogni volta che si separa e si rende la forma autonomo oggetto di riflessione rispetto all’osservatore della forma che vi iscrive un senso (mi hanno molto colpito le considerazioni di Beneduce). È forse possibile evitare di prendere la forma ‘per se stessa’ e considerarla ‘in quanto tale’? Mi domando in questa direzione: la questione della forma non inerte e non inerme, dunque ‘in quanto tale’, inizia come questione dello spirito? Seguo anche qui il mio maestro3: c’è spirito nel diritto? Risuona un’espressione forse poco riedita: «persona come diritto sussistente»4. 1 S. SATTA, Soliloqui e colloqui di un giurista, Cedam, Padova, 1968, p. 47. L. PAREYSON, Estetica. Teoria della formatività, Bompiani, Milano, 2002; A. PIGLIARU, Persona umana e ordinamento giuridico, Giuffré, Milano, 1953, pp. 10, 11; N. IRTI, La scuola di Messina in un libro sui fatti giuridici, Prefazione a S. PUGLIATTI (- A. FALZEA), I fatti giuridici, Giuffré, Milano, 1996, p. VI; C. LUZZATI, L’interprete e il legislatore, Giuffré, Milano, 1999, p. 550. 3 B. ROMANO, Filosofia del diritto e questione dello spirito, Torino, 2007. 4 F. MERCADANTE, Il regolamento della modalità dei diritti, Milano, 1981, p. 91 ss. 2 DANIELE M. CANANZI 249 Tante sono le domande, i problemi e le questioni che questa proposizione (già riccamente emblematica) affiancata al tema della forma e del formalismo propone: la forma come essere è quella dello spirito? la forma dello spirito è quella della persona? il diritto è nella persona sussistente? I numeri annoiano, ha osservato anche oggi Romano; annoiano nella loro totalità e prevedibilità. Però, proprio solo per lo spirito uno più uno più uno non fa tre ma fa uno, direi con Argiroffi; solo per lo spirito uno più uno può fare uno e non due. Di qui la meraviglia e lo stupore, forse. Ma questo ci conduce ad un ulteriore passaggio: se di spirito si deve parlare non lo si può intendere e cogliere che nella sua interezza. E allo spirito, nella sua interezza (dunque ‘in quanto tale’ e non ‘per se stesso’), allo spirito appartiene non solo il buono, il bello, il giusto; non solo – dico con Azzoni – la danza delle grazie; allo spirito nella sua interezza appartiene anche il cattivo, il brutto, l’ingiusto, la disgrazia: allora alla forma, mi domando con Marconi, appartiene anche il formalismo? Se è in questo modo c’è un ordine della forma di cui il formalismo è tradimento, così forse per Satta e certamente così in Romano; ma anche rischio, oltre che tradimento: così come il male è tradimento e rischio del bene. La vitalità del diritto, se ancora ha un senso parlare di un diritto vivo perché diritto vivente (come Marino ci ha sollecitato a pensare con Capograssi), pone i termini della creatività, di una creatività non creativa, non creativa ex nihilo quantomeno, ma inventiva (nel senso etimologico accolto da Cotta)5. Questa è la sola creatività possibile, la sola possibilità di una forma sussistente, quella dello spirito, quella della ‘persona sussistente’. La questione della forma come questione dello spirito conduce dunque a riflettere sulla ‘forma-tività’ dello spirito e sulla sua fonte; 5 Ne discute con riferimento alla forma A. PUNZI, Dialogica del diritto, Torino, 2009, p. 114. 250 INTERVENTI lo spirito (nella sua interezza) non è entità irreale, colto (‘in quanto tale’) nella sua realtà è spirito nel momento e dal momento in cui si incarna e abita un corpo corrispondendovi; è spirito che avverte quel corpo come se stesso e contemporaneamente avverte se stesso come quel corpo, pur non esaurendosi nel corpo o rimandovi imprigionato. La forma della persona è unità tra spirito e corpo6, tra immaterialità e materialità7, tra azione (dovere) e fatto (essere). La complessità della ‘persona’ risiede in questo fatto che non è un fatto; in questa realtà personale che chiede di pensare la forma dello spirito come elemento di congiunzione di una serie molto più ampia e reticolare di questioni: l’alterità, ad esempio, che come insegna Ricoeur proprio nel «corpo proprio»8 trova la sua condizione di pensabilità; la responsabilità e la libertà, altro esempio, nella bella lettura di Pirandello operata da Romano9, che proprio dall’unità dell’uno (‘in quanto tale’ e non ‘per se stesso’) trovano il senso ed il fondamento non formalistico delle rispettive forme giuridiche. Il rischio del formalismo diventa realtà ogni volta che si pensa di fare a meno della immaterialità della forma ma anche quando si pensa di fare a meno della sua materialità; e il rischio diviene tradimento ogni volta che si pensa di non scorgere la vitalità dentro la forma e la persona come vitalità sussistente del diritto. In ognuno di questi tre disconoscimenti della forma cade il positivismo giuridico e cade il formalismo, anche quello neo-esistenziale. Come evitare il rischio e come non incorrere, anche inconsapevolmente, nel tradimento? A ben vedere la questione non è semplice ed il confine appare molto più sottile di quanto non potrebbe sembrare. 6 7 Cfr. G. MARCEL, Dal rifiuto all’invocazione, Roma, 1976, p. 42 ss. Sull’immaterialità cfr. B. ROMANO, Filosofia della forma, Torino, 2010, p. 25 ss. 8 9 P. RICOEUR, Philosophie de la volonté, I, Aubier, Paris, 1950, p. 7. B. ROMANO, Nietzsche e Pirandello, Torino, 2009. DANIELE M. CANANZI 251 Se, ad esempio, si pensasse di discutere la forma appellandosi alla volontarietà dell’atto si potrebbe correre il rischio di non uscire né dal positivismo né dal formalismo. In fondo proprio il positivista per eccellenza, Kelsen, definisce la norma come «atto di volontà di senso»10 impiegando il tedesco Sinn in luogo del meno impegnativo Bedeutung; si rimane molto più indietro di Kelsen, perché si è suoi epigoni, se ci si limita ad una critica del formalismo diretta a rivendicare la volontarietà dell’atto intendendo la forma ‘per se stessa’; invocando la volontà e l’atto ma lasciando entrambi appesi al nihil, il nulla della forza («l’immobile vuoto»11). L’ontologia alla quale il positivismo kelseniano ed il formalismo giuridico si richiamano è, in buona sostanza, una ontologia dell’evento e dell’eventarsi – come con Fabro Romano ha messo in luce recentemente12 – che intende la forma come l’accadere registrato e la volontà come espressione di forme dotate di forza; incapace, com’è, di cogliere non solo del diritto ma anche dell’uomo quanto di più intenso e misterioso può essere avvertito da parte del giurista e del filosofo13. Eppure sia il positivismo sia il formalismo possono e devono essere criticati e, forse, una via ed una modalità per questa critica può muovere dalla forma ‘in quanto tale’ e, in quanto tale, dall’unità col contenuto, dalla presenza di un essere del diritto che è ordine, forma e sostanza (nei termini auristotelici), materialità dell’immateriale e immaterialità del materiale (nei termini discussi recentemente da Romano). Questo potrebbe significare intendere l’ordine come unità originariamente costitutiva degli ordinamenti e rintracciare questa 10 H. KELSEN, Teoria generale della norma, Torino, 1985, p. 255. S. SATTA, cit., p. 47. 12 B. ROMANO, Scienza giuridica senza giurista: il nichilismo ‘perfetto’, Torino, 2006, p. 94 ss. 13 Per la critica a Kelsen cfr. B. ROMANO, Due studi su forma e purezza del diritto, Torino, 2009, p. 105 ss. ed anche G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, in Opere, vol. V, Milano, 1959, p. 311 ss. 11 252 INTERVENTI unitarietà in quella che rende l’umano nella differenziazione del suo manifestarsi. Voglio dire che, alla fine, in gioco c’è un unico nucleo da mettere in discussione: la contemporanea distinzione e affiliazione tra molteplicità e unità14. La formula ‘diritto dell’uomo’ rappresenta questo nucleo e discute la possibilità che l’unità dell’essere (tanto dell’uomo quanto del diritto) si dia nella molteplicità dei singoli (tanto individui quanto ordinamenti); la possibilità che la molteplicità sia l’unico esito dell’unità e che l’unità sia l’unica ragione della molteplicità. Ma questo dice qualche cosa circa la ‘struttura mancante’15, dunque ermeneutica, di uomo e diritto e sulla loro stretta connessione reciproca16. La forma ‘in quanto tale’ è forse da discutere anche in questa direzione nella quale il diritto vivente appare come persona sussistente e la storia umana e giuridica si svela come narrazione di questo presentarsi ermeneutico della forma, manifestazione molteplice e materiale di un unità immateriale. In questo plesso, la forma dello spirito umano e lo spirito della forma giuridica si dispiegano nella direzione di una estetica che non è visione estetizzante dell’evento ma ontologia antropo-giuridica; è critica della forza (violenta) eletta a regola e assunta come ordine. Richiamare l’ermeneutica e l’ontologia, in queste mie poche osservazioni a margine, significa pensare il nucleo, assieme unitario e molteplice, della vitalità umana e giuridica, che merita di essere pensato filosoficamente. Del resto, l’espressione di Yorck che potrei porre ad esergo: «il pensiero come atto vivente presuppone la vita, anche contenutisticamente»17, nasce in un dialogo con Dilthey che sul punto è si14 Cfr. G. CAPOGRASSI, Note sulla molteplicità degli ordinamenti giuridici, in Opere, vol. IV, Milano, 1959, p. 181 ss. 15 S. COTTA, Il diritto nell’esistenza, Milano, 1991, p. 73. 16 Cfr. B. ROMANO, Filosofia del diritto, Roma-Bari, 2002, p. 179 ss. 17 K. GRÜNDER, Zur Philosophie des Grafen Paul Yorck von Wartenburg, Göttingen, 1970, p. 336. DANIELE M. CANANZI 253 gnificativo: nota Yorck: «che l’intera datità psico-fisica non è ma vive è il punto centrale della storicità»18, ed osserva Dilthey: «la vita storica è una parte della vita in generale, la quale è tutto ciò che è dato nell’Erleben e nell’intendere»19. Intendere la vitalità della forma ‘in quanto tale’ è cogliere l’uomo nell’esperienza, come uomo singolo ed individuale, ma anche come uomo qualunque e storico; a questo uomo il diritto si riferisce e per questo uomo il diritto vive, in questo uomo il diritto vive nel quotidiano ordinario, che forse è la vera e più autentica eccezione. La forma del mondo storico e del soggetto storico, che portano non a caso Dilthey a ricordare l’unità vichiana del verumfactum, conduce l’esplicitazione della condizione (giuridica) nella quale tutta questa vitale vitalità si esplicita: l’ermeneutica, che è costante e continua interpretazione dell’essere; è ontologia, è interpretazione di quel fatto pre-essente alla volontà dell’uomo la quale liberamente e volontariamente ne svela il vero, esistendo la sua storia personale e universale. L’estetica, come riflessione sulla forma e della vitalità, inizia quando l’uomo – come è stato detto – ‘rinuncia a farsi fare uomo’; le ragioni di questa rinuncia costituiscono gli esiti e l’inizio del pensiero, di un pensiero che può dirsi filosofico e di una estetica del diritto. In questa direzione, la forma dello spirito umano è spirito della forma giuridica, la persona è diritto sussistente: unità nel molteplice, molteplicità dell’unitario, come la filosofia del diritto non ha mancato, talvolta, di sottolineare. 18 P. YORCK VON WARTENBURG, W. DILTHEY, Carteggio, Napoli, 2000, p. 173. 19 W. DILTHEY, Critica della ragione storica, Torino, 1954, p. 332.