Luigi Di Santo*
Il processo nella sua dimensione spazio-temporale
come forma formata e forma in formazione
L’esperienza giuridica trova la propria incarnazione nello spazio e nei tempi del processo, dove passa non indifferente, la vita.
Come non ricordare in tal senso, il magistero di Giuseppe Capograssi. Penso alle dense e suggestive parole di Giudizio processo
scienza verità del 1950, dove Capograssi ricorda come «il processo tocca tutte le persone e tutti gli interessi», la vita dunque.
La prospettiva processuale del diritto gioca con le dimensioni
temporali. Scrive Capograssi: «c’è certamente qualcosa di magico
nel processo»1. Il ritorno del passato al presente, il tempo che si
ripresenta che fa i conti con la coscienza del giudice, dell’assente,
del terzo, di chi rimpiazza alla fine la presenza stessa. Da una
parte è evidente la definizione della intemporalità del diritto che
sospende il tempo effettuale e in tal senso si concede alla legge di
farsi concreta alla fine del procedere. Dall’altra, Capograssi nel
suo interpretare l’esperienza processuale, guarda non tanto al
tempo determinato ma al tempo della coscienza. Scorre il tempo
e la coscienza del giudice perviene ad una ‘sintesi originale e trasformatrice’, interviene la sententia animi del giudice. È il diritto,
*
Università di Cassino.
G. CAPOGRASSI, Giudizio, processo scienza verità, in Opere vol. V, Milano,
1959, p. 57; Per una riflessione sulla relazione tra tempo e diritto in Capograssi, mi permetto di segnalare L. Di SANTO, Tempo e diritto nella prospettiva
filosofica di Giuseppe Capograssi. Un confronto con Gerhart Husserl, in
A.A.V.V, In ricordo di G. Capograssi. Studi napoletani in occasione del cinquantenario della morte (a cura di G. Marino), Napoli, 2008, pp. 70-85.
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dunque, ad aprire nuove prospettive tra interiorità ed esteriorità,
a mettere in gioco le certezze di filosofie scientiste che dimenticano l’uomo e il suo travaglio. «La vita del diritto è lontana dal
rappresentare quel lungo fiume tranquillo che si immagina dall’esterno: in esso gorgogliano le forze vive della coscienza sociale
e si affrontano tutti i generi di pratiche e di interessi, dei quali una
parte soltanto si conforma alla norma»2. Nella dimensione del
simbolico, il terzo giudice pone temporalmente in connessione il
passato del diritto, il diritto vigente, con la produzione di una realtà, quella che succede al giudizio e vive nel futuro. Si dimostra
centrale la rilevanza filosofica ed umana del processo quale luogo
spazio-temporale in cui libertà e responsabilità si intrecciano per
rinnovare la coscienza giuridica. Il divenire è la mutazione della
realtà mediante la libertà3 – scrive Kierkegaard – ma una libertà
che implichi sempre il comunicare il senso di responsabilità nella
direzione della imputabilità come nucleo ortonomo dei diritti dell’io-persona ‘dinanzi alla legge’. Ciò comporta profonde domande sul senso della relazione intersoggettiva tra logos e nomos
nel segno di un dire parole che «non vengono dal nulla per tornare a disperdersi nel nulla»4. Ricercando nel processo quale dimensione spaziotemporale del giuridico, il senso esistenziale della
discorsività dialogica, le aule dei tribunali aprono le porte al giudizio che cerca la verità. Deridda nel suo Pre-giudicati. Davanti
alla legge, si interroga sulla questione del «come giudicare?» in un
incontro di codici giuridici e linguistici, in direzione di una presentificazione della legge che starebbe ad intendere «tutt’al più
sapere, tecnica, applicazione di un codice, apparenza di decisione, falso processo, o ancora racconto, simulacro narrativo, a
2 F. OST, Mosè, Eschilo, Sofocle. All’origine dell’immaginario giuridico, Bologna, 2007, p. 21.
3 Cfr. S. KIERKEGAARD, Briciole filosofiche, Brescia, 2003, p. 140.
4 B. ROMANO, Sistemi biologici e giustizia. Vita animus anima, Torino, 2009,
p. 69.
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proposito del giudizio»5. Ma l’essere ‘coscienti’nella propria individuazione metatemporale, situa l’io-persona nella ek-staticità
temporale6 senza disperdersi nel flusso, senza temporalizzarsi
come principio di sentieri nichilistici. La ‘via temporale del giudice’ – come nota G. Husserl – delinea il processo di applicazione
del diritto nel richiamo della dimensione del passato al presente7,
ma l’attività ermeneutica che viene promossa rinnova il giuridico
per il futuro al quale appartiene l’uomo nel suo istituzionalizzarsi.
Le riflessioni sono sempre parziali e ‘provvisorie’, direbbe Bruno
Romano, come i saperi, ma urge rappresentare l’esigenza di esplorare questa apertura filosofica e giuridica in relazione alla genesi
del processo come simbolica spaziotemporale nell’incontro tra
umano e giuridico, dove emerge l’inattuale nella dimensione del
‘tempo del giudice’, sul piano della responsabilità come codice ermeneutico della libertà, in un tempo, quello attuale, ricorrendo al
monito sempre vivo di Satta, dove «esiste una vera e propria vocazione a vivere senza il diritto»8. Ma qui interviene il processo
come dimensione spaziotemporale del giuridico. «La forma già
formata presenta nell’uomo il concetto generale di imputabilità.
La forma in formazione presenta l’uomo nella concretezza del suo
poter esser imputato per atti pensati e voluti nelle sue scelte, formative delle sue condotte»9. Il processo necessità di una forma
dunque, ma essa può eccedere e prevalere sulla verità. «Il formalismo comincia dove il diritto finisce. Esso rappresenta veramente
una frattura dell’esperienza giuridica: al posto dell’esperienza e
del suo libero movimento si pone una falsa esperienza, cioè l’immobile vuoto, che si tratta come cosa salda, modellandolo in
forme che, essendo forme del vuoto, hanno il pregio di essere in5
J. DERRIDA, Pre-giudicati. Davanti alla legge, Catanzaro, 1996, p. 62.
G. CAPOZZI, L’individuo il tempo e la storia, Napoli, 1979, p. 176; ID.,
Temporalità e norma, Napoli, 1996, p. 337.
7 G. HUSSERL, Diritto e tempo, Milano, 1998, p. 53.
8 S. SATTA, Il mistero del processo, Milano, 1994, p. 22.
9 B. ROMANO, Filosofia della forma. Relazioni e regole, Torino, 2010, p. 85.
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finite»10. Come ci ricorda Opocher si tratta fondamentalmente di
un riconoscimento di verità. Da un lato si pensa alle garanzia
delle parti, dall’altra c’è l’urgenza della verità11. L’accertamento
della verità ha a che fare con l’innocente e il colpevole. Il processo
come forma posta si riscontra nel presidio di qualcuno. Da un
lato la pretesa di dignità, dall’altra il dovere della verità. Si pensi
alla revisione del processo come recupero della dimensione del
passato, sempre legata, in ogni caso, al futuro per i fatti nuovi. Si
innesca un gioco delle parti temporali, dove il tempo circolare si
dispiega nel suo essere forma, limite e vincolo. Vincolo di tempo,
vincolo di spazio, vincolo di espressione. In tal senso, ex ante la
condizione originaria viene espressa, nella sua condizione di possibilità, dal principio di eguaglianza; ex post la circolarità si compie nella ricerca del limite virtuoso dell’equità. Il processo, oltre
che forma formata che regola, è forma in formazione. Opocher
afferma che la processualità è il luogo dove il diritto è il diritto.
Anche il diritto deve essere sottoposto a processo. In tal senso la
processualità trova la propria dimensione nell’essere struttura
eventuale necessaria, in quanto certezza come forma finita, possibile come forma in formazione, indefettibile nel suo dover poterci
essere. Opocher, nel distinguere il formalismo logico dal formalismo giuridico scrive che «il diritto si munisce di una forma per attuare il processo»12. Ma la forma obbedisce ad una ratio. Il formalismo non obbedisce ad una ratio. In che misura, un eccesso di
forma può nuocere all’accertamento della verità? La sentenza ci
parla di tutta la verità? Ma quando si mette in forma una ratio, si
decide che altre rationes vengano meno tutelate nel segno di un
principio di esclusione /prevalenza, dove la forma reale è la forma
pensata. Il processo istituisce una situazione da accertare. Il fatto
è incerto, in formazione. Se la legge è forma in formazione, la sen10
S. SATTA, Il mistero del processo, cit., p. 86.
E. OPOCHER, Lezioni di Filosofia del diritto, Padova, 1984, pp. 314-315.
12 Ivi.
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tenza è eidos come forma totale. Ma la revisione del processo, che
tutela il condannato come persona, smentisce una linearità temporale che non coincide con la spazialità del luogo simbolico del
processo. Se per Opocher il formalismo è necessario, è un valore,
lo è in quanto il processo fa un processo a se stesso col fine di
un’analisi delle condizioni per garantire quel principio di eguaglianza che in senso polisemico si oppone all’idea scientista. Il
processo come forma formata e forma in formazione dunque si
propone attraverso una linearità (formale), una circolarità ( torna
su se stesso) e una profondità (giudizio sulla norma in direzione
della narrazione dei vissuti profondi). Sembra essere distanti dal
formalismo totalizzante e staticizzato di Kelsen. Ciò che accade
nel processo è il microcosmo dell’intera società. «La crisi del diritto, la crisi del processo non è che un aspetto della grande crisi
spirituale che è rivelabile in ogni campo della vita morale, nell’arte, nella filosofia, perché è la crisi dell’uomo»13. Ma la coscienza giuridica lega la relazione io – tu nella dimensione intersoggettiva della sfera patica senza cedere il passo al feticismo della
forma, dichiarando l’urgenza del mondo vivo. All’interno del
processo c’è sempre un Novum. «La verità e la giustizia sono dimensioni dell’io, hanno la forma immateriale del senso, non sono
le forme di oggetti materiali. Il giurista non cerca la giustizia e la
verità tra gli oggetti, tra le cose senza anima personale, mai chiamabili a dialogare nel dibattimento che prepara la sentenza del
magistrato»14. La forma è necessaria ed è giustificata da una ratio
che richiama principi di dignità, il formalismo si rende indipendente da ogni ratio ed ogni esperienza coscienziale. In tale direzione «il fenomeno del diritto ha uno specifico compito esistenziale, che lo distingue dagli altri fenomeni della coesistenza: garantisce all’io di ognuna delle parti della relazione la possibilità di
scegliersi una forma nuova, che eccede la sua forma presente e co13
14
S. SATTA, op. cit., p. 79.
B. ROMANO, Filosofia della forma. Relazioni e regole, cit., p. 59.
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struisce la formazione di una identità mai definitivamente formata»15. Siamo notevolmente distanti da ogni possibile caduta
nella paralisi ‘gnosica’ di forme per sempre, di un diritto senza
pretesa di giustizia. Il processo è necessariamente, nella sua dimensione spaziotemporale, forma formata e forma in formazione,
dove si esplica un plus di senso che dice oltre la sentenza. Una
ratio dell’esperienza coscienziale che si impone al di là dello strumento normativo. In tal senso, sembrano profetiche le parole di
Capozzi, quando si interroga sui ‘tecnicismi’ del Sistema giuridico
e le sue manifestazioni contraddittorie «per le quali il Diritto non
sarebbe che una previsione di ciò che si decide e produce nelle
sentenze dei Tribunali»16.
15
16
298.
Ivi, p. 105.
G. CAPOZZI, La ragione giuridica nei Sistemi del fare, Napoli, 2010, p.