Approfondimento V Le Operette, capolavoro della letteratura filosofica dell’Ottocento (Leopardi e la censura) 1. Il desiderio di veder chiaro nella coscienza di un popolo 1.1 Alcuni dati da tener presenti Da quanto fin qui abbiamo visto nell' Introduzione, nei due Avviamenti alla lettura e nei vari Approfondimenti, risultano alcune significative particolarità dell’opera leopardiana nel suo complesso che, in versi e in prosa, mira comunque alla conservazione di un patrimonio culturale che non può disperdersi, senza che si rischi di tornare indietro invece di andare avanti. Un tale errore di prospettiva denunciato da Leopardi comporta sul piano filosofico la sostanziale incomprensione del punto di vista copernicano, che non consiste nel conclamare la verità nuova, ma nel denunciare l’errore vecchio [ Approfondimento 1 ]. Occorre insomma, per avviare gli Italiani al gusto della filosofia, cioè al gusto dello studio intelligente e critico, che essi imparino quanto sia importante, e da certi punti di vista entusiasmante, scoprire un errore, invece che rifugiarsi in verità convenzionali. Leopardi si rese presto conto della validità del proprio progetto e, allo stesso tempo, degli ostacoli che avrebbe dovuto superare per far sì che le Operette morali avessero la fortuna che egli, in coscienza, si augurava. Assai diligentemente Saverio Orlando, nel prendere in esame la vicenda editoriale dell’opera, dà indicazione di cinque edizioni che delle Operette morali si sarebbero avute vivente Leopardi1. In realtà le edizioni, per così dire definitive e non parziali. furono tre. Le “edizioni” che Orlando indica come la prima e la seconda (e che comprendono solo tre 1 S. Orlando, Introduzione a G. Leopardi, Operette Morali, Rizzoli, Milano 2004, p. 33-37. Orlando si riconduce alla storia della pubblicazione dell’opera tracciata da Giovanni Gentile, nell’edizione delle Operette morali dallo stesso Gentile curata per Zanichelli nel 1925. dialoghi, cioè il Dialogo di Timandro e di Eleandro, il Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez e infine il Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare) sono infatti un “assaggio” di quella che, realizzata nel ’27 dallo Stella, costituisce la prima vera edizione delle Operette morali. Non per questo devono trascurarsi quelli che abbiamo definito assaggi delle Operette e che Orlando fa benissimo a prendere in considerazione, in ciò ripercorrendo, magari con altre finalità, la via tracciata da Giovanni Gentile. Questi “assaggi” servono a Leopardi per studiare, in vista dell’edizione completa, le reazioni del pubblico e della censura. Non è neanche un caso che i tre dialoghi apparsi una prima volta sull’ “Antologia” di Firenze, venissero pubblicati nuovamente, a distanza di tre mesi, corretti in alcuni punti, nel “Nuovo Ricoglitore” di Milano. Si tratta di un’operazione con cui lo scrittore si accerta innanzitutto del favore che può incontrare presso il pubblico italiano il genere del dialogo che da Platone, attraverso Cicerone, Luciano, gli umanisti e quindi gli illuministi, è una costante della tradizione letteraria e culturale europea, da contrapporsi utilmente al genere romanzo. 1.2 La questione della censura Leopardi peraltro sa quel che sanno altri scrittori della sua epoca e innanzitutto che la censura non fosse moderata perché, come scriveva Silvio Pellico al fratello Luigi “essa lascia correre qualche volta alcune verità, ma solo nei volumi di grande spesa, perché pochi li leggono, oppure inavvertitamente”2. Dal 1919, alla vigilia del “caso” che si accenderà intorno al “Conciliatore” all’epoca in cui escono le Operette morali è trascorso qualche anno ma su questo piano poche cose sono cambiate. Lo stesso “Gabinetto Vieusseux”, animatore della vita culturale fiorentina e al quale farà riferimento Leopardi, si era fatto promotore dell'Antologia”, per idealmente continuare l'opera che Pellico e compagni avevano avviato col “Conciliatore”. Perciò delle Operette morali, che non sono un libro di grande spesa e che si ripromettono di fare un po’ di rumore in tutta Italia, appare un “assaggio” a Firenze e a 2 Lettera dell’agosto 1919 in Rinieri, Della vita e delle opere di Silvio Pellico, Torino, 1898, vol I, pp. 347-8. Milano, su giornali di larga diffusione e “importanti”. Ciò comporta la possibilità di dare alle stampe in tempi brevi un libro, sul quale si è creata un’atmosfera di attesa. Per fare un po’ di rumore basta aggiungere con cautela qualche altro dialogo un po’ più esplicito sul piano della critica all’ideologia del progresso e all’antropocentrismo, attenuandone il sapore aspro con un po’ di ironia. Il progetto, per quanto possa far venire un po’ di mal di pancia a qualche rigoroso censore, non può tuttavia essere ostacolato più di tanto dalle stesse autorità di polizia. Leopardi aveva insomma studiato bene le sue mosse. Il punto è che proprio gli “amici di Toscana”, vale a dire quelli che avrebbero dovuto aiutarlo a far passare il “messaggio”, ne attenuarono fortemente i toni diffondendo la leggenda, così dura a morire, del pessimismo leopardiano. Ci saranno però, a breve distanza di tempo l’una dall’altra, cioè rispettivamente nel 1834 e nel 1835, l’edizione Piatti e l’edizione Starita. Come abbiamo già visto, a ogni nuova edizione Leopardi compie, non senza problemi costituiti dalla difficoltà di aggirare la censura, uno sforzo in più per farsi capire. Nell’edizione Piatti del 1834 figurano il Dialogo di un Venditore di almanacchi e di un passeggere, nonché il Dialogo di Tristano e di un Amico con cui, da allora in poi si chiude la raccolta delle Operette morali. Nella edizione napoletana del 1835 per i tipi di Saverio Starita, e che è importante essendo l’ultima apparsa vivente l’autore, è escluso il Dialogo di un Lettore di Umanità e di Sallustio, mentre c’è una Notizia intorno a queste operette che non fa certo da introduzione, trattandosi di una pura e semplice nota editoriale. 1.3 L’importanza delle Operette nella considerazione di Leopardi Come spiegheremo più oltre, affrontando il tema relativo a Leopardi e alla censura, l’ultima edizione delle Operette morali apparsa vivente l’autore, non ottenne il visto della censura e fu pubblicata con l’espediente di modificarne il frontespizio. I “tagli” a cui comunque l’autore si era dovuto adattare richiesero che in tempi migliori, cioè nel 1845, a otto anni dalla sua morte, il libro venisse ristampato a cura di Ranieri per la Le Monnier di Firenze, in quella che sarà nel seguito utilizzata come base di riferimento per tutte le successive. E’ il suo stesso libro, nella forma definitiva in cui oggi lo leggiamo, a dare al lettore la misura di quanto Leopardi tenesse a questa sua opera. Nelle edizioni che precedono quella curata da Ranieri nel 1845 per l’editore Le Monnier mancano alcune operette, assenti dalla raccolta per questioni legate alla censura. Si tratta del Copernico e del Dialogo di Plotino e di Porfirio. Abbiamo fin qui parlato di una struttura bipartita dell’opera che contrappone moderni e antichi, struttura che l’opera ha fin dalla sua prima stesura. Ma abbiamo anche parlato di un gruppo di Operette che chiudono il discorso e nelle quali appaiono delle “maschere filosofiche”. E’ proprio in quest’ultima parte che, stillando il veleno dell’ironia, Leopardi difende il proprio punto di vista, autoironizzando sull’opera svolta. Sono alcune delle pagine più dense del libro e comportano delle difficoltà notevoli per qualsiasi lettore, specialmente del lettore d’oggi che non abbia confidenza con la lingua di Leopardi, così allusiva e al tempo stesso così propria. Leopardi sapeva che i giornali, quelli che lui chiamava le “gazzette”, avrebbero avuto un grande avvenire e forse sospettava anche che lo stile giornalistico si sarebbe andato a mescolare con quello degli storici. Probabilmente però non era in condizione di prevedere alcune conseguenze di questo incontro di linguaggi e di approcci, oltre che alla cronaca anche alla storia. Certamente però ebbe percezione della inadeguatezza del linguaggio giornalistico per quanto riguarda le questioni filosofiche e il modo di diffondere e partecipare a un pubblico di lettori non professionali questioni emergenti dalla viva attualità. Ora di questo particolare aspetto avremo occasione di ragionare più avanti. Per il momento ci preme trattare, sia pure di sfuggita, l’altro quello cioè relativo alla pretesa di ragionare di storia con il linguaggio della cronaca., perché questo ci aiuterà a capire un po’ meglio quanto abbiamo per fugaci cenni detto circa il destino delle Operette morali nell’Italia dell’Ottocento. Prima però dobbiamo ricordare la cronologia degli eventi chiave. Pubblicate la prima volta nel 1827, assieme ai Promessi Sposi, le Operette non entrano nell’epopea risorgimentale se non a fatica. Leopardi inoltre muore nel 1837 e le critiche da lui avanzate agli “amici di Toscana” rischiano, come abbiamo accennato, di fare del suo libro un libello addirittura reazionario. Mamiani, Tommaseo, Cantù, Colletta e lo stesso Capponi, le cui posizioni sono da Leopardi apertamente criticate e sconfessate nelle Operette, si guadagneranno sul campo il titolo di patrioti, campioni delle aspirazioni nutrite dai giovani italiani, alcuni dei quali moriranno, altri rischieranno la vita e affronteranno il carcere per aver corrisposto all’appello contenuto nei loro scritti. Qui va precisato che a togliere luce alle leopardiane Operette morali ci sono proprio e innanzitutto alcune opere di questi scrittori amici di Leopardi. Tali sono la Storia del Reame di Napoli di Pietro Colletta; il Rinnovamento della filosofia in Italia che Mamiani scrisse durante il suo esilio in Francia; il libretto dei Puritani, celebre opera di Bellini, scritto da Capponi con il coro “Guerra, guerra!” che accese ancora nel Quarantotto e nel Cinquantanove i petti di tanti italiani. Tutto questo per tacere dei veleni sparsi da Tommaseo e da Cantù sull’opera di Leopardi. Stabilito questo e ricordato che al mondo dei giornali è legata l’attività di questi intellettuali dell’Ottocento, che hanno anche meriti che nessuno può loro negare, procediamo col vedere le implicazioni di una storia raccontata come epopea. 1. 4 L’epopea risorgimentale L’Ottocento è un secolo la cui storia è stata ricostruita avendo cura di parteciparla a chi non l’aveva vissuta o l’aveva vissuta nella memoria privata, personale e familiare, in modo del tutto marginale e aveva ora interesse a saperne qualcosa. Lo stacco generazionale tra coloro che erano vissuti nell’epoca “eroica” del mazzinianesimo e del garibaldinismo e quelli che nacquero quando l’unità d’Italia era cosa già fatta fu in realtà più notevole di quanto noi possiamo oggi immaginare. A colmare la distanza tra gli italiani del primo Ottocento e quelli del secondo Ottocento intervennero scrittori come Edmondo De Amicis e critici e storici della letteratura come Francesco De Sanctis. Furono loro a raccontare ai ragazzi nati dopo l’Unità che cosa fosse veramente accaduto e svolsero un’opera che, come complessiva operazione culturale che mirava a elevare il tono medio della cultura degli italiani, è stata almeno encomiabile. Gli italiani appresero sui banchi di scuola, per merito di questi e di altri autori (fra cui vanno ricordati, secondo noi meritatamente, anche Giuseppe Cesare Abba e Luigi Settembrini), molte cose della loro storia recente che era indispensabile che apprendessero. Il punto è che questo sapere di principi di convivenza civile e di civica moralità fu veicolato dalla diffusione di un sentimentalismo di marca vagamente romantica, che mise in parentesi l’esigenza di un approfondito e serio approccio filosofico (critico, se si preferisce) alle questioni del momento. A tutto questo si aggiungano i danni prodotti da divulgatori assai poco accorti, che scrivono rievocando dalle colonne dei giornali di provincia la loro storia; spesso volgendo in testimonianza le innocenti leggende familiari che si tramandano (e che gli elogi funebri spesso legittimano), sottoscrivendone in fretta la veridicità. Insomma quel povero Enrico, protagonista del Libro cuore, è schiacciato e sommerso dalla storia appena trascorsa e perfino il padre di quel suo compagno di scuola che si fa largo in mezzo alla folla per salutare il re, il quale lo riconosce per un suo antico soldato, è una specie di monumento vivente che falsa l’aspetto vivo e umano del risorgimento. Questo sentimentalismo, e la retorica che ad esso è coerente, vanno in direzione opposta alle indicazioni delle Operette che vorrebbero suscitare il senso critico e un atteggiamento disincantato nel lettore. Sarà capace Enrico, una volta che sia arrivato al ginnasio, di domandarsi perché in Italia si sia tornati a studiare Machiavelli, proponendo però ai fanciulli delle scuole valori e modelli così anti-machiavellici? Il conseguimento dell’età adulta deve necessariamente comportare la messa in parentesi di un mondo, quello della scuola, da vedere come un mondo del gioco, della finzione, delle favole? Particolarità del quadro storico-politico dell’Italia dell’Ottocento 2.1 Il compito dell’intellettuale Che alcuni scrittori di cose serie portassero i lettori italiani in questa direzione è sospetto che Leopardi non trascura di manifestare. Qui le Operette si aprono, come opera fondamentale dello scrittore, vero vademecum scritto per gli altri, pensato per gli altri, ma infine usato dallo stesso Leopardi come punto costante di riferimento anche nell’opera poetica. Che la pedagogia possa convertirsi nella scienza utile a irretire le menti dei giovani, creando illusioni e favole, è una possibilità che a Leopardi ripugna. Eppure egli vede che la funzione delle “gazzette” rischia di riassumersi in questa somministrazione di sonnifero, con cui il secolo XIX volta le spalle al secolo dei lumi, come è lucidamente detto nella già ricordata Ginestra. E’ un fatto che, con l’unità d’Italia alla letteratura, al romanzo in particolare, si riconobbe una funzione pedagogica, non alla speculazione filosofica. A parte l’equivoco di certi eroi di carta, che non sono reali ma finti, si colloca fuori della scena l’unico eroismo nel quale Leopardi possa credere, che è quello di chi, professando come lui la letteratura, insegni a lottare senza tregua negli scenari della vita per lui reale. Quello che si delinea nell’ ultimo gruppo di Operette morali in cui intervengono quelle che abbiamo voluto chiamare maschere filosofiche, è il terreno di scontro su cui Leopardi affronta i suoi rivali. Il contrasto moderni-antichi si è chiuso nelle parole di Copernico e nella celebrazione di Parini, al quale si riferisce il merito di avere restituito allo scrittore quella dignità veramente principesca, che potrebbe farlo simile a Pico della Mirandola. Bisogna riconoscere che l’idea della penna da impugnare come una spada sia una delle più geniali verità messe a fuoco da Leopardi. Le ultime operette sono pura scherma verbale con elegantissime stoccate e parate. In altri termini c’è, a volerlo, dell’eroismo autentico in chi fa, in chi agisce, in chi si pone in discussione, facendo cadere sistematicamente i veli dell’ipocrisia. Insegnare è esattamente questo: insegnare a lottare, coerentemente ai principi che ispirano il nostro modo di lavorare. 2.2 I “nuovi credenti” L’errore di voler continuare a intendere l’ufficio del poeta come vaticinio mise i “nuovi credenti” nella condizione di non considerare che la parola del vate è di per sé non chiara, vuole essere interpretata e, pertanto non può onestamente impiegarsi a fini pedagogici, a meno che il vate non si pieghi all’obbligo di spiegare come arriva ai suoi vaticini, fatto che è però, oltre che imbarazzante, anche obiettivamente difficile. L’aver puntato, per scopi educativi, sulla parola calda e suadente di bravi comunicatori fu un errore di metodo, e come tale fu pagato dalla cultura italiana che non compì in quel momento lo sforzo di ricostruire, assieme a una sua identità, la via per una più attiva partecipazione al dialogo culturale con gli altri paesi europei. L’errore, per quanto riguarda in particolare Leopardi, fu l’insistere a intenderlo quale “poeta”, in un contesto culturale che negava al poeta un impegno speculativo autentico. Perché accadde tutto questo? Per rispondere alla domanda dovremo ora capire in che senso la filosofia di Leopardi potesse creare disturbo a un disegno politico-culturale, ormai già decollato, ben prima che lo scrittore morisse. 2. 3 Le verità scomode A noi pare che si debba ricominciare col ricondurre l’opera di Leopardi al contesto del dibattito culturale in corso al momento in cui le Operette morali fecero la loro apparizione, vale a dire nel 1827, il che significa, per gli italiani dell’Ottocento che leggono l’opera, l’epoca che segna il passaggio dagli anni Venti agli anni Trenta, epoca durante la quale si parla e si ragiona delle Operette morali, delle quali oltretutto si avranno fino al 1835 altre due edizioni. E’ un’epoca densa di avvenimenti storici significativi, a cominciare dai moti del Cilento del 1828 per finire alla rivoluzione di luglio del 1831 e ai moti carbonari che dal ducato di Modena minacciano di espandersi negli altri potentati italiani. Parlavamo, terminando il capitolo precedente, di verità scomode taciute da quella che poi sarebbe diventata la cultura ufficiale, verità su cui sofferma al contrario la propria attenzione Giacomo Leopardi. La prima e fondamentale verità scomoda è che non esistono, alla luce del ragionamento filosofico, argomenti sufficienti a giustificare l’esercizio delle tradizionali virtù. Si sono cercate tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento alcune vie, ma senza esiti certi. Basterebbe leggere il Breve schizzo dei sistemi di filosofia moderna e del proprio sistema di Antonio Rosmini, per rendersi conto di quanto grave potesse apparire la cosa. Si consiederi, per esempio, la posizione da Rosmini assunta circa la filosofia di Étienne Bonnot de Condillac (1715 – 1780), capofila del sensismo, che riusciva a una sorta di materialismo, nel momento in cui la cosiddetta attività mentale è da questo filosofo ricondotta a funzioni biologiche legate all’apparato percettivo nel suo complesso. Riferendosi all’opera di Condillac, Rosmini sostiene che “portò delle conseguenze nocevolissime alla morale e alla religione, perché non avendo l’uomo altro che la facoltà di sentire, ne veniva di conseguenza che il male e il bene non fossero altro che sensazioni piacevoli e dolorose”3 e, accomunando un po’ disinvoltamente teorie che hanno in comune il fatto di contraddire certe posizioni teologiche, prosegue dicendo che “Questo immorale sistema fu svolto in Francia dall’Elvezio, e in Inghilterra fu applicato alla prosperità pubblica dal Bentham, capo degli utilitaristi”4. Come si vede, sono coinvolte le maggiori scuole filosofiche del tempo, incapaci appunto di fondare una morale valida per tutti e in tutti i tempi. Il sensismo perché vi rinuncia in partenza, l’utilitarismo perché giudica importante l’obiettivo da conseguire. Atteggiamenti di questo tipo sono fondatamente intesi da alcuni come espressione di un preoccupante relativismo. Il punto è che possono anche del tutto legittimamente essere qualificati come rispondenti a una visione pluralistica, del tutto coerente allo sviluppo di una società che, ampliando i modi e i sistemi della comunicazione, scopre l’esistenza di più modelli e criteri di vita morale. Un aspetto della cultura illuministica non trascurato da Leopardi è la letteratura di viaggio e la discussione circa i diversi stili di vita, le diverse abitudini, in fatto per esempio di morale sessuale, che esistono in diversi popoli, a cominciare dai popoli antichi. Tali abitudini e tali modelli, tra loro diversi sono tutti a loro modo legittimi e, se non sicuramente legittimi, tuttavia possibili perché da altri praticati. La filosofia non ha modo, in particolare, di giustificare la necessità di obbedire alla volontà altrui, di spiegare le ragioni profonde di un ordine (pre-)costituito, per cui, essendo il mondo preordinato in un dato modo, io debba poi uniformarmi ai comandi di chi del tutto presuntamente (re o sacerdote che sia) sappia in quale modo quell’ordine agisce. Qui va detto che al mantenimento di un ordine, ovvero allo stabilirsi di un nuovo ordine di cose, tengono tutti coloro che in un mondo così concepito abbiano un ruolo, una funzione, un grado che li collochi in una posizione avvertita come importante, privilegiata, comunque diversa da quella di altri. Reazionari o rivoluzionari che siano, gli uomini dell’Ottocento sono generalmente persone incapaci di rinunciare a questa pregiudiziale: come il mondo risponde a delle leggi, ugualmente occorre che l’uomo si uniformi a dei principi. Chi non ha principi, o li ponga in discussione, o accetti di tentare un accordo con chi ne ha di diversi, appare una persona di cui diffidare. La parabola che 3 A. Rosmini-Serbati, Breve schizzo dei sistemi di filosofia moderna e del proprio sistema, glaux, Napoli, s. d. ma , p. 34. 4 . Ibidem. in Italia conosce la metafisica neoidealistica, l’unica che tenti (in realtà del tutto anacronisticamente) una rifondazione dell’ordine morale e cosmico, conferma la particolarità dei disagi di cui soffre una classe dirigente sulla quale incombe il timore di un conflitto con le classi subalterne. Né ci pare un caso che nel punto culminante della parabola, quando cioè il neoidealismo tocca i suoi picchi più alti, si consumasse il sacrificio del più leopardiano fra tutti gli intellettuali italiani dell’epoca, Carlo Michelstaedter sul quale grava, tetragona e ingrata, l’incomprensione di tutta una generazione di studiosi5. 3. Leopardi dice la sua 3.1 Il relativismo morale La verità del relativismo morale per cui i tempi, i luoghi e le culture modificano le opinioni e i sentimenti che gli uomini hanno circa quel che è bene o male, è stata nell’Ottocento taciuta, o fatta a fatica passare nelle maglie di discorsi pseudo-accademici. Perciò, sebbene ci fosse chi in Italia sapeva con certezza queste cose, tuttavia il relativismo morale non poteva avere libero corso. Ci furono perfino delle forme di mistico compiacimento circa l’ impossibilità di dire, di cogliere, di vedere, di sapere, di raggiungere l’irraggiungibile. Sono atteggiamenti di derivazione incrociata e composita, in cui la tradizione cristiana si incontra con quella massonica e perfino con quella libertina, riuscendo, in sede di affinamento dell’espressione artistica, a effetti veramente notevoli, come nel caso della tomba di Antonio Canova, vera affascinante e inquietante rappresentazione dell’indicibile. Leopardi però va oltre, varca quella soglia perché si chiede se l’indicibile sia indicibile per pochezza d’ingegno o per viltà e scopre che non 5 . Sulla figura di Carlo Michelstaedter (Gorizia 1887 – 1910) può essere utile consultare i numerosi saggi scritti da Sergio Campailla al quale si deve la pubblicazione di varie opere di Michelstaedter dal più noto La persuasione e la rettorica alle poesie per finire con l’epistolario e una conferenza inedita. Inoltre può utilmente leggersi A. Piromalli, Michlestaedter, Il Castoro, Firenze 1968. solo il cuore ma anche la mente dell’uomo può essere vile. Questo non altro è il senso del canto A Silvia, vera operetta morale in versi, dialogo del poeta col fantasma di una fanciulla. L’uomo mette un velo sulle sue illusioni e il progresso, con la sua retorica provvidenzialistica, è il nuovo mito collettivo dell’Ottocento. Immerso in questo sogno, l’uomo moderno non vede le sue verità scomode e, nel divulgare la cultura, fa a infelici e diseredati promesse che non sarà in condizione di mantenere. Si inganna e inganna. 3.2 La critica ai valori tradizionali Questa riflessione critica intorno alle idee correnti nel secolo, che, stando a diverse ricostruzioni ufficiali della letteratura e della cultura italiana del XIX e del XX secolo appaiono generalmente cantate come generosi ideali, è alla coscienza di molti italiani tuttora considerata pericolosa e pericolosissimo partecipare e diffondere l’esigenza di approfondire qualsiasi ricerca in questa direzione. Di qui una sorta di demonizzazione della tradizione illuministica, che aveva invece imboccato una strada che portava dritta verso questa meta. A giustificare la prudenza che in tale materia occorre secondo i romantici osservare, l’Amico di Tristano insisterà nel dire che bisogna tenere presente che ci si trova “in un secolo di transizione”. Eccezione pretestuosa, come gli farà pesare Tristano, visto che “tutti i secoli, più o meno, sono stati e saranno di transizione”. Perciò il fatto non giustifica il compromesso che la nuova classe dirigente cerca con le istituzioni del mondo medievale. Il punto è che le folle eccitate fanno paura e, come in passato, si torna a temere di quel che può accadere quando siano fatte partecipi del fondamento autentico della nuova cultura: il dubbio. Analfabeti, straccioni, mendicanti sono visti come facenti parte di un’umanità diversa a cui non si possono svelare gli errori (come Leopardi li chiama), o anche semplicemente gli inciampi, gli strappi, le incoerenze di una cultura, che aveva avuto il “merito” di costruire delle certezze. Invece di celebrare, platonicamente e baconianamente, l’emancipazione dagli antichi pregiudizi, l’Ottocento e più ancora il primo Novecento, si sentiranno orfani e piangeranno il venir meno delle certezze che ora, più di prima, sono vacillanti, anzi inconsistenti. Sempre stando alle ricostruzioni di una cultura ufficiale, sono pochi gli scrittori e gli intellettuali italiani che disinvoltamente affrontano la caduta degli idoli. Se si eccettuano tra i principali, Luigi Pirandello, Gabriele D’Annunzio, Guido Gozzano, Aldo Palazzeschi, Eugenio Montale, Giorgio Colli e Emanuele Severino (i quali ultimi sentono il bisogno di rifarsi alla filosofia di Friedrich Nietzsche, così vicina allo spirito leopardiano), l’intellettuale italiano negli ultimi centocinquant’anni si è spesso disperato e strappato i capelli denunciando la crisi dei valori, il vacillare delle certezze, come se le certezze diano la felicità e non complichino invece la vita, obbligando maestri e padri a risposte evasive su “verità” che acquistano sempre più l’aspetto di belle favole, e come se compito dei padri e dei maestri debba essere quello di non dire ai giovani che il tempo delle illusioni prima o poi deve finire e tutti dobbiamo diventare, chi prima chi dopo, adulti. 3.4 Verso una nuova morale Non sfugga l’importanza che la cosa ha anche e soprattutto sul piano morale. Fingere di non vedere o ostinarsi a ignorare un problema e stimolare negli altri una sorta di sonno intellettuale per non correre il rischio di essere più infelici non ha nulla di grande e di generoso. E’ un concetto relativo alla vita sociale oggi esprimibile in termini piuttosto semplici eppur tuttavia rigorosi. Grazie infatti ai progressi compiuti sul piano dell’ analisi dei fatti sociali, possiamo diversamente da quanto accadeva nell’età di Leopardi, essere su questo punto chiari, diretti ed espliciti. In tutte le società esistono dei tabù. Il riconoscerli per tali non comporta la loro demolizione, ma semplicemente la messa a fuoco di un fenomeno della vita di una collettività che, senza sapersene fare una precisa ragione, si astiene tuttavia dal fare qualcosa che è percepito come disonorevole, peccaminoso, orribile, scellerato. Da questo punto di vista il filosofo, in quanto essere umano, può condividere qualsiasi tabù appartenga alla comunità di cui fa parte e vivere secondo le ritualità che la vita sociale gli impone e che l’educazione ricevuta hanno radicato in lui. Questo però non l’autorizza a piegare la filosofia all’ufficio servile di chi, chiamato a certificare quel che non può certificare, si affretta a inventare ragioni inesistenti per dare al mito fondativo del tabù una giustificazione che non c’è perché il tabù si giustifica da solo. A nostro avviso la deriva razionalista della cultura occidentale da cui Leopardi si tiene prudentemente discosto, preferendo alla divinizzazione della ragione, la ragionevolezza, descrive questa sorta di “follia” in cui caddero diversi intellettuali dell’età che segna il passaggio dall’illuminismo al romanticismo, ovvero dall’illuminismo al positivismo. 3.5 Esigenza di chiarezza L’aspirazione a chiamare le cose con il loro nome è interna alla filosofia leopardiana e questa esigenza, anzi questo rigore morale ha consentito a Leopardi di imporsi anche su tanti che, potendo, l’avrebbero voluto avversare. Ci riferiamo a tanti lettori di ispirazione cattolica e comunque notoriamente credenti, come per esempio Federigo Tozzi il quale ha perfettamente inteso e rispettato la presenza di questa singolare forma di onestà intellettuale appartenuta a Leopardi. In questo senso Tozzi giunge a osservare: Nell’apparente pessimismo del Parini, ovvero della gloria c’è invece una dolcezza della gloria stessa, quasi una soddisfazione intensa ed elevata; una specie di superbia mitigata dalla grandezza di animo e dalla sicurezza della coscienza. Non si sente nessun dubbio vero, nessuno sconforto, ma una 6 serenità ormai fuori d’ogni inciampo, libera e in grado di dire quel che vuole . Questa forza morale è tanto più piena di dignità quanto più si riferisce al grande tema dell’educazione dei giovani, che costituisce appunto il tema centrale del Parini, operetta nella quale si immagina che l’illustre riformatore degli studi si rivolga a un discepolo “d’indole e di ardore incredibile”, apparentemente per distoglierlo dal proposito di cercare la gloria letteraria, in realtà per saggiarne la forza d’animo. A confrontare le idee che in fatto di educazione possiede Leopardi con quelle che furono poi praticate nell’Italia unita, lascia sicuramente perplessi la scelta di indirizzare risolutamente i giovani a coltivare i valori tradizionali, esitando invece nel prepararli a un passo importante e decisivo della loro vita. Diventare adulti, oltre ad essere naturale, può acquistare un aspetto piacevole, quanto più siamo preparati a diventarlo. In fondo diventare “grande” è il desiderio naturale di qualunque ragazzo, che non vede l’ora di potersi sentire libero di fare quello che i “grandi” fanno. L’eterna adolescenza, problema dell’uomo d’oggi che indugia nell’irresponsabilità, non è un fatto positivo, né sul piano 6 personale né su quello degli effetti sociali che produce ed è figlia della cultura tardoottocentesca, con i suoi romanzi rosa per “signorine” (che, educate a queste letture edificanti, dovranno scoprire la prosa della vita matrimoniale); e romanzi d’avventura per “ragazzi”, che scopriranno loro malgrado che cos’è veramente la leva, la guerra e altri momenti della vita, compreso l’amore, eccitanti quando si leggono su un libro e diversamente dolorosi e sofferti, veri quando si vivono autenticamente. Tutto questo mettendo da parte la prosa del lavoro, della carriera, del freno da dover mordere in attesa di realizzare i propri progetti. Può essere allora utile spiegare che, oltre ai sentimenti, vale un’intelligenza pratica e concreta che consiste nel saper gestire la propria vita, compiendo scelte autonome e responsabili. Scelte autonome e responsabili erano state anche quelle di coloro che avevano combattuto per il risorgimento, i quali speravano che qualcosa cambiasse in meglio oltre che per la patria, anche per sé stessi, per i propri amici, per i propri interessi. Che si trattasse di un utile immediato, che fosse l’aspirazione a qualcosa di più alto e nobile, non c’è dubbio che nessuno agisce se non in vista di uno scopo. Forse, c’è da dire, gli educatori di Enrico, il protagonista del Libro Cuore, del quale abbiamo già parlato, avrebbero fatto bene a dare al ragazzo qualche significativa indicazione in tal senso, invece di porgli davanti figure di adulti troppo attenti a farlo restare bambino. Ci pare ovvio che fosse questo un aspetto legato al fenomeno di un’educazione di massa. La scuola in quell’epoca promuove ma al tempo stesso emargina, rimanda al mondo del lavoro nei campi coloro che non studiano o non hanno i mezzi per proseguire negli studi. L’educazione alla politica si compie nel neonato Stato liberale italiano all’interno delle famiglie che hanno memoria storica di quel che significhi amministrare, sia pure a livello locale, per conto di una pubblica autorità. Il modello educativo è pertanto studiato per indurre all’obbedienza chi non assumerà mai responsabilità pubbliche e per creare stimoli a conoscere in chi invece proseguendo negli studi imparerà quel che c’è da imparare. La concezione pedagogica di Leopardi è tutt’altra. Essa si informa a modelli illuministici e consiste nell’ottenere che tutti siano posti nella condizione di aprire gli occhi su certe verità che, esposte in modo chiaro nelle Operette, il poeta dichiarerà apertamente e candidamente nella Palinodia, nei Nuovi credenti e nella Ginestra. 3. 6 Le ragioni di Leopardi In tutto questo va per onestà detto che, a fronte di versioni purgate e emendate delle Operette morali ci furono tanti che sentirono il dovere morale di una libera circolazione di quello che parve subito un capolavoro. E, se noi oggi leggiamo senza problemi le Operette lo dobbiamo alla sensibilità di alcuni intellettuali dell’Ottocento che, pur non essendo d’accordo con quanto Leopardi sostiene, ritennero comunque che il suo pensiero meritasse d’essere proposto ai lettori. Ciò accadde forse anche nella giusta ed equilibrata valutazione che una critica non debba censurarsi per timore degli effetti che può produrre, anche perché se produce effetti, allora è valida e quel che è valido non va censurato. Da questo punto di vista vanno ricordati, tra gli studiosi che fecero “passare” il messaggio di Leopardi, due nomi fondamentalmente. Il primo è Francesco De Sanctis che trovò la maniera di far leggere l’opera del poeta anche nelle scuole; il secondo è Carducci che si adoperò per la pubblicazione dello Zibaldone nell’occasione del primo centenario della nascita di Leopardi. Ma sia l’uno sia l’altro dei due tentativi non furono altro che un modo per far passare solo qualcosa del complesso messaggio elaborato da Leopardi. 4. L’aspetto politico oltre quello pedagogico-morale 4. La morale degli italiani C’è un curioso giudizio di Italo Calvino su Giacomo Leopardi : Per me il padre ideale del nostro romanzo sarebbe stato uno che parrebbe lontano più d’ogni altro dalle risorse di quel genere: Giacomo Leopardi. In Leopardi erano vive infatti le grandi componenti del romanzo moderno, quelle che mancavano a Manzoni: la tensione avventurosa (quell’Islandese che se ne va solo per le foreste dell’Africa, e quella notte tra i cadaveri nello studio di Federico Ruysch, e quell’altra sulla tolda di Colombo), l’assidua ricerca psicologica introspettiva, il bisogno di dare nomi e 7 volti di personaggi ai sentimenti e ai pensieri suoi e del secolo . 7 I. Calvino, M Il giudizio, che a qualcuno potrebbe apparire paradossale, si spiega con la conoscenza che della realtà morale degli italiani Leopardi possiede. Chiunque abbia letto i Canti e soprattutto chiunque abbia anche soltanto scorso l’epistolario leopardiano capisce che il chiacchiericcio cittadino, lo struscio, le ipocrisie dei vicini, i ricatti grandi e piccoli della vita sociale sono un bersaglio continuo verso cui Leopardi scaglia le sue frecce. In effetti è questa l’Italia vera d’allora. Nelle Operette se ne colgono vari riflessi, sia pure prevalentemente negativi. Ci riferiamo a quell’umanità statica e uniforme che non ce la fa a star dietro ai vari Copernico, Colombo, Tasso, Parini e ne santifica la memoria conferendo loro un’autorità che è la stessa contro cui quelli, da vivi, avevano alzato la loro voce. In effetti poco importa a Leopardi che si pensi bene o male, purché si pensi liberamente e ciascuno sforzandosi di dare un contributo. Questo è il senso, il messaggio semplice e diretto, il sugo (per usare un’espressione cara ai manzoniani) delle Operette morali. C’è un’interessantissima pagina dello Zibaldone che va secondo noi messa in relazione a una delle più vive, sentite e palpitanti operette: ci riferiamo al Parini, ovvero della Gloria. Scrive Leopardi in data 20 agosto 1821: Quegli uomini straordinarii e sommi che danno colle loro opere un impulso allo spirito umano, e cagionano un suo notabile progresso, restano dopo poco spazio inferiori nell’opinione e nella realtà, a degl’ingegni molto minori, che profittando de’ suoi lumi, conducono lo spirito umano molto più avanti di quello a cui egli non lo poté portare. Così quelle stesse opere che gli procacciarono gloria, cagionano la di lui dimenticanza; e il gran filosofo con quel medesimo con cui cerca ed ottien rinomanza, travaglia a 8 distruggerla . Leggiamo nel Parini: Se poi (come non è cosa alcuna che io non mi possa promettere di cotesto ingegno) tu salissi col sapere e colla meditazione a tanta altezza, che ti fosse dato, come fu a qualche eletto spirito, di scoprire alcuna principalissima verità, non solo stata prima incognita in ogni tempo, ma rimota al tutto dall’aspettazione degli uomini, e al tutto diversa o contraria alle opinioni presenti, anco dei saggi; non pensar d’avere a raccorre in tua vita da questo discoprimento alcuna lode non volgare. Anzi non ti sarà data lode, né anche da’ sapienti (eccettuato forse una loro menoma parte), finché ripetute quelle medesime verità, ora da uno ora da altro, a poco a poco e con lunghezza di tempo, gli uomini vi assuefacciano prima gli orecchi e poi l’intelletto. Perocché niuna verità nuova, e del tutto aleina dai giudizi correnti; quando bene dal primo che se ne avvide, fosse dimostrata con evidenza e certezza conforme o simile alla geometrica; non fu mai potuta, se pure le dimostrazioni non furono materiali, introdurre e stabilire nel 9 mondo subitamente; ma solo in corso di tempo, mediante la consuetudine e l’esempio Quindi, proseguendo …E’ sentimento, si può dire universale, che il sapere umano debba la maggior parte del suo progresso a quegl’ingegni supremi, che sorgono di tempo in tempo, quando uno quando altro, quasi 8 . Zibaldone [1533] 9 .O.M. Il Parini, Cap. VIII miracoli di natura. Io per lo contrario stimo ch’esso debba agl’ingegni ordinari il più, agli straordinari 10 pochissimo. E’ un concetto alto, generoso, nobile (in senso morale) dell’ambizione nell’uomo, un concetto che nel momento storico in cui Leopardi vive va gradatamente spegnendosi, forse definitivamente. Ci pare che lo stesso scrittore non sappia nel suo profondo dirimere la questione e stabilire quanto veramente, autenticamente, questa spinta possa esaurirsi. Il timore che così sia è però in lui fortissimo, talvolta quasi angoscioso. Allo storico della cultura che si addentri nel labirinto delle dispute, delle discussioni, esaminando carteggi ed epistolari, dove più chiaramente e apertamente si manifestano preoccupazioni, ansie e dubbi, risulta abbastanza chiaramente che nessun secolo è stato più dell’Ottocento consapevole della impossibilità di legare fra loro fede e ragione. Allo stesso modo nessun secolo è stato più dell’Ottocento attento a velare questo messaggio, timoroso dei possibili stravolgimenti che ne sarebbero potuti sorgere sul piano dell’ordine pubblico e della pace sociale. E’ questa non altra la verità storica che legittima l’affermazione di Leopardi che, rivolgendosi all’Ottocento dice nella Ginestra : qui mira e qui ti specchia, / secol superbo e sciocco, / che il calle insino allora / dal risorto pensier segnato innanti / abbandonasti, e volti addietro i passi, / del ritornar ti vanti, / e procedere il chiami (vv.52-58). Un certo perbenismo borghese, che a mala pena si trova nella Milano di Verri, di Beccaria e di Foscolo, appare invece evidente nel carteggio Tenca–Maffei11, nell’epistolario di Pellico12, per tacere della carte di Manzoni che è un caso a parte, se è vero che lo scrittore temeva che ogni cosa da lui scritta fosse poi destinata a essere diffusa magari clandestinamente. E per questo suo pudore Manzoni, che è fra l’altro senz’altro superiore per intelletto e carattere ai tanti che lo sostennero, va pure capito. 10 .ibidem 11 . Lina Jannuzzi, curatrice del carteggio apparso in tre volumi, sostiene: “A una visione d’insieme gli stessi personaggi dell’ambito maffeiano appaiono in una nuova dimensione, avvolti nella noia della vita di ogni giorno, sbiaditi e rimpiccioliti. Senza l’ausilio di notizie esterne difficilmente si potrebbero identificare con i protagonisti delle Cinque Giornate e di altre avventurose imprese del decennio di prova. La società ambrosiana è colta nel periodo in cui rinuncia a una dimensione europea per assumere caratteristiche borghesi e municipali”.(L. Jannuzzi (a cura di) Carteggio Tenca – Maffei. Introduzione p. VI). 12 . Le lettere di Pellico, pubblicate più volte in varie edizioni, abbracciano un arco di tempo che dal 1815 giunge agli anni Cinquanta. C’è anche una lettera a Francesco Silvio Orlandini nella quale Pellico, in vista della pubblicazione, chiede si apportino alcune modifiche a lettere da lui scritte diversi anni addietro a Ugo Foscolo, nell’evidente preoccupazione che, riprodotte fedelmente, tali lettere inducano nel lettore sentimenti che Pellico dichiara di non aver più. Non si tratta di modifiche particolarmente gravi, ma colpisce in uno dei protagonisti della vicenda risorgimentale un così forte attaccamento alla propria immagine pubblica, anche per quanto riguarda un passato ormai lontano. Negli educatori poi è ricorrente e ossessiva l’idea di dare ai giovani esempi edificanti. Si rileggano i libri concepiti per le scuole, a cominciare dal già ricordato Cuore, così ricchi di esempi di virtù e poco invece di quelle verità relative ai contrasti sociali che il naturalismo francese non ha paura a denunciare. In tutti la paura è una: che gli umili possano ribellarsi. Anche per questo nacque la “rivoluzione”, che si ebbe fretta a fare, nel timore che altri strappasse di mano l’iniziativa ai moderati. Teniamo a precisare che tali conclusioni non discendono direttamente da tesi storiografiche “viziate” da un qualche orientamento politico. Sono conclusioni a cui si giunge mettendo insieme i tasselli di una critica storiografica che tien conto di giudizi che risalgono tanto a Gramsci quanto a Tocqueville, per tacere di un Verga o di un De Roberto, che in un saggio letterario dedicato a Leopardi potrebbero essere appropriatamente citati, essendo Leopardi precursore di un’analisi storico-storiografica che si sarebbe nel tempo meglio definita, in quanto meglio circoscritta all’aspetto sociale. Il rivoluzionario, va detto, è un uomo d’ordine che si dà una disciplina. Il ribelle no. Del ribelle l’Ottocento ha orrore e invidia. Lo disprezza moralmente ma ne canta le gesta, si chiami Fra Diavolo, si chiami Napoleone Bonaparte, si chiami infine Giacomo Leopardi. 4.2 L’Italia intellettuale di fronte alla questione morale al tempo di Leopardi Per poco che, nello sforzo di mettere insieme i tasselli di una ricerca storica che miri alla ricostruzione di un clima morale, si capiscono tante cose dell’epoca in cui Leopardi visse. Gli atteggiamenti moralistici del maestro di scuola, della madre di famiglia, dell’onesto impiegato municipale sono nell’Ottocento dovuti essenzialmente alla paura di cui parlavamo, circa la sollevazione di quella che allora si chiamava “plebaglia”. Essi devono far credere, per conservare l’ordine sociale, che ci sia una ragione al proprio virtuoso comportamento e paradossalmente non è per paura di chi li governa ed esercita su di loro un potere, che essi si comportano bene, ma per il terrore che la mancanza di valori morali autenticamente operativi nelle classi dirigenti, possa, una volta che sia messa a nudo, suscitare nelle folle cittadine risposte pericolose e indesiderate. Non è un caso che, continuandosi a sospettare di Machiavelli, Guicciardini sembri ancora quasi impresentabile13. E’ questa la morale piccolo-borghese, caratterizzata da quella particolare forma di alienazione che si rivela nell’autocensura, e che, agli occhi di Leopardi, è forse più detestabile ancora della censura stessa, perché indicativa di una congiura che silenziosamente agisce sulle coscienze14. E’ proprio per aggirare l’obbligo dell’autocensura che Leopardi utilizzerà la maschera di Tristano quando nell’edizione del 1834 inserirà il Dialogo di Tristano e di un amico, nel quale come vedremo, l’autocensura è messa alla berlina. E’ incredibile, eppure nella patria di Cesare Beccaria e di Pietro Verri, i quali avevano mostrato l’inutilità di comminare certe pene, è ferma tuttavia l’opinione, ancora oggi del resto corrente, che senza lo spauracchio di una pena e di un castigo, i popoli non sappiano vivere civilmente. Ancora oggi c’è chi pensa, del tutto infantilmente, che il crimine si combatta con leggi sempre più severe e con la limitazione delle libertà, dove è ormai accertato in tutti i paesi civili del mondo, a cominciare proprio dall’Ottocento, che molto di più può la bonifica dei quartieri poveri, la creazione di spazi per lo studio, per il gioco, per l’organizzazione intelligente del tempo libero specialmente per i giovani. Al contrario l’arresto, la carcerazione, il maltrattamento spesso acuiscono soltanto le tensioni sociali. La ragione è addirittura banale: chiunque incappi nelle maglie della giustizia, fa parte di una famiglia, di un gruppo, che tanto più violentemente risponde quanto più senta, come purtroppo tante volte accade senza colpa di nessuno, che quella giustizia sia ingiusta. Quante volte succede che l’arrestato, l’incarcerato, il maltrattato sia innocente e, pur senza essere innocente, abbia tuttavia (dal suo punto di vista) delle buone ragioni per violare la legge? Non sempre infatti la legge è giusta e non sempre tiene conto delle realtà che premono gli individui concreti. La società evolve, gli ordinamenti giuridici mutano lentamente e quando mutano, non sempre mutano in una direzione che sia realmente conforme alle necessità del momento. Quale altra ragione hanno avuto in Europa le rivoluzioni di qualunque ispirazione, liberali o socialiste che siano state, se non 13 .Nella Storia della letteratura di De Sanctis Machiavelli “passa”, Guicciardini no: “Francesco Guicciardini, ancorché di pochi anni più giovane di Machiavelli e di Michelangiolo, già non sembra della stessa generazione. Senti in lui il precursore di una generazione più fiacca e più corrotta, della quale egli ha scritto il Vangelo ne’ suoi Ricordi….” (Cfr. F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, vol. II, Laterza, Bari 1964. p. 105). 14 . E’ stato Alberto Moravia a osservare in Leopardi” il rifiuto del compromesso imposto all’arte dalla società, da qualsiasi società, e che agisce come autocensura e inibizione” (Cfr. B. Cicchetti, I Canti del Leopardi, SEI, Torino 1973, p. 150). quella di far corrispondere il paese legale a quello reale? La “rivoluzione” è possibile e si fa, quando la forbice tra la situazione reale e quella ipotizzata e implicitamente descritta da un ordinamento giuridico si allarga troppo. Non è la forza delle idee ma quella dei fatti a dirigere il corso della storia, perché i fatti hanno la forza di imporsi con evidenza; le idee, per quanto belle e generose possano essere, appartengono al mondo dei desideri e delle aspirazioni: affezionarcisi significa talvolta illudersi e restare indietro credendo di andare avanti. Da questo punto di vista Leopardi, e specialmente il Leopardi delle Operette morali, colpisce per la sua lucidità. In una celebre pagina di commento a Leopardi, importante anche perché portò a nuove prospettive interpretative, Sebastiano Timpanaro scriveva nel 1965: La tesi provvidenzialistica secondo la quale Dio o la natura consegue, pur attraverso l’infelicità dei singoli individui, la felicità generale dell’umanità, o la variante della stessa tesi, secondo cui la civiltà moderna assicurerebbe, se non la felicità degli individui, la felicità delle masse erano, a loro modo, tentativi di superamento “dialettico” del pessimismo […] Ebbene il Leopardi, seguendo Voltaire e andando molto oltre Voltaire, non si è mai stancato di respingere e di deridere tale soluzione “dialettica”, proprio perché essa è una soluzione illusoria, una “negazione ideale” che maschera la reale incapacità di 15 liberare l’uomo dall’oppressione che su di esso esercita la natura. . Sicuramente l’intento polemico verso i “nuovi credenti” costituisce una nota costante dell’opera leopardiana, che attraversa gli aggiornamenti delle Operette vale a dire le varie, successive, laboriose edizioni che seguirono la prima del 1827. Attentissimo alla vita di società, per come questa si conduce, pronto con sicurezza a individuare gli spazi nei quali si incontra un certo fervore intellettuale (biblioteche, caffè, salotti) Leopardi ascolta e osserva. Se così non fosse, non avrebbe potuto concepire quel piccolo capolavoro che è il Dialogo di Tristano e di un amico, fedele riproduzione di conversazioni quasi certamente fatte da lui stesso, intorno alle questioni che vi si agitano e alle ragioni per cui sarebbe (a parere dei benpensanti) opportuno tacerne, mentre (secondo Leopardi) bisogna al contrario parlarne e parlarne pubblicamente. Nel descrivere il panorama morale della società italiana dell’epoca, noi partiremo dall’assunto che la visione “dialettica” descritta da Timpanaro e le tesi ottimistiche e provvidenzialistiche che ad essa si accomodano, fossero utili a velare certe situazioni, certi pregiudizi, certe piccole ipocrisie che naturalmente si presentano in una società e 15 . S. Timpanaro, Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano, Nistri – Lischi, Pisa 1965, p. che a Leopardi piace però, da filosofo, fare in modo che emergano, che se ne ragioni pubblicamente. Non per nulla uno dei pochi romanzi che gli piacciono è, a quanto sembra, Il Vicario di Wakefield di Oliver Goldsmith, del quale ragiona con rispetto nei Pensieri16. 4.3 La società italiana Venendo ai fatti, va detto che la società in cui si vive all’epoca di Leopardi è comunque diversa da quella di qualche decennio prima. I contrasti di classe sono meno violenti, ma forse per il fatto d’essere latenti, fanno più paura. Basta pensare a una città (e sulle città Leopardi ha pagine interessantissime anche nelle Operette!) e vedere come, in verità assai imprudentemente, i quartieri si distinguano in base all’estrazione e alla condizione sociale di coloro che li abitano. Non ci sono spazi autenticamente comuni (promiscui, per usare un termine orribilmente snob) e perfino i negozi sono diversi e per persone di condizione diversa, per non parlare del teatro e in genere di tutto quello che ha a che fare con lo svago e col divertimento. Il pubblico si dispone in posti che corrispondono all’appartenenza della classe sociale, perfino quando si vada a sentir messa, con deroghe legate esclusivamente al censo, non certo alle capacità intellettuali e morali, come dimostrano i funerali religiosi di prima, seconda e terza classe. Sono contraddizioni tipiche della città industriale che Napoli, la città patria d’elezione per Leopardi, assai tipicamente presenta con deroghe tanto imprevedibili quanto eccezionali. Lì un conte può trovare sepoltura in una fossa comune, specie se si immagina che questo sia un suo desiderio e non ci si cura che il fatto possa creare scandalo. E’ l’imborghesirsi della società che comprensibilmente dispiace al conte Leopardi che, da conte, ha comunque altra pratica nei contatti umani. Questo imborghesirsi dà vita a situazioni intermedie, con i nuovi ricchi che, come abbiamo cercato di illustrare, non sono signori e non sono più contadini. Questa classe media ha enormi responsabilità, di cui non è peraltro pienamente consapevole perché non ha, come classe media, una sua chiara identità. Abituata a porsi a metà strada tra i paradisi del potere, i cui segreti le 16 . G. Leopardi, Pensieri, CVIII restano ancora nell’Ottocento in gran parte sconosciuti, e l’inferno della miseria e dell’inedia, di cui non capisce gli abissi morali, essa guarda normalmente con superficialità alle cose e questa superficialità ha costituito, per dirla marxianamente, la sua “coscienza” di classe. La sua cosmologia è quella di un mondo fatto a scale, con la pretesa tuttavia che queste scale, su cui scorrono gli scenari della vita reale per come il borghese la vive, poggino obbligatoriamente su qualcosa di stabile. E’ l’illusione assai poco generosa di tanti eroi della narrativa ottocentesca, a cominciare dai personaggi creati dalla fantasia di Balzac, per arrivare alla conturbante e ingenua Madame Bovary di Flaubert e per finire con Gesualdo Motta, il protagonista del Mastro-don Gesualdo di Verga. L’unica cosa a cui serve la filosofia sta, per il borghese-tipo, nella garanzia che essa offre circa il fatto che tutto debba poggiare su qualcosa. A partire dall’Ottocento, la scienza suggerisce l’immagine di un progresso inarrestabile e ingenuamente il borghese, che ha fretta di montare sulle rutilanti scale mobili del progresso, si affeziona alle certezze della scienza, che non esita a divinizzare. Si illude che la ragione abbia un soffio divino, né si domanda come possa l’imperfetta ragione umana aprire scenari su verità definitive. Della religione ha concetti sempre più vaghi, riconducibili a pochi slogan circa l’opportunità e la sensatezza della fede in Dio. 4.4 La rivoluzione dei gattopardi Il punto centrale è che la “rivoluzione”, il “progresso” non suona altro alle orecchie del borghese che come promessa di una “carriera”, di un “avanzamento”, di una promozione sociale. Il fatto nuovo è che, dall’Ottocento in poi, la promozione sociale non comporta più, come negli ultimi tre-quattro secoli era invece accaduto, che il passaggio da una classe all’altra sia sancito dallo sforzo di acquisire veramente una nuova cultura, cioè nuove abitudini, comportamenti e perfino gusti diversi, tipici della classe dirigente. Il nuovo ricco non è più un Barry Lindon che ce la mette tutta per diventare Lord e si addolora e soffre, vedendo che non vi riesce perché non ne ha il talento17. E’ 17 . Ci riferiamo al protagonista del di Barry Lindon. Il romanzo, apparso per all’epoca della vita di Leopardi. Tuttavia il nel suo romanzo è così prossimo nello celebre romanzo di William Makepeace Thackeray Le memorie la prima volta nel 1844, è posteriore, di quasi un decennio, quadro della società dell’ultimo Settecento che Thackeray offre spirito a certe critiche da Leopardi mosse alla società in uno che si accontenta di quel che ha raggiunto come self-made man e mette su una certa arroganza proprio perché pretende d’essere stato bravo e meritevole. Leopardi lo ha in antipatia, come ha in antipatia tutto il suo mondo morale e culturale che gli appare insufficiente. Questo nuovo tipo di personaggio legge il giornale, va alla Borsa, ha leggiucchiato il Vangelo, sa che Virgilio era stato un poeta e Copernico un genio precursore delle scienze moderne, tiene in casa propria qualche anticaglia di cui non conosce il valore ed è, agli occhi di Leopardi, qualcosa come un asino in marsina, anzi ci pare probabile che lo scrittore storcesse il naso nel vedere persone del genere mescolate a quella cerchia di amici che lui stesso frequentava. Leopardi è però un filosofo e riesce a trasformare questa naturale avversione in una singolare forma di comprensione. Invece di prendere di mira il tipo del nuovo ricco, tenta di rivolgersi a lui, provocandone delle reazioni magari intelligenti, di cui Leopardi sa che il suo interlocutore è capace. Ed è perciò sull’intelligenza del lettore che punta risolutamente come autore di un testo filosofico che valga ad avviare alla filosofia. Sempre nel Dialogo di Tristano e di un amico leggiamo significativamente: Amico mio, questo secolo è un secolo di ragazzi, e i pochissimi uomini che rimangono, si debbono andare a nascondere per vergogna, come quello che camminava dritto in paese di zoppi. E questi buoni ragazzi vogliono fare in ogni cosa quello che negli altri tempi hanno fatto gli uomini, e farlo appunto da ragazzi, così a un tratto, senza altre fatiche preparatorie. Anzi vogliono che il grado al quale è pervenuta la civiltà, e che l’indole del tempo presente e futuro, assolvano essi e loro successori in perpetuo da ogni necessità di sudori e fatiche lunghe per divenire atti alle cose. Mi diceva, pochi giorni sono, un mio amico, uomo di maneggi e di faccende, che anche la mediocrità è divenuta rarissima; quasi tutti sono inetti, quasi tutti insufficienti a quegli uffici o a quegli esercizi a cui necessità o fortuna o 18 elezione gli ha destinati. Tale sconfortante, ma assai graffiante considerazione circa gli uomini del proprio tempo, non va letta, secondo noi, come una pessimistica valutazione di cose che possa in qualche modo nascere dallo sgomento d’essersi scoperto malaticcio e infermo. E’ un’accusa. Tale accusa consiste nel rimproverare le paure, le ubbie nelle quali si avvolge la mente di chi è sempre pronto, infantilmente, a scusare se stesso, assolvendosi da ogni responsabilità. Invece gli errori ci sono, sono naturali e da essi si impara. Chi non accetta questa logica non crescerà mai e resterà sempre ragazzo, prigioniero delle favole e di un’ipocrisia che è incapace di cogliere e di vedere in se stesso. trasformazione, che sogna il progresso, che il riferimento ci appare comunque opportuno. 18 . O. M., Dialogo di Tristano e di un amico 5. una dimensione europea della filosofia leopardiana 5.1 Il pubblico per come appare a Leopardi (e come lo tratta Hegel) Questo fatto è importantissimo ai fini di ricostruire la genesi delle Operette morali. Il pubblico a cui lo scrittore filosofo si rivolge non è il pubblico del Settecento, a dispetto del fatto che settecentesche appaiano, e in certo modo anche siano, le idee da lui propugnate. E’ chiaro che l’intento di Leopardi è quello di illustrare quale sia l’origine di tante idee correnti nell’età sua, in un momento in cui tali e tante confortanti e ottimistiche opinioni vengono indicate come nuove. Gli equivoci di una fin troppo facile divulgazione non verranno peraltro alla coscienza degli italiani, poco disposti a interrogarsi criticamente su questa materia. Il punto è che quello che noi oggi chiamiamo “cultura borghese”, e che consiste in un sistema di idee, tenuto insieme da alcuni slogan, che fanno l’instabile fondamento di quella cultura, è qualcosa che, mancando sia di organicità sia di spessore, ruba un po’ dell’uno e un po’ dell’altro ad altre culture che sono poi quelle che vuol demolire o con le quali comunque è in competizione. Questo è il fatto nuovo del secolo XIX. Quanto a Leopardi, si irrita, come abbiamo visto ragionando del Dialogo di Tristano e di un amico, quando vede l’uomo dei suoi tempi inorgoglirsi di quel che gli viene dal grado di civiltà raggiunto, al punto di sentirsi affrancato da qualunque obbligo circa le cose da imparare. Situazione del tutto nuova. Fino ad allora, infatti il borghese che avesse dato la scalata al successo, magari procurandosi un titolo nobiliare, non aveva preteso di eleggere il proprio mondo morale a paradigma di un sistema di vita che potesse valere anche per gli altri. La cultura era, come abbiamo detto, quella della classe dominante, una cultura aristocratica, all’interno della quale non mancavano diversi orientamenti e diverse concezioni del mondo. Ma si trattava di una cultura che aveva reso organica l’articolazione del sapere, al quale ci si era sforzati di dare un’unità. Di qui alcune filosofie, come quella cartesiana e quella leibniziana, che s’erano studiate di tracciare un’ordinata mappa dei principi a cui attenersi. Una secolare pratica del potere era poi riuscita a far sì che i veri problemi, il nocciolo duro delle grosse questioni, si esaminasse all’interno di ambienti protetti, fuori dallo sguardo dei curiosi, a cui si lasciava conoscere quel che, a sapersi, non produce gravi danni. Sicuramente la Massoneria fu la più diretta e significativa espressione di una tale tendenza, ma non tanto nel senso che sancisse l’esigenza di “coprire” una ricerca da condurre in segreto, quanto al contrario per ribadire apertamente e senza veli un’importante verità, quella per cui allo studio, come alle arti e alle professioni, si viene “iniziati”. La cultura aristocratica aveva per secoli proceduto a tale iniziazione, ma senza celebrarne e divulgarne all’esterno la necessità. E’ storicamente documentabile l’abisso di sapere che c’era stato nei secoli precedenti tra i molti analfabeti che popolavano le campagne e un principe di Santa Madre Chiesa, che sapeva di architettura e astronomia quasi quanto Copernico, sul cui nome s’era comunque steso un velo di silenzio. Nelle corti e perfino in alcuni palazzi signorili, come in quello di Monaldo Leopardi, c’era il modo, per chi lo volesse e vi si sapesse muovere, di risalire almeno in parte al cuore dei problemi, al punto cruciale di una dotta questione. Insomma le più aspre questioni di teologia, le più ardite concezioni circa la costituzione dell’universo e, naturalmente, la scienza politica si dibattevano solo a certi vertici. Il borghese che non svolgesse professioni particolarmente qualificanti sul piano culturale, continuò a non avere accesso alle stanze segrete sia del potere sia del sapere e quando pretese di inserirsi attivamente nel dibattito culturale, lo fece mettendo assieme alcuni concetti generalmente veicolati da una cultura della divulgazione, senza cioè andare veramente a fondo nelle questioni. Di qui una cultura che non ama il rigore e che al rigore non è sollecitata dalla rapidità con cui spende i concetti che mette in campo. E’ una cultura che in particolare non ama la filosofia, in essa vedendo un teoreticismo fine a se stesso. C’è qui un’affinità profonda tra la filosofia leopardiana e quella hegeliana che ci pare non sia stata sufficientemente notata. Se Leopardi è estraneo a un progetto che può identificarsi con l’idealismo, in quanto i filosofi idealisti seguono una parabola di cui Leopardi assolutamente diffida, non può ignorarsi che la stessa insondabile libertà del pensiero che egli rivendica fosse rivendicata, in altro modo, da Hegel. Una dialettica di finito e infinito: così i manuali amano sintetizzare la filosofia hegeliana in uno dei suoi nodi decisivi. Se questa dialettica si compiace nell’attardarsi sulla contemplazione ammirata delle potenzialità della mente umana e Leopardi, dal canto suo, trova fuorviante tale significativa “posta” che nel percorso seguito trova l’idealista, non va dimenticato che poi alla fine l’hegelismo consiste in una vanificazione della coscienza finita (l’uomo appunto) che si specchia del tutto infelicemente in se stessa. 5.2 Nietzsche e Leopardi Stando a quanto fin qui abbiamo detto può effettivamente concludersi che la Fenomenologia dello spirito di Hegel contiene in parte il pessimismo leopardiano. Non stupisce allora che, Schopenhauer a parte, Nietzsche, nell’ansia di superare l’hegelismo e di aprire nuovi orizzonti alla filosofia tedesca, si incontrasse con Leopardi. Ora il Leopardi che Nietzsche conosce è il Leopardi dei Canti e delle Operette morali, non essendogli noto il Leopardi dello Zibaldone, che vide la luce solo nel 1898. Questo fatto è per noi di capitale importanza perché rivela l’importanza che le Operette hanno sul piano della cultura europea, nei confronti della quale intendono avere un forte impatto e che, secondo noi, sono da mettere a confronto con l’opera di Hegel, forse indirettamente e confusamente nota a Leopardi, ma che descrive non meno di quella leopardiana le tensioni e il clima culturale di un’epoca. Più che non un romanzo, la hegeliana Fenomenologia dello Spirito, letta anch’essa come accade di tutti i capolavori, non senza qualche equivoca intepretazione, è una visionaria narrazione che, proponendo le figure dallo spirito create nel corso della sua storia, potrebbe dirsi la sceneggiatura del grande film della storia dell’umanità. Uno script veramente affascinante, capace di incantare per come si avvolge su se stesso, coinvolgendo il lettore-spettatore. Hegel è da annoverare fra gli inventori di un modo di narrare cinematograficamente ancor prima che non letterariamente, in un’epoca in cui il cinema doveva ancora nascere. Ora nulla è più autenticamente e assolutamente borghese dello spettacolo cinematografico, che ha di fatto soppiantato il libro, strumento della vecchia cultura aristocratica che, giunta con Leopardi a uno dei suoi punti più alti, in Leopardi trova chi impugna la penna come una spada. La voce di Hegel è invece una voce fuori campo, che descrive ora la desolazione ora lo splendore di certi paesaggi immaginari, modificando il reale in immaginario e l’immaginario in reale, in ciò anticipando l’esperienza concretamente storica che ai nostri giorni fa chiunque segua un telegiornale o un reportage televisivo. Il borghese non vuole criticare, vuole vedere, ma non accetta poi di vedere criticamente, balzando magari a un vuoto atteggiamento ipercritico. La differenza è che Hegel, borghese e figlio della borghesia, alla borghesia dà credito ed è in questo senso ottimista, ma della borghesia conosce e descrive dall’interno gli aspetti morali più equivoci che ne decretano l’instabilità dei valori. In questo si accorda con Leopardi il quale muove dall’esterno le sue critiche a un mondo al quale sente di non appartenere. 5. 3 Il pargoleggiare del secolo nuovo E’ all’epoca di Leopardi (e di Hegel) che si comincia a parlare di tradizioni “popolari” da un lato e di cultura classica dall’altro, con l’intento di promuovere una nuova attenzione verso le prime, interpretandole, e di sminuire l’autorità della seconda, sottraendosi allo studio della retorica, della mitologia, della filosofia antiche. Di fatto si cercò di creare una spazio mediano fra le due e la cultura romantica non è altro se non una commistione di “saperi di vita”, presi a prestito ora dalle vite dei santi, ora dall’esempio offerto dalle gesta degli eroi popolari o dall’impegno profuso da figure di intellettuali e politici “amici del popolo”. Sono i cascami della cultura, quel che si legge sui giornali, quello che si sente dire per le vie e nei caffé o si legge nei romanzi da poco conto o nei libri di viaggi se non anche sugli almanacchi. Più che non l’arte, nel senso di una professione da svolgere, interessa che il nuovo “filosofo” possieda il senso di un’arte del vivere, difficile a definirsi, attenta a disciplinare i comportamenti umani secondo l’utile di una civile convivenza. Di qui l’attenzione ai sentimenti, che non sono più “passioni” o “idee”, ma naturali inclinazioni dell’animo. Ampliando un po’ il discorso, ci si perdonerà se avanziamo l’idea che perfino il decadentismo, specie per come è stato presentato al pubblico, non fece che proseguire in questo equivoco atteggiamento mentale per cui si cerca qualcosa (un fondamento, un valore, un principio), senza chiedersi se questa ricerca sia autentica e non nasconda, oltre a una costituzionale incapacità di trovare qualcosa, anche una sostanziale indifferenza alla questione, che ci pare emerga finalmente dalle pieghe di tanto esasperante egotismo che domina la cultura contemporanea. Quasi che avesse colto le direttrici di una ricerca che equivocamente muovesse in tale direzione, Leopardi interviene a demolirne con esasperante disinvoltura e intelligenza la validità. 5.4 Il senso delle Operette Le Operette morali sono, ci pare, un invito a specchiarsi veramente nei problemi e nelle questioni di un mondo che cambia. Non va bene rivoltare le cose e continuare a ragionare come prima, semplicemente ignorando i problemi. Non va bene criticare l’ordine costituito perché mal costituito e non portare avanti la critica alla vecchia cultura, ai vecchi valori, proponendo un’arte nuova, una filosofia nuova, una cultura nuova. La mancata elaborazione di concetti autenticamente rispondenti alle nuove realtà è per Leopardi inconcepibile. Vuoi essere critico? Devi esserlo fino in fondo, non a metà. Perciò ottimismo e credulità sono i principali bersagli contro cui va a colpire. Ma l’errore che più energicamente le Operette morali perseguono è la viltà di un pensare che consiste nel continuare a cercare, come in passato si era fatto, delle regole a cui obbedire. C’è in Leopardi una sorta di commovente machiavellismo, che dà delle autentiche vertigini al lettore delle Operette, che prenda sul serio il percorso lungo il quale si mette l’autore. E’ un machiavellismo che non interessa il principe, personaggio ormai destituito di forza e di credibilità, ma del tutto imprevedibilmente l’intellettuale. Questa figura, ormai totalmente decaduta e priva non solo di potere ma perfino di credibilità, era all’epoca di Leopardi all’apice della sua storia e non stupisce che, guardando lucidamente al prossimo futuro, questo grande intellettuale provasse orrore per il baratro nel quale l’intellettuale si preparava a cadere. Leopardi sa che nell’Ottocento non sono i Napoleoni a fare il mondo, a definirlo, a contenerlo, a governarlo, ma i Copernico e i Galilei. Questi ultimi, secondo quanto abbiamo letto nello Zibaldone e nel Parini, compiono il loro ufficio senza che nessuno se ne accorga, poi qualche mediocre ne cavalca la tigre, facendosi grande agli occhi del mondo. Ma tant’è, il mondo deve pure trovare chi se lo porti sulle spalle. Il dialogo tra Copernico e il Sole, che leggiamo nel Copernico , ha in questo senso una valenza chiarissimamente metaforica, con il Sole che si piega alla “vergogna” di ricevere istruzioni da un omino che “pensa e studia” invece di comandare sui popoli. Il machiavellismo applicato dai filosofi muta peraltro nel segno rispetto a quello a cui i principi avevano fatto ricorso. Invece di “fregare il popolo” si tratta di studiare il modo di renderlo partecipe, fino virtualmente a fargli intendere che il principe saggio e virtuoso anche politicamente è quello che, agendo nell’interesse comune, arriva pure all’impopolarità, secondo l’esempio di un Robespierre, schiacciato da due diverse mentalità politiche, reso piccolo dalla sua grandezza e grande dalla sua mediocrità. E qui ci piace ricordare il fascino che agli occhi di Leopardi e di molti italiani della sua generazione ebbe la figura di Bruto. Aspetti originali della filosofia leopardiana Dalla politica passando alla filosofia o alla filosofia politica, la cosa importante che si cela dietro questa novità è la rivendicazione di una libertà piena, totale, autentica del pensiero, che non vuol saperne più di piegarsi a una disciplina quale che sia. Per Leopardi l’intelletto umano è costitutivamente libero perché privo di barriere. E’ il primo filosofo a supporre che non esistano confini oltre i quali la mente non possa andare. Può essere che un tale insegnamento gli provenga da Platone, infatti come dice bene Stefano Biancu, c’è un rischio “insito nella ricerca di una verità che non si limiti alle ristrette secche del certo e del dato” Tale incerto (e tale rischio) – osserva sempre Biancu – abita, nel pensiero di Leopardi lo spazio di un ‘oltre la soglia’, per il quale vale la pena di arrischiare la vita. Perché il rischio, come insegna un Platone caro a Leopardi “è bello” (Fedone, 114d)19. In ogni caso Leopardi ha capito che una tale pretesa aveva in passato dato forza a un potere che non esitava a proibire di spingersi col pensiero oltre certe barriere, dove le barriere erano poste dai religiosi. Quest’ultimo punto è importante e merita un approfondimento. Governare le paure ancestrali è stato per secoli, e ancora continua a esserlo, un’importante, anzi fondamentale, funzione sociale e culturale svolta dalla religione. L’orrore del male è qualcosa che naturalmente si prova e con questo disagio occorre imparare a convivere. Ma poi quest’orrore è così forte da scoraggiarci, tanto che spesso ci fa vili. A questo punto impariamo a non pensare più, a non farci più domande. A questo silenzio dell’anima Leopardi si ribella e riaffiora da quello che vorremmo chiamare il naufragio nel mare del pensiero, con una nuova domanda. Riferendosi a “quello che ha detto dell’essenza di Dio”, lo scrittore annota nello 19 . S. Biancu, La poesia e le cose: su Leopardi, Mimesis, Milano 2006, p. 64. Zibaldone: Lasciando in piedi tutto ciò che la fede insegna su questo punto, io non fo che spaziarmi in ciò ch’è permesso al filosofo, cioè nelle speculazioni sull’arcana essenza di Dio, speculazioni non men lecite al filosofo che al teologo, giacché anche questi dopo che ha lasciata intatta la rivelazione, e che scorre col pensiero a quelle cose a cui la rivelazione non giunge, senza però escluderle né contraddirle, allora, 20 dico, il teologo si confonde col filosofo . Leopardi insomma si domanda se sia vero che il pensiero possa “peccare”, e trova che il pensiero è di per sé innocente. Di qui inizia quella che egli chiamò la sua “conversione”. Completando il suo ragionamento, potremmo aggiungere che se, per esempio, non credo in Dio, devo trovare la forza d’animo per confessare a me stesso questa incredulità. Del resto, se nel profondo della mia coscienza a Dio non credo, ma mi guardo dall’ammetterlo per paura, chi mi salverà dallo sguardo di questo giudice tremendo e inesorabile, che interrogandomi, riuscirà a farmi riconoscere che io effettivamente non avevo fede? Non c’è modo peggiore di spendere la propria vita, se non fingendo d’essere chi non si è. Qui Leopardi è vicino a Kierkegaard e sente di dover lottare contro la viltà, guardando bene alle paure dell’uomo, a costo di perdersi in quello che gli pare il male della civiltà: il taedium vitae, nel quale peraltro scivola con un senso quasi di piacere, consapevole della grandezza spirituale di cui il sentimento della noia è spia. E’ veramente strano a questo punto come non si sia valutato che il personaggio del secolo, quello in certo modo speculare e, più che contrario, complementare all’ io leopardiano che dall’immaginario si protende verso la vita reale, dandone una rappresentazione fedele, sia la monaca di Monza che, per soggezione al padre butta via la sua esistenza. D’intuito anche Manzoni ha affrontato la questione della paura di quel che pensiamo, dell’autocensura, della soggezione all’autorità, usando a questo scopo lo schermo di due personaggi, Don Abbondio e Gertrude. Lo scrittore preferisce, peraltro, studiare la psicologia di lei, non quella di lui. La donna, del resto, non è vile, almeno nella coscienza collettiva del nostro Ottocento, per definizione anche quando sia timorosa. Le ansie e le paure che prova si rivestono infatti di sentimenti. Ma sarebbe da chiedersi, uscendo fuori dalla finzione letteraria che pure presenta una verità storica, quanti uomini dell’Ottocento e del Novecento siano stati in Italia, incapaci, come la monaca di Monza, di interrogarsi a fondo sulle proprie scelte. 20 . Zibaldone [2178] Nelle Operette morali ne troviamo un esempio nel tipo del Fisico che dialoga col Filosofo. Il fisico, cioè il medico, pretende di aver trovato il modo per rendere più felici gli uomini allungandone la vita. Il Filosofo gli spiega che meglio sarebbe stato se avesse speso il suo tempo a rendere la vita degli uomini felice. E qui vien da dire che avesse ragione Papini a dire che il punto è che chi è veramente pessimista, non impiega il suo tempo a scrivere per far arrivare ad altri un messaggio21. E il messaggio morale di Leopardi, se bene abbiamo capito quel che egli vuol dire, è che battere la Chiesa nel nome di una moderna pietas che insista a percorrere la via della sincerità è nell’Ottocento troppo tardi. Combattere la Chiesa nel nome di Cristo, come pure in passato qualcuno aveva fatto, è ormai impossibile e anacronistico. Non sono più i tempi di Francesco d’Assisi o di Martin Lutero, e anche per questo forse la strada scelta da Leopardi è così diversa da quella di Kant, il quale diversamente da lui, pone dei limiti al pensiero dell’uomo e, proibendo al filosofo d’occuparsi di Dio e di metafisica, lascia la metafisica ai teologi confessionali. Nato suddito dello Stato Pontificio, Leopardi sa che la grande macchina organizzativa con cui ai suoi tempi si reggono le sorti della cristianità non ha nulla a che vedere con l’ecclesia, di cui nominalmente fanno parte a pari titolo tutti i fedeli. Il mondo chiuso delle alte gerarchie della Chiesa non gli piace. Volterà perciò le spalle all’opportunità che con insistenza la famiglia gli offre di iniziare una brillante, se non brillantissima, carriera ecclesiastica. Non gli difettano né intelligenza, né cultura, né nascita, né relazioni d’amicizia e parentela per poter ambire alla porpora di Cardinale. Chissà! E’ in fondo il liberalismo, sia pure di marca piuttosto illuministica che non romantica, a suggerirgli una nuova prospettiva di vita e di pensiero. Il punto è che Leopardi trae ispirazione dal mondo classico, come, a nostro avviso giustamente, seppe vedere Gioberti, il quale,come abbiamo già ricordato, riferì l’opera di Leopardi a una tradizione pagana che si era a lungo mantenuta nel mondo letterario italiano22. E’ il mondo classico a indicargli un ideale di virtù e di coraggio. Virtù e coraggio che Leopardi vede mancare agli uomini del suo tempo. A noi sembra che viltà e coraggio siano i due estremi di una possibile morale 21 22 . G. Papini . vedi leopardiana che tra questi due estremi raggruppa i vizi e le virtù degli uomini. La viltà è male, il coraggio è bene. Questa persuasione si arricchisce peraltro di un aspetto nuovo e inedito: come abbiamo visto, Leopardi scopre che non tanto l’anima quanto la mente può avere o non avere coraggio. La viltà di cuore, la paura spesso istintiva del pericolo che ci minaccia e che l’educazione un tempo impartita spingeva a vincere con prove d’ardimento è scusata da Leopardi, che è invece severissimo di fronte alla pigrizia intellettuale, alla paura di concedere al pensiero di spaziare il più liberamente che possa, mettendo a nudo un tipo singolarissimo di viltà a cui cediamo solo per non rinunciare a sciocchi pregiudizi sociali. Come abbiamo già detto, non è un caso che di qui si origini la “conversione” di Leopardi alla filosofia, come lui stesso la chiamò23. Anzi nelle Operette in particolare si ricostruisce l’itinerario che porta alla scoperta di questo specifico modo d’essere vili e l’ironia più che non un arma è un aratro che pulisce il campo da queste erbacce. Per come gli viene presentata, Leopardi non ama la filosofia tedesca che sembra sulla scia di Immanuel Kant perseverare nel tentativo di fissare dei limiti al pensiero che, per Leopardi, non va governato perché si governa da solo. Si obietterà che questa è poi la conclusione a cui arriverà lo stesso Kant. E’ vero, ma il fatto è che per Leopardi si tratta di un assunto da cui partire e in questo senso non stupisce quel che della filosofia tedesca egli scrive: Ho detto che nessuna veramente strepitosa scoperta nelle materie astratte, e in qualsivoglia dottrina immateriale è uscita dalle scuole ec. tedesche. Quali sono in queste materie le grandi scoperte di Leibnizio, forse il più gran metafisico della Germania, e certo profondissimo speculatore della natura, gran matematico ec? Monadi, ottimismo, armonia prestabilita, idee innate; favole e sogni. Quali quelle di Kant, caposcuola ec. ec.? Credo che niuno le sappia, nemmeno i suoi discepoli. Speculando profondamente sulla teoria generale delle arti, i tedeschi ci hanno dato ultimamente il romanzo del romanticismo, sistema falsissimo in teoria, in pratica, in natura, in ragione, in metafisica, in dialettica in 24 parecchi di questi pensieri. Il punto è che per Leopardi non si può pretendere di costruire una nuova cultura, quale quella progettata dai primi umanisti che faticosamente erano usciti dal medioevo, al medioevo tornando. Non si può procedere, tornando indietro e facendo appello alle suggestioni che vengono da un mondo che vogliamo cambiare. Spunta qui, secondo noi, il libertino erudito che non riconosce al filosofo il diritto di insegnare ad altri come si debba pensare. Per Leopardi ognuno dev’essere filosofo per sé. Anche per questo non espone 23 24 Cfr. Zibaldone [1857] la sua filosofia, ma si limita a scandalizzare il lettore col suo pessimismo che non è nient’altro se non la critica all’ottimismo dei benpensanti che hanno fretta a condividere le opinioni di qualcuno. L’obbligo morale del lettore delle Operette è infatti questo: provare a farsi un’idea, a pensare il mondo. In questo senso è vero quel che dice Ugo Dotti, cioè che Leopardi volesse dare con le Operette un saggio di come evitare che “l’errore si trasformasse in pregiudizio, per liberare l’uomo dalle catene delle false superstizioni”25 Non è un caso che gli eroi dei dialoghi che compongono la prima parte delle Operette siano cosmologi, moralisti e viaggiatori, cioè persone che il mondo lo pensano problematicamente, ora disegnandolo, ora interpretandolo, ora raccontandolo. Una cosmologia, quella leopardiana che colpisce perché ricomprende anche la morte, che è un problema (o se si preferisce un tema) cosmologico. Le cose del mondo infatti nascono tutte e tutte muoiono. 25 U. Dotti, Lo sguardo sul mondo, op. cit. p. 9.