Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 ’Gli Errori di Orione’ di Fabio Marino La Costruzione delle Piramidi di al-Jizah di Giuseppe Badalucco Intervista a LORENZO ROSSI di Roberto Bommarito Il Mito di Cristo nel Vangelo di Tommaso di Domenico Rosaci La Connection Extraterrestre di Pier Giorgio Lepori Mothman e altre Creature Misteriose di Gianluca Rampini L’Alchimia Trasformativa del Rosarium Philosophorum di Michele Perrotta La Ricerca Extraterrestre di Federico Tommasi Schiavi degli Dei di Valentino Ceneri 2 Contenuti Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 Note a Margine Rubrica del Direttore Gianluca Rampini pag. 3 Introduzione alla TCO di Archeomisterica pag. 4 GLI ERRORI DI ORIONE di Fabio Marino pag. 6 LA COSTRUZIONE DELLE PIRAMIDI DI al-JIZAH di Giuseppe Badalucco pag. 20 CRIPTOZOOLOGIA - Intervista a Lorenzo Rossi di Roberto Bommarito pag. 45 IL MITO DI CRISTO di Domenico Rosaci pag. 52 LA CONNECTION EXTRATERRESTRE di Pier Giorgio Lepori pag. 56 MOTHMAN, SPRING HEELED JACK di Gianluca Rampini pag. 63 L’ALCHIMIA TRASFORMATIVA DEL ROSARIUM PHILOSOPHORUM di Michele Perrotta pag. 70 LA RICERCA DI CIVILTA’ EXTRATERRESTRI di Federico Tommasi pag. 73 SCHIAVI DEGLI DEI di Valentino Ceneri pag. 85 www.associazioneaspis.net 3 NOTE A MARGINE Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 Rubrica del Direttore Gianluca Rampini La rivoluzione è fallita. Sempre che sia mai cominciata e che non fosse solo nella mia testa. Con l'avvento dei social-network ho per lungo tempo sperato che ciò producesse un'evoluzione del “consumatore medio”, un progresso nella diffusione dell'informazione. Ora, tendo a credere non a caso, la situazione è talmente afflitta da immondizia telematica, da bieca disinformazione, che ogni speranza è ormai perduta. Per dover di precisione devo dire che questo mio pensiero va principalmente a Facebook, non frequentando gli altri ( Twitter, Instagram ecc.. ). Se non fosse per l'aiuto “tecnico” che ci da nell'allestire comunicazioni, nell'intessere rapporti e nel dare visibilità a ciò che facciamo l'avrei felicemente abbandonato da tempo. Tristezza e disgusto, oltre che saturazione, sono ciò che provo ogni volta che, ipnotizzato, scorro i post di utenti che se pur “amici” non conosco per niente. La cosa peggiore da vedere è la guerra tra poveri che da un verso ci hanno costretto ad intraprendere e dall'altro ci raccontano spargendo nell'etere tonnellate di falsità ed idiozie perfettamente tarate per affibbiare colpe, demonizzare gruppi e in definitiva farci distrarre dal precipizio che si avvicina rapidamente e nel quale finiremo, a meno di insospettabili risvegli da parte di noi tutti. Via via in ordine decrescente vi è tutta un serie di argomenti ormai infettati da stupidità e malafede. Non so a qual punto della classifica ci sono l'ufologia, la paleo-astronautica ed il paranormale in genere. Non so negli altri paesi, ma in Italia abbiamo alcuni dei più grandi fuoriclasse dell'ignoranza e dell'ottusità mentale. Capirete se non faccio nomi ma sono certo che ognuno di voi può pensare a più di un esempio che conosce. Per non lasciar intendere che io creda di esser al di sopra di tutto questo devo ammettere candidamente di esser stato pure invischiato nella foga dell'assurdo, nel dare notizie senza verificarle, nel credere in teorie senza metterle veramente alla prova. Per tirarmene fuori ho dovuto sostanzialmente resettare tutto. Non ripartire da zero perché sarebbe stato controproducente, ma di certo ho dovuto smontare tutti i costrutti teorici su cui mi basavo. Ho dovuto re-imparare ad usare internet, a cercare le informazioni e sopratutto ad evitare il qualunquismo per andare quanto più possibile vicino alle fonti. Il che comprende anche, e forse sopratutto, dedicare il proprio tempo di ricerca sopratutto a testi ed autori di comprovata serietà. Mettendo finalmente da parte il preconcetto della “scienza ufficiale”, spauracchio della ricerca ufologica e non solo per molti anni. Se la ricerca è seria non si può evitare di occuparsi di testi scientifici ( per scientifici si intenda storici/linguistici/ archeologici ecc... ) ai quali bisogna integrare il lavoro eterodosso di coloro che prima di noi hanno usato questo paradigma. E' un lavoro faticoso, è un lavoro che può intimorire. Non dobbiamo temere di confrontarci con la “scienza” così come non dobbiamo pedissequamente cercarne l'approvazione. Non aspettiamoci che la rivoluzione sia là fuori, se rivoluzione sarà, sarà solo dentro di noi. E senza voler incedere in sbiaditi toni New Age, intendo solo dire che dobbiamo crescere. Non esiste un livello, un momento nel quale possiamo dire che siamo arrivati. Per ora di certo siamo arrivati a questo numero 26 di Tracce d'Eternità e ancora stiamo cambiando, adattandoci ai tempi e cercando, per quanto ci è possibile, di un offrire un prodotto ( se pur gratuito ) che testimoni quanto vi ho detto poche righe fa. Buona lettura a tutti. 4 INTRODUZIONE ALLA TCO di Archeomisterica Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 Da circa trent’anni ogni volta che si parla o si osserva il trittico in pietra di al-Jizah, negli ambienti sia degli addetti ai lavori che presso il grande pubblico si fa riferimento ad una teoria rivoluzionaria rispetto alla considerazione egittologica ortodossa delle Tre Piramidi. Proprio da qui partiremo con il fine di avere un’idea chiara dello scacchiere su cui ci muoviamo. È infatti necessario un riassunto della questione sul fronte archeologico convenzionale e poi capire il punto di vista dell’avanguardia. La piana di al-Jizah è la propaggine nord – appropinquata al delta del Nilo ed ormai quartiere orientale de Il Cairo – punta di diamante di un’area definita Necropoli Menfita i cui confini si estendono da Saqqara fino ad Abu Rwash, passando per Menfi, Abusir, Zawyat-al-Aryan, Dashour. La zona è assai ricca di monumenti definiti funebri con forma piramidale da quella di Saqqara, la Piramide a gradoni del Faraone Djoser (cronologicamente la più antica, 3150 a.C. circa), fino alle costruzioni di Zawiat-al-Aryan ed Abu Rwash. Le realizzazioni egizie, comunque, si estendono ben aldilà di questa zona giungendo fin nel profondo sud, le cosiddette ‘piramidi nubiane’. Cosa sono secondo l’Ortodossia? Monumenti funebri. Tombe è la risposta semplice tout-court, le estreme dimore dei Faraoni. In particolare quelle di al-Jizah sono persino circondate da sepolcri a mastaba e quindi rafforzano questa idea che nasce sostanzialmente tra il 1798 – missione napoleonica in Egitto – e i primi del ‘900. In soldoni gli egittologi sostengono, secondo la tesi più accreditata, che i monumenti funerari piramidali siano cenotafi eretti al di sopra delle originarie sepolture a mastaba. Eppure, a partire da Erodoto e transitando attraverso i racconti del califfo al-Mamun che penetrò all’interno dell’Orizzonte di Khufu (Piramide di Cheope) intorno al 820 d.C., nessuno mai ha trovato corpi, mummie o altro in questi giganti di pietra. I primi dubbi sulla bontà della tesi funeraria appioppata ai monumenti piramidali dell’Egitto Dinastico risalgono, in una primeva forma strutturata, agli Anni ’60 dello scorso secolo; in senso antropologico attraverso l’opera di De S a n t i l l a n a e Vo n D e c h e n d , l a t i t a n i c a reinterpretazione della storia e dei Miti nel testo ‘Il Mulino d’Amleto’; più divulgativi e nazionalpopolari, grazie ad una corrente avanguardista che vanta i suoi capostipiti in ricercatori indipendenti come lo statunitense Robert K. G. Temple il quale, attraverso una lettura di frontiera sulla considerazione che i Dogon avevano della stella Sirio, dà il via ad una serie di speculazioni con principi poco seri giacché la propria tesi era una distorsione di analisi accurate fatte dall’etnologo Griaule e dalla antropologa Dieterlen proprio sui Dogon e riportate da De Santillana e Von Dechend. Incurante della millanteria e forte del sensazionalismo allora scatenato, ecco giungere il continuo di quel testo ovvero ‘Il Mistero di Sirio’ ad opera di Murry Hope la quale trasporta in Egitto la tesi di Temple ipotizzando il contatto tra questo popolo e una popolazione di origine extraterrestre dalle fattezze leonine. In quegli stessi anni, intorno alla prima metà degli ’80, i testi di Temple, le ricerche della Hope, ‘Il Mulino’ di De Santillana e Von Dechend ma soprattutto un’altra grandissima opera, ‘Serpent in the Sky’ di J. Anthony West, influenzeranno e diverranno sostrato per le ricerche di un ingegnere appassionato di Egitto ed egittologia: Robert Bauval. L’approccio metodologico è rivoluzionario, si tratta infatti di concepire la storia di un popolo non solo sotto il profilo archeologico ma olistico, a tutto tondo compresa astronomia, mitologia, antropologia, fisica, matematica, filosofia e via discorrendo. Già A. Posnansky nel 1945 introdusse uno studio sul Kalasasaya a Tiahuanaco di tipo archeoastronomico ovvero misurando gli allineamenti tra i monumenti e le costellazioni sospette di esserne i modelli 5 Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 risalendo pertanto ai periodi reali di costruzione e d’interpretazione. Dal 1984 Bauval ha rovesciato sulla testa degli egittologi ortodossi una carrellata di informazioni archeoastronomiche da fare accapponare la pelle dimostrando, nei fatti, la diversa destinazione del trittico di Rostau (alla lettera 'la porta delle stelle') nella piana di al-Jizah tutt'altro che sepolcri bensì lo specchio terreno del Duat con le Tre Piramidi a simboleggiare l'asterismo principale ovvero la Cintura di Orione. L'Autore scrive due testi fondamentali (‘Il Mistero di Orione’ e ‘Il Codice Egizio’) più una serie di articoli, conferenze ed interviste presso i maggiori media internazionali compresa la diretta BBC quando il robot 'Upuaut II' nel 1993 – progettato da Rudolph Gantenbrink – risale il condotto nord di Khufu e scopre la famosa 'porta' tutt'oggi ancora – dopo le esplorazioni del 2002 e del 2004 – oggetto di dibattito. Bauval racconta la sua illuminazione durante una notte negli Anni ’80 in cui osservava dall’alto la piana di Rostau e contemporaneamente la volta celeste. Ad un certo punto il suo sguardo fu catturato dalla Cintura d’Orione e lì, egli narra ne ‘Il Mistero di Orione’, ebbe la sua ‘mela di Newton’. Successivamente elaborò l'intuizione attraverso un software astronomico, Skyglobe 3.0; stando agli allineamenti stellari dei condotti nord-sud presenti sulla Grande Piramide essi puntavano decisamente su Ursa Minor e Orion: seguendo un preciso coordinamento con il vecchio detto egizio: 'come in alto così in basso', fece sì che Skyglobe trovasse il perfetto allineamento tra l'asterismo e i tre monumenti delineando un asse tra Khufu e Alnitak, prima di Cintura, Zeta Orionis. Ne venne fuori la fatidica data del 2550 a.C. ovvero 4.500 anni or sono quando il condotto che puntava ad Orione era perfettamente allineato con la stella in questione. La data fu aggiustata tra il 2550 e il 2450 a.C. per ragioni ortodosse. Da quel momento la Teoria della Correlazione con l’Orione diviene il punto di forza dell’avanguardia arricchendosi di scrittori e ricercatori indipendenti come Graham Hancock, Adrian Gilbert, Colin Wilson e altri. La TCO sembra davvero la ‘spina nel fianco’ dell’Ortodossia. Ma qualcosa non torna… 6 GLI ERRORI DI ORIONE di Fabio Marino (parte I) AVVERTENZA La bibliografia relativa all'intero lavoro, sebbene ridotta al minimo e ai soli titoli dei testi, articoli e pubblicazioni utilizzati, sarà pubblicata in calce all'ultima parte del lavoro stesso per evitare di appesantire troppo la lettura con note e rimandi. Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 ! L'origine e il motivo di disposizione e allineamento di alcuni dei più importanti monumenti egizi sono, com'è noto, altamente dibattuti. Da almeno un paio di secoli, si fronteggiano non meno di due correnti di pensiero (con relative sfumature), afferenti rispettivamente alla visione "legittimista", classica e ortodossa dell'Egittologia, e viceversa a una idea "alternativa", eterodossa e che spesso purtroppo è sfociata in degenerazioni piramidologiche assolutamente non condivisibili, anche -e non solo!- per motivi matematici. La pubblicazione nell'ormai lontano 1969 del classico e monumentale "Mulino di Amleto" da parte di due giganti come Giorgio de Santillana e Hertha von Dechend ha prodotto profonde revisioni archeologiche sia nell'interpretazione di miti e leggende (spesso contenenti interessanti riferimenti di natura astronomica), che nella valutazione e rivalutazione di centinaia di siti di scavo sparsi per il mondo sulle basi di sempre più approfondite correlazioni archeoastronomiche. Ha altresì prodotto, come effetto collaterale, la nascita e lo sviluppo di una congerie di ipotesi e teorie (più o meno fantasiose), sorte con lo scopo di ridiscutere quasi ogni conclusione dell'archeologia ortodossa. Il che, si intende, non è un male in sé. Un posto certamente di rilievo, che in ogni caso ha prodotto alcune notevoli revisioni da parte dell'Egittologia "ufficiale", è l'ipotesi, formulata originariamente dal noto ingegnere Robert Bauval (belga, ma egiziano di nascita) e da Adrian Gilbert, nota come "Teoria della Correlazione di Orione" (d'ora in poi abbreviata in TCO). FIGURA 1 - copertina del libro "Il mistero di Orione" Questa ipotesi (forse “teoria” è un termine troppo impegnativo) ha rapidamente guadagnato terreno sia fra i “revisionisti”, fra i quali sono stati rapidamente arruolati Graham Hancock, John Anthony West e il compianto Colin Wilson (ma non il geologo Robert Schoch, che si muove su basi più prudenti), sia fra gli amatori, gli “appassionati lettori” e numerosi “ricercatori indipendenti” di terza o quarta mano. Io stesso confesso di dover essere in qualche misura debitore, per quanto riguarda le mie modeste ricerche e i miei interessi, al libro "Il mistero di Orione", alle cui tesi ho entusiasticamente aderito per molti anni. Successivamente, tuttavia, un'analisi condotta da qualche tempo a questa parte, attraverso un'attenta ri-lettura degli scritti di Bauval e soci nonché delle tematiche relative (aspetti paleoclimatici, archeologici, epigrafici, mitologici, astronomici), mi ha portato ad assumere una posizione piuttosto critica nei confronti di TCO e addentellati vari. Naturalmente, non sono il primo a esprimere ampie riserve sulla teoria di Bauval; in ogni caso, molte di queste riserve mi sono sembrate piuttosto "settorializzate", per cui è difficile cogliere la serietà delle obiezioni, spesso perse in parecchi rivoli che ne impediscono la visione d'insieme. Di qui, l'idea di confutare (o semplicemente correggere) l'ipotesi del belga in un unico scritto che comprendesse quanti più elementi possibile, per fornire al Lettore (si spera con sufficiente chiarezza) i motivi per cui non si può aderire, in tutta sincerità, a questa pur coraggiosa idea, che in ogni caso lascia comunque irrisolte molte questioni sulla Civiltà del Nilo; di qui, l'idea di 7 un articolo, di stampo divulgativo ma –mi augurocomunque rigoroso, per fare il punto almeno parziale della situazione. La prima pubblicazione dei fondamenti della TCO avvenne nel 1989 sul numero 13 della rivista "Discussion in Egyptology", Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 ! FIGURA 3 - Costellazione di Orione che si innalzava nel limpido cielo africano. Questo asterismo, molto grande, ha essenzialmente cinque grossi riferimenti per l'occhio nudo: a Nord-Est, la stella arancione Betelgeuse ! FIGURA 2 - il n° 26 della rivista "Discussions in Egyptology" curata da una grande egittologa (seppur eretica -ma non eterodossa!), la prof.ssa Alessandra Nibbi. Bauval riprese molte volte su quella rivista le sue tesi (ad esempio, nei numeri 26 e 28, e anche successivamente), che sono estremamente note, per cui le riassumerò molto brevemente. Molto poeticamente, Bauval racconta che una notte, mentre si trovava ai margini del deserto egiziano, ebbe a notare la costellazione oggi nota come Orione: ! FIGURA 4 - Costellazione di Orione - la freccia indica Betelgeuse (nome derivato dall' arabo "وزاء%% ج% % % % % % د ال%% % % % % % ”ي, Yad alJawzāʾ, "la mano di al-Jawzāʾ [Gigante]"); a SudOvest la brillante e bianco-azzurra Rigel 8 ! in seguito i motivi. La costellazione di Orione, sebbene così chiamata per via della derivazione di quasi tutti i nomi celesti moderni dalla mitologia greca, ha certamente affascinato nel corso del tempo moltissime civiltà e culture. Un breve riassunto utile per i nostri scopi è presente in Wikipedia: "Nella mitologia norrena la cintura era considerata come la canocchia di Frigg o di Freyja. Nella mitologia ugro-finnica, invece, le stelle della cintura rappresentavano la falce o la spada di Väinämöinen. Al contrario, di origine biblica sono i nomi di «Bastone di Giacobbe» o «Bastone di Pietro», così pure come quello di «I tre Re» o «I tre Magi». Presso i clan di etnia Seri del nordovest del Messico le tre stelle erano conosciute collettivamente come «Hapj» (un nome che denota un cacciatore). Singolarmente invece esse venivano chiamate «Hap» (Cervo Mulo), «Haamoja» (Antilocapra) e «Mojet» (Bighorn). «Hap» è Alnilam ed è stata ferita dal cacciatore; il suo sangue è gocciolato sull'isola di Tiburón." Apparentemente agganciata proprio alla Cintura si trova la "Spada di Orione" (forse la regione del cielo maggiormente fotografata da astrofili e professionisti, per via del gran numero di formazioni del Profondo Cielo ivi presenti). Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 FIGURA 5 – la stella Rigel (dall’arabo “Rijl jawza al-yusra”, che significa "il piede sinistro di Colui che è Centrale", cioè Orione); in posizione quasi centrale rispetto a queste stelle, e con direzione diagonale da Sud-Est a Nord-Ovest ! FIGURA 6 - la Cintura di Orione c'è la famosa Cintura di Orione, composta da tre stelle di luminosità piuttosto elevata: per l’appunto da Sud-Est a Nord-Ovest, e separate fra loro da pochissimi gradi, troviamo Alnitak (nome che, come gli altri, deriva dall'arabo اق%% ط% %ن% % % % % % “ الAn-nitaq”, che significa “La cintura”); Alnilam, la stella centrale (نظام%% % " لAn-niżām", correlato al termine ظم%% % " نNażm", "Fila di perle"); Mintaka (ة%% ق% ط% ن% % % % % % “ مManţaqah”, cioè "Cintura"). Un dato importante da tenere a mente d’ora in poi è rappresentato dalla magnitudine apparente dalla Terra di questi tre astri: rispettivamente 1.74, 1.69 e 2.21: si noti che il numero più piccolo esprime una luminosità maggiore, anche a livello dei decimali. Un altro dato di rilievo è rammentare che la stella più a Sud è Alnilam, quella più a Nord Mintaka: ne vedremo ! FIGURA 7 - Spada di Orione - immagine di Lorenzo COMOLLI, 1998 9 La cosiddetta "Spada" è costituita da un raggruppamento di astri che comprende, fra l'altro, anche la celeberrima Nebulosa di Orione ( periodo compreso fra 32.500 e 38.000 anni. Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 ! FIGURA 8 - Nebulosa di Orione (M42) - Foto dell'Autore e che, come la Cintura, ha una lunga storia di osservazioni e di "attenzioni", fin dall'antichità e presso le più diverse culture. La stessa Wikipedia così efficacemente sintetizza: "Tra le sue componenti ha una posizione fondamentale la Nebulosa di Orione (M42): creduta in antichità una semplice stella, magari un po' sfocata, si rivela essere una delle più grandi nebulose conosciute, nonché la più luminosa osservabile dalla Terra e la più studiata. Grazie all'osservazione di questa nebulosa, gli scienziati hanno potuto osservare e studiare gli stadi fondamentali della formazione stellare. Fra le tre stelle della Spada sono presenti, oltre alla Nebulosa di Orione, altri due sistemi nebulosi importanti: uno è costituito dalla Nebulosa De Mairan (M43), in realtà direttamente connesso con la Nebulosa di Orione, e a nord, NGC 1977, una nebulosa a riflessione illuminata dalla stella 42 Orionis." A parte il grande interesse astronomico e astrofisico, è evidente che un asterismo così grande non può non aver catturato l'attenzione dei popoli fin dall'antichità, come visto più sopra. Alcuni, forse un po' troppo arditamente, identificano la costellazione addirittura in un manufatto (una sottile tavoletta) trovata nel 1979 in una caverna nella valle di Ach, nel Giura di Svevia, in Germania. La datazione al C14 delle ceneri di ossa trovate in un deposito vicino alla tavoletta fanno supporre che risalga a un ! Viene attribuita ai misteriosi Aurignaziani, una popolazione di cui sappiamo davvero poco, se si eccettua il fatto che entrarono in Europa verosimilmente dall'est sostituendo l'uomo di Neanderthal. Ritornando però al racconto iniziale di Bauval, si apprende che -osservando, come detto, la costellazione e la sua Cintura nella nera oscurità del deserto- egli ebbe un'intuizione, che poi mise ripetutamente alla prova: le tre grandi piramidi di Gizah (e forse non solo esse) erano state costruite per raffigurare nella terra d'Egitto, corrispettivo del Cielo per via del suo stretto rapporto con le Divinità celesti, una mappa terrena di Orione (e probabilmente di altre costellazioni), sfruttando anche la vicinanza della piana con il Nilo, equivalente della "Via d'Acqua Tortuosa" posta nel firmamento (la Via Lattea). A riprova delle loro affermazioni, Bauval e Gilbert riportano l'impressionante sovrapposizione di una astrofotografia (in verità un po' vecchia) delle stelle della Cintura con una ripresa dall'alto delle Grandi Piramidi, davvero suggestiva. 10 astronomicamente orientati verso Thuban (Alfa del Dragone - all'epoca stella polare), la Cintura di Orione, la stella Sirio (Alfa del Cane Maggiore, la stella più brillante del cielo -in egizio: Sopdet; in greco: Sothis) e Kochab (Beta dell'Orsa Minore), in maniera intenzionale e non per mera coincidenza. Ovviamente, questo fatto (l'intenzionalità) fissa definitivamente una data-limite per la costruzione del monumento, e l'affermazione si basa sui lavori pionieristici di Badawy e Trimble; ! Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 FIGURA 9 - Fotografia e composizione di Robert Bauval Tralasciamo del tutto, in questa sede, l'ipotesi, altrettanto alternativa, di una corrispondenza, invece che con Orione, con la costellazione del Cigno, e vediamo dove cercano di condurci Bauval, Gilbert e Hancock (i principali sostenitori della TCO). Innanzitutto, precisiamo che all'interno della teoria trova posto anche la Sfinge, il cui ruolo (purtroppo anch'esso errato...) verrà analizzato successivamente nel corso di questo lungo articolo. La TCO "completa" viene esplicitata da Bauval nel corso della sua ormai notevole produzione bibliografica. In estrema sintesi, il ricercatore belga ritiene (essendosi avvalso della sua intuizione oltre che di programmi -non eccessivamente sofisticati- di simulazione astronomica per PC): - che esista una pressoché perfetta corrispondenza fra le tre piramidi attribuite a Cheope, Chefren e Micerino e la posizione celeste delle stelle della Cintura di Orione; - che tale corrispondenza sia però chiaramente fissata, grazie ai fenomeni processionali per cui la costellazione di Orione "si alza" e "si abbassa" rispetto all'orizzonte di Gizah durante il Grande Anno (o Anno Platonico, pari a circa 25.920 anni), al 10.500 a.C. circa, tempo che Bauval ritiene descrivere lo Zep Tepi o Primo Tempo, con cui gli Egizi fanno iniziare la storia mitica dell'Egitto; - che i quattro condotti interni presenti nella Camera del Re e della Regina della Grande Piramide di Cheope (già definiti come "pozzi di aereazione") siano - che grazie a tale allineamento questi condotti "puntino", di fatto, a una data specifica, per cui di fatto "fissano" con precisione la data di costruzione della piramide stessa, e questa data è circa il 2.550 a.C. (corrispondente in pieno, dunque, con la datazione/cronologia dell'Egittologia classica); - che esistano corrispondenze molto strette fra l'intera costellazione di Orione e la disposizione al suolo di parecchie piramidi egizie, le quali complessivamente riprodurrebbero l'intero asterismo; - che, in definitiva ed eccezion fatta per la Sfinge, per il suo Tempio e per il Tempio della Valle (si veda in seguito), la datazione classica delle piramidi è sostanzialmente corretta; la novità introdotta da Bauval risiederebbe nella concezione del progetto complessivo della piana di Gizah. Secondo questo autore, infatti, esisterebbe e sarebbe dimostrato dalle sue ricerche e simulazioni archeoastronomiche un progetto specifico, terminato nel III millennio a.C. dagli Egizi, concepito però nell'XI millennio a.C. (più o meno al presunto termine dell'ultima era glaciale) per indicare, accanto alla conoscenza esoterica della precessione degli equinozi, un preciso "percorso iniziatico" sulla via del Sole, dei solstizi e degli equinozi. Bauval & co., in ogni caso, non fanno alcuna supposizione esplicita e concreta sulla civiltà responsabile di un simile piano. Cassando, in questa sede, quanto non relativo all'antico Egitto (di fatto e più o meno implicitamente, Bauval si allinea a Hancock, Collins, Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 11 Wilson, West e quant'altri collegano Stonehenge, Nabta Playa, Yonaguni, Bimini, Olmechi, Maya, Angkor Wat in un unicum che rappresenta l'estrema eredità di una super-civiltà preesistente a quelle storiche), l'ingegnere belga, riassumendo, ipotizza (NdA: aggiornamento dell'idea-base alla data del suo libro: "Il mistero della genesi" -titolo originale: "Black genesis") che sia esistita una società altamente evoluta, la quale circa 12.000 anni fa per motivi imprecisati ha ritenuto di dover trasmettere un messaggio codificato attraverso la rappresentazione nella Valle del Nilo di figurazioni celesti, rappresentazione probabilmente iniziata con la Sfinge e/o con i cerchi di Nabta Playa e conclusa circa 8.000 anni più tardi, secondo modalità mai precisate, con l'edificazione delle tre grandi piramidi. Un'avvertenza è d'obbligo. Ci troviamo di fronte, purtroppo, a un tentativo affascinante quanto imbarazzante di mettere insieme svariate idee in libertà, senza un reale filo logico. Bauval spesso appare sconvolto e folgorato, nel corso dell'intera sua produzione e anche all'interno di uno stesso libro, da rivelazioni assai diverse per importanza e per datazione, al punto che è oggettivamente complicato tenere dietro a tutti i numeri e alle date che di volta in volta egli propone. Si ha talora l'impressione che estragga numeri a caso, oppure che tenda a dare ragione all'ultima nozione che ha acquisito nel corso delle sue ricerche, indipendentemente dal loro reale valore in relazione alla sua ipotesi. Mi auguro di essere più chiaro di lui, ma è difficile, e auspico l'indulgenza del Lettore. D'altra parte, Ian Lawton e Chris Ogilvie-Herald hanno avuto le medesime "difficoltà", come riportano nel loro libro ("Il codice di Giza"): “Il loro (NdA: di Bauval e Hancock) atteggiamento lascia sempre interdetti e perplessi. Chi legga questa loro opera, la prima dedicata a questi argomenti, non può che uscirne fuori con le idee molto confuse in merito alla datazione ascrivibile alle Piramidi… i due autori ritengono che esse siano state disposte sulla Piana di Giza come rappresentazione in Terra delle stelle della Cintura di Orione così come questi astri apparivano ai nostri occhi 10.500 anni or sono, anche se, per l’evidenza di altre disposizioni astronomiche sono costretti ad accettare l’ipotesi ortodossa che le dice concretamente innalzate soltanto 8000 anni dopo. In verità disaccordano con l’Egittologia ufficiale solo sulla datazione della Sfinge e dei templi ad essa collegati, ma prima di arrivare a capire tutto questo, districandosi nella generale confusione, è necessario rileggere più di una volta il loro libro (NdA: qui il riferimento è a «Custode della Genesi»)… Una cosa è comunque certa: il filo della discussione è talmente ingarbugliato e poco chiaro che la logica che lo sottende si smarrisce”. Prima di proseguire, è meglio esaurire fin da subito anche i motivi del mio rifiuto, e di quello della Comunità scientifica internazionale, di talune interpretazioni pseudomatematiche e a sfondo piramidologico. In primo luogo, perché i calcoli vengono effettuati sempre e comunque utilizzando unità di misura assolutamente arbitrarie: si parli di miglia o chilometri, di metri o piedi, di leghe o cubiti (reali o non) il risultato non cambia. Non esiste nessuna prova che gli Egizi o chi per loro fossero "usi all'uso" di unità di misura a noi note. Ovviamente del tutto diverso è il discorso aperto da considerazioni fondate sullo studio di proporzioni, che restano le medesime indipendentemente dalla misura adoperata: si pensi alla ormai assodata conoscenza del π da parte dei Nilotici (abbastanza ben approssimato, con un valore oscillante fra 3.16 e 3.145), o del ø, entrambe di fatto incorporate in molti monumenti, anche dell’Antico Regno. In secondo luogo, perché spesso con numeri e misurazioni si può giocare. Ad esempio, per chi vuole divertirsi ho trovato questa bizzarra elucubrazione in Rete: ! FIGURA 10 il signor Veloso Emerson ha trovato (non so quanto provocatoriamente…) un'evidente correlazione (sic!) fra il tempio cambogiano di Angkor Wat e casa sua, in quel di Florianopolis (capitale dello stato di Santa Caterina, in Brasile). Utilizzando la "sicura conoscenza matematica" degli antichi Indù (che - a dire il vero- con la Cambogia e il Brasile c'entrano 12 poco o nulla), il signor Emerson ha tirato fuori questa serie di formule (si guardi anche la figura): cos a = cos b . cos c + sen b . sen c . cos A cos a = cos 76,6° x cos 62,3° + sen 76,6° . sen 62,3° . cos 27,5° cos a = 0,107726… + 0,763973… = 0,871699… Inv(cos) a = 29,34° 360° -------------------- 2piR 29,34° --------------------- d d = 2piR x 29,34°/ 360° Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 d = 2pi x 6.371km x 0,0815 d = 3.262 km D = piR - d = pi x 6.371km - 3.262 km = 20.015km 3.262 km D = 16.753 km grazie alle quali, in buona sostanza, conclude che esiste una correlazione ineccepibile fra la sua città e Angkor Wat: le formule, insomma, permettono di verificare che tra Florianopolis e il tempio c'è una distanza pari a 16.753 Km, a fronte di una misurazione effettiva (tramite Google Earth) di 16.759 Km. Chiaramente, qui ci troviamo davanti a un mistero nel mistero: come abbia fatto una qualunque civiltà di migliaia di anni fa a prevedere addirittura l’esistenza del sistema GPS. Gli stessi Ian Lawton e Chris Ogilvie-Herald, inoltre, nel loro accurato "Il codice di Giza" su accennato così giustamente osservano: "Le nostre correnti unità di misura (piedi, metri ecc.) devono essere accuratamente convertite nelle arcaiche unità di misura degli Egizi, quali il cubito e la stadia lunga – di cui nei tempi antichi e classici esistevano infinite varianti –, sapendo sin da principio, per quanto ci viene da prove scritte e architettoniche, che una conversione esatta è pressoché impossibile, non disponendo di una «ratio» codificata e riconosciuta per questa conversione". Mi sembra con questo di aver detto tutto al riguardo, non credete? Cominciamo ora l'analisi vera e propria, che ci porterà a concludere che l'ipotesi di Bauval è purtroppo insostenibile, e non è nemmeno granché brillante, nonostante la sua grande popolarità e lo strombazzamento a cui è sapientemente tuttora sottoposta. Va subito detto che la TCO è viziata all'origine dall'uso stesso del metodo utilizzato per testarla. Oltre l'apparenza granitica dell'uso di procedure informatiche, il programma usato (un banale software commerciale concepito addirittura per il DOS) è assolutamente "primitivo" e di conseguenza i risultati ottenuti sembrano essere del tutto inadeguati e scorretti. In altri termini, non corrisponde al vero che esiste una corrispondenza fra la Cintura celeste e quella presunta "terrena", in nessuna epoca. Non solo, ma esistono considerazioni astrofisiche, come vedremo, che gettano parecchie ombre sulla ipotesi di Bauval per via della possibile evoluzione stellare degli astri, elemento non tenuto in conto dall'ingegnere belga: ne farò cenno in seguito, rimandando il Lettore desideroso di un ulteriore approfondimento a uno specifico articolo presente nella bibliografia. Una dettagliata analisi sulle capacità e sulle pecche dei software astronomici comunemente in uso è presente in questo stesso numero, a cura di Giuseppe Badalucco, per cui ritengo inutile ripetere gli stessi concetti in questa sede. Basti solo ricordare che: "…(per) questi software occorre precisare che alcuni di essi non sono considerati software di natura professionale, per cui gli stessi produttori, che li hanno elaborati, per correttezza, hanno espressamente avvertito gli utilizzatori che tali programmi sono configurati per fornire posizioni planetarie, costellazioni, e altri dati con margine d'errore minimo entro un'epoca compresa fra il 3.000 a.C. e il 3.000 d.C. (tra questi si possono ricordare alcuni importanti software come Skyglobe, Stellarium, WinStars e altri). Da ciò sicuramente si deduce che, seguendo le indicazioni fornite dagli stessi produttori, è possibile ipotizzare che tali software non possano fornire informazioni del tutto attendibili per epoche lontane, come il 10.500 a.C. su cui … lavorarono Bauval e Hancock nei propri scritti (nel 1994 operarono simulazioni su Skyglobe), per cui per periodi di tempo così lontani rimangono seri dubbi e perplessità sui dati esposti. Alcuni studiosi (si veda per esempio il Prof. Piero Massimino Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 13 dell'Osservatorio di Catania) hanno elaborato dei software disponibili su siti di gruppi astrofili che sono settati per tenere conto di tutte le problematiche relative alla rappresentazione delle configurazioni celesti, compresi i problemi relativi alle epoche lontane, in cui gli effetti della precessione su tempi lunghi non sono del tutto facilmente comprensibili (per esempio Skydraw)" (G. Badalucco, "CONSIDERAZIONI SULLO SPOSTAMENTO PRECESSIONALE DELLE COSTELLAZIONI ZODIACALI E SUL FUNZIONAMENTO DEI SOFTWARE ASTRONOMICI", ASPIS 2013 -il grassetto è mio). Inoltre, come già rilevato da più di 15 anni da astronomi del calibro di Ed Krupp (Griffith Observatory, Los Angeles) e del compianto Anthony Fairall (Dipartimento di Astronomia dell'Università di Città del Capo) le immagini proposte da Bauval e quant'altri sono tutte completamente errate nell'orientazione. Non dico assolutamente che sia stata un'operazione fraudolenta, intendiamoci. Eppure, le mappe sono tutte sbagliate. Passi per il fatto che nei libri l'orientamento delle figure è capricciosamente variabile, e non rispondente quasi mai alla convenzione internazionale secondo cui il Nord è visualizzato in alto (e, conseguentemente, il Sud in basso, l'Est a destra e l'Ovest a sinistra). Dà da pensare, in ogni caso, proprio l'immagine "primeva" prodotta da Bauval. Guardiamola di nuovo, con attenzione: ! FIGURA 11 - R. Lepsius e, se non bastasse, da questa ripresa dall'alto ottenuta con Google Earth: ! ! FIGURA 9 Da essa sembrerebbe assolutamente evidente che, in effetti, "come in alto, così è in basso". Giusto? Incontestabile? Assolutamente sbagliato. In realtà, il trucco c'è. E si vede pure, specialmente se raffrontato con questa riproduzione (tratta da un articolo in rete di Krupp): FIGURA 12 - il terzetto di Gizah ripreso da Google Earth Chiaro l'arcano? Se non lo è, un poco di pazienza e di sforzo, e sarà tutto di solare evidenza. Nella famosissima foto di Bauval, il terzetto di Gizah è doppiamente invertito e ribaltato rispetto alla realtà. Mentre le stelle della Cintura sono, nonostante la vetustà dell'immagine, 14 Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 correttamente raffigurate (si veda anche la FIGURA 13, qui sotto) ! FIGURA 14 - il terzetto di Gizah dopo sola riflessione orizzontale ma quadra magicamente dopo una seconda riflessione sull'altro piano, ad esempio quello verticale: ! FIGURA 13 - stelle della Cintura di Orione - da R. Bauval e sono quindi dal basso in alto (o, meglio, da Sud-Est a Nord-Ovest…) Alnilak, Alnilam e Mintaka, le tre piramidi vengono invece scorrettamente rappresentate, riflesse/ribaltate una volta secondo il piano verticale e una volta secondo quello orizzontale. La reale rappresentazione delle Grandi Piramidi sul terreno, in effetti, è quella delle figure 11 e 12. Però, se -attraverso un qualunque programma di grafica: io ho usato IrfanView- si sottopongono le immagini reali dei tre monumenti (prendiamo come esempio la figura 12) ad una sola "riflessione" (come la chiama il programma) sul piano ad esempio orizzontale, il risultato continua a "non quadrare": ! FIGURA 15 - il terzetto di Gizah dopo riflessione orizzontale e verticale "C'est plus facile, ne pas?" (cit.) Ed ecco, per comodità, come compare realmente la presunta sovrapposizione delle stelle mantenendo il Nord in alto (ho usato per maggiore chiarezza la stessa foto della Cintura usata da Bauval): 15 1 - senza alcuna riflessione (cioè, come effettivamente si vedono le stelle, e come effettivamente sono disposte sul terreno le Piramidi - ricordo che la Grande Piramide è quella più scura, "a destra"): ! Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 FIGURA 18 ! FIGURA 16 non esiste la benché minima sovrapposizione di Cielo e Terra. D'accordo, entrambi i gruppi sono composti da tre unità, ma mi pare un po' poco, no? L'asse diagonale perfetto fra Cheope e Chefren non corrisponde all'allineamento fra Alnilam e Alnitak; 2 - con la sola riflessione orizzontale: si ottiene l'unico modo di far combaciare (beh, quasi!) stelle e Piramidi. Un buon esempio, insomma di come sia possibile piegare le osservazioni empiriche alle idee, con buona pace della Filosofia della Scienza. Cosa è successo, dunque? Molto semplicemente, poiché non esiste alcun modo di far combaciare la posizione "del Cielo" e quella "della Terra", nemmeno ipotizzando un improbabile "convenzione Sud" per quanto riguarda gli Egizi (anche in questo caso sarebbero indispensabili le riflessioni operate), si è piegata l'osservazione sul campo affinché confermasse l'idea. In tutta sincerità, da modesto scienziato non posso che ripensare a un'autentica bufala speculativa. Soprattutto in considerazione di un altro aspetto che mi accingo ad analizzare, sullo stesso tema (archeo)astronomico. Se infatti andiamo a sovrapporre, utilizzando scale molto simili, le immagini delle stelle di Bauval con le Piramidi come oggi le vediamo, la presunta correlazione (come già dimostrato) è del tutto inesistente: necessita della doppia riflessione di cui abbiamo appena discusso: ! FIGURA 17 le due raffigurazioni orionica e terrena appaiono al massimo QUASI speculari, ma nient'affatto corrispondenti; 3 - con riflessione orizzontale e verticale: 16 FIGURA 20 Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 È facile vedere (e dunque dimostrare) che su scala similare esiste (solo con l'artificio della doppia riflessione!) una correlazione pressoché completa con la Seconda Piramide; una correlazione quanto meno discutibile fra Grande Piramide e Alnilam, mentre Mintaka e Micerino sono al massimo compagni di banco. Non è rispettato "in basso" (cioè a Gizah) il rapporto esistente nelle distanze fra le singole stelle. ! FIGURA 19 ! Che succede se invece riportiamo le immagini arbitrariamente doppiamente riflesse sulle stelle? Ecco: Va fatta, poi, un'ulteriore considerazione. Anche volendo forzare le cose, e presupporre arbitrariamente che gli Egizi abbiano per qualche oscuro motivo mescolato le carte e quindi in realtà una stretta correlazione esista, c'è un altro elemento da spiegare (e Bauval non lo fa). "Da sinistra a destra" avremmo la rappresentazione di Alnilam, Alnitak e Mintaka, come detto. Ebbene, anche questo semplicemente non è possibile. Secondo la TCO, infatti, le Tre Piramidi sarebbero la proiezione terrestre della Cintura; invece CheopeAlnilam è fuori posto, perché la stella più brillante del terzetto è Alnitak-Chefren (quella "centrale"), e sembrerebbe invece logico rappresentare la stella più brillante con la piramide più grande. Una differenza minima (1.69 contro 1.74) ma che una civiltà evoluta sarebbe stata in grado di cogliere. E difatti la Seconda Piramide è leggermente più piccola della Grande Piramide (a presunta riprova di una simile capacità), ma in chiave TCO è stata eretta nel posto sbagliato (al "centro" anziché a "sinistra"). Bisogna specificare, poi, che per motivi prospettici effettivamente la Seconda Piramide appare spesso più grande delle tre; ma Alnitak non sembra affatto, a occhio nudo, più brillante di Alnilam. Quindi, restano inspiegabili queste devastanti discrepanze fra osservazione del Cielo e costruzioni sulla Terra, demolendo almeno in quest'ottica il paradigma del "Come in Alto, così in Basso". Non potrebbe essere, come vedremo in seguito, che questa perifrasi debba essere riguardata come una metafora di altro genere? Che "il Basso" sia qualcos'altro? Come scrive Krupp: "Anche se un appassionato della TCO potrebbe sostenere che l'inversione non è davvero significativa, o che gli Egizi deliberatamente rovesciarono questa costellazione per motivi arcani e noti solo a loro, queste razionalizzazioni non hanno alcun senso. Nel momento in cui abbracciano l'ipotesi di un orientamento Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 17 plausibilmente astronomico dei condotti Nord e Sud (NdA: della Camera del Re) della Grande Piramide, Bauval e Gilbert hanno l'obbligo di accettare il fatto che il Nord significa nord e il Sud si trova a sud nella Grande Piramide. Non ha senso, quindi, immaginare un'inversione nel piano generale. Si potrebbe obiettare che è possibile adottare una prospettiva completamente diversa e indipendente, immaginando il modo in cui Orione apparirebbe da un punto al di fuori della sfera celeste. In tal caso, l'Est è est e l'Ovest si trova a ovest , ma i due non combaciano ancora: la cintura continua a trovarsi nella direzione sbagliata" (grassetti miei). Come si vede, Krupp descrive esattamente la situazione che -anche a mezzo delle figure precedenti- a mio giudizio rappresenta un durissimo colpo alle affermazioni dei neo-egittologi. Il compianto Anthony Fairall così scrive, a completamento di questi pensieri: "La Piramide di Cheope è la più grande di una linea di tre - insieme a quella di Chefren e la piramide molto più piccola di Micerino. Date le competenze di rilevamento degli Egiziani, molti si sono chiesti il motivo per cui la linea delle tre piramidi è leggermente deviata… (omissis). Una (spiegazione) è che la deviazione dalla linea retta corrisponde a quello delle tre stelle della cintura di Orione, anch'esse leggermente disassate. Questo ha suggerito che il layout di Giza possa essere un tentativo di ritrarre la Cintura di Orione. Se è così, l'orientamento della linea, rispetto ai punti cardinali, è sbagliato, in relazione alla data «canonica» del 2500 a.C. circa. Il fenomeno della precessione, tuttavia, cambia l'angolo che la cintura fa nel cielo. Bauval sostiene che un riferimento al 10500 a.C. dà «una corrispondenza perfetta». Ma è davvero così? La mia indagine ha mostrato che, mentre la linea delle due piramidi esterne è impostata secondo un angolo di 38 gradi da Nord, l'angolo della Cintura di Orione a Nord per le date intorno al 10500 a.C. è molto vicino ai 50 gradi! Una differenza troppo ampia per essere definita «una corrispondenza esatta». Ho calcolato che un moto di precessione circolare darebbe 47 gradi, mentre se si considerano anche gli aspetti dovuti alla nutazione questo valore è leggermente più alto. Simulazioni condotte all'interno di un planetario concordano su questa conclusione. Bauval, d'altro canto, usa programmi di simulazione astronomica. Egli suggerisce che solo con moderni computer sofisticati possiamo esaminare le antiche configurazioni celesti. Mi chiedo se ha anche commesso l'errore di misurare gli angoli su uno schermo piatto (NdA: come dovrebbe essere noto, la somma degli angoli su una superficie curva è maggiore della somma dei medesimi angoli proiettati su una superficie piana. Questo è il senso dell'affermazione di Fairall, considerato che la volta celeste è in effetti una sfera). La scelta di Bauval del 10500 a.C. (quando Orione raggiunge il punto più meridionale [NdA: «più basso»] nel suo ciclo di precessione) a suo giudizio si adatta anche con la Via Lattea, in questo caso perfettamente allineata con il Nilo. Ma il corso del Nilo è variabile, e noi non sappiamo con certezza e/o con precisione dove il Grande Fiume scorresse intorno al 10500 a.C." La conclusione di Fairall è secca e impietosa: "La base astronomica per sostenere che il layout (NdA: complessivo) di Giza risale 10500 a.C. è quindi molto sottile . Sarebbe bene se si facesse di più per contrastare la pubblicità dei libri (NdA: di Bauval & co.), (chiarendo) che la base congetturale di simili affermazioni è davvero fragile sotto il profilo scientifico". Definire “ottimistica” la conclusione di Bauval («Ma ciò che adesso emerge dalla raffigurazione visiva del cielo meridionale attorno al 10500 a.C. è questo: la dislocazione della cosiddetta Cintura di Orione posta a “occidente” rispetto alla Via Lattea, coincide e collima, con straordinaria precisione, con il layout delle tre Grandi Piramidi di Giza!») è dunque davvero un eufemismo. È chiaro che la rotazione giornaliera dell’azimut, che comporta automaticamente una variazione diurna e annuale dell’assetto delle Tre Stelle in relazione a qualsiasi riferimento terreno e anche a distanza dal meridiano, non è stata minimamente presa in considerazione. Ricordo a questo punto che una definizione molto banale e non strettamente corretta sotto il profilo geografico/ astronomico del termine “meridiano” è l’arco immaginario che passa per il punto esatto in cui è situato un osservatore, e congiunge il Polo Nord con il Polo Sud. Bisogna poi rilevare che alcune “spiegazioni” dei guru della Neo-Egittologia (che forse è davvero un’Egittologia piena di nei...) sono purtroppo ancora più raccapriccianti. Dopo un’abborracciato chiarimento sulla natura della precessione degli equinozi, il tutto si riduce a dichiarare che è indispensabile risalire al 10.500 a.C. per la presenza di favorevoli fattori climatici nell’Africa Settentrionale (affermazione che nelle prossime parti dimostreremo essere errata) e per la semplice osservazione (si faccia riferimento alle considerazioni di Fairall su riportate) secondo cui 18 Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 mentre nel 2.500 a.C. -epoca della costruzione delle Piramidi anche per i neoegittologi- la Via Lattea (“Via d’Acqua Tortuosa” per gli Egizi) era situata obliquamente rispetto al meridiano (in quale data e a che ora non è specificato), solo nell’XI millennio a.C., sempre in data e ora imprecisata, la Galassia avrebbe assunto una posizione parallela a quella del fiume. Poco importa, a quel che sembra, sia che si tratti di un’affermazione evidentemente senza un reale significato, sia che lo stesso Fairall abbia ricordato l’incostanza del corso del Nilo durante i millenni. Andando oltre, giova sottolineare che -con buona pace dei seguaci di questa Neo-Egittologianon è affatto vero che, in qualche maniera, viene comunque rispettato il ruolo dell'Egitto quale "specchio del Cielo". Sebbene in "Custode della Genesi" Bauval e Hancock tentino di mostrare (secondo le purtroppo consuete modalità di inversione, e sinceramente a questo punto il dubbio che esse siano in qualche maniera volontarie è legittimo…) che anche per altre stelle della costellazione di Orione esista una corrispondenza, il tentativo fallisce miseramente. In effetti, se ci si pensa non è forse assolutamente incomprensibile (anche supponendo giustamente una diversa mentalità degli Egizi e loro predecessori rispetto a quella moderna) che la Cintura di Orione venga rappresentata (si fa per dire…), mentre le stelle principali dell'asterismo, che sono fra le stelle più brillanti del cielo, non abbiano alcun corrispettivo? Personalmente, trovo che sia un fenomeno davvero curioso! La pubblicazione nel libro appena citato di una duplice "mappa" in cui vengono ritratte Orione (con adeguata tratteggiatura in posizioni strategiche) e la zona compresa fra Menfi a Nord e un'area imprecisata a Sud evidenzia la franca zoppìa della TCO. Basta guardare la figura 21 ! FIGURA 21 – dal libro “Custode della Genesi” per rendersi conto che: - è assente Bellatrix, ovvero γ Orionis (magnitudine 1.64): non c’è nessuna piramide a “segnarla”. Timidamente e quasi di soppiatto, i due Autori qua e là lasciano balenare l’idea che possa essere rappresentata dalla piramide di Zawyet el-'Aryan (figura 22). ! Figura 22 – la piramide di Zawyet el-'Aryan A parte il fatto che si tratta di un'opera lasciata incompiuta, quest'ultima risale alla III dinastia (2.700-2.620 a.C. circa), è considerata da molti solo un’evoluta màstaba e in ogni caso è costruita a gradoni, stile quella di Djoser per capirci: quindi, non sembra quadrare molto (come cronologia, posizione e proporzioni) con la TCO; - non c'è Betelgeuse, un dato ancora più strano, tenuto conto che -anche in termini di colorazione (arancione), oltre che di luminosità- questo astro è quasi un contraltare naturale nei confronti sia di Rigel (bianco-azzurra), posta pressoché simmetricamente dall'altra parte dell'Equatore celeste, che di Sirio (stesso colore), posta più a Sud-Est; - non c'è, ugualmente, Rigel: il motivo per cui le stelle più importanti della costellazione siano assenti è, come rilevato, assolutamente incomprensibile; - non è affatto chiaro come mai siano segnalate le necropoli settentrionali (a partire da Menfi, mentre Ayan è l'antico 19 nome dell'attuale Gebel Tura), che sono del tutto prive di un corrispettivo celeste; Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 - parimenti ingiustificabile e incomprensibile il motivo per cui, in una correlazione -a questo punto assai più presunta che ipotetica- fra Terra e Orione, debbano entrare in gioco le Iadi, che fanno parte della costellazione del Toro. Ancor più curiosamente, gli Autori non segnalano che la stella più brillante di quell'ammasso aperto è Aldebaran (Alpha Tauri, magnitudine pari addirittura a 0.98!), apparentemente "appaiata", attraverso le note piramidi di Dashur (la "Rossa" e la "Inclinata"), alla anonima Ain (magnitudine 3.6), un astro visivamente del tutto insignificante. A meno che per qualche oscura ragione nel calderone Bauval & co. non abbiano volutamente fatto rientrare Snefru, padre di Cheope e presunto costruttore di questi due monumenti. Insomma, sotto il profilo astronomico (anche se potrei continuare) la TCO si risolve in un completo disastro; ed è appena il caso di anticipare che non esiste il benché minimo indizio che gli Egizi identificassero le “vitali” costellazioni di Orione, Toro e Leone con le nostre, risalenti a epoche relativamente recenti. È vero che alcuni (pochi) astronomi, in contrasto con Fairall e Krupp, ritengono l'ipotesi di Bauval sostenibile. Però, nessuno di loro ha mai effettuato un'analisi accurata dei presunti legami fra monumenti e stelle, probabilmente a causa della loro scarsa dimestichezza con l'archeologia. Come abbiamo invece visto, già solo esaminando le piramidi di Gizah e la costellazione di Orione si evidenziano enormi pecche e clamorose falle nella ricostruzione archeoastronomica sposata da Bauval e Hancock. Da tutto questo, si può affermare –semplicemente sulla base di verifiche astronomiche e archeoastronomiche- che non solo Bauval e Gilbert sono completamente in errore nello individuare l’epoca dello Zep Tepi, ma anche e di conseguenza che l’intera loro ipotesi è inaffidabile, e che, sulle basi di quanto ripetutamente proposto da costoro, l’Egitto non è affatto uno “specchio del Cielo”, per citare il titolo di un noto libro di Hancock. A questo punto, il Lettore non sarà sorpreso nell'apprendere che esistono anche argomentazioni astrofisiche che cozzano inevitabilmente con la TCO, e che anche il cosiddetto "layout" della piana di Gizah, Sfinge compresa, nonché la tempistica asserita dalla neo-egittologia imbarcano acqua a tutto spiano. Ma questo, insieme a considerazioni epigrafiche, archeologiche, mitologiche, al mistero di Nabta Playa e altro ancora, sarà oggetto delle parti successive. 20 LA COSTRUZIONE DELLE PIRAMIDI DI al-JIZAH Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 di Giuseppe Badalucco Da millenni le piramidi della piana di Giza si ergono, nella loro enigmatica perfezione, a rappresentare l’espressione più alta e nobile della antica cultura egizia e delle sue architetture sacre; da quando, nel XIX secolo, l’interesse intorno alle strutture megalitiche di Giza tornò a crescere, dopo la spedizione napoleonica, con la nascita dell’egittologia moderna, gli studiosi hanno realizzato studi estremamente complessi ed elaborati sulle piramidi allo scopo di individuare, in modo preciso e dettagliato, le tecniche adottate per la loro costruzione nonché le tecnologie presenti nei diversi momenti storici attraversati dalla civiltà egizia. Il dibattito acceso tra studiosi di ogni disciplina in merito alle tecniche di costruzione delle piramidi di Giza e alle tecnologie adottate, nel corso degli anni, non ha portato ad un risultato definitivo ma ha lasciato aperte numerose questioni scottanti riguardanti le attrezzature impiegate per la costruzione, l’impiego di rampe per le costruzioni stesse, i tempi tecnici di realizzazione e i possibili tempi di rimaneggiamento e ristrutturazione dei manufatti stessi. Gli studi condotti in passato fino ad oggi hanno dimostrato che la civiltà egizia, cominciò a svilupparsi storicamente, successivamente al 3150 a.C. con il periodo arcaico nel quale ebbero sviluppo le prime dinastie storiche; mentre in epoca predinastica, all’inizio del IV millennio a.C., lo sviluppo della civiltà egizia avvenne in modo sufficientemente rapido, con l’avvio delle attività agricole nel Delta del Nilo e di una fiorente attività artigianale. Nel periodo storico, a partire dal 3100 a.C., la nascita dei primi villaggi e delle città egizie portò ad uno sviluppo altrettanto rapido delle tecniche di costruzione di edifici, costruiti in pietra e mattoni, tra cui prevalsero edifici relativi ad architetture sacre e istituzionali (palazzi, templi) per realizzare i quali le attrezzature disponibili, a partire almeno dal III millennio a.C. erano rappresentate da oggetti di piccolo e medio taglio che sono stati spesso raffigurati in papiri e dipinti murali e che possono essere così catalogati: - tra gli strumenti impiegati dagli scalpellini vi erano accette, scalpelli di bronzo e mazze di legno, inoltre venivano impiegate squadre e filo a piombo per realizzare misurazioni corrette - i lucidatori per levigare e lisciare bene le superfici di pietre impiegavano dei lisciatoi - gli operai addetti al sollevamento di manufatti come blocchi di pietra, impiegavano argani e corregge con l’ausilio inoltre di piani inclinati. Gli operai addetti al taglio dei massi di pietra impiegavano invece martelli di pietra con manici di legno - i falegnami impiegavano accette e seghe per tagliare il legno, e pialle per rifinire le tavole di legno mentre per realizzare oggetti più complessi impiegavano trapani ad archetto ! ! Fig. 1 attrezzature egiziane antiche 21 Fig. 2 attrezzature egiziane antiche ! Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 Fig. 3 trasporto blocchi su slitte a traino animale Lo stato della tecnologia che quindi, all’alba del III millennio a.C. avrebbe permesso agli Egizi di costruire i manufatti più grandi ed enigmatici del mondo allora conosciuto era quello descritto più sopra a cui si possono aggiungere le conoscenze tecniche relative all’impiego certo di semplici macchine per sollevamento pesi (blocchi di pietre ecc., introdotte almeno a partire dai primi secoli del I millennio a.C.) che viene fornito più oltre nella descrizione delle tecniche di costruzione. Tale stato è quindi quello di una tecnologia sufficientemente avanzata da raggiungere l’uso minimo di macchine di sollevamento pesi a cui si abbina l’impiego di attrezzi manuali di piccolo taglio e tecniche di trasporto terrestre di oggetti e manufatti con l’ausilio di slitte trainate da esseri umani o animali come buoi e cavalli (successivamente) mentre per il trasporto fluviale di merci e manufatti venivano impiegate chiatte galleggianti lungo il fiume Nilo. In questo quadro tecnologico di base, caratterizzato da conoscenze tecniche minime, essendo presente in forma istituzionale da almeno 500 anni, si inserisce la costruzione delle piramidi di Giza in un periodo presumibilmente compreso fra il 2650 e il 2450 a.C., realizzate dai sovrani della IV dinastia (Khufu, Khafra, Menkaura) e per il quale si sono sviluppate diverse ipotesi di costruzione che analizziamo in questo breve scritto: L’ E V O L U Z I O N E D E L L E T E C N I C H E D I COSTRUZIONE E L’IPOTESI REGRESSIVA: La prima importante considerazione di natura storica e tecnica riguarda le presunta evoluzione temporale che avrebbero subito le tecniche di costruzione di edifici sacri e palazzi appartenenti all’architettura egizia antica. Infatti gli egittologi sono comunemente concordi nell’affermare che tali tecniche costruttive si modificarono nel tempo, nel corso di secoli, proprio a causa dell’evoluzione nello stato della tecnica e dell’arte egizia. Gli egittologi sostengono apertamente, con alcune varianti interpretative, che le tecniche con cui furono costruite le piramidi (più piccole) del Regno Medio (2000 – 1780 a.C. circa) erano decisamente diverse rispetto a quelle adottate per realizzare i grandi monumenti megalitici dell’Antico Regno (2700 – 2190 a.C.). Infatti gli egittologi affermano innanzitutto che le tecniche di costruzione si modificarono nel tempo raggiungendo, in alcuni casi, una sorta di compromesso fra diversi stili tecnici che potevano essere adottati. - in una prima fase, legata al Regno Antico, le piramidi furono costruite interamente in pietra, con blocchi di pietra calcarea e granito che venivano estratte in cave situate a distanza di alcuni chilometri dal sito; in particolare la pietra calcarea veniva estratta secondo gli egittologi prevalentemente nella zona di Tura (zona Il Cairo) mentre le cave di granito erano essenzialmente situate nella zona di Assuan; i blocchi di pietra calcarea furono impiegati principalmente per costruire la muratura esterna perimetrale dell’edificio piramidale mentre i blocchi di granito furono impiegati principalmente per costruire le parti interne delle piramidi, come i muri e i soffitti delle camere funebri, anche se occorre ricordare che furono impiegati anche per costruire la copertura esterna della piramide di Micerino (Menkaura). Altra considerazione importante da fare è che inizialmente i blocchi di pietra venivano posizionati in modo inclinato verso l’interno mentre in una seconda fase successiva cominciarono ad essere posizionati orizzontalmente in modo da determinare un miglioramento nella tenuta della struttura1 - in una seconda fase, a partire dal Medio Regno in avanti (2000 a.C. circa) le tecniche di costruzione di edifici pubblici di culto, di palazzi, di templi e di piramidi cambiarono ulteriormente; i palazzi e piramidi costruiti in questo periodo appaiono realizzati con mattoni di fango cotti ricoperti esteriormente da coperture in pietra e alcune vennero realizzate su colline naturali per evitare al minimo l’impiego di materiali esterni. Questi manufatti nella maggior parte dei casi hanno avuto uno stato di conservazione pessimo rispetto alle prime piramidi che sono giunte invece pressoché intatte fino ai giorni nostri2. Queste importanti considerazioni sull’evoluzione temporale delle tecniche di costruzione dalle prime dinastie storiche a quelle del Medio Regno ha determinato il formarsi di precise idee in seno alla comunità scientifica in merito a quello che può essere definito come un regresso delle capacità tecniche esprimibili da parte di una civiltà, a Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 22 dimostrazione del fatto che l’evoluzione storica delle civiltà non sarebbe così lineare come potrebbe apparire ad una prima analisi, ma indicherebbe la presenza di variazioni non lineari nella tecnologia esprimibile anche in base all’andamento della sua situazione storica. Se infatti l’evoluzione storico – sociale dell’Antico Egitto portò, ad un determinato momento, all’assenza nella terra dei Faraoni di maestranze in grado di lavorare la pietra o di gestire grandi quantitativi di materiali edili, i costruttori delle nuove e più recenti piramidi avrebbero dovuto adattarsi alle conseguenze che tale evoluzione aveva determinato, impiegando i pochi materiali e le scarse maestranze disponibili. il distacco dalla roccia madre, i blocchi venissero eventualmente bagnati con acqua3. Altri importanti problemi che dovettero affrontare i costruttori delle piramidi riguardarono: - il livellamento delle fondamenta che si ipotizza sia stato effettuato con l’ausilio di tecniche idrauliche (attraverso l’impiego di fossi ripieni di acqua) - il riempimento degli interstizi tra un blocco e l’altro, che fu effettuato con l’ausilio di materiale di riempimento come malta ottenuta da riscaldamento del gesso, macerie, pezzi di pietra e altro materiale di scarto. Lo scopo di tale operazione fu quello di rendere, semplicemente, più stabile la struttura dell’edificio. LE VARIE IPOTESI DI COSTRUZIONE RESOCONTI STORICI: ERODOTO, STRABONE, DIODORO SICULO E PLINIO IL VECCHIO L’idea che sta alla base degli studi realizzati dall’archeologia classica e che è stata supportata, nel corso del tempo, dagli studi ingegneristici e di architettura antica è che le piramidi siano state realizzate a partire dal distacco dei blocchi di pietra dalle cave, sfruttando scalpelli di rame o bronzo, a cui faceva seguito il trasporto a bordo di slitte trainate fino al cantiere nel quale venivano sollevate fino al punto di inserimento nel corpo del manufatto; e l’idea principale che è prevalsa nel corso del tempo è che le piramidi siano state costruite con delle rampe di terra che siano servite ad effettuare il trasporto dei blocchi fino ai corsi di muratura più elevati e a garantire la manovrabilità degli stessi una volta giunti all’altezza prevista. I principali problemi tecnici che dovettero affrontare i costruttori delle piramidi fu quello di trasportare e manovrare pesanti blocchi di pietre estratte dalla rocce calcaree; sappiamo con certezza, poiché sono stati studiati e analizzati dettagliatamente, che i blocchi di pietra che compongono le piramidi di Giza sono blocchi di dimensioni e peso variabili tra 1 o 2 tonnellate fino a 80 tonnellate che quindi dovettero essere staccati, lavorati e trasportati fino al punto di sollevamento con difficoltà che oggettivamente devono essere attentamente valutate. Le informazioni desumibili dalle testimonianze storiche che ci sono pervenute permettono di affermare che probabilmente per eseguire il proprio lavoro di taglio della roccia calcarea gli operai facevano uso di scalpelli di rame, trapani e seghe mentre le pietre di maggiore durezza (come diorite, granito e basalto) venivano colpite con diabasi (rocce minerali) e venivano lavorate con l’ausilio di materiale abrasivo come sabbia di quarzo. Si ipotizza anche che, per favorire Le testimonianze storiche dirette relative alla costruzione delle piramidi di Giza (cioè fonti storiche dirette come scritti, o dipinti o papiri con raffigurazioni dirette dell’epoca relativa alla IV dinastia) non esistono o comunque non sono pervenute fino a noi (ad oggi); per cui la speranza più grande per gli archeologi è e rimane quella di poter trovare dei papiri antichi in cui sia descritto come furono costruite, risalenti almeno al 2500 a.C. Le uniche testimonianze scritte disponibili sono quelle relative a cronisti di epoca posteriore come furono Erodoto, Diodoro Siculo che vissero rispettivamente nel V sec. a.C. e I sec. a.C. cioè circa duemila anni dopo la costruzione dei monumenti megalitici. Le testimonianze di questi storici furono senza dubbio importanti perché diedero avvio alla storiografia ufficiale dei popoli antichi e si fondarono, prevalentemente, sull’elaborazione in forma scritta di resoconti di dialoghi tenuti, tramite traduttori presenti in loco, con sacerdoti egizi e funzionari addetti ai luoghi sacri che operavano nei templi delle città egizie in tale epoca. Infatti Erodoto (484 – 425 a.C.) in particolare visitò l’Egitto e vi rimase per circa quattro mese, avendo così il tempo di visitare i luoghi sacri della civiltà dei Faraoni. Nel suo libro le “Storie” parlò della costruzione della piramide di Cheope (Khufu) esprimendosi in tal modo: “Il faraone Cheope costrinse tutti gli Egizi a lavorare per la costruzione della piramide. Ad alcuni impose di trascinare pietre dalle cave situate nelle montagne d'Arabia fino al Nilo; ad altri assegnò di ricevere le pietre, trasportate su navi attraverso il Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 23 fiume, e di trainarle a loro volta fino al monte chiamato Libico. Ai lavori partecipavano sempre 100 000 uomini per volta in turni di tre mesi. Ci vollero dieci anni di duro lavoro collettivo per la costruzione della strada su cui trainare le pietre, opera a mio parere che ha poco da invidiare alla piramide stessa. Dieci anni occorsero anche per l'allestimento delle camere sotterranee che avrebbero custodito la sepoltura di Cheope situate nell'altura su cui sorgono le piramidi. Per edificare la piramide occorsero venti anni, essa è completamente costituita da blocchi di pietra levigati e perfettamente connessi fra loro: nessuna delle pietre misura meno di trenta piedi (un piede corrisponde a circa 30 cm, n.d.r.). La piramide fu realizzata a ripiani. Quando i ripiani vennero completati, con apposite macchine sollevarono le pietre rimanenti dal livello del suolo al primo ripiano. Poi la pietra veniva affidata a una seconda macchina posta sul primo ripiano e questa la sollevava fino al secondo ripiano su una terza macchina: le macchine erano in numero pari ai gradini, ma poteva anche esserci un unico macchinario, sempre lo stesso, facilmente trasportabile da un gradino all'altro. Dapprima fu ultimato il rivestimento della parte più alta della piramide, poi le altre in successione, per ultimi il piano sopra il livello del suolo e il gradino più basso. Una iscrizione in caratteri egizi sulla piramide dichiara quanto fu speso in rafani (una radice commestibile), cipolle e aglio per i lavoratori e, se ben ricordo le parole dell'interprete che mi lesse l'iscrizione, la cifra ammontava a 1 600 talenti di argento (una moneta in uso al tempo di Erodoto, n.d.r.). Se questa cifra è esatta, quanto altro denaro deve essere stato speso per i ferri di lavoro, per il mantenimento e per le vesti degli operai? Tanto più che se impiegarono il tempo suddetto per la realizzazione delle opere, altrettanto ne occorse, io credo, per tagliare le pietre, per il loro trasporto e per lo scavo sotterraneo”4 Erodoto elaborò il suo scritto all’incirca tra il 440 e il 430 a.C. in un periodo nel quale la civiltà Egizia era ancora in grado di esprimere importanti retaggi culturali da trasmettere alla Grecia classica e alle civiltà limitrofe, per cui gran parte delle conoscenze espresse in questo testo si riferivano comunque a conoscenze tecniche presenti nella tecnologia egizia almeno nella stessa epoca; espressamente nel testo di Erodoto si menziona il fatto che - occorse un lasso di tempo di 10 anni solo per costruire la strada che doveva servire per trasportare il materiale al cantiere (cioè le pietre da utilizzare nella piramide) - occorse un tempo altrettanto lungo, espressamente citato da Erodoto in altri 10 anni, per costruire le camere sotterranee destinate ufficialmente a conservare le spoglie del Faraone - inoltre, ovviamente, occorsero 20 anni per costruire il corpo effettivo della piramide, formata da blocchi di pietra levigati e connessi tra di loro - all’opera monumentale lavorarono 100.000 (centomila) uomini per volta a gruppi che venivano turnati una volta ogni 3 mesi - per quanto riguarda il posizionamento dei blocchi sui corsi di muratura occorre specificare che espressamente Erodoto sostiene che la piramide fu costruita a ripiani; una volta completati i singoli ripiani i blocchi di pietra venivano caricati su una macchina che li sollevava dal ripiano inferiore fino al corso di muratura superiore, cioè dal suolo fino al primo ripiano, poi una seconda macchina sollevava il blocco dal primo ripiano al secondo e così via, oppure poteva essere spostata un’unica macchina da un ripiano all’altro (cioè la macchina per sollevare i blocchi sarebbe stata abbastanza facilmente manovrabile) - per quanto riguarda invece il rivestimento esterno della piramide, i costruttori effettuarono dapprima il rivestimento delle parti più alte della piramide per poi discendere verso i corsi di muratura inferiori e il basamento Le informazioni tecniche fornite da Erodoto furono senza dubbio molto importanti perché permisero di disporre di specifiche minime su quelle che poterono essere le tempistiche relative alla costruzione di un’opera monumentale di questo tipo. Tuttavia non tutti gli studiosi forniscono a queste informazioni il carattere di attendibilità che ci sarebbe potuto aspettare, per il semplice motivo che tali informazioni furono elaborate in un periodo di tempo lontano circa 2000 anni dalla costruzione delle piramidi, per cui solo in parte ad esse viene dato credito pur venendo direttamente dai funzionari e sacerdoti addetti ai templi egizi nel 440 a.C. Inoltre su alcune di queste informazioni vengono espresse poche certezze poiché alcune di esse vengono espresse in forma dubitativa (“….Tanto più che se impiegarono il tempo suddetto per la realizzazione delle opere, altrettanto ne occorse, io credo, per tagliare le pietre, per il loro trasporto e per lo scavo sotterraneo”)5. Quello che sappiamo con certezza delle informazioni fornite da Erodoto è che i tempi tecnici sicuri furono almeno, complessivamente, di 24 40 anni (10 per la strada, 10 per le camere sotterranee e 20 per il corpo della piramide) per cui ogni altro tempo impiegato per opere di rifinitura viene espresso in forma dubitativa. Inoltre nel corso degli anni, con gli scavi realizzati intorno alle piramidi, ancora da completare ovviamente, sono stati trovati attrezzi di piccolo taglio per lavorazioni manuali, ma poche tracce di macchine per sollevare i pesi che in parte, col passare del tempo, possono essere andate distrutte. Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 Altre importanti considerazioni sulla costruzione delle piramidi di Giza furono espresse dallo scrittore Diodoro Siculo (90 – 27 a.C.) nel suo libro Biblioteca storica (Libro I) pubblicato tra il 60 e il 36 a.C. circa, in cui espressamente scrive: «Ed egli disse che la pietra era stata trasportata da grande distanza dall'Arabia, e che gli edifici erano eretti tramite rampe di terra, dato che le macchine per sollevare non erano ancora state inventate; e la cosa più sorprendente è che, nonostante queste grandi strutture siano state erette in un'area circondata da sabbia, non restano tracce di queste rampe o della lavorazione delle pietre, tanto che non sembra il risultato del paziente lavoro degli uomini, ma piuttosto come se l'intero complesso fosse stato posto qui già completato da qualche dio. Ora gli egizi tentano di rendere queste cose una meraviglia, parlando di rampe che sarebbero state costruite con sale e che, quando il fiume fu fatto scorrere contro di esse, si sciolsero dilavandosi e non lasciando traccia senza bisogno di intervento umano. Ma in verità, quasi sicuramente non fu fatto in questo modo! Piuttosto, la stessa moltitudine di operai che eressero i tumuli riportarono l'intera massa di materiale nel suo luogo di origine; dicono che 360.000 uomini furono costantemente impegnati nel lavoro, prima che l'intero edificio fosse finito alla fine di 20 anni di lavoro»6. Le informazioni tecniche e storiche fornite da Diodoro Siculo sono state ritenute poco attendibili dalla storiografia moderna, soprattutto per l’accenno relativo al trasporto di pietre dall’Arabia, considerato come un errore evidente. Tuttavia occorre ricordare che gran parte delle informazioni definite “errate” sono espresse da Diodoro sulla base di fonti orali a lui trasmesse da sacerdoti e addetti dei templi cui egli fece visita, per cui se tali fonti furono da lui riportate in modo fedele, si tratterebbe di informazioni tecniche errate provenienti proprio da quelle persone che avrebbero dovuto conoscere i “segreti tecnici” delle costruzioni megalitiche di Giza, per cui da ciò si può dedurre che, o i sacerdoti mentivano, per nascondere precise informazioni da non divulgare, oppure effettivamente essi non erano più a conoscenza delle tecniche di costruzione, per cui potevano esprimere solo delle ipotesi, che furono poi riportate dallo stesso scrittore. Diodoro diede per scontato che storicamente le macchine per sollevare pesi non fossero ancora state inventate al tempo delle costruzioni delle piramidi di Giza (2500 anni prima), per cui ipotizzò che i monumenti fossero stati costruiti con l’ausilio di rampe di terra che furono poi distrutte dagli operai; in questo caso, Diodoro Siculo, che scrisse circa 380 anni dopo Erodoto, contraddisse completamente lo storico greco, affermando che le macchine per sollevare pesi non fossero state costruite al tempo di Cheope. Inoltre egli non diede credito all’ipotesi, da lui stesso riportata dai racconti locali, secondo cui le rampe sarebbero state realizzate con sale che poi sarebbe stato disciolto con l’acqua del fiume. Ancora si può aggiungere che, Diodoro Siculo nel trattare l’argomento, introdusse elementi interpretativi delle tecniche di costruzione che fanno propendere per una determinata ipotesi (rampe di terra) di cui sono state trovate tracce ma per le quali non esistono precise testimonianze storiche. Infine è importante ricordare che mentre in alcuni casi Diodoro contraddisse Erodoto, in altri riprese le stesse informazioni, come quella relativa al trasporto di pietre dall’Arabia, a dimostrazione del fatto che, se anche Erodoto non fu tra le fonti di Diodoro, questa informazione storica poteva far parte di un insieme di conoscenze disponibili nella cultura del tempo, di cui non era dimostrabile, al tempo, la veridicità. Un accenno altrettanto importante alle piramidi fu realizzato da Strabone (ca. 60 a.C. – 24 d.C. ca.) nella sua opera Geografia scritta all’inizio del I sec. d.C.; infatti nel XVII libro (1,33) egli afferma testualmente: “Procedendo quaranta stadi dalla città (Memfi n.d.r.), c'è un altopiano roccioso, sul quale vi sono molte piramidi, tombe di re, ma tre sono degne di nota: due di queste sono anche annoverate tra le sette meraviglie del mondo. Misurano uno stadio in altezza, quadrangolari nella forma, hanno altezza di poco superiore al lato di base. Una è di poco più grande dell'altra e in alto, quasi a metà di una faccia, ha un masso estraibile: togliendolo, c'è una 25 Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 galleria tortuosa fino alla camera mortuaria. Queste piramidi dunque sono vicine le une alle altre sullo stesso pianoro; più discosta, sulla parte elevata dell'altopiano, c'è la terza, molto più piccola delle due, ma fatta costruire con molta più spesa: infatti dal piano di calpestio fino quasi alla metà è di pietra nera, da cui si fabbricano anche i mortai, fatta venire da lontano, dai monti dell'Etiopia, e per il fatto che essa è dura e difficile da lavorare, la costruzione fu così dispendiosa.”7 Le informazioni fornite da Strabone sono state considerate, dalla storiografia moderna, abbastanza attendibili, anche per l’importanza delle sue stesse fonti (Anassimandro, Eraclito, Ecateo, Democrito, Eudosso, Eratostene, Ipparco e altri ancora), sebbene lo stesso, in merito alle piramidi di Giza, non si soffermò ad illustrarne le tecniche di costruzione, quanto piuttosto ne fornì una descrizione generale in termini di strutture geometriche e misure. Strabone introdusse un elemento “medio” di misura dell’altezza delle stesse pari a 1 stadio (equivalente a 185 m) mentre sappiamo che le piramidi di Cheope e Chefren misurano rispettivamente 146,7 m e 136,5 m circa, per cui fornì valori prossimi ma non del tutto corretti. Sulle tecniche di costruzione Strabone si soffermò in maggior misura sull’importanza che ebbe l’uso di materiali pregiati per la realizzazione della piramide di Micerino (che fu molto dispendiosa), per la quale affermò espressamente che, almeno per metà della sua struttura esterna, fu impiegata la “pietra nera” che giunse dai monti dell’Etiopia (granito rosso di Assuan), informazione che Strabone “condivise” con Erodoto e Diodoro Siculo (i quali parlarono rispettivamente di “pietra Etiopica” e “pietra di colore nero” istituendo un collegamento tra il materiale impiegato e il costo dell’opera). Le informazioni fornite da Strabone tendono invece ad essere differenziate da Diodoro per quanto riguarda le distanze geografiche tra Memfi e Giza, indicate in 40 stadi contro 120. Infine un’altra importante testimonianza scritta fu fornita dallo storico Plinio il Vecchio (23 – 79 d.C.) nella sua Storia Naturale (XXXVI, 75 – 82) nella quale così si espresse sulla costruzione delle piramidi: “Si parli, per inciso, anche delle piramidi in Egitto, ostentazione vana e stolta della ricchezza dei sovrani, in quanto la causa della loro costruzione, secondo i più, fu il non lasciare denaro ai successori o ai rivali invidiosi oppure non lasciar la plebe in ozio. In merito a ciò la vanità di quegli uomini è stata straordinaria […] Le altre tre, che hanno riempito il mondo con la loro fama, perfettamente visibili da ogni lato a chi si avvicina in nave [sul Nilo n.d.r.], sono collocate nella zona dell'Africa su un altopiano roccioso e arido tra la città di Memfi e quello che abbiamo detto chiamarsi Delta, a meno di 4 miglia dal Nilo [circa 6 km, n.d.r.] e a 7 miglia e mezzo [circa 11 km, n.d.r..] da Memfi […] La piramide più grande è fatta con pietre estratte dalle cave dell'Arabia. Si dice che l'abbiano costruita 360 mila uomini in 20 anni. Le tre piramidi furono invece portate a termine in 88 anni e 4 mesi. La maggiore occupa 7 iugeri di terreno [1 iugero = 0,252 ha =10.000 mq, N.d.T.], ogni lato è di 783 piedi, i quattro angoli sono equidistanti. L'altezza dalla sommità al suolo è di 725 piedi. In cima è presente una piattaforma con perimetro di 16,5 piedi. Il lato della seconda è di 757,5 piedi. La terza, più piccola rispetto alle precedenti, ma molto più ammirevole, a causa delle pietre etiopiche, si innalza (con un lato), tra gli angoli, di 363 piedi”8. Anche le informazioni fornite da Plinio il Vecchio furono, per certi versi, abbastanza dettagliate, anche se comunque limitate. Plinio fornì innanzitutto un giudizio storico abbastanza pesante nei confronti dei costruttori delle piramidi, individuati nei Faraoni della IV dinastia, accusati di aver realizzato tali opere al fine di primeggiare nella propria epoca e di non lasciare ricchezze accumulate ai propri eredi; ciò rientrerebbe nella tradizione di una parte della storiografia antica che tendeva a fornire un giudizio alquanto negativo sulla storia sociale e politica delle civiltà anteriori alla propria, al fine di esaltare la storia e la cultura contemporanee. Per quanto riguarda, invece, le misure geometriche dei manufatti, Plinio fornì dei dati abbastanza precisi che in parte si raccordano con le informazioni fornite da Erodoto, Strabone e Diodoro; Plinio fornì una misura della superficie alla base occupata dalla piramide di Cheope pari a 7 iugeri di terreno (1 iugero = 0,252 ha dove 1 ha = 10.000 m2) per un totale di circa 17.640 m2, una misura pari a 1/3 di quella reale. Per quanto riguarda invece i lati della piramide di Cheope fornì una misura pari a 783 piedi equivalente a circa 231,7 m contro i 230,30 m reali, per cui tale misura fu molto precisa (per l’epoca) mentre per quanto riguarda l’altezza della stessa la misura fornita fu di 725 piedi, equivalente Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 26 a circa 214,6 m contro i 146,7 m effettivi, per cui tale misura fu sovrastimata rispetto a quella reale. Per la piramide di Chefren Plinio fornì una misura del lato di 757,5 piedi, equivalenti a circa 224,2 m contro i 215 effettivi mentre per la terza piramide di Micerino fu fornita la misura del lato pari a 363 piedi, equivalente a 107 m contro i 102,2 m effettivi; considerando la maggiore precisione dei dati relativi a Cheope, si può senz’altro affermare che comunque tali misure fornite da Plinio furono abbastanza precise, anche considerando il fatto che la piramide di Cheope disponeva, ancora alla sua epoca, di una copertura esterna, che man mano andò staccandosi nel corso dei secoli e che era di alcuni cm; tali misure furono sufficientemente corrette per quanto riguarda i lati, mentre furono meno corrette per quanto riguarda l’altezza dei manufatti. Per ciò che concerne, invece, l’uso dei materiali e rivestimenti, Plinio condivise con Erodoto l’informazione relativa alla fornitura di pietra dall’Arabia così come condivise con Strabone e Diodoro l’informazione relativa all’impiego di materiali pregiati per la copertura della piramide di Micerino, la pietra nera di Tebe. grandi blocchi di pietra che poi furono sollevati e posizionati sui corsi di muratura. Le specificazioni tecniche, tuttavia, su cui la comunità scientifica tende a dividersi, riguardano le singole tipologie di rampe che furono impiegate dai costruttori, che, è stato dimostrato, potevano presentare le forme più disparate e che devono essere attentamente analizzate: RAMPE DIRITTE: In passato, quando gli studi relativi alle tecniche di costruzione di monumenti megalitici antichi non avevano ancora raggiunto un elevato grado di approfondimento, come in epoca contemporanea, prevalse per molto tempo l’ipotesi che le piramidi fossero state costruite con rampe diritte, sebbene gli stessi archeologi affermano che tale metodo di costruzione dovesse essere affiancato da un altro che permettesse, per mezzo di leve, il sollevamento dei pesanti blocchi di pietra e il loro posizionamento sul corso di muratura. Tra i principali studiosi che hanno ipotizzato l’uso di rampe diritte si possono ricordare Jean Philippe Lauer, Louis Croon e Ludwig Borchardt9 ANALISI DEI METODI DI COSTRUZIONE DELLE PIRAMIDI: DIVERSE IPOTESI Le poche e sommarie, per quanto importanti, informazioni tecniche pervenute dalle testimonianze storiche precedentemente citate (Erodoto, Diodoro Siculo, Strabone, Plinio il Vecchio) hanno permesso, in passato, di concentrare l’attenzione, negli studi ingegneristici e di architettura antica, su alcune importanti ipotesi riguardanti le tecniche di costruzione delle piramidi, che possono essere, fondamentalmente, riassunte nell’impiego di rampe per il trasporto e il sollevamento dei blocchi di pietra e nell’ausilio di attrezzature o semplici macchine per il sollevamento delle pietre stesse. Di seguito vengono illustrate le principali ipotesi che sono state elaborate nel corso dei decenni di studi realizzati in materia: METODO DI COSTRUZIONE FONDATO SU RAMPE La maggior parte degli studiosi (egittologi, ingegneri e studiosi di architettura antica) ritiene comunemente accettabile la tesi secondo cui le piramidi della piana di Giza furono costruite con l’ausilio di rampe, sulle quali furono trasportati i ! Fig. 4 esempio di rampa diritta Le rampe diritte presentavano una serie di caratteristiche tecniche che devono essere attentamente valutate: - erano composte di materiali misti come terra, detriti e pietra - venivano posizionate su un lato in costruzione della piramide - presentavano una pendenza che variava nel tempo man mano che procedeva la costruzione; 27 partendo dal dato effettivo relativo all’altezza della Grande Piramide, di 146,7 m circa, è possibile in modo approssimato calcolare la lunghezza che avrebbe dovuto avere la rampa per raggiungere i vari corsi di muratura secondo la formula L = (A / % P) X 100 Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 ALTEZZA LATO PIRAMIDE (A) % LUNGHEZZ PENDENZA A RAMPA (% P) (L = A / %P) X 100 25 m 5% 500 m 50 m 5% 1000 m 75 m 5% 1500 m 100 m 5% 2000 m 125 m 5% 2500 m 146,7 m 5% 2934 m 25 m 10% 250 m 50 m 10% 500 m 75 m 10% 750 m 100 m 10% 1000 m 125 m 10% 1250 m 146,7 m 10% 1467 m dove L indica la lunghezza della rampa, A esprime l’altezza del lato in costruzione (cioè il dislivello da superare), % P indica la percentuale di pendenza (che può essere espressa eventualmente anche in termini unitari se non si moltiplica per 100). In tal modo si ottiene, ad esempio, una tabella di questo tipo: - una volta che veniva completato un corso di muratura, la rampa doveva essere riposizionata per il corso successivo, per cui doveva essere allungata; tale operazione poteva determinare, anche se solo temporaneamente, l’interruzione dei lavori PROVE ARCHEOLOGICHE E SVANTAGGI DELLE RAMPE DIRITTE: le prove archeologiche relative alle scoperte realizzate intorno alle piramidi hanno dimostrato l’esistenza di piccole rampe e camminamenti inclinati che tuttavia, secondo gli studiosi, non furono sufficienti per approntare l’opera nel suo complesso. Le rampe diritte, essendo molto lunghe, avrebbero dovuto sostenere il peso di blocchi di pietra molto pesanti (alcuni fino a 200 tonnellate), per cui una volta che fossero stati trainati su tali rampe, avrebbero potuto determinarne il crollo, a meno che il materiale di cui erano composte le rampe non fosse stato lo stesso dei blocchi trasportati (pietra calcarea); in tal senso gli studiosi sostengono che tali rampe sarebbero state molto costose, in termini di materiale e forza lavoro impiegata. RAMPE A SPIRALE: Un’importante ipotesi alternativa a quella delle rampe diritte, sostenuta anche da egittologi di fama mondiale come Mark Lehner e George Goyon, è quella secondo cui le piramidi furono realizzate, presumibilmente, con l’ausilio di rampe a “spirale”10. Secondo questa ipotesi sarebbero state realizzate delle rampe che avvolgevano la struttura dei corsi di muratura, partendo da una rampa principale (più lunga) che poi “roteava” intorno alla struttura. In particolare, le rampe a spirale potevano essere di due tipi: - rampe a spirale sostenute dalla sovrastruttura - rampe a spirale appoggiate alla struttura già realizzata e sovrapposte Mark Lehner ha ipotizzato nelle sue pubblicazioni che la rampe a spirale partissero dalle cave di estrazione (situate a sud – est di Giza) per poi raggiungere i lati inclinati della piramide per ruotare intorno ad essa. I pesanti blocchi di pietra venivano quindi trascinati su queste rampe con l’ausilio, presumibilmente, di slitte trainate da operai e lubrificate con acqua o altre sostanze 28 ! state, secondo alcuni studiosi, costruite con un minor apporto di materiale rispetto alle rampe esterne, ma ciò avrebbe reso la struttura stessa delle rampe più instabile - inoltre per poter posizionare i blocchi lisci e levigati, tipici delle piramidi di Giza, in alcuni punti le rampe a spirale non avrebbero potuto appoggiare sulla struttura liscia dei blocchi di pietra, ma avrebbero dovuto essere smontate per posizionare i blocchi già levigati (cioè si ritiene che i blocchi venissero levigati e lisciati prima di essere innalzati sui corsi di muratura, per cui si dovevano costruire ulteriori punti di appoggio come detto precedentemente) Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 Fig 5 diverse tipologie di rampe a spirale RAMPE TORNANTI (A ZIG ZAG) Secondo gli egittologi, il materiale indispensabile per realizzare rampe a spirale sarebbe stato in quantità inferiore rispetto a quello necessario per costruire rampe diritte, per cui avrebbe determinato un minor dispendio di energie umane e minori costi di costruzione. PROVE ARCHEOLOGICHE E SVANTAGGI DELLE RAMPE A SPIRALE Altri studiosi, come l’egittologo tedesco Holscher, ipotizzarono che le piramidi furono realizzate con l’impiego di rampe tornanti o a zig zag, che venivano posizionate su un solo lato dell’edificio; secondo gli egittologi questo tipo di rampe poteva essere impiegato anche come metodo secondario di trasporto dei blocchi negli ultimi tratti da percorrere per giungere alla cima della piramide, anche se nelle parti inferiori dell’edificio fossero state impiegate altre tipologie di rampe. Le evidenze relative ai ritrovamenti archeologici realizzati nel corso di decenni di scavi non hanno provato l’esistenza diretta di rampe a spirale; inoltre sono state messe in luce diverse criticità relativamente all’ipotesi delle rampe a spirale che devono essere attentamente analizzate: - a causa delle caratteristiche ingegneristiche delle rampe a spirale, che ruotavano intorno ai lati della piramide, era estremamente difficile manovrare i pesanti blocchi di pietra, soprattutto se fosse stata richiesta una rotazione di 90° (ad angolo retto) - un altro importante elemento di criticità delle rampe a spirale sarebbe stato legato alle notevoli difficoltà che sarebbero sorte per controllare la forma e la struttura dei lati nonché la pendenza degli stessi, poiché la struttura sarebbe stata ricoperta dalle rampe, per cui avrebbe potuto indurre in errore i costruttori - l’impiego di rampe tortuose o a spirale avrebbe determinato la necessità di costruire ulteriori ponteggi o basi di appoggio per raggiungere determinate parti della struttura che non potevano essere raggiunte direttamente dalle rampe esterne, complicando ulteriormente l’esecuzione dell’opera - nel caso in cui fossero state costruite rampe a spirale sovrapposte alla struttura, queste sarebbero ! Fig. 6 rampe a ‘zig-zag’ Secondo gli egittologi l’impiego di rampe a zig zag avrebbe permesso di controllare con maggiore facilità i 3 lati scoperti e gli angoli della piramide rispetto ad altre tipologie di rampe. Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 29 PROVE ARCHEOLOGICHE E SVANTAGGI DELLA RAMPE A ZIG ZAG Anche per la presunta presenza di rampe tornanti a zig zag non sono state rinvenute particolari prove archeologiche, sebbene si ritiene che potessero essere state abbinate ad altre tipologie di rampe situate a livelli inferiori; i maggiori inconvenienti delle rampe a zig zag sarebbero legati alle notevoli difficoltà che avrebbero incontrato gli operai a manovrare i pesanti blocchi lungo i tratti tornanti della rampa (che formano angoli quasi retti), per cui gli operai avrebbero potuto trasportare i blocchi di pietra solo in linea retta e poi avrebbero dovuto risollevarli ogni volta che giungevano al punto di rotazione del tornante della rampa; inoltre per poter garantire la funzionalità delle stesse con una pendenza accettabile (5 – 10%) avrebbero dovuto presentare diversi tornanti, con un incremento notevole dell’impiego di materiale per la loro costruzione11. Fig. 7 rampe interne PROVE ARCHEOLOGICHE E SVANTAGGI DELLE RAMPE INTERNE Non sono state trovate evidenze archeologiche di rampe interne, sebbene esistano prove di camminamenti e piccole rampe, come accennato in precedenza; inoltre è importante sottolineare che le ipotesi introdotte dall’egittologo Arnold non hanno trovato particolare riscontro nella comunità scientifica, poiché si ritiene che le rampe di questo tipo avrebbero potuto rappresentare un notevole ostacolo per i lavori relativi alle camere interne della piramide di Cheope. Inoltre man mano che esse si avvicinavano alla sommità della piramide avrebbero dovuto diventare molto ripide per cui avrebbero reso quasi impossibile il trascinamento e il posizionamento dei blocchi di pietra12. RAMPE COMBINATE: RAMPE INTERNE: ! L’egittologo tedesco Dieter Arnold ipotizzò che le piramidi possano essere state costruite con l’ausilio di rampe interne, che partono dall’esterno del corpo della piramide per inoltrarsi nella parte incompleta della sovrastruttura. In tal caso le rampe presenterebbero la struttura di rampa diritta che si inoltra nella parte interna incompleta e Arnold suppose che, per quanto riguarda Cheope, tale rampa avrebbe potuto essere posizionata in modo tale da agevolare almeno il trasporto dei blocchi verso la parte elevata della struttura. Le rampe interne avrebbero avuto il vantaggio di richiedere una minore quantità di materiale necessario per la loro costruzione Alcuni studiosi, come Rainer Stadelmann, hanno ipotizzato che le piramidi siano state costruite con l’impiego di rampe “combinate”; questo modello consisteva in rampe diritte, più piccole rispetto a quella “unica”, che venivano posizionate su ogni lato in costruzione e permettevano il trasporto in contemporanea di blocchi di pietra da parte di più squadre di uomini su diversi punti dei corsi di muratura; queste rampe erano realizzate, presumibilmente, con detriti di pietrisco, mattoni di fango o terra e dovevano essere sufficientemente resistenti. Le rampe combinate venivano impiegate soprattutto per i primi metri di costruzione mentre per le parti più elevate della piramide venivano montate altre rampe a gradoni sulla sovrastruttura già realizzata, in modo tale da permettere il trasporto dei blocchi verso l’apice. Secondo gli studiosi le rampe combinate presentavano il vantaggio di accelerare i tempi di costruzione dei primi corsi di muratura delle piramidi (in quanto il materiale veniva trasportato più rapidamente). 30 IL METODO DI TRASPORTO ROPE – ROLL DI FRANZ LOHNER: Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 ! Fig. 8 rampe combinate PROVE ARCHEOLOGICHE E SVANTAGGI DELLE RAMPE COMBINATE Anche per le rampe combinate vi sono notevoli dubbi sull’esistenza delle stesse poiché non sono state ritrovate prove effettive del loro impiego se non in misura limitata; inoltre dagli studi sono emerse una serie di criticità notevoli che devono essere attentamente valutate: - le rampe, situate su un determinato livello dei corsi di muratura, dovevano essere spostate quando si terminava il trasporto dei blocchi nei punti prescelti e si doveva iniziare con altri, e quindi occorreva disfare la rampa e ricostruirla in altri punti (in tal caso, forse, i mattoni di fango e la terra venivano in parte riutilizzati). Comunque il lavoro doveva essere interrotto e poi ripreso successivamente - i blocchi di pietra di maggiori dimensioni, destinati alle parti più elevate della piramide, avrebbero creato, con questo tipo di rampe, gravi problemi di trasporto e carico sulle rampe superiori; infatti per poter essere posizionati nelle parti superiori della piramide, i blocchi più pesanti potevano essere trascinati solo in direzione retta, per cui avrebbero dovuto essere ripetutamente sollevati per essere inseriti nella parte superiore della piramide - nelle parti superiori della piramide le rampe di questo tipo avrebbero richiesto una maggiore quantità di materiale da costruzione per essere realizzate, con un maggiore dispendio di energie umane e costi elevati (13) (14) . Lo studioso Franz Löhner ipotizzò nei suoi studi che il metodo impiegato per trasportare i pesanti blocchi di pietra sui corsi di muratura fosse basato sull’impiego di slitte trainate dagli operai e agganciate su piste di legno ancorate ai lati della piramide con il meccanismo del Rope – Roll (letteralmente Corda arrotolata o rotolo di corda). Le slitte erano così agganciate a delle piste di legno situate sui fianchi della piramide e i blocchi di pietra venivano appoggiati sulle slitte e trainati con la forza degli operai che facevano muovere le stesse con delle corde arrotolate; in tal modo gli operai riuscivano, senza eccessive difficoltà, a muovere i pesanti massi lungo i fianchi della piramide con una pendenza di circa 52° sfruttando la propria forza e il proprio peso abbinato al movimento delle slitte. Secondo Löhner con questa metodologia gli operai potevano muoversi in entrambi i lati della pista e non necessariamente davanti alle slitte in modo da ridurre i tempi di percorrenza e il dispendio di energie; in tal modo, sfruttando questa tecnica di trasporto dei blocchi di pietra, i costruttori non avrebbero fatto uso di rampe laterali ma le avrebbero sostituite direttamente con le slitte agganciate ai lati della piramide, riducendo al minimo il costo dell’opera. Le ipotesi introdotte da Löhner trovano parzialmente riscontro in prove documentali ritrovate dagli archeologi in papiri in cui sono descritti operai o animali che trainano slitte di legno che vengono lubrificate sul terreno con acqua o altri liquidi (come vedremo meglio più oltre) ma ovviamente non sono state trovate ritrovate parti di piste che comunque sarebbero andate distrutte nel tempo15. 31 ! Fig. 10 Trasporto dei blocchi di pietra sui lati ! Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 Fig. 9 trasporto blocchi con slitte rope-roll I L M E TO D O D I T R A S P O R TO D I R E T TO LATERALE: Alcuni studiosi come il Prof. J.F. Edwards (dell’Università di Cambridge) hanno ipotizzato che per la costruzione delle piramidi sia stato impiegato il metodo di trasporto diretto dei blocchi di pietra lungo i lati delle piramidi con l’ausilio di corde, quindi senza l’ausilio di rampe e slitte su piste di legno. Con questo metodo di trasporto: - i blocchi di pietra erano legati con corde lungo la superficie laterale delle piramidi e trascinati verso l’alto da squadre di operai che erano posizionati sul plateau della piramide stessa e che si muovevano in orizzontale. Le pietre venivano quindi “tirate” verso l’alto fino a raggiungere il bordo del plateau dove poi venivano trascinate, issate e posizionate sui corsi di muratura Il vantaggio principale di questo metodo consisteva nell’evitare la costruzione di rampe che rappresentavano un notevole costo in termini di energie umane sprecate e in termini di materiali edili da produrre per realizzare le rampe stesse(16) (17). PROVE ARCHEOLOGICHE E SVANTAGGI DEL TRASPORTO DIRETTO LATERALE: Non esistono prove documentali che facciano esplicito riferimento ad un metodo di trasporto di questo tipo, che comunque non sarebbe stato documentabile in quanto tale a meno che non fossero ritrovati papiri che illustrano il metodo con disegni che richiamano direttamente questo metodo di trasporto. Secondo gli studiosi inoltre tale tipologia di trasporto comportava svariati e gravi problemi che devono essere attentamente valutati: - i blocchi di pietra, che presentavano un peso minimo a partire da 2,5 tonnellate, dovevano essere trascinati lungo le pareti della piramide con una pendenza di circa 52° (per la precisione 51°52’) per cui anche se tali blocchi erano ben legati con le corde appositamente realizzate per il trasporto, ciò avrebbe rappresentato per molti studiosi un’impresa quasi impossibile senza l’ausilio di mezzi di sollevamento e di rampe. - le corde di maggiore lunghezza, necessarie per trainare i blocchi dal piano terra ai corsi di muratura, potevano essere sostituite con quelle più corte, necessarie per trainare i blocchi al piano di lavoro sul plateau, solo quando le pietre erano già state posizionate sulla piattaforma, per cui nel frattempo le corde più lunghe avrebbero ostacolato notevolmente le lavorazioni in corso. - man mano che aumentava l’altezza dell’edificio, con la pendenza prevista, lo spazio effettivo di lavorazione si riduceva sempre di più, con la riduzione del plateau disponibile mentre i costruttori, dal basso, avrebbero dovuto impiegare cavi di corda di lunghezza superiore ai 200 m. - nel momento in cui la lunghezza del blocco di pietra fosse stata superiore alla porzione di piano su 32 cui si trovavano gli ultimi corsi di muratura (approssimandosi alla cima) gli operai avrebbero potuto operare materialmente solo camminando sull’altro lato della piramide, con problemi enormi di sicurezza e di stabilità del materiale e attrezzature stesse - con questo metodo di trasporto, sulla piattaforma in costruzione, il numero di operai necessario per trainare le pietre sarebbe stato molto elevato, per cui avrebbe creato enormi problemi nella gestione delle squadre di trasporto del materiale. Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 SPECIFICHE TECNICHE SU ATTREZZATURE DA SOLLEVAMENTO: Nel periodo in cui, presumibilmente, furono costruite le piramidi della IV dinastia (tra il 2650 e il 2450 a.C. circa) lo stato della tecnologia di cui potevano disporre i costruttori permetteva loro di impiegare semplici attrezzature per il sollevamento di manufatti e blocchi di pietra, come, per esempio, argani, corregge e piani inclinati. Col passare del tempo furono introdotte la ruota, con tutti gli strumenti derivati e altre tipologie di attrezzature che man mano divennero più complesse e articolate, ma che non potevano essere esistenti, presumibilmente durante la IV dinastia; tra gli strumenti più importanti dell’epoca si possono ricordare: - SHADUF: lo shaduf è uno strumento impiegato dai contadini e operai per sollevare acqua da un fiume o da un pozzo; fu introdotto almeno a partire dal II millennio a.C., anche se vi sono testimonianze già nel III millennio a.C. in alcuni rilievi sumero – accadici (risalenti intorno al 2500 a.C.). Lo shaduf in uso presso gli egizi era composto da due pali conficcati nel terreno e uniti in alto da un asse di legno su cui poggiava una pertica. Sui due estremi della pertica vi sono un contrappeso, che permette di sollevare la stessa, e un recipiente che permette di raccogliere l’acqua. In una giornata di lavoro è stato calcolato che un singolo operaio potesse raccogliere all’incirca 3 mc di acqua. ! Fig. 11 Shaduf egizio Nell’ambito dell’analisi dei potenziali macchinari disponibili per il sollevamento di manufatti, durante l’Antico Regno, è stato ipotizzato che con apposite modifiche lo shaduf egizio avrebbe potuto essere impiegato per il sollevamento dei blocchi di pietra. Questa ipotesi è senza dubbio molto interessante, dal punto di vista storico – scientifico, poiché fondata sulla conoscenza effettiva di tale meccanismo di sollevamento pesi nell’epoca considerata, ma ritenuto quasi impossibile da attuare; infatti per poter utilizzare appositi shaduf modificati, i costruttori delle piramidi avrebbero dovuto costruire delle torri di legno di e poi queste avrebbero dovuto essere posizionate ai vari livelli di muratura, in modo da essere impiegate per il sollevamento dei blocchi di pietra ma secondo molti studiosi tale operazione sarebbe stata molto complessa poiché uno shaduf, per quanto modificato e rafforzato con travi molto spesse, non sarebbe stato in grado, comunque, di sollevare numerosi blocchi pesanti oltre 2,5 tonnellate soprattutto con tempi tecnici rapidi come, presumibilmente, era richiesto per quest’opera (vi sono dubbi anche sulla capacità di tenuta delle travi di legno). - MACCHINA A LEGNI CORTI: la macchina di sollevamento a legni corti fu descritta, come accennato precedentemente, da Erodoto nel suo testo Le Storie in modo abbastanza preciso; secondo le ipotesi introdotte da alcuni studiosi la macchina consisteva di un’intelaiatura in legno formata da tre assi di legno obliqui a cui veniva 33 Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 fissata una pertica orizzontale che poteva oscillare liberamente e alla quale veniva legato con corde strette un blocco di pietra di peso variabile (dai 500 kg fino a oltre 2,5 tonnellate). Gli operai facevano oscillare la pertica di legno, a cui era legato il masso, in avanti e all’indietro e, ad ogni passaggio, liberando lo spazio sulla base della macchina, venivano inseriti nell’apposito alloggiamento sottostante alla pietra, dei legni corti (di spessore variabile) che una volta posizionati facevano “salire” il blocco di pietra verso l’alto, permettendo così di sollevare il blocco in modo più o meno rapido per poi posizionarlo sui corsi di muratura. di una nave. Secondo gli studiosi il problema fondamentale dell’impiego di macchine ad argano era legato all’effettiva conoscenza, da parte degli Egizi, di macchinari fondati sull’uso della rotazione circolare in un periodo in cui non vi sono testimonianze dirette della loro conoscenza della ruota che era già in uso presso i Sumeri (in Egitto fu introdotta successivamente), per cui ipotesi fondate sull’uso di specifiche macchine basate sull’impiego di meccanismi a rotazione diretta è considerato poco attendibile. Allo stesso modo altre attrezzature e macchine come carrucole e gru a cavalletto sono da scartare per lo stesso identico motivo non essendo conosciute, sulla base delle informazioni disponibili per l’epoca, dagli Egizi nel periodo della IV dinastia (cominciarono ad essere impiegate in epoche successive). ALTRE IPOTESI RELATIVE ALLE TECNICHE DI COSTRUZIONE DELLE PIRAMIDI L’IPOTESI DELLA RAMPA INTERNA DI JEAN PIERRE HOUDIN ! Fig. 12 macchina a legni corti per il sollevamento blocchi Alcuni studiosi, tuttavia, ritengono che la stessa macchina a legni corti avrebbe provocato seri problemi per il sollevamento dei blocchi di pietra, poiché, man mano che cresceva l’altezza dell’edificio, arrivando oltre i 100 m di altezza, il sollevamento dei blocchi di pietra ad altezze notevoli avrebbe richiesto un numero elevato di manovre e di trasferimenti orizzontali che avrebbero ostacolato in modo determinante il lavoro di completamento dell’edificio stesso. - ARGANO E CABESTANO: l’argano è una macchina per sollevare manufatti formata da un bobina e da un tamburo centrale, in forma cilindrica, collegata ad una intelaiatura di legno, a cui sono fissate manovelle laterali che permettono di roteare il tamburo. Alla bobina è fissata una corda a cui è attaccato il manufatto (blocchi di pietre ecc.). Gli operi fanno girare le manovelle laterali e sollevano l’oggetto facendo avvolgere la corda intorno al tamburo centrale. Un meccanismo simile ma impiegato in verticale per il sollevamento di pesi poteva essere quello del cabestano meccanico, impiegato in marina per il sollevamento dell’ancora Nel 1999 lo studioso francese Henri Houdin, di professione Architetto, ipotizzò che le piramidi, in particolare la piramide di Cheope, fossero state costruite con l’ausilio di una particolare tecnica di costruzione fondata sull’impiego di rampe interne alla struttura, sfruttando particolari macchine per il sollevamento dei blocchi di pietra come lo shaduf modificato. L’ipotesi innovativa di Henri Houdin fu elaborata dal figlio Jean Pierre che fu il primo Architetto a realizzare un modello tridimensionale della piramide di Cheope; in particolare lo studio architettonico di Houdin per la piramide di Cheope mise in luce alcuni importanti elementi che possono essere così riassunti18: - la costruzione fu realizzata per il 30% circa della sua altezza (45 m) con l’ausilio di rampe esterne realizzate con pietre e detriti, mentre per la parte restante fu impiegata una rampa interna utilizzata per portare i blocchi al di sopra del precedente livello di altezza. In particolare le due rampe esterne, per il carico dei blocchi di pietra, avevano una lunghezza complessiva di circa 970 m ed erano ubicate sulla piana di Giza in modo tale da superare un dislivello di circa 40 – 43 m tra il porto fluviale e la facciata sud della piramide, con una pendenza media dell’8,55% ([(41,5/8,55)* 100]*2); le due rampe esterne si univano in corrispondenza del punto di ingresso nella piramide di Cheope, formando un angolo di 80° e la seconda rampa fu Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 34 impiegata per trasportare anche il materiale per la piramide di Chefren. La terza rampa era situata all’interno dell’edificio e partiva da una piattaforma sul lato sud a circa 43 m di altezza correndo in direzione opposta rispetto alla grande Galleria. - in un secondo momento, quindi, i blocchi di pietra impiegati per la rampa esterna, vennero riciclati per realizzare la rampa interna, spiegando il motivo dell’apparente impossibilità di ritrovarne reperti nella zona - secondo il modello di Houdin ogni braccio della rampa interna correva parallelamente ai lati della piramide per poi compiere una “rotazione” di 90° ad angolo retto e salire verso l’alto correndo lungo l’altro lato della piramide, formando, in tal modo, una “spirale quadra” che sale verso la cima della piramide. In queste rampe ascendenti a spirale furono trasportati i blocchi di pietra verso le parti elevate dei corsi di muratura, facendo uso di slitte trainate da operai e lubrificate lungo il percorso. ! Fig. 13 rampe interne secondo J.P. Houdin - secondo Houdin ogni braccio della rampa interna terminava con uno spazio aperto, una sorta di tacca, lasciata volutamente sul lato dell’edificio e questa superficie era pari all’incirca a 10 m2. In questo breve spazio i costruttori installarono una macchina per sollevare pesi che è stata definita “doppio shaduf” in quanto sfruttava il principio di funzionamento dello shaduf precedentemente descritto; in particolare questa macchina veniva posizionata lungo i tornanti di rotazione della rampa interna e permetteva, in tal modo, il sollevamento e il cambio di direzione (per rotazione angolare di 90°) delle slitte con i blocchi di pietra da 2,5 tonnellate, permettendo a squadre di 8 operai di immettere i blocchi di pietra sulle rampe superiori in modo da raggiungere i corsi di muratura più elevati. ! Fig. 14 macchina per sollevare pesi ‘doppio shaduf’ - le analisi condotte da Houdin in collaborazione con l’egittologo Bob Brier, nel 2008, hanno dimostrato che effettivamente questi spazi aperti all’esterno corrispondono ai punti di intersezione delle rampe interne con i lati della piramide e, penetrandovi all’interno, i due studiosi hanno ipotizzato che sia possibile salire dal basso verso l’alto. Più specificamente gli incavi ritrovati da Houdin furono ispezionati dall’egittologo Bob Brier ad un’altezza di 81 m sullo spigolo nord – est della piramide di Cheope; entrandovi Brier scoprì un’apertura secondaria che permetteva di accedere ad un locale più interno che aveva una forma ad L e che misurava circa 3x3 m. La struttura interna del locale fu ricostruita in formato 3D dimostrando che essa aveva una volta a cupola e un volume interno inferiore a quanto originariamente ipotizzato da Houdin, per cui lo stesso Architetto rivide parte del suo progetto originario19. 35 Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 ! Fig. 15 incavo ritrovato da Houdin e Brier sulla Piramide di Cheope Le ipotesi introdotte da Jean Pierre Houdin non hanno trovato particolare riscontro presso la comunità scientifica degli egittologi, poco propensi a modificare le tesi relative alle rampe esterne; tuttavia le sue ipotesi hanno trovato parziale conferma in un importante studio realizzato nei decenni scorsi sulla piramide di Cheope. Nel 1986 un gruppo di ricercatori realizzò un’analisi microgravimetrica della piramide di Cheope; l’analisi microgravimetrica si prefigge lo scopo di individuare delle cavità e spazi vuoti nel sottosuolo oppure di verificare la stabilità di fondamenta di edifici e infrastrutture varie. Al termine del loro studio i geologi redassero una relazione finale e misero a disposizione degli studiosi alcuni disegni in cui si evince, da una prima analisi, una struttura interna come quella descritta da Houdin. Gli studiosi che propendono per la teoria delle rampe interne di Houdin ritengono che sarà possibile fornire nuove e importanti prove dell’esistenza delle rampe a spirale interne attraverso ulteriori indagini come la fotografia a raggi infrarossi che permetterebbe di valutare la struttura interna della stessa con il raffreddamento serale della piramide. L’IPOTESI DEL TRASPORTO E SOLLEVAMENTO IDRAULICO DI MANUEL MINGUEZ Nel 1985 l’Ingegnere e studioso Manuel Minguez ipotizzò, in un suo lavoro di ricerca20, che gli Egizi, oltre a trasportare i blocchi di pietra su chiatte galleggianti sul Nilo (ipotesi accettata dalla maggior parte degli studiosi), sfruttarono delle tecniche idrauliche per sollevare i pesanti massi e posizionarli sui corsi di muratura, per mezzo di un sistema complesso di chiuse con galleggianti. L’ipotesi elaborata da Minguez derivò da un importante studio delle caratteristiche geologiche, morfologiche e idriche della piana di Giza, a cui si affiancò uno studio delle architetture dei templi egizi. Minguez notò, innanzitutto, che tutti o la maggior parte dei complessi funerari presentavano come punto comune, la presenza del tempio a valle, che era collegato direttamente al fiume oppure connesso per mezzo di un canale. Dai templi partiva proprio una “strada” che rappresentava il percorso che sarebbe stato seguito dai cortei funebri per portare il feretro dei principi alla dimora eterna, ma questo percorso superava circa una quarantina di metri di dislivello (come accennato precedentemente). Secondo Minguez questo percorso fu impiegato per costruire un sistema di trasporto fluviale che, come in una grande “scala” idraulica, permettesse alle chiatte di portare i blocchi di pietra, in modo abbastanza agevole, fino alla struttura in costruzione. Questo sistema consisteva di grandi vasche idrauliche, collegate tra di loro da un sistema di chiuse, che permetteva alle imbarcazioni cariche con i blocchi di pietra, di superare il dislivello presente rispetto al livello del porto fluviale (in cui approdavano i blocchi trasportati dal Nilo) e di permettere in tal modo agli operai di trasportare i massi a ridosso della piramide senza doverli trainare fisicamente su rampe esterne. In un secondo momento i blocchi di pietra venivano issati sui corsi di muratura per mezzo di rampe elicoidali o a spirale che avvolgevano la piramide, sulle quali i blocchi di pietra venivano sospinti appoggiandoli su rulli di legno. Il sistema di trasporto idraulico ideato da Minguez richiedeva, senza dubbio, un carico di lavoro molto elevato ai costruttori, poiché, per realizzare un sistema di chiuse di tale livello di complessità, i costruttori avrebbero dovuto spendere molto tempo ed energie per realizzare le rampe di accesso per le vasche, nonché l’armatura stessa in pietra delle vasche idrauliche di cui non sarebbe rimasta traccia nella piana di Giza (opera che sarebbe considerata ancora più complessa e difficile da realizzare rispetto alle rampe inclinate esterne); inoltre la teoria di Minguez non considera sufficientemente l’importanza che avrebbero avuto le rampe elicoidali o a spirale necessarie per issare i massi sui corsi di muratura, per cui la maggior parte degli egittologi e 36 studiosi ha criticato come non fattibile questa ipotesi. veniva inondato di acqua. Il blocco di pietra veniva quindi a trovarsi nel pozzo verticale dell’ascensore inondato di acqua e, per mezzo di galleggianti, saliva verso l’alto uscendo dall’ascensore. Qui poi veniva posizionato nella zona di appoggio e inserito nei corsi di muratura. ! Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 Fig. 16 ipotesi trasporto idraulico blocchi di M. Minguez E’ comunque importante precisare che esiste una variante all’ipotesi di Minguez che consiste nell’ipotizzare un sistema di canali e chiuse con ascensori idraulici che si addentrava nella piramide e, che per mezzo di galleggianti, permetteva di far salire i blocchi di pietra verso l’alto fino a farli giungere al livello di altezza desiderato. In particolare la variante all’ipotesi di Minguez prevedeva che venisse realizzato il seguente percorso progettuale: - all’inizio dei lavori veniva scavato un canale orizzontale, con apposita pendenza verso la piramide - in questo canale venivano trasportati i primi blocchi di pietra necessari per costruire le fondamenta dell’edificio e i muri perimetrali del livello più basso - si costruiva intorno al canale, in modo che defluisse all’interno dell’edificio, un argine perimetrale con uno strato di blocchi, in modo tale da determinare la formazione di un canale interno a cui si affiancava un ascensore ad acqua da inondare. - in tal modo i blocchi di pietra giungevano all’interno del canale, provenendo dal canale esterno e arrivavano alla base dell’ascensore interno (a canalone verticale) - a questo punto veniva inserita una chiusa all’imbocco del canale interno e una all’uscita del plateau della piramide, cioè all’uscita dell’ascensore idraulico che fungeva da “tubo” - il blocco di pietra, galleggiando, raggiungeva la base dell’ascensore. A questo punto veniva tappata la chiusa che stava all’imbocco del canale interno (cioè la chiusa in basso) mentre veniva aperta la chiusa in alto all’uscita dell’ascensore e questo ! Fig. 17 ascensore ad acqua interno alla piramide Secondo alcuni studiosi questa variante all’ipotesi di Minguez è l’unica in grado di spiegare come sia stato possibile sollevare fino a oltre 80 m di altezza blocchi che superano il peso di 60 – 80 tonnellate e posizionarli nei corsi di muratura interni della piramide laddove sarebbe stato quasi impossibile calarli dall’alto e operare con macchine di sollevamento a causa degli spazi estremamente limitati. Nella variante di Minguez si è ipotizzato che i costruttori abbiano realizzato un sistema di pozzi verticali di risalita dell’acqua verso l’alto in modo da disporre delle risorse idriche necessarie per inondare l’ascensore ad acqua; gli ingegneri hanno cercato di determinare se potessero esistere le condizioni tecnologiche che avrebbero permesso, in un’epoca così remota, ai costruttori, di realizzare un’opera di siffatta portata ed effettivamente sappiamo con certezza che già nell’epoca predinastica gli Egizi erano dei maestri nell’arte della lavorazione dell’argilla e della ceramica, per cui realizzarono, secondo questa ipotesi, dei veri e propri pozzi di risalita dell’acqua che furono impiegati per convogliare l’acqua verso l’alto per riempire e svuotare l’ascensore idrico. Secondo questa ipotesi i tubi dei pozzi furono costruiti in argilla in modo da raggiungere un’altezza di circa 100 m ed erano in grado di resistere ad una pressione di oltre 10 atmosfere; ipotizzando che l’ascensore ad acqua avesse una superficie di 16 m2 circa e un’altezza di circa 100 m, il suo volume sarebbe stato pari a circa 1600 m3, per cui ipotizzando che l’acqua entrasse nell’ascensore ad una velocità di 0,5 m3 al secondo (500 litri al 37 Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 secondo) occorrevano circa 53 minuti affinché un blocco di pietra potesse raggiungere l’altezza di circa 100 m (0,5:1=1600:X da cui X = 1600/0,5 cioè 3.200 secondi dove 3200 secondi sono 3200/60 = 53,33 minuti), per cui in una giornata di 10 ore sarebbe stato possibile inserire circa 10 blocchi al giorno. Se invece l’altezza fosse stata pari a circa 50 m il volume sarebbe stato pari a circa 800 m3 e ipotizzando che l’acqua entrasse con la stessa cubatura al secondo, avrebbe richiesto 1600 secondi per giungere a 50 m di altezza, cioè circa 26 minuti per un blocco, con un totale di circa 24 blocchi al giorno nel caso si fosse lavorato 10 ore. Ovviamente, poiché ci si muove in ambito puramente ipotetico, non si ha alcuna certezza su questo computo. ELEMENTI DI CRITICITA’DELL’IPOTESI DEL TRASPORTO IDRICO DI MINGUEZ La comunità scientifica, come già accennato precedentemente, ha fatto quadrato contro la teoria di Minguez argomentando sul fatto che la costruzione di chiuse e vasche idrauliche per realizzare il trasporto dei blocchi fino alla piramide avrebbe determinato degli elevati livelli di criticità di tipo tecnico che sarebbero stati maggiori di quelli che si sarebbero riscontrati con le rampe esterne; inoltre non è ben chiaro quale avrebbe potuto essere il ruolo dei pozzi verticali di risalita dell’acqua che sono stati ritrovati in alcuni edifici ma non in altri. Nella piramide di Djoser, infatti, sono state ritrovate le basi di 11 pozzi verticali piccoli a cui si aggiunge uno grande che parte da una profondità di 28 m per innalzarsi nella struttura interna della piramide a gradoni, per cui da ciò si deduce che la struttura degli ascensori ad acqua, situati al piano strada, avrebbe dovuto innestarsi su una preesistente struttura del pozzo interno, per cui non è chiaro se l’ascensore avrebbe dovuto essere rifornito da un pozzo sottostante o da un canale esterno. Questo perché la presunta struttura dell’ascensore ad acqua, situata a piano strada, non deve essere confusa con la struttura del pozzo stesso che partiva dalla profondità di 28 m. Poiché non vi è certezza assoluta sull’esistenza di un possibile ascensore idraulico interno alla piramide, almeno per sospingere i blocchi ad altezze di 100 m, molti studiosi propendono per ipotesi alternative di trasporto per le altezze maggiori di 50 m, come, per esempio, l’impiego di slitte trainate da operai sul plateau in costruzione della piramide con il sistema del contrappeso (slitta in discesa sul fianco della piramide con carico di operai e slitta con pietre sul lato opposto collegata da varie funi). L’IPOTESI DEI GEOPOLIMERI DI DAVIDOVITS: Nel 1979 il Prof. Joseph Davidovits, chimico dei materiali e ricercatore universitario, presentò al congresso di Egittologia di Grenoble una nuova ipotesi sulle tecniche di costruzione delle piramidi, secondo cui i blocchi di pietra calcarea non furono realizzati estraendoli dalle cave, per poi essere levigati e trasportati fino alla costruzione, ma furono realizzati, “in cantiere”, attraverso un processo chimico – fisico che determina la formazione di geopolimeri, cioè blocchi di pietra manufatti artificialmente; questa ipotesi fu definita anche del “cemento di calcare”. In particolare Davidovits, riprendendo studi precedentemente realizzati nel campo della chimica industriale, coniò il termine “geopolimeri” per indicare dei composti sintetici a base di alluminosilicati che trovano applicazione nell’industria moderna e nei materiali di costruzione (al posto del cemento) ma che, secondo lo studioso, poterono trovare applicazione anche nell’Antico Regno Egizio ed anche presso altre civiltà (Tihauanaco). Secondo gli studi realizzati dal Prof. Davidovits il processo chimico che genera i geopolimeri può essere così riassunto21: - reazione chimica di un alluminosilicato in polvere con una soluzione alcalina in condizioni fisiche compatibili con quelle ambientali - in particolare viene impiegato il metacaolino (2Al2O3 SiO2) ottenibile dalla reazione termica di argilla caolinite La reazione chimica generatrice dei geopolimeri segue il seguente schema: - gli ioni idrossido in soluzione determinano la dissoluzione degli atomi di Si e Al del materiale inserito in soluzione - successivamente si verifica la riaggregazione in polimeri inorganici attraverso una reazione di policondensazione. La teoria di Davidovits tende innanzitutto a legare importanti scoperte realizzate in epoche moderne, e legate allo sviluppo contemporaneo della chimica industriale, a importanti conoscenze che possono essere patrimonio comune di civiltà antiche e che potevano essere presenti anche circa cinquemila anni fa (ipotesi che fa storcere il naso agli egittologi). La giustificazione “tecnica” della teoria dei geopolimeri sono legate innanzitutto alla Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 38 geofisica del pianeta; è importante infatti, innanzitutto, precisare che la crosta terrestre è formata in modo preponderante da composti di silicio – alluminio, per cui Davidovits ipotizzò che un singolo composto formato da Silicio e Alluminio (esistente in natura nella struttura geologica delle rocce) potesse essere fatto reagire in una soluzione alcalina generando un processo di polimerizzazione. In natura, comunque, i geopolimeri si possono ritrovare anche in materiali pozzolanici (lava, ceneri volanti di carbone) o comunque rocce sedimentarie che sono fonti di metacaolina e altri alluminosilicati. Per quanto riguarda la loro struttura e la loro composizione occorre precisare che i geopolimeri hanno una struttura simile alle rocce zeolitiche (struttura a base alluminosilicati) ma non dotati di una struttura cristallina; la struttura dei geopolimeri è quindi caratterizzata da un gel alluminosilicato tridimensionale che tende a creare una struttura solida e resistente nel tempo (che ricorda, una volta riorganizzato, la roccia calcarea). Nei suoi studi Davidovits realizzò un’analisi corposa e dettagliata della roccia impiegata nei blocchi di pietra utilizzati per la costruzione delle piramidi di Giza, nonché statue e vasi di pietra realizzati nel corso di circa tremila anni di storia egizia e giunse all’elaborazione dell’ipotesi secondo cui i blocchi di pietra delle piramidi non furono estratti da cave, levigati e trasportati in loco ma realizzati appositamente sul posto con la tecnica fisico – chimica dei geopolimeri. Secondo Davidovits per realizzare i blocchi di pietra geopolimeri gli egizi impiegarono la seguente tecnica: - la roccia calcarea presente nelle cave di pietra situate nella zona limitrofa al sito di Giza veniva frantumata materialmente in piccoli pezzi che potevano essere agevolmente trasportati in piano con slitte non eccessivamente pesanti (trainabili anche da parte di animali) - una volta raccolto il materiale roccioso in piccoli ciottoli veniva immerso in pozze situate a livello terreno, in una soluzione liquida formata da acqua, natron (1% che contiene carbonato idrato di sodio Na2CO3, presente facilmente in Egitto a causa dell’evaporazione di acque ricche di sodio) e calce (in misura pari al 2%) - nelle pozze di reazione i ciottoli di roccia calcarea si disaggregavano con facilità, a causa delle reazioni chimiche, formando una fanghiglia morbida nella quale erano presenti argilla di caolino e soda caustica come leganti - una volta formato l’impasto di fanghiglia di calcare, natron e calce, la fanghiglia veniva rimescolata in modo da renderla più compatta possibile - terminato il rimescolamento del materiale fangoso questo veniva riversato in stampi di legno appositamente creati a forma di blocco rettangolare (di varie dimensioni) situati sui corsi di muratura e qui veniva battuto in modo da essere reso compatto; successivamente veniva lasciato asciugare al sole - una volta che il blocco era completamente asciutto veniva rimossa l’armatura in legno e il blocco di pietra era riaggregato (ricostituito) in forma compatta come un blocco di pietra estratto dalla cava e levigato. ! Fig. 18 processo di reazione dei geopolimeri secondo Davidovitz Con questa tecnica di costruzione in sito, che secondo Davidovits subì un’evoluzione temporale, nel corso di un arco di tempo di circa 600 anni (dal periodo predinastico 3200 a.C. fino al 2600 a.C. circa epoca delle piramidi) i costruttori arrivarono a disporre di una tecnica raffinata a livello chimico – fisico che permise loro di realizzare agevolmente una struttura che dal punto di vista ingegneristico avrebbe richiesto uno sforzo molto complesso e di difficile realizzazione per le disponibilità infrastrutturali dell’epoca (sollevamento di blocchi di peso superiore a 80 – 200 tonnellate). In tal modo, secondo Davidovits, il numero di maestranze necessarie sicuramente per la realizzazione dell’opera sarebbe stato di 1.400 unità in un arco di tempo sempre ventennale, anziché le oltre 100 mila unità ipotizzate storicamente e negli studi ingegneristici moderni. Il Prof. Davidovits che realizzò un’analisi dettagliata a livello chimico – fisico dei blocchi di pietra calcarea della piramide e delle rocce presenti nelle cave di pietra circostanti Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 39 Giza, giunse alle sue conclusioni teoriche sulla base di importanti prove dettagliatamente documentate: - furono ritrovati in un blocco di pietra calcarea della piramide di Cheope frammenti di peli o capelli insieme a bolle d’aria e piccoli pezzi di intonaco; ciò, secondo gli studiosi esperti di chimica industriale, fa supporre che il blocco non fosse di formazione naturale (estratto da cava) ma bensì di natura artificiale, a dimostrazione della validità dell’ipotesi di Davidovits - Davidovits notò che il calcare situato nella zona di Giza contiene fossili di conchiglie; effettuando un’analisi della conformazione dei fossili ebbe modo di verificare che nelle rocce calcaree le conchiglie presentavano un “orientamento” preciso, dettato dalla posizione assunta quando si erano depositate. Viceversa, analizzando i blocchi di pietra della piramide, realizzati con la stessa roccia, si accorse che i fossili erano situati e depositati in modo sparso, cioè il loro orientamento era disordinato (o casuale), a dimostrazione del fatto che il materiale calcareo era stato lavorato come in un impasto riaggregato. Davidovits, che presenta delle sfumature interpretative rispetto ad altre traduzioni, è la seguente: (Colonna 11): C'è un massiccio di montagna nella sua regione orientale (a Elefantina) contenente tutte le pietre ricche di minerali, tutte le pietre (erose) schiacciate (aggreggati appropriati per l'agglomerazione), tutti i prodotti (Colonna 12) cercati per costruire i templi degli dei del Nord del Sud, le nicchie per degli animali sacri, la piramide (tomba reale) per il re, tutte le statue che sono erette nei templi e nei santuari. Per di più, tutti questi prodotti chimici sono messi davanti al volto di Knum ed intorno a lui. (Colonna 13)... si trova là in mezzo al fiume un posto di riposo per ogni uomo che tratta le pietre ricche di minerali sui suoi due lati. (Colonna 15) Impara i nomi dei materiali pietrosi che devono essere ricercati... bekhen, il granito (eroso) morto, mhtbt, r’qs, uteshi-hedsh (la pietra di cipolla)... prdny, teshy. (Colonna 16) Impara i nomi delle pietre ricche di minerali posti a monte... oro, argento, rame, ferro, lapisilazuli, turchese, thnt (crisocolla), diaspro, Ka-y (la pietra di ravanello), il menu, smeraldo, temikr (la pietra d'aglio), e in più, neshemet, ta-mehy, hemaget, ibenet, bekes-ankh, fard vert, l'antimonio nero, l'ocra rossa... ! Fig. 19 blocco in pietra realizzato con tecnica geopolimera - Nei suoi lavori di ricerca (presentati nei congressi del 1979 e 1988) e nelle sue pubblicazioni Davidovits espressamente ipotizzò, sfruttando le traduzioni effettuate nel corso del tempo dagli egittologi Brugsch, Sethe, Barguet e Lichtheim, che la tecnica di costruzione delle piramidi di Giza sia stata espressamente descritta nell’iscrizione denominata “Stele della Carestia” redatta ufficialmente nel 200 a.C. ma risalente, presumibilmente, secondo Davidovits, ad una tradizione storica molto antica, almeno all’inizio del Regno Antico (2750 a.C.). La traduzione ripresa da (colonna 18) ...ha constatato che Dio stando in piedi... Egli mi ha parlato: "io sono Kunm, il Tuo creatore, le Mie braccia sono intorno a te, per stabilizzare il tuo corpo, per (colonna 19) salvaguardare le tue membra. Ti conferisco delle pietre ricche in minerali... dalla creazione nessuno le ha mai lavorate (per fare la pietra) per costruire i templi degli dei o ricostruire i templi rovinati..."22. 40 ! Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 Fig. 20 la Stele della Carestia Secondo gli egittologi, tuttavia, la Stele fu realizzata, presumibilmente, sulla scorta di un falso storico; cioè si ritiene che essa fu scritta effettivamente intorno al 200 a.C. ma facendo effettivamente credere, nella tradizione storica del tempo, che le origini dello scritto o della tradizione da cui aveva preso origine fossero molto più antichi, allo scopo di legittimare i sovrani dell’epoca e la loro azione. Una traduzione alternativa e più completa rispetto a quella citata da Davidovits è la seguente: “Vi è un gruppo di montagne nel suo luogo abitato verso Oriente con ogni qualità di pietre preziose. Pietre dure di cava e di tutte le cose che si è abituati a cercare per edificare ogni tempio dell'Alto e del Basso Egitto. Le stalle degli animali del dio; le tombe dei re e di ogni statua che viene messa nei templi e nei santuari. I loro prodotti sono deposti davanti a Khnum ed intorno a lui. Così come le grandi piante verdi e tutti i tipi di fiori che esistono ad Elefantina, a Biga e che sono là ad Est e ad Ovest.Nel mezzo del fiume ricoperto d'acqua al suo tempo dell'anno, c'è un luogo di riposo per tutti sulle cui sponde viene fatto il lavoro di queste pietre, luogo nel fiume di fronte a questa stessa città di Elefantina. Vi è un'altra altura centrale rocciosa pericolosa per natura che ha il nome di Krofi ("Rischio") di Elefantina. Impara i nomi degli dei che sono nel tempio di Khnum, Satis, Anuki, Nilo, Shu, Gheb, Nut, Osiri, Horus, Isi e Nefthis. Conosci i nomi delle pietre che sono là, poste nel mezzo della zona della frontiera che sono ad Est e ad Ovest che sono sulle due sponde del canale di Elefantina che sono in Elefantina medesima, che sono al centro Est e Ovest, che sono in mezzo al fiume. La pietra Bekhen, la pietra Metcai, la pietra Mekhtebteb, la pietra Ragas, la pietra Utesci all'estremità Est. La pietra verde Pergien ad Ovest, la pietra Tesci ad Ovest e nel fiume.Impara i nomi delle pietre pregiate della cava che sono a monte. Ve ne sono tra esse alcune che distano 4 iteru (1 iteru = 10,46 km). Oro, argento, rame, ferro, lapislazzuli, turchese, pietralucente tehenet, cornalina, cristallo di rocca, smeraldo, pietra tem-iqer. Oltre a ciò feldspato, diaspro verde, ametista, anfibolo, ematite, polvere verde, galena, quarzo, ocra rossa di Seheret, polvere mimi di cereali, terra bianca nubiana, dentro in questa città. Quando fui informato di ciò che era in essa (= in quella regione) il mio cuore fu felice. Dopo che udii dell'inondazione, i libri legati furono aperti, fu fatta una purificazione. Furono condotti dei riti segreti. Fu fatta una grande offerta completa consistente in: pane, birra, buoi, uccelli ed ogni sorta di cosa buona per gli dei e le dee che sono in Elefantina e il nome dei quali è stato pronunciato. Mentre dormivo in vita e fortuna (= sognavo) trovai il dio stante in piedi davanti a me. Lo pacificai adorando, lo implorai davanti a lui. Egli mi si manifestò ed il suo volto era luminoso e mi disse: "Io sono Khnum il tuo creatore. Le mie due braccia sono attorno a te per stringere il tuo corpo e per fare sane le tue membra. Io ti consegno minerali preziosi in grande quantità con i quali non è ancora stato fatto alcun lavoro per costruire templi, per rinnovare ciò che è caduto in rovina, per incastonare gli occhi del suo signore”23. Ovviamente nella Stele della Carestia non vi è una descrizione tecnica delle costruzioni delle piramidi, ma vi sono descrizioni dei materiali impiegati per la realizzazione dei blocchi di pietra calcarea, con riferimenti a diversi minerali e pietre che potevano essere oggetto di una processo di lavorazione fisico – chimica. Davidovits si appoggiò proprio su tali importanti documenti (considerati un falso storico) per fornire maggiore peso alle proprie ipotesi. Allo scopo di dimostrare la validità della sua teoria Davidovits effettuò presso il centro di ricerca dei geopolimeri in Francia un importante esperimento con una squadra di 5 – 10 persone e riuscì a dimostrare che un gruppo ristretto poteva costruire una struttura in blocchi di pietra del peso variabile tra 1,3 e 4,5 tonnellate in circa due settimane. 41 Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 ELEMENTI FAVOREVOLI E DI CRITICITA’ DELL’IPOTESI DEI GEOPOLIMERI L’ipotesi dei geopolimeri di Davidovits rappresenta, a detta di molti studiosi, una teoria estremamente interessante che potrebbe, effettivamente, spiegare, come siano state costruite le piramidi senza dover ricorrere, in modo massiccio, all’impiego di macchine di sollevamento dei blocchi di pietra e all’impiego di rampe enormi che avrebbero potuto provocare ulteriori problemi nella realizzazione dell’opera stessa. Tuttavia la comunità scientifica si è divisa su tale teoria poiché non è ritenuto accettabile, dagli egittologi, che i blocchi di pietra siano stati realizzati artificialmente in cantiere con armatura in loco. In tal senso gli egittologi rivolgono l’onere della prova contro Davidovits, cercando di dimostrare che il suo modo di pensare “moderno” sia stato applicato alla visione delle tecniche costruttive che avevano i costruttori dell’epoca delle piramidi. Inoltre gli egittologi che si sono schierati contro affermano categoricamente che se anche fosse stato possibile costruire alcuni blocchi in pietra calcarea in loco, ciò non sarebbe stato possibile per i blocchi di maggiori dimensioni, che superano le 10 tonnellate e che si trovano all’interno della piramide di Cheope (fino ad arrivare a 80 tonnellate) sopra la Camera del Re. Alcuni blocchi sono stati attentamente analizzati giungendo alla conclusione che si trattava di calcare naturale proveniente dalle cave situate nelle zone limitrofe; in particolare uno studio realizzato nel 2008 dal team di ricerca della Prof.ssa Ioannis Liritzis, dell’Università di Atene, ha dimostrato che i blocchi di pietra delle piramidi di Giza sono naturali e non furono ricostituiti in loco; Liritzis ha analizzato campioni estratti dai blocchi di pietra, sfruttando la tecnica a raggi X, e ha individuato le seguenti peculiarità: - il materiale principale di cui sono composti i blocchi di pietra è rappresentato da graniti rosa, bianchi e neri, con vari tipi di rocce calcaree - nei blocchi di pietra sono stati individuati centinaia di migliaia di fossili di nummuliti (protozoi marini diffusi tra 33 e 55 milioni di anni fa) e questi rappresentano circa il 40% del totale del volume dei blocchi di pietra - i fossili sono disposti nei blocchi di pietra secondo uno schema che si può definire casuale e omogeneo, che corrisponde alla loro collocazione originale, per cui da ciò si deduce che i blocchi non furono polverizzati ma lavorati24. L’aspetto senza dubbio più controverso di questi studi realizzati dalla Prof.ssa Liritzis è che i dati individuati nell’analisi vengono interpretati esattamente con conclusioni opposte rispetto a quelle a cui è giunto il Prof. Davidovits; infatti la Prof.ssa Liritzis ha affermato che la disposizione casuale e omogenea dei fossili è “naturale”, cioè deriva da un processo naturale di deposito dei fossili nella roccia mentre il Prof. Davidovits ha affermato esattamente il contrario, cioè che la disposizione casuale dei fossili fosse il risultato di un processo artificiale di rimescolamento prodotto dall’Uomo. Altri studiosi della chimica dei materiali, tuttavia, hanno sostenuto la teoria dei geopolimeri di Davidovits; tra questi il Dott. Michel Barsoum dell’Università di Philadelphia nella sua pubblicazione presentata sul Journal of the American Ceramic Society nel 2006 in cui dimostrò che studiando dei campioni di roccia prelevata dai blocchi di pietra della piramide furono trovati minerali composti e bolle d’aria che non devono essere presenti nel calcare naturale. Nonostante tale importante scoperta, da non sottovalutare, la comunità degli egittologi ha fatto quadrato contro la teoria dei geopolimeri, appoggiandosi sulle conclusioni degli studi fin qui realizzati che dimostrerebbero l’inesistenza di prove certe. ALTRE IPOTESI SULLA COSTRUZIONE DELLE PIRAMIDI DI GIZA Nel corso degli ultimi decenni sono state elaborate dagli studiosi altre importanti ipotesi sulla costruzione delle piramidi di Giza e tra queste spicca, per originalità e interesse, quella elaborata dall’Ing. Mario Pincherle e illustrata nei suoi pregevoli lavori di ricerca25. Secondo questa ipotesi i costruttori egizi sfruttarono, per trasportare gli enormi blocchi di pietra, del peso superiore a 5 tonnellate ciascuno, dei piani inclinati (lungo i fianchi delle piramidi), sui quali furono fissate enormi slitte che venivano mosse grazie alla dilatazione di cubi di legno bagnati con acqua (i cosiddetti legni corti). I calcoli effettuati dall’Ing. Pincherle dimostrarono che i piani inclinati avrebbero avuto una lunghezza massima di circa 100 m. mentre per impiegare un meccanismo come quello dei tronchi di legno bagnati, gli Egizi avrebbero dimostrato, in tal modo, di saper ragionare in termini infinitesimali, perché la piccola dilatazione del cubo di legno si sarebbe sommata a quella di numerosi altri cubi generando lo spostamento del masso situato sulla slitta. Con Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 42 un apposito modellino realizzato in scala 1:25, bagnando 50 cubi di legno, Pincherle dimostrò che lo spostamento di circa 5 cm di una pietra levigata di 32 cm equivaleva, all’incirca, allo spostamento di un masso di 8 m per circa 1,25 m e in tal modo, quantomeno, Pincherle dimostrò che un meccanismo del genere fosse, in linea di principio, possibile da impiegare per spostare blocchi di pietra, senza nessuna fatica eccessiva, anche se comunque, una volta giunti in cima ai corsi di muratura, la pietra doveva essere messa in posizione con l’ausilio di un elevato numero di operai. Una recente scoperta realizzata da un team di ricerca della Fom dell’Università di Amsterdam (nel 2014) ha dimostrato, invece, che gli Egizi trascinarono i blocchi di pietra, pesanti oltre 5-10 tonnellate, normalmente su slitte trainate sulla sabbia ma facendo uso di una tecnica di riduzione dell’attrito della sabbia versando quantità standard di liquido (acqua) in modo tale da ridurre l’attrito di circa il 50%. La quantità di acqua veniva versata da uno o più “addetti” sistemati sulle slitte, in cui erano posizionati i pesanti blocchi di pietra o le statue, trainate dagli operai in maniera tale da sfruttare l’effetto di riduzione dell’attrito, a dimostrazione del fatto che gli Egizi avevano una forte esperienza delle tecniche di trasporto su superfici sabbiose. La tecnica fu addirittura descritta in un dipinto che fu realizzato con immagini e descrizione geroglifica nella tomba di Djeutihotep, risalente all’incirca al 1850 a.C., anche se ovviamente non è possibile sapere se tale tecnica fosse effettivamente conosciuta solo in quell’epoca od anche in epoche più remote26. ! Fig. 21 dipinto nella tomba di Djeutihotep, 1850 a.C. CONCLUSIONI Le ipotesi, relative alle modalità con cui furono costruite le piramidi di Giza, analizzate in questo breve lavoro, dimostrano innanzitutto le notevoli difficoltà interpretative che devono affrontare ancora oggi gli studiosi per comprendere appieno quello che fu un vero e proprio piano architettonico che si sviluppò nel corso della III e IV dinastia per quasi 200 anni dal 2680 a.C. circa fino al 2500 a.C. circa, e che determinò la costruzione anche di altre piramidi (Saqqara, Dahshour, Meidum); la mancanza di prove documentali certe (come papiri che illustrino in modo specifico la costruzione) a cui si aggiungono solo in parte ritrovamenti di steli che dimostrano una possibile evoluzione nella conoscenza dell’uso delle pietre e dei materiali da costruzione (come la stele della Carestia) non hanno fatto altro che alimentare ulteriormente il mistero intorno alle conoscenze ingegneristiche effettive degli Egizi, sebbene sia chiaro con assoluta certezza che i costruttori poterono anche usare particolari tecniche di costruzione “ad hoc” che furono integrate, di volta in volta, con l’ausilio di cambi di tecnica a seconda delle situazioni; con questo si intende dire che se gli studiosi sono disposti, anche solo parzialmente, ad ammettere che i blocchi di pietra furono in parte costruiti in loco con la tecnica geopolimera, questa non fu comunque utilizzata per i blocchi più grandi, come quelli situati nella Camera del Re e al di sopra di essa, nei quali le analisi condotte hanno dimostrato che si trattava di calcare naturale. L’interpretazione delle capacità ingegneristiche degli antichi Egizi, quindi, comporterebbe in parte l’attribuzione agli stessi di una sorta di “flessibilità” tecnica che si sarebbe sviluppata nel tempo, con un percorso tecnico che partendo dalle mastabe e passando per un ampliamento delle stesse, sarebbe infine sfociato nella costruzione delle piramidi a facce lisce. A questo percorso di natura storico – architettonica si affianca, quindi, un altro percorso di natura tecnico – ingegneristica in cui, di volta in volta, i costruttori avrebbero modificato le tecniche di costruzione per ottimizzare i risultati, sfruttando blocchi di pietra di dimensioni e peso variabili con tecniche che possono variare da un edificio all’altro, ottenendo comunque risultati straordinari in termini di stabilità delle strutture ed estetica architettonica. Nel corso di oltre un secolo di studi e analisi sono state elaborate diverse ipotesi sulle tecniche di costruzione, ognuna delle quali presenta elementi favorevoli e di criticità abbastanza forti, come l’ipotesi delle rampe che, pur essendo a tutt’ oggi la più accreditata nella comunità scientifica, presenta notevoli difficoltà interpretative legate principalmente alla notevole lunghezza che avrebbero dovuto presentare in rapporto alla pendenza da coprire, creando, presumibilmente, problemi di stabilità delle strutture stesse. Le ipotesi Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 43 alternative, tra cui quella delle rampe interne di Houdin, sono a loro volta, ipotesi estremamente importanti, che devono essere attentamente vagliate dalla comunità scientifica nella speranza di individuare proprio quel mix di tecniche ingegneristiche che potrebbero essere state utilizzate, nel corso del tempo, per portare a termine un progetto così grandioso. Infatti ciò che va attentamente valutato, dagli studiosi, è proprio la possibilità che gli Egizi non abbiano impiegato un unico standard tecnico (immobile nel tempo) ma che tali standard produttivi si siano evoluti al pari dei progetti stessi, dimostrando, in tal modo, il notevole spirito di adattamento che avevano i costruttori, che potrebbero, almeno in parte, aver impiegato i canali interni della piramide per realizzare un ascensore ad acqua fino all’altezza di circa 40 m, per poi passare all’impiego di una rampa a spirale per raggiungere le parti alte dell’edificio, impiegando le macchine a doppio shaduf previste da Houdin; in tal modo, per poter realizzare un progetto con tali tecniche, avrebbero solo dovuto disporre di un raccordo tra plateau di posizionamento blocchi e l’imbocco della rampa a spirale, facilmente raggiungibile con macchine come quelle previste da Houdin. Il ritrovamento di incavi nella struttura esterna della piramide all’altezza di circa 80 m dimostrò che vi era un possibile punto di intersezione tra le rampe interne (che ruotavano lungo la struttura) e i lati della piramide, in cui potevano essere posizionati gli shaduf di sollevamento e rotazione dei blocchi di pietra. Se queste macchine operavano all’altezza di oltre 80 m e precedentemente i blocchi di pietra avevano “viaggiato” in ascensori idraulici (fino a raggiungere almeno l’altezza di 43 m) si può ipotizzare realmente che un progetto come la costruzione di un edificio piramidale possa essere stato un progetto estremamente complesso ma realizzato in modo sufficientemente agevole dagli Egizi. L’ipotesi della costruzione interna è stata sostenuta non solo da Jean Pierre Houdin e da Manuel Minguez ma anche dall’Ingegnere Gallese Peter James, esperto di manutenzione di siti antichi, a dimostrazione del fatto che tale ipotesi trova credito, se non tra gli archeologi, almeno tra gli esperti di tecniche ingegneristiche antiche. La mancanza di certezze sul ritrovamento di manufatti e di attrezzi da lavoro, a cui si accompagna il ritrovamento di parti di slitte di legno, ha fatto propendere per il trasporto su slitte, per quanto concerne, si intende, il trasporto esterno dei blocchi mentre ben poco è emerso per il trasporto e il sollevamento interno dei blocchi stessi. Anche le ultime importanti scoperte realizzate dai fisici dell’Università di Amsterdam nel 2013-14 (e supportate da parte degli archeologi) permettono solo di stabilire con certezza che per il trasporto esterno dei blocchi, in fase di allocazione delle risorse sul cantiere, furono impiegate le slitte a traino “agevolato” ma questa tecnica riguardò solo il trasporto esterno dei blocchi mentre rimane fuori da questa ricerca l’ambito più complesso, riguardante le tecniche di sollevamento dei blocchi ad oltre 80 100 m di altezza; per queste vale comunque l’ipotesi che i blocchi siano stati trascinati, con la stessa tecnica, anche in pendenza sulle rampe di carico, sebbene dai pochi ritrovamenti disponibili si comprenda che lo spostamento dei blocchi avviene su percorso lineare. Semmai è importante ricordare che questa ricerca apre orizzonti nuovi legati alla conoscenza che gli Egizi potevano avere delle tecniche idrauliche, aprendo la possibilità di considerare l’importante ruolo che possa aver avuto l’acqua come tecnica di trasporto dei blocchi di pietra. Inoltre occorre ricordare che le diverse teorie elaborate richiederebbero un’importante opera di integrazione (tra di esse), in una sorta di sforzo interdisciplinare, allo scopo di unire i diversi aspetti architettonici, ingegneristici e culturali della civiltà egizia che non sono stati adeguatamente rappresentati nelle varie ipotesi considerate. A distanza di circa cinquemila anni gran parte dei misteri di questa grande civiltà antica sono ancora di fronte a noi come un enigma di difficile risoluzione, poiché le svariate ipotesi elaborate nel corso del tempo non hanno permesso, per quanto importanti e ben delineate, di risolvere tutte le questioni controverse che ancora permangono in campo, al punto che ancora ad oggi non è possibile dire con certezza le modalità con cui furono realizzate le piramidi di Giza. Bibliografia Essenziale e note bibliografiche: 1 A. ALTENMULLER, A.M. MOUSSA STUDIEN ZUR ALTAGYPTISCHEN KULTUR 1991 2 STOCKS, A. DENYS EXPERIMENT IN AEGYPTIAN ARCHEOLOGY ROUTLEDGE 2003 3 M. ISLER, STICKS, STONES AND SHADOWS: BUILDING THE EGYPTIAN PYRAMIDS UNIVERSITY OF OKLAHOMA PRESS 2001 4 ERODOTO, LE STORIE RCS LIBRI 2006 5 ERODOTO, LE STORIE RCS LIBRI 2006 Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 44 6 DIODORO SICULO, BIBLIOTECA STORICA ED. SONZOGNO 1820 7 STRABONE, DELLA GEOGRAFIA, LIBRO XVII ED. 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È un vero piacere averti ospite fra le pagine virtuali di ASPIS. Per chi non ti conoscesse ancora, che ne diresti di iniziare presentandoti? tutti quelli dei quali l’uomo ha una conoscenza indiretta tramite quelle che lui definiva “prove circostanziali”, cioè indizi da un lato non sufficienti a dimostrare l’esistenza di questi animali, ma dall’altro abbastanza interessanti per giustificare la ricerca di questi ultimi. In sintesi lo scopo della criptozoologia doveva essere quello di partire dagli indizi (impronte sul terreno, testimonianze oculari, fotografie indistinte, leggende, dipinti, etc.) e verificarne la veridicità in una sorta di approccio criminologico applicato alle scienze naturali. L’oggetto di queste indagini dovevano essere nuove potenziali specie in attesa di essere scoperte, specie ritenute estinte, ma sopravvissute, e specie già conosciute, ma segnalate in aree geografiche nelle quali la loro presenza non era stata ancora documentata. Mi chiamo Lorenzo Rossi, classe ’78, divulgatore scientifico affascinato dal rapporto tra scienza e pseudoscienza e dalle scienze naturali. Da 16 anni curo e gestisco il sito internet www.criptozoo.com interamente dedicato alla criptozoologia, che è la mia più grande passione. Che cosa è la criptozoologia? A questa domanda, a dire il vero, non esiste una risposta unanimemente condivisa. E’ molto più semplice dire cosa la criptozoologia avrebbe dovuto essere e cosa invece è (purtroppo) diventata per molti. Il concetto di criptozoologia nasce da un’idea dello zoologo belga Bernard Heuvelmans e la sua etimologia è “scienza degli animali nascosti”. Secondo Heuvelmans gli “animali nascosti” sono Bernard Heuvelmans Heuvelmans voleva rendere la criptozoologia una branca della zoologia in quanto era un conservazionista ed era rimasto stupito dal fatto che molte scoperte di nuove specie animali avvenute nel Novecento avrebbero potuto essere anticipate… Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 46 Quando nel 1861 l’esploratore britannico John Hanning Speke riportò che i nativi del Ruanda credevano nell’esistenza di orchi villosi chiamati ngagi, talmente forti da potere soffocare un uomo stritolandolo, il mondo accademico dell’epoca non prese la cosa troppo sul serio, ma 40 anni dopo, nel 1902, il Capitano Beringe divenne il primo europeo ad abbattere un esemplare di gorilla di montagna. Un altro esempio può essere il varano di Komodo, la cui esistenza era favoleggiata dai pescatori di perle che saltuariamente approdavano su questa piccola isola un tempo disabitata e che parlavano di misteriosi boeaja darat (coccodrilli di terra), ma nessun naturalista dell’epoca pensò di appurare la veridicità di tali racconti. Ci vollero così 100 anni prima che, per circostanze fortuite, il mondo si accorgesse dell’esistenza della più grande lucertola vivente. In sintesi il pensiero di Heuvelmans si articolava su questi punti: Molte di quelle che definiamo “scoperte” zoologiche sono tali “soltanto” per gli scienziati, visto che spesso queste specie nuove sono già (e da tempo) conosciute dalle popolazioni locali; Su molti di questi animali ancora da scoprire sono nate leggende molto colorite che ne deformano e ne ingigantiscono la realtà, portando così chi ascolta queste storie a non credere che simili animali possono esistere veramente; Dalle prime voci su questi animali alla loro effettiva scoperta passano in genere molti anni e una volta identificati spesso ci si accorge che sono già in grave pericolo di estinzione. L’auspicio di Heuvelmans era quindi quello di potere aiutare, con la criptozoologia, la velocizzazione del processo di scoperta di nuove specie in modo tale che fosse possibile proteggere legalmente questi animali (una specie che ufficialmente non esiste non può essere protetta) evitando il rischio che potessero estinguersi prima che qualcuno si accorgesse della loro esistenza. Cebo dorato Dal mio personale punto di vista questi concetti sono solidi e non pseudoscientifici e l’esempio migliore è la (ri)scoperta del cebo dorato, un piccolo primate dal manto giallo che vive lungo la costa orientale del Brasile. Un’illustrazione di questo animale apparve per la prima volta nel 1648 all’interno dell’opera Historiae rerum naturalium Brasiliae, dove viene riportato che la scimmia in questione era conosciuta con il nome di caitaia, ma da quel momento sembra sparire nel nulla, tanto da venire relegata all’interno delle leggende indios. Soltanto 358 anni dopo, nel 2006, lo zoologo Mendes Pontes, incuriosito dalle segnalazioni della famiglia Queiroz, proprietari terrieri che per trent’anni avevano cercato di attirare l’attenzione del mondo accademico sulla presenza di scimmiette dorate che vivevano nei loro possedimenti terrieri, diede una conferma all’esistenza del caitaia. Ma purtroppo, come dicevo prima, oggi per molti la criptozoologia è qualcos’altro… Innanzitutto Heuvelmans non ebbe soltanto idee scientificamente condivisibili. Ad esempio a suo modo di vedere le cose, il criptozoologo avrebbe potuto descrivere una nuova potenziale specie animale anche senza la necessità di depositarne un olotipo, affidandosi esclusivamente alle prove circostanziali. Per lui l’effettiva scoperta di un “animale nascosto” era semplicemente un valore aggiunto, un’operazione che a suo modo di vedere 47 non era strettamente legata alla criptozoologia, ma che ne poteva essere al massimo il risultato. Eppure, anche se in maniera non del tutto completa, la criptozoologia ebbe diversi tentativi di definizioni formali sulle pagine di una rivista peer reviewed avente un comitato editoriale di tutto rispetto. Mi riferisco a Cryptozoology, pubblicata dal 1982 al 1998, che sebbene non mancasse di difetti, ospitò dibattiti molto stimolanti a cui parteciparono anche “grandi nomi” della zoologia dell’epoca. Dibattiti dai quali emerse che gli obbiettivi della criptozoologia avrebbero dovuto essere essenzialmente tre: Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 Smascherare le bufale riguardanti gli animali “misteriosi”; Occuparsi della ricerca di potenziali nuove specie animali conosciute solo attraverso prove circostanziali; Occuparsi di verificare l’attuale presenza di specie considerate estinte, ma ancora segnalate. Questa, attualmente, è anche la mia visione della criptozoologia. Serpente marino in un mosaico del IV secolo a.C, Villa del Casale, Sicilia Il secondo problema è la grande valenza, a livello emozionale, di alcuni (a dire il vero una minima parte) dei presunti animali nascosti oggetto della criptozoologia. Alla maggior parte delle persone interessa relativamente poco la scoperta di nuove specie di scimmie, cetacei, insetti, etc., mentre una fetta di pubblico molto più vasta si è trovata prima o poi a fantasticare sul mostro di Loch Ness, il Mokele Mbembe e i serpenti di mare. Ne consegue che, paradossalmente, a molti degli appassionati di criptozoologia non interessano assolutamente la zoologia e la biodiversità e per riflesso, molti addetti ai lavori nel campo delle Scienze Naturali si allontanano da questa disciplina. La confusione che ne consegue è tanta e purtroppo molto spesso anche la comunità dei debunkers tratta l’argomento in maniera alquanto superficiale. Come nasce l’idea del sito Criptozoo.com e cosa lo contraddistingue da altri siti che trattano di segnalazioni e avvistamenti di animali insoliti? L’idea è nata per gioco e per passione in un’epoca nella quale internet era ancora poco diffuso in Italia e in molti, io per primo, si chiedevano se potesse davvero rappresentare una rivoluzione per il futuro, oppure fosse una curiosità del momento destinata a tramontare. Ai tempi navigare online era quasi costoso quanto navigare in crociera, l’avvento delle flat era ancora abbastanza lontano e la velocità di connessione era di 56k (nominali). Diciamo quindi che era un territorio più selettivo, nel quale si avventurarono i primi pionieri che avevano molta passione e qualcosa da dire. Pensai di realizzare un sito dedicato alla criptozoologia e le cose sono andate oltre le mie aspettative. Con il tempo “criptozoo” è diventato una consolidata realtà che è sopravvissuta a Myspace e che è più vecchia di YouTube, Twitter, Facebook e piattaforme blog varie. Diciamo che 48 Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 può essere definita una scienza o è una pseudoscienza? Ha senso di esistere in qualità di disciplina o è ridondante alla zoologia? Questo studio sarà pubblicato a breve all’interno di un volume edito da Springer International che affronterà a 360° e da un punto di vista interdisciplinare il tema della cosiddetta “fauna problematica” e spero che potrà fare chiarezza su molti aspetti della criptozoologia rendendola più “accettabile” al mondo accademico. Quando si parla di animali sconosciuti, è impossibile non pensare alle leggende che narrano di grossi primati come lo yeti dell’Himalaya o lo sasquatch americano. Qual è la tua opinione a riguardo? mediaticamente parlando, è un dinosauro sopravvissuto all’estinzione. La cosa che lo contraddistingue, è l’approccio alla disciplina, che punta essenzialmente a promuovere in ambito scientifico le intuizioni di Heuvelmans e non a strumentalizzarle per appagare le fantasie dei “cacciatori di mostri”. Quali sono i casi più interessanti che hai trattato finora? Il campo di studio della criptozoologia è molto vario: ricordo con estremo piacere la permanenza di sei mesi in alcune zone dell’Asia per studiare il folklore relativo alle storie sull’”uomo selvatico” e sono molto emozionato per l’imminente partenza per il Ghana dove collaborerò a una ricerca sulla possibile persistenza del leone orientale (Panthera leo senegalensis), considerato estinto nel Paese, ma saltuariamente avvistato da qualche testimone. Ma la verità è che lo studio più interessante che penso di avere condotto è puramente a livello teorico. Si tratta di una revisione sistematica sulla criptozoologia in cui ho cercato di individuare la soluzione ai quesiti che da sempre l’accompagnano: Penso che il bigfoot del nord America e lo yowie australiano siano miti relativamente moderni, molto più radicati nel bagaglio folkloristico dei coloni che non in quello dei nativi. Le leggende che circolano nelle aree delle catene montuose asiatiche, dove il mito dell’uomo selvatico sembra avere le sue radici, sono invece più interessanti. Prima è però necessario un chiarimento: la parola yeti è un’occidentalizzazione del vocabolo Sherpa yehteh, che significa “animale delle rocce”: yeh (zona rocciosa) + teh (animale). Secondo gli Sherpa lo yeti è simile ad una scimmia alta circa 120 – 150 cm, dal pelo rossiccio e dotata di una caratteristica testa conica. Si tratterebbe di un animale solitario che camminerebbe con una postura eretta sui tratti nevosi, ma che di norma deambula a quattro zampe. Durante la mia permanenza in Nepal ho potuto parlare a lungo con gli Sherpa e ascoltare le loro descrizioni del misterioso primate, che a parte le dimensioni sopra la media e l’indole solitaria, non sembrerebbe essere troppo dissimile da un macaco. Visto che può succedere di tanto in tanto che maschi anziani di macachi si separino dal branco e diventino solitari e solitamente piuttosto aggressivi, lo yeh-teh potrebbe trovare la sua origine in esemplari solitari di macachi tibetani lontani dal loro areale consono. I macachi autoctoni del Nepal sono 49 Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 infatti troppo piccoli e docili per potere essere alla base di queste leggende. Però nell’immaginario collettivo lo yeti è perlopiù rappresentato come una sorta di uomo scimmia bipede di grandi dimensioni e la spiegazione va ricercata nel vasto patrimonio folkloristico delle popolazioni delle zone montane asiatiche. In Nepal ad esempio, oltre che allo yeti, le popolazioni dei villaggi parlano anche del ban-manche, l’uomo della foresta: ban (foresta) + manche (uomo). Questa creatura, descritta sempre con le medesime caratteristiche, pur se con una moltitudine di nomi diversi, fa parte del bagaglio culturale di numerosissime etnie asiatiche stanziate presso le propaggini delle catene montuose, dal Caucaso al Vietnam, e il significato del suo nome nelle varie lingue e dialetti locali è quasi sempre riconducibile a quello di uomo selvatico o uomo dei boschi. Secondo i testimoni si tratterebbe di creature (i presunti avvistamenti descrivono sia individui di sesso maschile che femminile) molto simili all’uomo, ma distinte da quest’ultimo da una costituzione fisica massiccia, l’andatura un po’ ciondolante e una vistosa peluria che ne ricopre la maggior parte del corpo alla stregua della pelliccia di un animale. Il volto di queste creature sarebbe caratterizzato dal mento sfuggente e dalle robuste arcate sopraccigliari e le loro dimensioni varierebbero dai 160 cm agli oltre due metri. E’ quindi a questi esseri che si fa riferimento, pur se non correttamente, quando in Occidente si parla di yeti. Alcuni sostengono che grossi rettili potrebbero ancora esistere nelle zone meno esplorate del pianeta. Il primo esempio che mi viene in mente è quello del mokele mbembe, un grosso animale che vivrebbe in una zona paludosa della regione di Likouala, nel cuore dell’Africa. Secondo le descrizioni ottenute dalle varie spedizioni effettuate nel corso del secolo passato, l’animale sarebbe alquanto simile all’Apatosauro: il dinosauro dal lungo collo molto noto anche nella cultura popolare. Credi sia possibile che esistano grandi rettili – sia terrestri che marini – che aspettano ancora di essere scoperti dall’uomo? Il mokele mbembe in un’illustrazione fantastica Se parliamo di grandi rettili terrestri in senso lato, la mia risposta è “forse si”. Ad esempio nel 2010, nell’isola di Luzon, Filippine, è stata scoperta una nuova specie di varano (Varanus bitatawa) che può raggiungere i due metri di lunghezza. Se il discorso si sposta invece sui dinosauri… temo che dovremo accontentarci di quelli che sentiamo cinguettare nei parchi, visto che gli uccelli, che si originarono dai teropodi, sono gli unici dinosauri sopravvissuti ai nostri giorni. Questo non significa che forse un animale che ha dato origine alle leggende sul mokele mbembe non esista o sia esistito davvero, ma potrebbe trattarsi di un grosso varano o di una tartaruga. Comunque le descrizioni dei nativi fanno pensare piuttosto a un prodotto puramente mitologico. Resta poi il fatto che il suo habitat e la sua etologia, senza contare alcune caratteristiche morfologiche che gli vengono attribuite, non si adattano con niente di quello che la moderna paleontologia ha potuto ricostruire sull’ordine dei sauropodi. Le vecchie illustrazioni di “brontosauri” che emergono placidi da qualche palude sono interpretazioni ormai superate che non rispecchiano il reale modo di vivere di questi animali. Sicuramente nell’epoca in cui giunsero in occidente le prime notizie riguardanti il mokele mbembe, l’ipotesi di dinosauri sauropodi sopravvissuti oltre 50 che affascinante poteva suonare anche non del tutto inverosimile, ma allo stato attuale dei fatti si tratta, purtroppo, di una ipotesi senza alcun fondamento. battezzata Rhinopithecus strykeri, un genere di Primati fino ad allora mai documentato in Myanmar. Come vedi il futuro della criptozoologia? Ci potresti parlare di alcune delle scoperte più interessanti degli ultimi anni? Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 Rinopiteco del Myanmar Dal mio punto di vista le scoperte più interessanti sono quelle relative a specie di taglia apprezzabile già conosciute dai nativi, ma non dagli zoologi. Un ottimo esempio è il già citato varano di Luzon, conosciuto dai locali con il nome di bitatawa e saltuariamente cacciato. Un caso molto recente è quello del tapiro pigmeo dell’Amazzonia, conosciuto da tempo dagli indios con il nome di anta pretinho (letteralmente piccolo tapiro nero) e segnalato e descritto una decina d’anni fa dallo zoologo olandese Marcus van Roosmalen con prove ritenute insufficienti dalla comunità scientifica. Però nel dicembre del 2013 lo zoologo brasiliano Mario Cozzuol ha descritto una nuova specie di tapiro le cui caratteristiche corrispondono esattamente sia con le descrizioni dei nativi, sia con quelle già a suo tempo diffuse da Roosmalen, il quale però, piuttosto ingiustamente, non è stato minimamente citato all’interno della descrizione formale di questa nuova specie. La scoperta che però mi ha colpito di più è stata quella del rinopiteco del Myanmar, avvenuta nel 2010 ad opera di un team di primatologi che stava studiando i gibboni nella regione. Durante le ricerche appresero dal gruppo etnico del Law Waw, della presenza di una scimmia misteriosa da loro chiamata myuk na tok te, che significa “la scimmia dal naso all’insù”. I locali erano concordi nell’affermare che questa scimmia molto rara poteva essere facilmente localizzata dai cacciatori durante le giornate di pioggia, quando le gocce d’acqua penetrando nelle narici rivolte verso l’alto dei loro nasi le fanno starnutire. In questo caso i ricercatori hanno avuto il grande merito di non fermarsi a questa descrizione folkloristica, preferendo invece indagare su questa curiosa segnalazione. E la loro lungimiranza è stata premiata con l’effettiva scoperta di una nuova specie di rinopiteco, Criptozoologia – Animali Misteriosi tra Scienza e Leggenda di Lorenzo Rossi Poco roseo e a un bivio. Attualmente la criptozoologia vegeta in una sorta di limbo tra scienza e pseudoscienza che non la porterà da nessuna parte. Il fatto è che sin dalla sua “istituzione” è stata al centro di accesi dibattiti e diverse correnti di pensiero ai cui estremi si collocano da un lato chi crede all’esistenza di qualunque tipo di creatura improbabile e dall’altro chi ritiene che il campo di studio della criptozoologia sia quello degli “animali impossibili”. L’essenza della disciplina teorizzata da Heuvelmans si è quindi perduto. Se da una parte è vero che Heuvelmans per primo non si tirava mai indietro in quanto a promuovere l’esistenza di animali biologicamente improbabili, la base della criptozoologia è quella di indagare le prove circostanziali riguardanti la Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 51 possibile esistenza di una nuova specie animale e sotto questo punto vista un dinosauro sopravvissuto o un roditore hanno la medesima dignità. Alcuni critici hanno posto enfasi sul fatto che escludendo dinosauri e ominidi relitti dalla criptozoologia, quest’ultima non avrebbe nulla di diverso dalla zoologia e sarebbe quindi una disciplina non necessaria. Queste persone non si rendono però conto che la criptozoologia non è mai stata concepita come una “nuova zoologia”, ma come una sua branca, come lo sono la paleontologia, l’erpetologia o l’ittiologia. La paleontologia si concentra sugli organismi che hanno polpolato la Terra nelle epoche passate, l’erpetologia si concentra sui rettili e la criptozoologia avrebbe dovuto avere il compito di occuparsi nell’indagare le prove circostanziali sulla possibile esistenza di nuove specie. Spero che il mio studio di prossima pubblicazione potrà contribuire a fare chiarezza sull’argomento, ma temo che si tratterà comunque di una goccia nell’oceano. Grazie, Lorenzo, per la dettagliata e interessantissima intervista. Ne approfittiamo per segnalare inoltre il tuo libro, Criptozoologia – Animali Misteriosi tra Scienza e Leggenda, che il lettore può comodamente reperire all’indirizzo http://ww2.photocity.it/Vetrina/DettaglioOpera.aspx? versione=18553&formato=8634. 52 IL MITO DI CRISTO nel Vangelo gnostico di Tommaso Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 di Domenico Rosaci Tra i tanti Vangeli esistenti, quello denominato "di Tommaso" meglio si presta ad illustrare efficacemente il mito di Cristo. Infatti, tale vangelo contiene una versione particolarmente sintetica dei contenuti del Cristianesimo delle origini. Tali contenuti, pur essendo essenzialmente identici a quelli proposti dai vangeli canonici, vengono illustrati in maniera “esoterica”, ovvero quali conoscenze riservate solo ad una cerchia di discepoli iniziati. Il Vangelo di Tommaso è stato rinvenuto in forma completa nel 1945 in Egitto, a Nag Hammadi, su un documento papiraceo in lingua copta. Se ne conoscevano già alcuni frammenti di una versione greca riportata su alcuni papiri scoperti nel 1897 ad Ossirinco, in Egitto. La versione copta è presumibilmente risalente al IV secolo Dopo Cristo, ma l’originale versione in greco è sicuramente precedente, ed è fuori di dubbio che essa circolasse nei primissimi secoli del Cristianesimo insieme ai Vangeli che furono scelti da Ireneo per essere inclusi nel Canone. Il Vangelo di Tommaso comprende circa un centinaio di “detti” (loghia) attribuiti a Gesù Cristo. Ognuno di tali detti inizia con la formula “Gesù disse”. Il primo di tali detti recita: “Queste sono le parole segrete che Gesù il Vivente ha detto e Didimo Giuda Tommaso ha trascritto.” Fin dall'incipit appare quindi evidente che il Vangelo si presenta come un racconto esoterico, poiché le parole sono “segrete”, e quindi riservate ai soli iniziati. Inoltre, si chiarisce fin dall'inizio che Gesù sia da considerarsi "colui che realmente vive", in ovvia contrapposizione con una qualche altra tipologia di uomo, che andrà invece considerato "morto". E' Tommaso stesso a spiegarci quale sia tale tipologia di uomo, visto che immediatamente dopo l'incipit si fa affermare a Gesù che “chiunque trova la spiegazione di queste parole non gusterà la morte”. "Vivere" è dunque una metafora per "conoscere". Vive chi ha la conoscenza, e la conoscenza è proprio ciò che il Vangelo veicola. Ancora una volta, come nel Vangelo di Giovanni, Gesù si configura come il “portatore del Logos”, quello Spirito divino che altro non è che conoscenza delle cose segrete. L'osservazione che qui facciamo, centrale nel nostro studio, è la seguente. Concepire la vita come il possesso di una conoscenza esoterica, e la morte come una sua assenza, era il principale contenuto dell'antica Religione Naturalistica della Dea, di cui abbiamo già parlato. Una religione adottata dagli antichi agricoltori neolitici nell'Europa mediterranea, in Egitto, in Mesopotamia, in India e in Cina. In epoca storica, passando nelle culture degli indoeuropei e dei semiti, ma anche nelle stesse culture originarie che si trasformarono in senso patriarcale anche in quei casi in cui non ci fu nessuna invasione vera e propria (è il caso dell'Egitto), la "conoscenza segreta" fu codificata in culti e testi sacri che ci sono direttamente pervenuti. Ad esempio, nel "Libro dei Morti" egiziano si afferma con chiarezza che l’uomo che muore deve essere stato iniziato ai segreti della morte. Questa iniziazione consiste nel conoscere le risposte alle domande che le creature dell’aldilà gli porranno. Grazie a queste risposte, egli potrà vincere la morte, per risorgere a nuova vita come Osiride. Era fondamentale quindi per gli Egizi la conoscenza delle "parole sacre", che erano quelle contenute negli inni intonati dai sacerdoti, e nelle formule stesse del Libro dei Morti, recitate ad accompagnamento dell’anima del defunto. Appare difficile non notare il collegamento tra questo modo di vedere la "morte", che noi in questo libro definiamo genericamente "gnostico", ed il concetto di “superamento della morte” grazie al Logos proposto nel Vangelo di Tommaso. Il vero centro di questo insegnamento è contenuto nel "Detto 3" del Vangelo, in cui Gesù dice: "Il Regno è dentro di voi ed è fuori di voi. Quando conoscerete voi stessi, sarete conosciuti e saprete che siete figli del Padre Vivente." Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 53 Si parla quindi qui, come anche nei Vangeli Canonici, di un "Regno", che inequivocabilmente rappresenta la condizione in cui l’uomo realizza la propria completa felicità. Questo Regno, diversamente dai concetti di Divinità o di Paradiso, propri delle Religioni Storiche, non è trascendente, ovvero non si trova "fuori" dell'Uomo. Al contrario, esso è immanente al complesso UomoNatura stesso, ovvero non si trova "dentro" oppure "fuori", ma bensì "dentro e fuori". Si vuole cioè intendere che la felicità, che è anche scoperta della divinità, si consegue nella perfetta fusione della coscienza umana con la Natura. Questa era proprio la principale convinzione dell'antica religione naturalistica. Il Vangelo di Tommaso prosegue con la descrizione, da parte di Gesù, delle caratteristiche di questo Regno. Esso è il “Luogo della Vita”, e la “Luce” (Detti 4 e 12). Questo modo di esprimersi è evidentemente ereditato dal linguaggio platonico, e più precisamente dal "Timeo". Nel Timeo, Platone cerca di eliminare la separazione fra il mondo superiore delle Idee, e il mondo delle forme o della realtà sensibile, al quale appartiene anche l'uomo mortale. A collegare i due mondi è la figura del Demiurgo, una sorta di divino "artigiano", che plasma la materia dando forma alle idee, mosso dall'Idea Somma, il Bene. Il Timeo (che prende il nome dal protagonista dell'opera, probabilmente il filosofo locrese Timeo) è un libro sapienziale, nel senso che intende trasmettere la conoscenza della realtà, insieme a quella circa l'origine di tale realtà, fino ad arrivare a contenuti propriamente escatologici. Platone espone con chiarezza come l'uomo possa ottenere la felicità: Per chi dunque si occupi di passioni e di contese e in esse si affligga, inevitabilmente tutte le sue opinioni saranno mortali, e neanche il più piccolo particolare trascurerà per diventare il più possibile mortale, incrementando appunto tale parte: chi invece si è occupato dello studio della scienza e delle riflessioni sulla verità ed ha esercitato soprattutto questa parte di se stesso a riflettere sulle cose immortali e divine, se viene a contatto con la verità, è assolutamente necessario che, per quanto sia ammesso dalla natura umana, prenda parte dell'immortalità, senza trascurarne neppure una parte, e, come colui che venera una divinità e mantiene in ordine il divino che abita in sé, sia particolarmente felice. E' quindi la conoscenza, derivante dallo studio e dalla riflessione "sulle cose immortali", che conduce alla felicità. E il simbolo attraverso cui Platone descrive metaforicamente la "vera conoscenza" è la Luce, come bene possiamo leggere in un altro famoso dialogo: La Repubblica. In questo dialogo, si narra d uomini prigionieri in una caverna, incatenati alle gambe e al collo, e quindi impossibilitati a volgere lo sguardo dietro di loro, dove c'è un fuoco che arde. Tra la luce del fuoco e i prigionieri vi è un muricciolo che costeggia una strada, e sula strada alcuni uomini si muovono e parlano, portando sulle spalle statue che raffigurano uomini. Gli uomini incatenati non possono conoscere la vera esistenza degli uomini sulla strada, ma percepiscono solo l'ombra delle statue che il fuoco proietta sulla parete di fronte a loro, e l'eco delle voci. Quelle ombre e quell'eco costituiscono per i prigionieri la "realtà". Ma se uno dei prigionieri potesse finalmente liberarsi dalle sue catene, potrebbe scavalcare il muro e volgere lo sguardo verso il fuoco, e alla sua luce vedere adesso l'esistenza degli uomini veri. Se poi ipotizziamo che il nostro prigioniero si avventuri al di là del muro, fuori dalla caverna, possiamo immaginare come egli resterebbe in un primo momento abbagliato dalla luce del Sole e poi, abituandosi, vedrebbe le cose stesse e infine, prima riflessa in una pozza d'acqua, poi con i suoi propri occhi, vedrebbe il Sole In questo mito, la luce del fuoco rappresenta la conoscenza, mentre gli uomini oltre il muro simboleggiano le cose come realmente sono, la verità, contrapposte alle statue che sono solo imitazioni della verità. Le ombre delle statue simboleggiano l'interpretazione che i sensi forniscono delle cose stesse, ovvero l'opinione pura. La luce, in un primo tempo quella del fuoco poi quella del Sole, chiarirà all'uomo ex prigioniero che esiste una conoscenza soprasensibile rappresentata dalle statue, e che persino questa conoscenza ha vari gradi di "verità", perché le statue sono meno reali degli uomini di cui sono immagine. Inoltre comprenderebbe che solo apparentemente il fuoco dentro la caverna è la causa della conoscenza che adesso possiede, perché fuori dalla caverna c'è una luce ben più forte, da cui proviene ogni conoscenza, persino quella del fuoco. Per Platone il Sole rappresenta il Bene. Per capire quanto di tale visione gnostica si ritrovi nei Vangeli, si consideri l'episodio della guarigione Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 54 del cieco di Gerico, riportato nel Vangelo di Marco (Marco 10:26-42). Si descrive che il miracolo avvenne fuori Gerico, ed il cieco sedeva al margine della strada. La strada rappresenta generalmente un percorso, ed in senso spirituale, una via sulla quale acquisire conoscenza. Il cieco però è fermo, non cammina per via della sua cecità. Si limita a mendicare, ovvero a dipendere dagli altri. Quando però su quella strada passa Gesù, il Cristo, il cieco avverte la presenza di un'occasione, intuisce la possibilità di porre fine a quella sua condizione di staticità. "Gesù" significa "Dio salva". Quindi il cieco chiama Gesù per nome, invocando la salvezza. Ma Gesù è il Logos, impersona lo Spirito Santo, ed allora anche il Vangelo Canonico di Marco spiega quale sia il mezzo tramite il quale Gesù porta la salvezza. Egli apre gli occhi al cieco, ovvero gli fa vedere la luce. E la luce non può che rappresentare, in un contesto simile, la conoscenza (gnosi). Incidentalmente, notiamo che Marco ci informa che il cieco si chiamava Bartimeo, ovvero "figlio di Timeo". Un riferimento possibile (ma è solo una mia supposizione) al celebre dialogo platonico. Nel Vangelo di Tommaso, si dichiara che il raggiungimento del Regno (la gnosi) può avvenire solo quando l’Uno, l’"Ego Cosciente", si unisce al Tutto che lo circonda e diventa Due (Detto 12). Il Dualismo, proprio delle Religioni della Natura, è quindi il centro del messaggio evangelico di Tommaso. Non si tratta quindi di alcuna Trinità, come erroneamente interpretato dal Credo di Nicea e quindi dalle moderne Chiese Cristiane, ma invece dell’antica contrapposizione-fusione Uomo-Natura. L’uomo trova la sua completa realizzazione solo in tale fusione. Che la natura della divinità sia dualistica e non trinitaria è ulteriormente confermato nel Detto 35. Inoltre un altro insegnamento che viene espresso nel Vangelo di Tommaso riguarda l’inutilità di penitenze e sacrifici come il digiuno, nocivi per il corpo e quindi offensivi per la Natura. E inoltre, fatto che risulterà sorprendente per gli attuali credenti, si afferma l'inutilità della preghiera, perché insensato chiedere un aiuto dall’esterno quando si è già "fusi" con la divinità. Quello che è importante fare è invece solidarizzare col prossimo, ed aiutare chi soffre (Detto 15). Ma a levare ogni dubbio sulla derivazione gnostica del Vangelo di Tommaso e sulla natura della Divinità di cui esso tratta, c'è l'affermazione avanzata nel Detto 16, in cui si afferma che il Padre, ovvero la Divinità a cui si giunge mediante il processo di conoscenza, "non è nato da donna". Quindi per Tommaso la divinità non si incarna, nè mai si incarnerà. Il Logos è Spirito, essenza ideale, non è un Dio antropomorfo, e Cristo è colui per mezzo del quale il Logos si esprime, e non è il Logos incarnato come gli attuali cristiani pretendono di avere interpretato. L'importanza del Cristo sta dunque nei suoi insegnamenti, nel Logos, mentre colui che li pronuncia è solo un personaggio simbolico, letterario. Il centro dell'insegnamento del Cristo è che la Via per arrivare al Regno è l’abbandono delle cose materiali a vantaggio di quelle spirituali (Detto 24). Quindi, viene proposto un percorso di ascesi spirituale che risolve l'originale duopolio UomoNatura nell’unità della Natura stessa, in modo tale che "l’interno sia come l’esterno, l’alto come il basso, il maschio come la femmina." (Detto 27). Quindi il significato più profondo del Vangelo di Tommaso sta proprio nella risoluzione delle individualità nel Tutto, riproponendo attraverso il mito di Cristo l’unità taoista di Yin e Yang. In questo mito, il profondo insegnamento delle antiche religioni della Natura, mediata attraverso le riflessioni filosofiche del razionalismo greco, e definitivamente risolta nel mondo ideale di Platone. Tommaso fa dire a Gesù che egli si è manifestato "nella carne" ai discepoli (Detto 33), significando che attraverso Cristo parla il Logos, lo Spirito della Divinità Naturale. Questo introduce alla natura iniziatica del mito di Cristo, come espresso nel Detto 47, in cui Gesù esorta i discepoli dicendo loro "Siate Viandanti". L’"itineranza" è condizione essenziale di colui che ricerca, che è sempre in eterno viaggio. E ancora, nel Detto 54, Gesù precisa che solo il "solitario", colui che avrà fatto ritorno all’Anima del Mondo, potrà trovare il Regno. Il Detto 55 chiarisce poi la Natura degli uomini. In esso Gesù dice ai discepoli: "Se vi domandano: "Di dove siete venuti?", rispondete: "Siamo venuti dalla Luce, dove la luce si è originata da se stessa. Essa è sorta e si è manifestata nella nostra immagine". Se vi domandano: "Che cosa siete voi?", rispondete: "Noi siamo i figli e gli eletti del Padre Vivente". Se vi domandano: "Quale segno del vostro Padre è in voi?", rispondete loro: "È un movimento e una quiete." Viene quindi affermato che l’uomo ha natura divina, e che la manifestazione di tale natura sta nell’intelligenza che opera permettendo all’uomo Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 55 stesso di riacquistare in ogni momento l’unità con la sua origine. Il moto e la molteplicità che gli uomini ed il mondo naturale rappresentano è quindi solo "apparenza", "opinione", che si ricompone nella quiete dell’assoluta immobilità dell’Essere-Dio. Ritroviamo qui, in maniera assolutamente evidente, la concezione platonica di un mondo materiale "copia" di quello ideale. In sostanza, possiamo ragionevolmente affermare che il Mito di Gesù, come riportato nel Vangelo di Tommaso, appare come una interpretazione platonica dell’antichissima visione dell’UomoNatura, che era stata propria delle antiche popolazioni degli agricoltori neolitici. La Natura stessa viene idealizzata, diventando il prototipo del mondo materiale che è soltanto una sua "copia". L’uomo "materiale" vive nella natura materiale, e conosce essa attraverso i sensi e la razionalità, ma questa conoscenza è soltanto "opinione". Per mezzo del Logos, che nel mito cristiano è "interpretato" dal personaggio Cristo, ovvero per mezzo della conoscenza "esoterica" che si rivela grazia al percorso interiore di iniziazione, l’uomo può ascendere alla dimensione ideale della Natura, dentro la quale egli si fonde e riconquista la pienezza della sua condizione divina. Come è chiaro anche negli scritti di Paolo, che parla di sola giustificazione per mezzo della fede, nel mito di Cristo non esiste nessun "aldilà" da conquistare attraverso le buone opere. Addirittura, nel Detto 56, Gesù chiarisce che il "Regno" è già venuto, sono gli uomini a non accorgersene, sempre per via dell'"apparenza" a cui sono assoggettati. La divinità è cioè dentro di loro, nella Natura la cui idea è conoscibile attraverso il percorso che Gesù indica. Un percorso di solitaria ricerca interiore, vissuta in una pace armoniosa con le altre creature che aiuti nel processo di ascesi spirituale. Il concetto è ribadito anche nel Vangelo Canonico di Luca, 17,21. "Il regno di Dio non viene in modo da attirare l'attenzione, e nessuno dirà: Eccolo qui, o: eccolo là. Perché il regno di Dio è in mezzo a voi!". E sempre nei canonici, stavolta in Matteo 23,13, si precisa che la "strada" per il Regno non è quella indicata dagli scribi e dai farisei, cioè dall'Ebraismo farisaico tradizionale: "Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che chiudete il regno dei cieli davanti agli uomini; perché così voi non vi entrate, e non lasciate entrare nemmeno quelli che vogliono entrarci." E' infatti ampiamente attestato nei Vangeli che il rispetto della Torah non è affatto condizione sufficiente per giungere a Dio, come evidentemente gli Ebrei farisaici hanno sempre creduto. La parabola del giovane ricco riportata sia in Matteo 19, 16-22 che in Marco 10, 17-22 lo chiarisce perfettamente, sottolineando che l'unica condizione sufficiente per la salvezza è seguire il Cristo, ovvero il percorso iniziatico ("io sono la Via, la Verità, la Vita). E con ancora più forza Gesù dice, nel Vangelo di Tommaso (Detto 84): "Io sono la Luce: quella che sta sopra ogni cosa; io sono il Tutto: il Tutto è uscito da me e il Tutto è ritornato in me. Fendi il legno, e io sono là; solleva la pietra e là mi troverai." Risulta ovvio che questa stessa cosa possa dirla ogni uomo che abbia compreso il messaggio del Cristo, perché è ovvio che se il Tutto è dentro il legno e la pietra, è anche in ogni uomo. 56 LA CONNECTION EXTRATERRESTRE Pseudo eterodossia e fumus persecutionis, spine nel fianco dell’ufologia Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 di Pier Giorgio Lepori Dieci anni fa circa, intorno a luglio 2005, scrissi un articolo per conto di Edicolaweb a proposito degli enigmi biologici e inerenti civiltà tecnologizzate legati alle cicatrici del pianeta Marte. Si trattava della recensione al libro di Graham Hancock L’enigma di Marte (ediz. Il Corbaccio – 1997) correlata di considerazioni personali espresse sulla scorta di altri testi legati in qualche maniera al saggio di Hancock. Al tempo ero ancora convinto dell'esistenza fisica di Atlantide nonché della correlazione astronomica tra al-Jizah e Cintura di Orione, più nota come TCO (Teoria della Correlazione con l'Orione), una tra le suggestioni più radicalizzate pseudo-eterodosse. Tra le invettive più feroci di certa ufologia descritta come 'acciaio e bulloni', vi è quella cosiddetta ‘complottista’ portata contro 'Loro', 'Them', una fantomatica Spectre capeggiata solitamente dagli Stati Uniti e seguita a ruota da altre potenze sul campo, di dubbia identità, spesso trasversali che si ciba di occultamenti correlati ad interessi economici basati sul controllo delle masse da tenere nel terrore, ciò al fine di imporre legislazioni caustiche della libertà d'espressione e al contempo impositive di politiche economiche restrittive con lo scopo di 'non far pensare troppo' gli individui, tenendoli mentalmente e socialmente impegnati a sopravvivere. Nei primi Anni 2000 ebbi modo di leggere un documento strategico Telecom Italia firmato Roberto Colaninno (sorvolo sulla fonte d’informazione per motivi di privacy) in cui necessitava il crearsi di un ‘clima critico’ all’interno dell’Azienda al fine di tenere le ‘risorse sotto pressione’ poiché solo in un contesto simile è possibile lo ‘sviluppo di idee’ e la crescita professionale dei soggetti. Non è un caso che il salto qualitativo sia tecnologico che di pensiero l’umanità lo abbia compiuto negli ultimi 200 anni, grazie a stimoli epocali assai ravvicinati a partire dalla Rivoluzione Industriale e transitando attraverso ben due guerre mondiali l’una a venti anni esatti dall’altra. Nella realtà, sia sotto un profilo sociologico che antropologico, gli individui abdicano alla riflessione quando si divertono, sono distratti e al contempo vivono condizioni economiche favorevoli: il latino panem et circenses è antonomasia della demagogia. Non è semplice far crollare il presupposto complottista poiché pur essendo un presupposto errato è molto radicato nelle coscienze, difficile crearvi uno spartiacque chiaro tra illusione e realtà. Il dubbio quindi è: ma non è che panem et circenses risieda proprio all'interno di sigle come il CUN o il MUFON? E' possibile che operi – approfittandone - una contro-informazione iperbolica, forte di ufologia legata all'evoluzione storica affatto inconscia? E qualora fosse vero: perché? Partiamo dal primo quesito legato all’incubo ‘Them’, vero e proprio fumus persecutionis, fondamento della dietrologia complottista. Non è vero che la superpotenza statunitense – ad esempio – si comporta come agente contro-iniziatico. Un testo illuminante, addirittura del 2003 edito da Bruno Mondadori, ‘La vita nell’universo’ può cambiare il punto di vista ‘malato’. Gli Autori, il geologo Luigi Bignami assieme all’astrofisico Gianluca Ranzini e al fisico Daniele Venturoli, sono i co-fondatori del Centro Studi di Esobiologia all’interno della Società Italiana di Scienze Naturali. Nel testo sono riportate numerose sigle di studio, oltre al classico SETI Institute (Search for ExtraTerrestrial Intelligence), in questo settore. Lo spostamento è chiaro: gli studiosi sono passati dalla spasmodica quanto inconcludente (tranne il 57 Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 segnale ‘Wow!’ risalente al 15 agosto 1977 presso il SETI) ricerca di forme di vita intelligente, organizzata e tecnologicamente avanzata, ad una ricerca progressivamente estesasi a qualsiasi forma, tipologia di vita ovvero all’esistenza stessa di Satellite SIRTF e logo missione quest’ultima da quando uno dei padri dell’esobiologia, Carl Sagan, definì l’atteggiamento da paraocchi ‘sciovinismo antropocentrico’1 ossia quel parametrizzare l’intero universo sulla figura umana e pertanto negare qualsivoglia forma di esistenza che non risponda alle caratteristiche di perimetrazione che disegnano il profilo della vitacosì-come-la-conosciamo2 e in particolare di quella profilazione adatta allo sviluppo dell’intelligenza. L’esobiologia non tiene conto minimamente di un disegno complottista planetario se non addirittura epocale, esteso nei decenni addirittura millenni antecedenti ‘l’intuizione’. Si parlava di sigle. Premesso che la presenza di acqua è conditio sine qua non per l’attivazione di processi biochimici di qualunque tipo (le colonie di polpi o i gamberi albini che sintetizzano sostanze in ambiente alcalino vicino alle bocche eruttive termali di Lost City tra l’Atlantico e l’Indiano sono molto indicative), gli States – in particolare la NASA - dispongono di ‘cercatori d’acqua’ ad alta quota: sono aerei ad uso scientifico come il KAO (Kuiper Airborne Observatory) oppure il nostrano (proprietà ESA) ISO (infrared Space Observatory) montato a bordo di satelliti con tutte le incredibili scoperte effettuate e messe a disposizione di chiunque tra cui la presenza di massicce quantità d’acqua presenti su ‘stelle fredde’ come le M o addirittura all’interno delle macchie solari.3 L’Eterodossia è divampata tra gli studiosi quando iniziarono a ridimensionare i 5 punti di profilazione che individuassero la cosiddetta ‘fascia di abitabilità’ (Oro, Rewers e Odom: Criteria for the emergence and evolution of life in the solar system – ‘Origins of Life’ n. 12 - 1982, pagg. 285-305) cominciando ad aprire l’orizzonte di visuale e cambiando punto di vista: è la Vita che si sviluppa all’interno di 5 presupposti o è la Vita-così-come-la-conosciamo? Andiamo avanti. ‘Odin’, lanciato nel 2001, e SIRTF (2003, acronimo di Space Infrared Telescope Facility) sono progetti operativi per la ricerca dell’acqua su pianeti extrasolari, entrambi targati ESA. Sempre dell’Agenzia Europea, il Darwin Project è il più ambizioso: - Sistema di 6 telescopi orbitanti posti in punti lagrangiani e posizionati ad una certa distanza dal Sole (1,5 mln di km) con il fine di evitare la luce zodiacale, cioè quel chiarore prodotto dalla luce solare nell’area dell’eclittica e diffuso da grani di polvere cosmica.4 1 L. Bignami, G. Ranzini, D. Venturoli La Vita nell’Universo – Bruno Mondadori 2003 – rif. pag. 121 2 I. Asimov – Civiltà Extraterrestri - Saggi Oscar Mondadori 1989 3 Ibid. La Vita nell’Universo – pagg.130 e segg. 4 Ibid. La Vita nell’Universo – pagg.132 e note a piè di pagina 58 - precisa volontà di rimestare nel torbido per tenere alta l’attenzione e non solo a scopi di business ma anche sociali, politici dove per ‘politica’ intendo il termine nel senso stretto: Continuiamo. Cito direttamente dal testo: - Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 - Per sottolineare l’importanza delle ricerche concernenti i pianeti extrasolari (e la relativa ricerca di acqua N.d.A.) basta un dato: attualmente sono in corso, in fase di realizzazione o in progetto qualcosa come 60 programmi diversi finalizzati alla loro scoperta con tecniche differenti.5 Gli Autori scrivono ciò tra il 2001 e il 2003, tempo in cui svilupparono il testo pilota di questo articolo. Leggiamo quali, tra i 60 suddetti, vengono illustrati nelle pagine seguenti: - - - NASA, Missione ‘Kepler’ (già operativo in sostituzione di Hubble, avvio missione 2009), telescopio orbitante. Gli Autori scrissero di aspettarsi almeno la rilevazione di 50 pianeti del tipo ‘Terra’; su Focus.it (http://www.focus.it/scienza/spazio/ telescopio-spaziale-kepler-700-nuovipianeti-come-la-terra) se ne annoverano 715 a febbraio 2014 ESA, Missione ‘Gaia’, satellite posto a 1,5 mln di km in posizione lagrangiana con a bordo 3 telescopi in grado di identificare una moneta da 2 EU ad una distanza di 300.000 km. Operativa dal 19 dicembre2013, LeScienze.it (http:// www.lescienze.it/news/2013/12/14/news/ missione_gaia_esa_mappa_tridimensionale _via_lattea-1929702/) NASA, Missione ‘TPF’ (Terrestrial Planet Finder) con data da definire oltre il 2015 con l’obiettivo di spostare l’occhio umano su sistemi planetari stellari a oltre 45 AL da noi. In tutto questo, le ‘cover-up’ dove sono? La controinformazione delle sigle storiche urla a gran voce con frastuono confusionario al fine di non portare alle persone conoscenze di questo tipo. I motivi potrebbero essere ovvi ma a parer nostro – purtroppo – sono inquietanti: rispondono ad una 5 Ibid. La Vita nell’Universo – pagg.144 e segg. 6 Ibid. La Vita nell’Universo – pagg.188 ‘modalità di governance dell’etica, della morale e della psicologia di massa’. Un atteggiamento usuale di chi crede l’Eterodossia un dispositivo anti-Ortodossia: non è così, l’Eterodossia è un comportamento, un'etica, si basa sul cambio di punto di vista. Significa ‘opinione diversa’ non ‘opinione giusta’. Bisognerebbe spiegargli che l’ufologia ‘motori e bulloni’ è rimasta con lui e Mauro Biglino ed è ormai scomparsa a partire dalla conversione di J. Allen Hynek post-Blue Book e se mai qualcosa vi fosse ancora, è paragonabile a reperti archeologici in rovina. Non è un caso che vi siano altre sigle, oltre al SETI, orientate in tal senso: Telescopio Kepler - - SETA (Search for Extra Terrestrial Artifacts) con l’obiettivo di identificare manufatti di origine aliena tra le nostre orbite terrestrelunare, nei punti lagrangiani o tra asteroidi ed orbite planetarie del nostro sistema SETV (Search for Extra Terrestrial Visitation), con l’obiettivo di identificare oggetti chiaramente riconoscibili come sonde aliene all’interno del sistema e più in dettaglio in orbita terrestre. Il SETV fu fondato da due ricercatori del JPL NASA (Jet of Propulsion Laboratory)6 59 Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 speculazione teoretica ma questa volta fondata su leggi astronomiche e fisiche ben precise che fanno capo alla forza gravitazionale, alla forza nucleare, la Costante di Planck, le costanti delle interazioni forti e deboli e via dicendo7. L’odierno Principio Antropico riprende le considerazioni religiose corroborandole con aggiunte positive dimostrabili e, di fatto, riportando la centralità dell’uomo al vertice dell’esistenza dopo il decentramento progressivo all’indomani dell’Umanesimo e delle vette illuministiche in cui la nostra posizione, soprattutto etico-morale, divenne periferica come la posizione del Sistema Solare e non più di privilegio come nel sistema tolemaicoaristotelico. Lo stesso processo che i principi di valore hanno subito con l’introduzione della Presunta donna pleiadiana ‘Ci hanno fatto sognare…’ È un’espressione che Biagio Russo, Autore del libro ‘Schiavi degli Dei’ edito da Drakon Edizioni, utilizzò durante una delle sue Conferenze e in particolare a Roma nel novembre 2014. In merito alla ricerca su ‘Le Donne di Adamo’, portò un parallelo con le bionde Pleiadiane e correlando il ‘biondo’ con caratteristiche di civiltà proto sumeriche che nulla avevano a che fare con Donne aliene ma, sicuramente, influenzarono il nostro modo di pensare fino agli odierni giorni. Questo è l’altro argomento, dettato dalle domande iniziali, protagonista di questo articolo. Un teorema applicabile a qualsivoglia enigma la cui spiegazione sembra non avere radici materiali bensì psicologiche, antropologiche. Mi spiego meglio. Uno dei principi fondamentali dell’odierna ‘metafisica’ è il Principio Antropico il quale, basandosi su alcune premesse di carattere scientifico e soprattutto fisico (sono infatti premesse derivanti dalla considerazione delle forze a noi conosciute), detta i parametri cosmologici e l’affermazione perentoria sull’esistenza dell’universo in funzione dell’esistenza umana, affinché quest’ultima possa contemplarlo: è la cosiddetta versione ‘forte’ del Principio. Si tratta di pura 7 Ibid. pagg. e segg. Relatività di Einstein in campo antropologico. Perché questa digressione? Il Principio Antropico spiega chiaramente quella strana evoluzione tecnologica degli OVNI/UFO e degli stessi extraterrestri affatto parallela alle conquiste tecnologiche e di pensiero dell’uomo. Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 60 Le differenze tra i dischi volanti e gli alieni degli Anni ’50 e quelli odierni – transitando attraverso decenni – sono sotto gli occhi di tutti. In principio erano acciaio spinto da carburante nucleare; oggi sono proiezioni ologrammiche oppure oggetti in grado di deformare lo spaziotempo intorno a loro. Un tempo erano motori atomici, oggi sono propulsioni ‘a curvatura’. L’evoluzione degli avvistamenti ma soprattutto l’evoluzione di considerazione tecnica degli oggetti, viaggia di pari passo con quella tecnologica della nostra umanità, senza considerare gli aspetti archetipali del buio e del profondo ovvero la presenza di basi nello spazio profondo, oscuro, il fenomeno USO (Unidentified Submerged Objects), la presenza aliena in aree sotterranee ‘alla Verne’ o nel cuore, sempre buio e profondo, delle montagne (senza citare gli Stati Uniti o i misteriosi bunker di Tunguska, noi qui in Italia consideriamo il Monte Musinè situato in Piemonte al principio della Val Susa una base aliena da tempo immemore8). Così come la versione forte del Principio Antropico caratterizza l’universo in quanto oggetto non solo compatibile con l’esistenza dell’uomo ma persino funzionale ad essa9, lo stesso Principio guida l’interpretazione aliena nel corso dei decenni rendendola funzionale alla tecno-evoluzione umana. Vuol dire che gli alieni non esistono? Tutt’altro, ho appena scritto che l’intera comunità scientifica tranne il C.I.C.A.P. considera la possibilità di intelligenza extraterrestre come una possibilità addirittura di incontro futuro e non una mera statistica stante l’osservazione del cosmo. A questo proposito esiste persino una procedura internazionale in caso di acclarato e reiterato contatto alieno (IAA - SETI Protocol), ovvero un protocollo preparato dal comitato dell’Accademia Internazionale di Astronautica per il SETI così articolato: - Dato per certo il contatto, l’informazione giungerebbe immediatamente al Segretario Generale ONU - Egli darebbe l’annuncio al pianeta Partono una serie di consultazioni internazionali per decidere se rispondere o no al segnale L’ok finale spetta all’Assemblea ONU In caso affermativo, la risposta non è da parte di Stati singoli ma collegiale dell’umanità Tale messaggio dovrà essere reso pubblico prima di trasmetterlo Nessuna iniziativa ‘personale’ se non previa concertazione planetaria10 E questo in risposta ai complottisti a proposito degli argomenti precedenti in merito ad una presunta ‘detenzione nell’oscurità di comprensione’ a danno delle persone. Il tema antropocentrico mi è particolarmente d’interesse perché legato ad una film-conference che sto preparando a proposito di Atlantide dove i processi di riflessione sullo scomparso supercontinente (e relativa superciviltà) sono affatto simili al fenomeno OVNI/UFO così come ne parlo in questo articolo. Un esempio su tutti è che nell’immaginario comune, fino a non molto tempo fa, le rovine di Atlantide erano identiche alle rovine dell’Acropoli ateniese o dei Templi di Selinunte solo che a centinaia di metri sotto la superficie dell’oceano: in sostanza tale proiezione proviene dal fatto che sia un ateniese, Platone, a parlarne in maniera approfondita. Le immagini mentali si formano anche ‘per simpatia’, né più né meno del feedback sonoro sulle corde di chitarra quando si eseguono degli armonici. Il principio antropico, o antropocentrico, ha riversato tutte le sue caratteristiche anche all’interno di questo caso. Detto Principio ha fatto proprio il concetto di substantia presente nella lunga digressione aristotelica de La Metafisica, di fatto sostituendo la Sostanza con il significato ultimo dell’esistenza umana: - contemplare, godendone, ciò che ci circonda. In soldoni, la realtà parteciperebbe della presenza umana ed il suo fondamento ultimo sarebbe la 8 Vedi G. A. Dembech – Musinè Magico – Piemonte in Bancarella 1976 9 Ibid. La Vita nell’Universo – pagg.205 10 Ibid. pag. 192 61 sovranità assoluta dell’umanità stessa sul significato di Essere. Essendo io un Membro Permanente e Fondatore ASPIS, è lecito chiedere che cosa ne pensino gli uomini dell’Associazione in tal senso ed è corretto che io risponda prontamente. Il sito www.roswell47.it, di proprietà ASPIS, è nato appunto per questo motivo. Presto sarà inglobato in www.associazioneaspis.net in una rubrica apposita che approfondisce il tema di questo articolo. Nella pratica io e ASPIS siamo sostanzialmente convinti di questi punti: Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 - - La possibilità di esistenza intelligente aliena è assoluta ma non necessariamente interagente La paleoastronautica è solo un’ipotesi e peraltro sfruttata a fini di business I fenomeni legati al tema UFO sono probabilmente, in percentuali quasi assolute, artefatti La percentuale del fenomeno UFO non spiegabile nasconde una storia dell’umanità ancora inenarrabile allo stato culturale odierno Questo fenomeno potrebbe essere legato alla presenza di un’antica e dimenticata umanità Ho coniato io stesso l’espressione ‘antropologia di frontiera’ nei confronti del testo ‘Schiavi degli Dei’ di Biagio Russo e mi sono tirato addosso l’ira funesta di molti quando ho definito la ricerca del Membro Permanente ASPIS ‘neo-evemerismo reale’, ma è così. È un problema di punti di vista. Facciamo un esempio: l’interpretazione aliena dei crop circles, in particolar modo l’evoluzione simbolistica degli ultimi anni, stabilisce che dette manifestazioni siano un modo per comunicare l’origine univoca di ogni simbologia, specialmente sacra, derivata da una civiltà aliena creatrice della nostra umanità e da parte di questa stessa specie extraterrestre. Ancora una volta, il Principio Antropico – applicato al contesto storico – detta le sue condizioni psicologiche. È molto banale: - Quando si viaggia indietro nel tempo, si tende ad uniformare l’origine e non a differenziarla: a riprova vi è la visione puntiforme dell’inizio del tutto (dai termini - - - ‘scintilla’ ai credi dell’uovo cosmico, dallo Jod ebraico - punto primordiale, transitando per l’Uno plotiniano fino alla ‘mistica positivista’ del Big Bang) Il Principio è Uno e quindi non solo universale ma ‘uni-verso’ cioè derivante da una sola strada: ecco le origini univoche dei Miti (spesso i popoli narrano di padri provenienti da un’isola in mezzo ad un mare sconfinato) Potremmo definire questo processo mentale, mutuando un’espressione dalla Giurisprudenza, ‘reductio ad unum’: la possibilità di comprensione culturale facilitata di remote età, patria dell’oblio più che della memoria È più semplice pensare ad un intruso piuttosto che ad un’origine comune di un fenomeno inspiegabile La tematica aliena non è infatti esente da questi parametri: la civiltà aliena è quasi sempre ‘una’, il pianeta è abitato dai ‘grigi’ o dai ‘rettiliani’ o dai ‘pleiadiani’. Si immagina (ad esempio) un globo terracqueo – affatto analogo a Gaia – pieno di rettili Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 62 antropoidi: a nessuno, o quasi, viene l’idea di chiedere se a nord essi siano albini o biondi e intorno all’equatore di pelle più coriacea e nerastra a causa delle difese dai raggi perpendicolari della loro stella-Sole. È la fotocopia dell’immaginario comune ellenizzante di Atlantide. Inoltre, per continuare nel ‘delirio antropico’, detta civiltà aliena produrrebbe simboli agroglifi a partire dal XX Sec. a.C. ovvero dalla tradizione orale dell’Ebraismo: ma allora perché non raffigurare la Dee Madri di oltre 30.000 anni fa? Sono convinto che il fenomeno crop circle non sia legato ai nostri tempi: secondo Michael Hesemann vi sono tracce di testimonianza in tal senso da parte dei primevi abitanti del South England, soltanto che, in mancanza di coltivazioni a grano, orzo e colza, le ‘tracce circolari’ erano petroglifi. Se dovessi tornare dai miei pronipoti dopo un’assenza di decenni, per non turbarli, invierei (prima di presentarmi di persona) messaggi rassicuranti sulla condivisione di conoscenze di parentela o su eventi, aneddoti e racconti comuni all’intera ‘famiglia’. Perché quindi pensare ad extraterrestri e non ad esoterrestri o – peggio – ‘ex-terrestri’? Non vi è risposta al momento e se vi fosse questa troverebbe udito avverso rispetto alla più accomodante, al paradosso, ‘origine altra’ della nostra storia. Perché? Perché pensare ad una umanità fuggita via e trasformatasi in ‘aliena’ è molto più inquietante di un’invasione extraterrestre toutcourt. Termino con una domanda: il terrore pervaderebbe le nostre membra molto di più qualora di notte sentissimo forzare la porta d’ingresso oppure vedessimo dallo spioncino l’arrivo di un parente, un amico dati per morti molti anni prima? Bibliografia essenziale 63 MOTHMAN, SPRING HEELED JACK e altre Creature Misteriose di Gianluca Rampini Mi dicono che talmente tanta gente ha visto oggetti simili ad astronavi che qualcosa di vero ci deve essere... forse c'è, ma pensate a tutta la gente che nel corso della storia ha visto fantasmi, spiriti o angeli. Non è quello che si vede ad esser sospetto, ma come lo si interpretai. Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 Isaac Asimov Ogni tanto mi sento un po' Fox Mulder nel rincorrere casi che agli occhi dei più sembrano quantomeno strampalati, inclassificabili, inconsueti in un mondo inconsueto. Ciò che mi guida, un po' come succedeva all'agente del Fbi, ormai prossimo al ritorno sugli schermi, è l'intuizione che dietro queste “anomalie” vi si nasconda un filo conduttore che potrebbe aiutare a comprendere qualcosa del vasto mistero del paranormale. Dopo anni spesi nell'inseguire i dischi volanti in quanto tali, il mio approccio è mutato verso una prospettiva più fortiana verso questi temi, secondo la quale nulla può essere veramente tralasciato, purché venga affrontato con serietà ed obbiettività. Nel caso specifico ho voluto mettere in relazione due casi molto particolari che a mio parare hanno dei punti di contatto, se non altro nella loro unicità. Mi riferisco alle apparizioni del Mothman ( L'uomo falena ) e del più antico Spring Heeled Jack ( Jack dai tacchi a molla ). Il primo ha terrorizzato i cittadini di Point Pleasant nel 1967, il secondo sopratutto sventurate ragazze della Londra di fine '800. La maggior parte delle informazioni sul primo derivano principalmente dal lavoro di John Keel che ha vissuto in prima persona gli eventi tragici associati all'Uomo Falena ( storia che varrebbe da sola la pena di essere analizzata ) mentre per quanto riguarda lo Spring Heeled Jack mi sono affidato alle notizie dei giornali dell'epoca. In questo sono stato facilitato dal lavoro di Mike Dash che ha raccolto tutte le testimonianze disponibili. C'è anche da dire che Dash lo ha fatto con l'intento di demistificare questo personaggio, di i “The Mothman Prophecies” by John Keel. dimostrare che in realtà non esiste nessun collegamento con l'ufologia. Partendo da quest'ultimo presupposto, con il quale concordo nello specifico, non vi è nulla di “alieno” in questo caso, ( molto di più nel caso del Mothman, come vedremo ) ho potuto approfittare della sua onestà nel riferire di questi casi proprio grazie al suo scetticismo. Detto questo, a mio parere, analizzando i resoconti rimane una buona dose di “paranormale” non del tutto spiegabile. Va tutto preso con la giusta dose di dubbio proprio per la mancanza di testimoni diretti ma questo vale per molti argomenti che non devono per questo essere accantonati. Entriamo ora nel dettaglio degli avvenimenti. Quello che segue è il primo resoconto completo che ci risulta, anche se le voci su Spring Heeled Jack già circolavano. Spring Heeled Jack. 20 febbraio 1838. Protagonista principale è Jane Alsop, diciottenne che vive insieme alla famiglia in un cottage poco fuori Londra. La scena di svolge di sera, dopo il tramonto. Qualcuno suona il campanello e Jane esce a vedere chi suonasse a quell'ora. Raggiunge il cancello, poco distante dalla casa, dove trova una persona piuttosto alta che le dice di essere un poliziotto e di aver catturato Spring Heeled Jack. Con tono concitato le chiede una lampada. La ragazza corre in casa e torna dall'uomo con un candela. Quando questi la prende Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 64 la situazione cambia all'improvviso. La figura si toglie il mantello che indossava rivelando il suo grottesco aspetto. Due occhi rossi fiammeggianti, uno strano elmetto, una specie di armatura luccicante ed una sorta di lampada attaccata al petto. Sgomenta Jane rimane inizialmente immobile. Jack ( lo chiameremo così per semplicità, n.d.a. ) coglie l'occasione e attacca la ragazza lanciandole palle di fuoco bianco e blu sulla faccia. Le afferra il vestito e la testa. Aveva artigli al posto della mani, dai quali Jane riesce a divincolarsi, strappando i capelli dalla sua presa e rimanendo ferita ad un braccio. Le sue due sorelle le vengono in aiuto ed una volta rientrata Jane sbarrano la porta chiudendo fuori Jack che picchia sulla porta svegliando tutta la famiglia. Tutti insieme si rifugiano al piano superiore gridando per attirare l'attenzione della polizia. A questo punto Jack Sparisce. ( The Times 22 febbraio 1838 ). Oltre all'episodio paradossale di per se, è interessante notare che forse il nome Spring Heeled Jack se lo sia dato lui stesso. 18 febbraio 1838. Due giorni prima del episodio che ha coinvolto la Alsop. Protagoniste anche questa volta sono due giovani ragazze londinesi, Lucy Scales e sorella passeggiano per i vicoli nei dintorni del porto, recandosi dal fratello macellaio, quando imboccato uno stretto passaggio si trovano di fronte un personaggio molto simile a quello descritto dalla famiglia Alsop. Alto, con uno strano copricapo ed una specie di lanterna sul petto. Sopratutto, anche Lucy come Jane, viene attaccata da un fuoco blu che le viene sparato in faccia. ( Morning Post, 7 marzo 1838 ). Nell'autunno del 1837 stessa sorte tocca ad un'altra ragazza, Polly Adams, che subisce lo stesso trattamento con il fuoco ed i vestiti strappati. Nel 1845 Jack sembra persino macchiarsi di un omicidio, seppure le conferme di questo episodio non siano certe. Maria Davis, giovane prostituta sarebbe stata aggredita, afferrata con gli artigli e, dopo aver ricevuto la solita fiammata sulla faccia, gettata nell'acqua melmosa delle fogne, dove sarebbe poi deceduta. Per molti anni poi di Spring Heeled Jack non si sente più parlare, se non per casi sporadici e non certamente riconducibili a quelli sin'ora descritti. Alcuni descrivevano un “fantasma” in grado di saltare come una capra e oltre i muri come un gatto. Il resoconto, più dettagliato, successivo, compare appena nel 1877. Anche l'ampio arco di tempo è un elemento di cui tener conto. Il caso si verifica ad Aldershot, quartier generale dell'esercito, dov'erano stanziati più di diecimila soldati. Li Jack si sarebbe arrampicato sopra le postazioni di guarda ed avrebbe passato la sua fredda mano metallica sul volto delle sentinelle, per poi fuggire saltando oltre le mura. I militari avrebbero fatto in tempo a sparargli senza mai riuscire a colpirlo. Jack comparve nei pressi della presidio altre volte, effettuando altri incredibili salti e aggredendo le guardie, senza che mai riuscissero a fermarlo. ( Sheldrake’s Aldershot & Sandhurst Military Gazette, 17 marzo 1877 ). Dopo un'altra serie di apparizioni, i cui resoconti sono meno dettagliati e più incerti, l'ultima in termini cronologici avviene nel 1904, a Liverpool. Qui, nei pressi di William Henry Street avrebbe terrorizzato molte persone saltando su e giù dai tetti anche in pieno giorno. ( The leaping horror of Liverpool’, Liverpool Daily Post 25 Jan 1967 ). 65 Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 Per completare la descrizione che ne deriva dai giornali dell'epoca vale la pena aggiungere, a titolo di riassunto, qualche altra descrizione: − Spring heel Jack venne visto attaccare un numero di donne con artigli d'acciaio ed aveva un aspetto da diavolo. ( The morning Chronicle, 10/01/1838 ) − Venne visto saltare sui palazzi a mezzanotte, fare salti di una lunghezza “fantastica”.( The Morning Chronicle, 11/01/1838 ) − Vi furono alcune persone che morirono di paura ( The Times, 11/01/1838 ). − Furono notati i suoi stivali con tacco alto e venne descritto un salto che nessun uomo potrebbe fare. ( Camberwell&Peckam Times, 9 novembre 1872 ) Sia all'epoca dei fatti che al giorno d'oggi molti credono non fosse altro che un impostore. Ammettendo che la cosa in sé è sempre possibile rimane da capire come fosse capace di simili “prestazioni” e di come potesse aver messo così tanta paura a una città che, fra le altre cose, si stava confrontando con Jack lo Squartatore. Come detto gli impostori ci furono ma furono catturati, nonostante Spring Heel Jack poi continuasse nelle sue acrobatiche gesta. Uno fu un certo Daniel Granville, un giovane che venne trovato con una maschera ed una carta blu luccicante con la quale simulava il fuoco bluastro. ( Morning Post , 20 marzo 1838 ) Un altro fu James Painter beccato mentre indossava un lenzuolo ed una maschera barbuta. Venne multato di quattro sterline e rilasciato. ( The Examiner, 25 marzo 1838 ) A Spring Heel Jack vennero anche associate apparizioni di tipo completamente diverso. Questo in qualche modo ci avvicina al secondo protagonista di questo articolo. In un caso “un essere a 4 zampe, dalle sembianze di un orso, comunque peloso, apparve ad un giardiniere che per fuggire si arrampicò su un muro di cinta coperto di vetri rotti. Dopo un breve inseguimento, anche i cani ne erano terrorizzati, l'essere si arrampicò su un muro e scomparve”. ( Brighton Gazette, cit. in The Times 14 marzo 1838 ). Vi furono poi una serie di altre apparizioni simili in giro per l'Europa. Durante la seconda guerra mondiale si trova una citazione di un certo Spring Man nella Rep. Ceca. Altri personaggi curiosi vengono assimilati a Jack con nomi altrettanto fantasiosi. Halifax Slasher, Razorblade Man a Praga, Hippermannchen ( Sassonia 1950,51 ) o Spiralhopser.1 ‑ Viste le numerose testimonianze io tendo a credere che perlomeno lo Spring Heel Jack originale abbia realmente terrorizzato le strade buie dell'Inghilterra vittoriana. Detto ciò è ovviamente impraticabile che un ipotetico impostore avesse realmente degli stivali a molla. E' quindi inutile andare a cercare conferme in questo senso. Stesso discorso per la questione delle fiamme blu. Non ha molto senso, secondo me, andare a cercare conferma nei resoconti dell'epoca di eventuali bruciature sulle sventurate ragazze. Non credo si tratti di trucchi fisici o chimici. Quindi contrapponendo il volume e la qualità delle descrizioni alle singolari peculiarità di questo personaggio ritengo sia un fenomeno più simile a quello delle fate e degli gnomi. Associabile molto più al folklore che ad un caso criminale o persino che ad un caso di origine extraterrestre. Ma non per questo meno reale. Come abbiamo visto, sebbene ci siano casi vagamente somiglianti, Spring Heel Jack rimane un caso piuttosto unico e a sé stante. Mi riesce quindi difficile pensare sia solo un “mito” incarnatosi su precedenti credenze in fantasmi o simili. Vi sono anche stati alcuni impostori che si è presto dimostrato non aver nulla a che fare con il vero Jack. Si è ipotizzato allora che il responsabile potesse essere un certo Marchese di Waterford, senza poterlo mai dimostrare. Unire una potenziale invulnerabilità ad un notevole ingegno, al rischio di scherzare con il fuoco, a notevoli doti di atletismo e non poca fortuna, è un esercizio complicato. E' questo il motivo per cui alla fine ritengo non si sia mai trovato un responsabile. Un simile impostore è davvero difficile da ipotizzare. Mothman. Trovo sia evidente che la realtà che si nasconde dietro il fenomeno complesso del folklore abbia la 1! “The Spring Heeled Jack, to victorian bugaboo from sub-urban ghost” by Mike Dash. Fortean Magazine. Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 66 capacità di adattarsi alle “aspettative” nel tentativo di ) e dei suoi rapporti con John Keel. Per il resto tutte conformarsi al periodo storico a cui appartiene. le altre domande che rivolse a Connie e al marito Motivo per cui un tempo le persone venivano rapite erano prive di senso, come se tentasse di dalla fate per scopi riproduttivi e vedevano le case destreggiarsi con una lingua non sua o avesse le delle fate volare ed al giorno d'oggi sono gli alieni a idee molto confuse. prelevare i rapiti a bordo dei dischi volanti. In taluni La stessa Mary Hyre ricevette una visita di Jack casi, più rari, invece tale fenomeno assume Brown che le chiese “cosa avrebbe fatto se connotati totalmente singolari, forme straordinarie qualcuno le avesse ordinato di smettere di meno inquadrabili. Due esempi di questo tipo sono pubblicare articoli sugli ufo”. appunto Spring Heel Jack ed il Mothman. Vale la pena riassume la descrizione che i vari Quest'ultimo, a differenza dell'altro, ha delle testimoni fecero di Jack Brown. Aveva la pella connessioni con il fenomeno ufo. Non dirette, scura, i tratti del volto orientali, dita molto lunghe. perché non esiste nessuna testimonianza che lo Guidava o risaliva sempre su una Cadillac d'epoca associ ad alieni o dischi volanti, ma certamente così perfetta che sembrava appena uscita dalla circostanziali in quanto esso comparve in fabbrica. Anche i vestiti, sempre troppo abbondanti concomitanza di una straordinaria ondata di oggetti e da pochi soldi, sembravano sempre nuovi. Parlava non identificati, di contatti con supposti alieni ed un inglese stentato, spesso con frasi sconnesse, insoliti personaggi. fuori luogo. In alcuni casi i testimoni hanno notato Tra tutti i casi di avvistamento di ufo importanti nel che non sapeva tagliare la bistecca, usare la contesto del caso Mothman, anche se avvenuto forchetta ed in un paio di casi ha tentato di bere la successivamente e altrove, vi è quello di Eddie gelatina. Webb. Nel 1973, in Missouri, Eddie avvistò una luce Il legame tra Jack Brown e il Mothman si ripetè mentre guidava assieme alla moglie. Si affacciò al ancora in altre occasioni. La connessione erano finestrino per osservarla meglio e ne rimase sempre i testimoni ai quali però non chiedeva mai accecato ed ustionato a tal punto che la moglie lo dell'avvistamento. portò poi in ospedale. Il 23 dicembre del 1967, Linda e Roger Scarberry Questo tipo di effetto fisico si riscontra anche in un tornavano a casa dall'ospedale, dove era appena caso di incontro con l'Uomo Falena, caso che ci nata la loro prima figlia. Entrambi avevano visto il introduce nell'argomento. Il 27 novembre del 1966 Mothman un anno prima. Giunti a casa, dopo la Connie Carpenter, nella periferia di New Heaven in visita di amici, parenti e interessati agli Ufo e West Virginia, si imbattè in una figura grigia, dalla all'Uomo Falena, ricevettero anche la visita di Jack forma umana, solo molto grande e robusta. La Brown. Abituati a ricevere ospiti lo fecero entrare creatura aveva occhi rossi fissi su di lei che li senza porsi troppi problemi. Jack portava con sé un descrisse come ipnotici. Mentre la osservava la grosso registratore che però dimostrò di non saper creatura spiegò le ali ( circa tre metri di apertura usare e di non saper collegare alla rete elettrica. alare ), si alzò in volo senza però battere le ali e la Anche in questo caso pose domande vaghe, inseguì. Connie riuscì a scappare accelerando a distratte, sostanzialmente stupide. Non citò mai il tavoletta. Subito dopo questo incontro la ragazza Mothman ma si interessò a John Keel e come lo ebbe occhi arrossati e lacrimanti per due conoscessero ecc... Per quanto ne sappiamo settimane questa fu l'ultima apparizione di Jack Brown. 2. All'epoca degli eventi molti strani personaggi si aggiravano Altriper personaggi il West Virginia, simili a individui si presentarono che diedero ai testimoni, vita alla mitologia dei All'epoca degli eventi molti strani personaggi si in alcuni casi qualificandosi come militari o agenti aggiravano per il West Virginia, individui che diedero governativi, il che diede vita alla mitologia dei Men vita alla mitologia dei Men in Black. Uno di questi, in Black, per come li conosciamo adesso. In realtà, che si presentò come Jack Brown, fece visita a come Keel ebbe modo di verificare, non erano Connie un anno dopo l'incontro con il Mothman affatto agenti o militari, i nomi non corrispondevano chiedendo informazioni sulla giornalista Mary Hyre mai e spesso le agenzie nemmeno ( coinvolta assieme a Keel negli eventi del Mothman 3. Addentriamoci ora più dettagliatamente nei resoconti sulle appa ‑ ‑ 2 “The Mothman Prophecies” by John Keel. p. 24. 3 “The Mothman Prophecies” By John Keel p. 34. Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 67 Addentriamoci ora più dettagliatamente nei resoconti sulle apparizioni dell'Uomo Falena. Una delle prima è quella che vide protagonista Connie Carpenter, che abbiamo descritto precedentemente che accusò poi la congiuntivite. 15 novembre 1966. Due coppie di giovani, Roger e Linda Scarberry, Mary Marlette ed il suo fidanzato, passando con la macchina accanto ad un area isolata, denominata Area TNT, dove durante la guerra si producevano esplosivi ( quest'area divenne centro focale di molti avvistamenti del Mothman ) videro due punti luminosi rossi del diametro di circa 5 cm ad un dozzina di cm l'uno dall'altro. Sembravano appartenere ad un grosso animale “Sembrava un uomo, ma molto più grosso” lo descrisse Roger Scarberry. “2 o 3 metri di altezza e con 2 grosse ali”. Camminava incerto su due gambe dall'aspetto umano. Impauriti scapparono sulla Route 62. Rividero l'essere, o uno uguale, su una collinetta. Mentre gli passarono accanto l'essere spiccò il volo e li inseguì. Per provare a sfuggirle accelerarono fino a 160 km orari, inizialmente senza successo. L'essere pareggiava la loro velocità senza mai sbattere le ali. I quattro testimoni dissero che “squittiva” come un topo. Quando alla fine l'essere scomparve i quattro amici si precipitarono nell'ufficio dello Sceriffo dove incontrarono il suo vice, Millar Halstead che, come affermò in seguito, li conosceva da sempre e li prese sul serio. Lo sceriffo poi accese la radio dalla quale uscì un rumore assordante che sembrava un disco suonato troppo velocemente. Molte altre volte telefoni, radio e apparecchiature elettroniche non funzionarono o funzionarono in maniera anomala nel periodo dell'ondata di avvistamenti. Lo Sceriffo George Johnson indisse una conferenza stampa durante la quale raccontò l'accaduto. Uno dei report presenti, nel riportare la notizia alla stampa nazionale, si inventò il nome “Mothman” derivandolo dalla somiglianza con Batman. Il fatto che lo sceriffo abbia indetto una conferenza stampa ufficiale, dando completamente credito ai testimoni ed assumendosene la responsabilità, dimostra che la faccenda venne presa molto sul serio e che non c'era molto spazio per uno scherzo o per una truffa. Sera del 11 novembre 1966. Sembre nei pressi dell'area TNT. Raymond Wamsley, la moglie Mariella Bennett e la figlia Teena, videro con non poca sorpresa un oggetto volante luminoso, che non seppero riconoscere. Erano diretti a casa di amici, la famiglia Thomas, che viveva in un bungalow tra le costruzioni abbandonate dell'area TNT. Non li trovarono a casa, dove c'erano solamente i figli Richie, Connie e Vickie. Mentre parlavano con loro sentirono un colpo di fucile dalle parti del vecchio generatore ( sempre parte dell'area TNT ). Poi da dietro la macchina si alzò da terra “una grossa cosa nera, più alta di un uomo, con occhi luminescenti, con terribili occhi rossi luminescenti”. La cosa era priva di testa e aveva ali gigantesche dietro la schiena. Si chiusero tutti dentro casa. Sentirono un rumore sul portico e videro i due occhi rossi guardare dentro dalla finestra. Le donne ed i bambini diventarono isterici. Chiamarono la polizia ma prima che arrivasse la creatura era scomparsa. 25 novembre 1966. Thomas Ury, commesso di un negozio di scarpe, stava recandosi al lavoro percorrendo la Route 62 a nord dell'area TNT. A lato della strada, in un campo, vide una figura alta, umanoide. “Spiegò un paio di ali e decollò verso l'alto come un elicottero, virò sopra la mia macchina e cominciò a volare in cerchio ad un altezza di 3 volte un palo della luce”. Ury accelerò fino a centoventi chilometri orari ma la creatura si avvicinò continuando a seguirlo per un po' di tempo dopo il quale scomparve alla vista di Ury. Questi denunciò l'accaduto allo sceriffo e lo raccontò anche a Mary Hyre, cronista locale. “Non ho mai visto niente di simile... ero così spaventato da non poter andare a lavorare... una Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 68 paura irrazionale”. In tutto i testimoni diretti dell'Uomo Falena furono circa un centinaio tra il 1966 ed il 1967. Vale la pena, per rendere ancor più l'idea di quanto fosse assurdo questo periodo, di citare ancora un paio di episodi che hanno coinvolto gli strani personaggi alla Jack Brown o strane apparizioni. Alcuni si presentarono come “incaricati del censimento” particolarmente interessati al numero di bambini nella famiglie ( l'interesse per i bambini è tipico di molti contesti, a partire da quello del piccolo popolo in varie parti del mondo, a quello degli alieni nei tempi più recenti. Nel primo caso questo interesse trapela da molte fiabe che ancora oggi leggiamo ai nostri figli. Da Tremotino, a Rapunzel, il folletto vuole il figlio che deve nascere in cambio dei suoi servigi ). Il 9 gennaio del 1967 uno strano personaggio si presenta alla porta della famiglia Christensen. Si presenta sostenendo di cercare un Edward Christensen per una questione di eredità. In un taschino portava un distintivo che si affrettò a nascondere. Portava vestiti troppo grandi per lui e troppo leggeri considerata la stagione. Quando poi si sedette sul divano dei Christensen questi notarono un cavo verde che dalla calza spariva sotto i pantaloni. Aveva inoltre un pallore innaturale e parlava in modo bizzarro scandendo le parole come lo avrebbe fatto un computer. Come in molti altri casi le scarpe avevano una suola di gomma molto spessa e sembravano appena uscite dalla scatola. I coniugi si ricordarono che il tizio si presentò ma riuscirono a ricordare solo che si faceva chiamare “Tiny” ( piccolino, nda ). Quando se ne andò, la questione dell'eredità non riguardava Edward ed in generale sembrava una scusa, una volta in strada fece un cenno ed una macchina, una Cadillac, uscì da dietro alcuni alberi a fari spenti. Salì sulla macchina che sempre a fari spenti ripartì. L'11 gennaio 1967 Mabel McDaniel mentre passeggiava nei pressi del ristorante “Tiny's” ( una delle tante strane coincidenze ) vide uno strano oggetto sorvolare la Route 62. “Mi parve di vedere due gambe... che penzolavano. Volò basso, in cerchio, sopra a Tiny's e poi si allontanò”. Le ali erano immobili e non si sentiva alcun rumore. 4 www.nytimes.com 5 “The Mothman Prophecies” By John Keel p. 38. 6 www.cryptomundo.com Altri uomini alati. Per quanto, come detto, il Mothman sia un caso veramente unico ci sono stati altri casi nel corso degli anni, di avvistamento di “uomini alati” o “uomini uccello”. Sul New York Times del 12 settembre 1880 4 vi è un articolo che descrive l'avvistamento da parte di oltre mille senza dubbio un uomo che indossava ali da pipisterllo” e non era un inventore ma certamente un criminale. ‑ Il 29 luglio 1880, come accennato anche dal New York Times vi fu un avvistamento in Kentucky, a Luisville, riportato dal Luisville Couries Journal. In questo resoconto la ali sembravano più qualcosa si meccanico5. Nel Nel 1952 a Kyoto, un militare della base base militare statunitense Camp Okubo, era di guardia notturna. Sentì un rumore simile ad un battito di ali e poi vide una creatura alta tre metri e con tre metri di apertura alare. Nello stesso periodo vi fu la testimonianza di un sergente e di altre persone che riportarono di aver visto uccelli giganti6. Nel giugno del Nel giugno del 1948, a Chehalis nello stato di Washington due uomini videro “tre uomini pipistrello” volare in cerchio. Secondo le testimonianze avevano casco e tuta. Nel gennaio dello stesso anno, sempre a Chehalis la sessantunenne signora Zaikowsky raccontò ad un ufficiale del McChord Fields che alcuni bambini, tornando da scuola, le ‑ ‑ 69 chiesero se potevano andare nel suo cortile per qualche modo preannunciato o condotto a questo vedere meglio un essere alato. Mentre parlavano lei tragico epilogo. Non è stato semplice folklore, non sentì un suono, uno sfrigolare, un sibilo. Seguendo sono stati racconti o scherzi di ragazzi annoiati. quel rumore avvistò l'uomo alato che si librava sopra Difficile ipotizzare cosa o perché proprio il suo granaio. Aveva lunghe ali argentate “legate” quell'angolo del West Virginia sia stato scelto come alle sue spalle. La strana figura prese quota, virò teatro di queste apparizioni. Difficile intravedere un volando in tondo e poi significato in questi episodi ed in tutti gli altri s p a r ì descritti, a cominciare da quelli dello Spring Heeled 7. Il 30 aprile 1948, Chris Dunn, ispettore del U.S. Steel dichiarava Jack. Dietro “ alle quinte di questi misteri vi Il 30 aprile 1948, Chris Dunn, ispettore del U.S. dev'essere un regista un po' folle ed un po' geniale, Steel dichiarava “Pensavo che le persone che che vuole forse raccontarci qualcosa usando una raccontavano di aver visto quella cosa vedessero simbologia che ancora ci sfugge ma che non insetti, finché non ho guardato il cielo ieri notte. possiamo ignorare. Batteva le ali e volava veloce alla quota di un chilometro. Sembrava emanare una lieve luminescenza, non emetteva rumore... non potevo credere ai miei occhi”. La testimonianza fu raccolta da Charles Hertestain, assistente del sindaco, il quale aveva deciso di indagare dopo le numerose lettere di protesta dei cittadini riguardo il misterioso uomo uccello8. Il Il 18 giugno 1953 in Texas, Hilda Walker, vide un uomo con ali di pipistrello ripiegate sulla schiena appollaiato su un albero. La creatura emetteva un'aura di luce che si affievolì sino a che scomparve. Sembrava indossare un c a p p u c c i o 9. Questo avvistamento venne confermato da un altro testimone, Howard Philips, un ispettore industriale10. In questo caso v E come questi vi sono molti altri casi, che variando nei dettagli sono più o meno tutti di questo genere. Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 ‑ ‑ ‑ Conclusioni. Per concludere questa digressione su questa serie di incomprensibili avvistamenti voglio tornare un attimo al caso del Mothman. Mary Hyre, protagonista assieme a John Keel, di molti degli episodi di quel 1967 nel dicembre di quello stesso anno fece un sogno nel quale vide pacchetti e regali galleggiare sull'acqua di un fiume. Il 15 dicembre il Silver Bridge che collegava Point Pleasant e Kanauga oltre il fiume Ohio crollò portando con se decine di macchine e persone molte delle quali morirono e altrettante non vennero mai più trovate. Da questo il titolo del libro di Keel “The Mothman Prophecies” e sopratutto l'idea che in qualche modo tutti gli avvenimenti di quel periodo abbiano in 7 “Mothman and other courious encounter” by Loren Coleman p. 30. 8 Vedi prec. Pag. 70. 9 “Misterious creatures: a guide to cryptozoology” by George M.Eberhart. 70 L’ALCHIMIA TRASFORMATIVA DEL ‘ROSARIUM PHILOSOPHORUM’ di Michele Perrotta Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 Questo articolo è tratto dal saggio “La Bibbia Rivelata – le quattro chiavi di lettura, i Rosa+Croce, e il Corpo di Gloria” di Michele Perrotta che sarà pubblicato nel 2015 dalla XPublishing srl. Tutti i diritti sono riservati. Nel Rosarium Philosophorum, detto anche “Rosario dei filosofi”, un testo alchemico del XIII secolo, ricco di simbologia rosicruciana (i Rosa+Croce sono successivi ma la tradizione iniziatica dell’autore è la medesima), attribuito al misterioso medico e alchimista Arnaldo da Villanova (1235-1315), troviamo scritto: “Notate bene che, nell’arte del nostro magistero, niente è nascosto ai Filosofi, eccetto il segreto dell’arte, che non è legittimo rivelare ad alcun uomo, perché chi lo facesse sarebbe maledetto, ed incorrerebbe nell’indignazione del Signore e morirebbe con la paralisi”. Questo è un monito per chi si avventura nella difficile via trasformativa alchemica senza esser degno, come per altro ci ricordano anche i cabbalisti sulla meditazione inerente alla visione del Carro di Ezechiele “Merkavah”. E’ da questo testo, oltre che da “Le Nozze Chimiche di Chirstian Rosenkreuz”, che Carl Gustav Jung elaborò la sua idea dell’Androgino come archetipo dell’essere perfetto. Nel mito dell’Androgino vi è la fusione perfetta simboleggiata dall’amore fra il dio Ermes (Mercurio/Sole) e la dea Afrodite (Venere/Luna), archetipo della trasmutazione di colei che muta le sensazioni in immagini, i sentimenti in allegorie e le emozioni in metafore, dalla quale nasce Ermafrodito (il nome stesso è la fusione delle due divinità unite dall’“amore magico”). Nel Rinascimento l’archetipo di Afrodite si manifesta sotto forma d’arte per esaltare le caratteristiche archetipiche della Dea che funge da mediatrice tra Anima ed Eros, tra Amore e Psiche, tra Ragione e Istinto. A Firenze nasce, sulla spinta di Marsilio Ficino e dell’Accademia Fiorentina frequentata dagli iniziati Michelangelo Buonarroti e Leonardo Da Vinci, una forma nuova di “simbologia esoterica” che si dispiega per immagini e che tocca il culmine nel dipinto di un altro iniziato, Sandro Botticelli, “La nascita di Venere”. L’opera del Botticelli ha una valenza esoterica non di poco conto: Venere emerge dalle acque profonde dell’inconscio collettivo per condurre l’iniziato verso quell’alchimia trasformativa che armonizza e che unisce interiormente gli opposti: il maschile e il femminile. Nel simbolismo alchemico il Sole e la Luna sono le due entità fondamentali apparentemente in antitesi tra loro e che rappresentano rispettivamente il maschile e il femminile. Dalla loro congiunzione fisica deve nascere un Ermafrodito che deve però fiorire interiormente mediante diversi processi alchemici. Nel Rosarium Philosophorum l’Ermafrodito nasce morto e nel linguaggio alchemico viene collocato in uno stato di putrefazione indicato come Nigredo o Opera al Nero. Dopo questo stadio si passa alla trasformazione mediante un secondo stadio, Albedo, per poi giungere all’ultimo processo trasformativo denominato Rubedo L’intera opera alchemica viene raffigurata attraverso le immagini simboliche raccolte nel “Rosario dei Filosfi” e viene indicata con i seguenti termini: “Putrefactio”, “Rosa Alba”, “Rosa Rubea”. A livello simbolico dal corpo in putrefazione si eleva l’anima maschile lasciando il corpo alla passività femminile. L’anima si impregna e viene vivificata nell’alto del cielo dove successivamente troviamo la purificazione attraverso l’acqua che permette all’anima impregnata dallo Spirito di ritornare al corpo dell’Ermafrodito ottenendo una nascita completa a vita nuova con ali che mostrano la volatilità simbolica di colui che può ogni cosa. Inoltre si invertono i ruoli del maschile e del femminile mediante uno stato superiore di purificazione dove, a livello simbolico, la donna diviene attiva e l’uomo passivo. Questa unione viene indicata con il termine di “fermentazione”. Nelle immagini del Rosarium Philosophorum troviamo inoltre un disco solare alato che discende nel vaso della trasformazione contenente il mercurio vivente. “Qui il Sole muore ancora ed è coperto dal Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 71 Mercurio dei Filosofi”. L’anima vivificata a nuova vita rappresenta la solidificazione. Il ritorno dell’anima nel corpo dell’Ermafrodito che prima era nato morto simboleggia la resurrezione. Tra le ultime immagini simboliche del Rosarium Philosophorum si trova la rappresentazione di un leone verde che divora il Sole. Nel linguaggio alchemico questo evento raffigurerebbe il mercurio in grado di penetrare in tutti i corpi elevandoli. Tale elemento se mescolato con un altro corpo lo anima modificando le sue proprietà. Questo Sole è tutto ciò che mediante le precedenti trasformazioni ha fino ad ora ottenuto l’alchimista e che viene ancora modificato e divorato dal Leone verde, l’Aqua Regia, l’acido verdastro che dissolve l’oro. L’acqua règia (o acido nitroclorico o acido cloronitrico o acido nitromuriatico) è una miscela, instabile a temperatura ambiente, composta da un volume di acido nitrico e tre volumi di acido cloridrico concentrati. I due acidi danno la seguente reazione: HNO3 + 3HCl → Cl2 + NOCl + 2H2O. Il suo nome deriva dalla sua capacità di sciogliere l’oro, il platino e il palladio. L’acqua règia è considerato dagli alchimisti il “Re dei metalli” in quanto praticamente inattaccabile dalle altre sostanze. Dopo quest’ultima raffigurazione le immagini si concludono con la rappresentazione del Cristo risorto, che fuoriesce dal sepolcro vittorioso. Il fine ultimo della simbologia alchemica nascosta nel Rosarium Philosophorum sembrerebbe analoga ai principi del Tantra e del Cristianesimo delle origini di matrice gnostica: liberare i principi che animano l’essere umano tramite fermentazione e la fusione dei corpi sottili affinchè si possa ottenere un nuovo corpo o una nuova vita come l’Ermafrotite, l’Androgino, il Bafometto dei Cavalieri Templari. Si tratta di modi differenti di rappresentare colui che ha ottenuto in sé la trasformazione alchemica perfetta divenendo “Corpo di Gloria”. Questa trasmutazione è strettamente connessa al numero 3. Il numero tre è presente nei Canti della Divina Commedia di Dante realizzata peraltro in terzine ed è comparabile alle seguenti tripartizioni oltre che alla trinità stessa Padre, Figlio, Spirito Santo: tre sono le virtù teologiche (fede, speranza e carità) e tre sono inoltre gli elementi alchemici, oltre che tre stadi, per realizzare l’Opus Alchimicum o “La Grande Opera” (zolfo, mercurio e sale). Lo zolfo è associato all’anima, il mercurio allo spirito mentre il sale al corpo. Tutto questo sapere nascosto alla base dell’Alchimia e che Dante, “il templare” dei Fidelis in Amore (Fedeli d’Amore) conosceva, è in sostanza l’iniziazione che, se conquistata dall’adepto, migliora l’ego e lo trasporta su un altro piano di realtà interiore più elevato dove gli permetterebbe di contemplare il Divino sotto un aspetto diretto e individuale. E’ qui, nell’intimo, che l’archetipo dell’Eterno discende nell’uomo e lo innalza fino a Lui. L’iniziato a tali misteri vive un’esperienza straordinaria quando assimila il linguaggio simbolico-ermetico-alchemico nella propria coscienza. Questi simboli fioriscono nell’intimo dell’iniziato trasportando la sua coscienza in un altro piano di realtà più elevato. L’iniziazione è una conquista che l’uomo spiritualista ottiene quando comprende il linguaggio iniziatico delle sacre scritture, colme di archetipi. L’archetipo è il modello originario ed è una verità primordiale che inconsciamente l’umanità detiene in sé. Una volta conquistato questo sapere che è alla base dell’iniziazione il mistero si dischiude ed esce il significato più profondo che viene carpito ed assimilato nella coscienza del mistico nella giusta maniera. Questo è il tesoro che con gelosia l’Altissimo custodisce per gli eletti. Con la distruzione dell’Ordine del Tempio (i Templari) iniziò il vero declino della civiltà occidentale che perse ufficialmente, salvo le confraternite che ne ereditarono i segreti, questa arcana conoscenza in grado di trasmutare l’uomo in un essere nobile e connesso all’Altissimo. In poche parole l’Occidente perse quel mistero strettamente connesso alla sapienza, di cui è archetipo Sophia. Il mistero dell’Androgino, il Bafometto venerato dai Templari, è sostanzialmente il culto di Sophia (a confermarlo è la decodificazione del nome stesso del Baphomet nel cifrario Atbash), la Dea degli gnostici che, similmente a Venere/Afrodite, riconcilia le anime pleromatiche (spirituali) conducendole nel regno di Dio. Quest’idea di archetipo femminile ci ricorda la Dea madre che nell’Inno ad Iside detiene in sé gli aspetti speculari delle contraddizioni: “Perché io sono colei che è prima e ultima, Io sono colei che è venerata e disprezzata, Io sono colei che è prostituta e santa, Io sono sposa e vergine, Io sono madre e figlia, Io sono le braccia di mia madre, Io sono sterile, eppure sono numerosi i miei figli, Io sono donna sposata e nubile, Io sono Colei che dà alla luce e Colei che non ha mai partorito, Io sono colei che consola dei dolori del parto. Io sono sposa e sposo, E il mio uomo nutrì la mia fertilità, Io sono Madre di mio padre, Io sono sorella di mio marito, Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 72 Ed egli è il figlio che ho respinto. Rispettatemi sempre, Poiché io sono colei che da Scandalo e colei che Santifica”. (Inno a Iside III-IV secolo a.C) Il culto ad Iside venne adottato per la venerazione delle cosiddette “Madonne nere”. Ancora oggi pochi sanno che il culto alle Madonne nere non ha niente a che fare con la mariologia ma ha origine proprio dalla venerazione del culto di Iside. Anche Iside, come Venere/Afrodite, è riconducibile a Sophia, la Dea della sapienza che gli gnostici ricercano perennemente per unire gli aspetti opposti situati nell’uomo e trascendere il mondo. Iside, sposa di Osiride, è l’archetipo del femminile che deve congiungersi con il maschile, come Sophia che nella gnosi vuole a tutti costi congiungersi con l’Eterno. E’ questo il fine ultimo di ogni cosa che è alla base del Tao: l’armonia degli opposti. La storia di Sophia è stata oggetto di molteplici varianti, fu l’amore dell’Eone Sophia per il Pleroma e per l’Altissimo che trasformò il suo desiderio bramoso di unirsi a Lui e che diede origine ad una caduta. Da questo evento nato da una sorta di “perversione” tuttavia una scintilla divina penetrò nella creazione materiale ed è questa che se risvegliata negli uomini riconduce l’umanità spirituale a Dio. ...Tutta questa conoscenza faceva parte di un bagaglio esoterico custodito dai Templari seguaci di Sophia. I Templari, cavalieri del tempio di Salomone, furono a tutti gli effetti dei sacerdoti-filosofi, amanti della gnosi. Erano una confraternita iniziatica che mirava all’edificazione del tempio interiore: questo è il vero significato esoterico da cui deriverebbe il loro nome “Cavalieri del Tempio”. I Templari erano monaci guerrieri che fecero voto di povertà e castità ma la loro guerra avveniva nel proprio intimo per conquistare,attraverso la via mistica, Sophia la sapienza. E’ da questo archetipo che deriva infatti il termine philo-sophia (filosofia). Questa filosofia spirituale o dottrina esoterica è una sapienza gnostico-ermetica che fu successivamente ripresa dai Fedeli d’Amore e dai Rosa+Croce. 73 LA RICERCA DI CIVILTA’ EXTRATERRESTRI di Federico Tommasi Federico Tommasi Laurea specialistica e dottorato di ricerca in fisica e astronomia, attualmente lavora come assegnista di ricerca del campo della fisica sperimentale presso l’Università di Firenze, studiando la propagazione della luce all’interno di mezzi atomici, i random laser e i sensori ottici. Si occupa inoltre attivamente da molti anni di divulgazione scientifica sia presso l’università che attraverso ulteriori gruppi e manifestazioni. Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 Introduzione L’Equazione di Drake, scritta nel 1961 dall’astrofisico Frank Drake, nacque dall’esigenza di rappresentare, in maniera semplice, intuitiva ma elegante, la nostra capacità di stimare il numero N di civiltà comunicanti (cioè in grado di inviare e ricevere segnali al di fuori del loro pianeta) nella Galassia: N =N⋆ ·fp ·ne ·fl ·fi ·fc ·fL (1) dove N⋆ è il numero di stelle nella Galassia, fp la frazione di stelle con pianeti, ne la frazione di pianeti abitabili, fl, fi e fc rispettivamente la frazione nei quali si è sviluppata la vita, la vita intelligente e una civiltà comunicante e infine fL la frazione ad oggi sopravvissuta. Data l’elevata incertezza della quale sono affetti i diversi parametri, l’equazione rimane ancora poco più che un semplice esercizio numerico e ognuno può ottenere la sua “personale” Equazione di Drake in base al suo pessimismo o ottimismo concernente la vita aliena. Naturalmente, in tale scenario l’Equazione di Drake non riesce ad assumere un significato che abbia una chiara valenza scientifica. Ad esempio, in fisica una equazione viene scritta in base ad una teoria e modello fisico e, una volta corroborata dall’esperimento e delineato il raccordo con le altre teorie dimostrate, deve essere in grado di descrivere un fenomeno ed avere un carattere predittivo su osservazioni future. Ciò non vuol dire che essa violi qualche legge fisica, ma l’Equazione di Drake può soltanto mirare alla produzione di una vaga stima a priori riguardo la diffusione di un fenomeno per il quale possediamo, non senza lacune di conoscenza riguardanti la storia e l’evoluzione, un solo caso osservabile sperimentalmente: la vita sulla Terra. Lungi dallo scopo di fornire un risultato definivo e preciso dell’Equazione di Drake, questo articolo è rivolto invece ad inquadrarla in modo più moderno, avvalendosi della reinterpretazione dei fattori e delle scoperte più recenti nel campo dell’astrobiologia. La discussione riguardante i vari parametri fornirà l’occasione di affrontare diverse questioni, alcune della quali meno note almeno dal punto di vista divulgativo. Attraverso la bibliografia suggerita nel testo, inoltre il lettore più esperto potrà approfondire la conoscenza degli argomenti trattati, qui affrontati con un taglio più divulgativo. Aggiungeremo anche ulteriori coefficienti all’equazione o ne ridefiniremo alcuni quando ritenuto opportuno. Nella Sezione 1 verranno brevemente trattate le premesse e i concetti base, cercando di giustificare le principali assunzioni ed ipotesi di lavoro. Nella Sezione 2 prima doneremo una formulazione più moderna all’Equazione di Drake e affronteremo il problema della stima dei parametri. Infine nella Sezione 3 trarremo alcune conclusioni. 1. Premesse per la Ricerca 1.1. Definizione di Vita Dare una definizione generale e caratterizzante di vita è un difficile compito che affronteremo imponendo la semplificazione secondo la quale siamo interessati ad una espressione snella, 74 operativa e del tutto generale. Quindi, armandoci di una buona dose di pragmatismo, possiamo considerare la definizione adottata nel 1992 dalla NASA Exobiology Program [1]: Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 La vita è un sistema chimico in grado di autosostentarsi e di andare incontro ad evoluzione Darwiniana Quindi, tralasciando considerazioni più specifiche oppure di natura più speculativa, la definizione è in grado di caratterizzare e riconoscere come esseri viventi un insieme qualsiasi di entità chimiche che ne soddisfi i requisiti. Non vi è indicazione sul tipo di chimica usata, ma una fondamentale importanza è invece rivestita dalla capacità e dall’attitudine da parte di queste entità di conservarsi e svilupparsi, anche in un ambiente abiotico, attraverso lo scambio di materia con l’ambiente e l’approvvigionamento di energia. Come osservò anche il grande fisico austriaco Erwin Sc hrödinger [4], le entità v iv enti s i caratterizzano anche dal punto di vista termodinamico; mentre un sistema isolato nonvivente evolve spontaneamente, in virtù del 2◦ Principio della Termodinamica, verso uno stato di massima entropia, uno vivente mantiene una bassa entropia ed una elevata organizzazione interna [5]. Ad ciò va ad aggiungersi la tendenza da parte dell’unità vivente a preservare la propria individualità attraverso una barriera, che tuttavia deve anche garantire un flusso selettivo e coordinato di materia ed energia con l’ambiente esterno. Un ruolo fondamentale è inoltre svolto dall’informazione, che queste entità devono essere in grado di immagazzinare, elaborare e copiare [2, 3]. Errori casuali durante quest’ultimo processo permettono all’insieme di queste entità di evolversi in uno o più diversi insiemi in risposta alla selezione naturale, principalmente operata da un ambiente in continuo mutamento, a volte anche repentino ed estremo. Quindi nel cercare la vita avremo anche a che fare con insiemi composti da entità il cui numero, diffusione spaziale e caratteristiche si evolvono nel tempo attraverso un processo stocastico influenzato dalla pressione selettiva indotta dall’ambiente e dalla disponibilità di energia sotto varie forme. Data la sua natura, lo stato finale di questo processo è del tutto imprevedibile, ma comunque influenzato e marcato dalla storia dell’habitat, il quale indirizza l’occupazione di diverse nicchie ecologiche e sopprime individui non più adatti ai suoi mutamenti. 1.2. Prerequisiti per la Vita Il primo fondamentale prerequisito per l’esistenza della vita e dei pianeti nei quali essa si può sviluppare è la disponibilità nel mezzo interstellare di elementi diversi (in astronomia, con diverso significato rispetto a quello tradizionale, chiamati metalli) dai primordiali idrogeno e elio. Questi vengono prodotti attraverso la nucleosintesi stellare e espulsi nello spazio nelle fasi finali della vita delle stelle. In seguito all’arricchimento di metalli, nel mezzo interstellare, nel quale l’aumento locale della densità del gas porta alla formazione di nuove stelle e pianeti, già si formano i primi composti, in particolare all’interno dei grani di polvere cosmica. La chimica basata sul carbonio e l’utilizzo dell’acqua appare l’unica soluzione conosciuta adottata dalla vita. Il fatto di assumere il ruolo chiave del carbonio nella struttura degli esseri viventi è stato criticato come una sorta di mancanza di immaginazione riguardo alle possibilità offerte da mondi alieni (“sciovinismo del carbonio”) [6]. Tuttavia, notiamo che la vita che conosciamo ha “scelto” la prima via anche se la massa della Terra è composta al 14% da silicio e solo dallo 0.1% da carbonio [7]. Il carbonio è infatti unico per la sua abilità nel formare un grande numero di molecole complesse con differenti proprietà e moltissime molecole organiche sono state rilevate nel mezzo interstellare, dove l’ammoniaca rimane l’unica molecola trovata con più di 3 atomi non contenente carbonio. Per quanto riguarda il liquido usato, l’acqua risulta essere il migliore candidato, in quanto è abbondante, stabile e si 75 trova allo stato liquido in un ampio intervallo di temperatura. Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 Quindi molti fattori suggeriscono che, con alta probabilità, la vita extraterrestre debba possedere molte caratteristiche base in comune la vita che conosciamo e che quindi una ricerca dovrebbe iniziare da condizioni simili a quelle che noi consideriamo “abitabili”. Pur correndo il rischio di proporre una visione eccessivamente antropocentrica, a questo livello di conoscenze queste sono le uniche premesse che possono portare ad un qualche risultato pratico. Ipotesi più speculative potrebbero essere anche vere da qualche parte nel Cosmo, ma nell’obiettivo che ci proponiamo adesso non ci porterebbero troppo lontano. 1.3. Abitabilità di un pianeta In questo articolo stiamo cercando di stimare il numero di possibili civiltà extraterrestri e quindi i requisiti saranno naturalmente più stringenti di quelli tollerati dalla vita di tipo batterico (pianeta biocompatibile [8]). Consideriamo quindi in primo luogo come pianeta abitabile un pianeta roccioso che supporta stabilmente e per lungo periodo acqua liquida sulla superficie, unita alla presenza di terre emerse. Assumiamo inoltre che la stella attorno alla quale orbita il pianeta sia una una stella di sequenza principale, che si tratta di una fase caratterizzata dalla fusione di idrogeno in elio nel nucleo che contrasta il collasso gravitazionale. La temperatura superficiale media a lungo termine di un pianeta dipende da numerosi fattori, quali la distanza e la luminosità della stella, l’eccentricità dell’orbita, il periodo di rotazione, la consistenza e la composizione dell’atmosfera, l’albedo, cicli di feedback negativi o positivi che si possono instaurare. La zona abitabile circumstellare (habitable zone HZ) è usualmente definita come l’intervallo di distanze dalla stella all’interno del quale deve trovarsi il raggio dell’orbita del pianeta per garantire stabilmente l’acqua allo stato liquido su almeno parte della superficie. Non è di facile individuazione, anche per via della dipendenza dalle caratteristiche del pianeta e usualmente i confini interni ed esterni vengono individuati rispettivamente da una condizione di feedback positivo apportato dall’effetto serra (runaway greenhouse) e dalla formazione di nubi di CO2 che aumentano l’albedo planetario abbassando irrimediabilmente la temperatura [9]. Mentre meccanismi di feedback negativo possono intervenire a stabilizzare la temperatura del pianeta (ciclo carbonio-silicio), a complicare il problema interviene il progressivo aumento della luminosità di una stella di sequenza principale, aumentando nel tempo entrambi i bordi della HZ. Possono essere individuate quindi delle “finestre temporali” durante le quali possono evolvesi specie tolleranti a diversi livelli di ostilità dell’ambiente. In conseguenza di ciò e ben prima dell’entrata nella fase di Gigante Rossa da parte del Sole, la Terra diverrà inabitabile, con procarioti, eucarioti e vita complessa che si estingueranno in ordine inverso la loro comparsa [10]. 2. Stima del numero di civiltà 2.1. Riformulazione dell’Equazione di Drake Nell’introduzione di questo articolo abbiamo visto come l’Equazione di Drake possa essere considerata poco più di un esercizio algebrico che, soprattutto per l’arbitrarietà o le scarse possibilità di stima di alcuni parametri, produce risultati dal significato scientifico trascurabile. Scientificamente nessuna misura o stima ha significato senza che venga trattata l’incertezza, la quale risulta essere ineliminabile ed indispensabile nel valutare un risultato. L’incertezza nei parametri che compongono una equazione si propagano fino al risultato finale, fornendo l’unico modo possibile per valutare se due misure eseguite indipendentemente siano consistenti oppure se una teoria riesce a descrivere adeguatamente un fenomeno. Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 76 Con lo scopo di fornire all’Equazione di Drake un maggiore significato scientifico, C. Maccone derivò ed introdusse l’Equazione Statistica di Drake [11], che nasce mediante l’associazione ad ogni coefficiente presente nell’Equazione di Drake (equazione 1) con una variabile casuale, la quale può assumere diversi valori dipendenti da un fenomeno aleatorio. Le variabili casuali che useremo risulteranno in particolare caratterizzate da un valore medio e da una deviazione standard, la quale rappresenta l’incertezza. Indicando con Dk il parametro kesimo dell’equazione 1, quest’ultima, dalla forma originaria di produttoria, può essere riscritta come una sommatoria facendo il logaritmo naturale di entrambi i membri: (2) dove si è rinominato lnDk con Yk, che possiede valore medio ⟨Yk⟩ e deviazione standard σYk. Si può a questo punto derivare (si rimanda alla referenza [11] per i dettagli), utilizzando il Teorema del Limite Centrale, l’espressione per la funzione di densità di probabilità per il numero N di civiltà comunicanti nella Galassia, in questo caso una distribuzione lognormale. Indicando con n la variabile deterministica associata a quella probabilistica N [12], questa funzione è: (3) quindi una curva che rifletterà la nostra conoscenza dei vari coefficienti dell’Equazione di Drake. A questo punto possiamo iniziare a lavorare sul primo parametro, cioè il numero di stelle N⋆ nella nostra Galassia, un numero che ad oggi viene stimato, con notevole incertezza tra i 200 e i 400 miliardi. Quindi, usando il nuovo approccio statistico, la stima usata in questo articolo sarà: N⋆ = (3 ± 1) · 1011, cioè un valore medio di 300 miliardi ed una incertezza di 100 miliardi. Abbiamo accennato al fatto che nella trattazione verranno ridefiniti dei coefficienti dell’Equazione di Drake, producendone anche di nuovi. Quindi, qui proponiamo di sostituire al coefficiente fp dell’Equazione di Drake originaria alcuni coefficienti che permetteranno di selezionare la frazione di stelle adatte: fp → fGHZ · ·fbin · fM · fp′ (5) dove fGHZ è la frazione di stelle nella Zona Abitabile Galattica, fbin la frazione di stelle che non appartiene ad un sistema binario o multiplo, fM la frazione di stelle con la “giusta” massa e fp ′ la frazione di stelle che posseggono un pianeta simile alla Terra nella HZ. dove (4a) (4b) La distribuzione descrive l’andamento della probabilità con la quale la variale casuale N può assumere dei valori tra tutti i possibili n (da 0 ad ∞). Anziché un semplice numero, otterremo 2.2. Zona Galattica Abitabile Il concetto di Zona Galattica Abitabile (Galactic Habitable Zone - GHZ) fu introdotto da Gonzales et al. [13] in analogia con il concetto di HZ trasportato su scala galattica. Lo scopo è quello di individuare una regione della Galassia all’interno della quale una sistema stellare può con maggiore probabilità godere di condizioni a lungo termine compatibili con la vita per i pianeti nella HZ della loro stella. I tre requisiti principali sono quindi: 1 sufficiente metallicità (disponibilità di metalli) 77 2 assenza di eventi catastrofici di portata interstellare Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 3 tempo sufficiente per l’evoluzione biologica Il primo requisito è necessario per la formazione di pianeti e viene riportato un valore critico minimo pari a circa il 10% della metallicità del Sole [14]. Tuttavia un suo valore troppo elevato potrebbe anche risultare nefasto per la presenza di pianeti di tipo terrestre nella HZ [15]; infatti un alto fattore di metallicità potrebbe favorire la creazione di pianeti giganti che possono impedire la formazione dei pianeti terrestri nella HZ. La presenza di Hot Jupiter (giganti gassosi molto vicini alla stella) è generalmente interpretata in termini di migrazione planetaria e analisi statistiche individuano una dipendenza dalla metallicità del sistema stellare [16, 17]. Per quanto riguarda il secondo, Lineweaver et al. [18] individuano una regione con una presenza sufficientemente bassa di supernove (SN) stimando un fattore di rischio di sterilizzazione dovuta alla vicinanza di questi eventi catastrofici. Alcuni lavori comunque criticano questa visione, suggerendo che la presenza di una SN vicina al sistema stellare potrebbe sterilizzare un pianeta, ma non impedire una ripresa successiva della vita [19]. Sulla Terra, gravi estinzioni di massa sono avvenute durante la storia della vita senza tuttavia completamente eradicarla e comunque senza impedire un futuro sviluppo di forme complesse. Quindi, Carigi et al. [20] predicono che la distruzione da parte di SN, per essere efficace in una certa posizione della Galassia e durante una certa epoca, debba avere una frequenza superiore a due volte la frequenza media relativa alla regione vicina al Sole negli ultimi 4.5 miliardi di anni. Il terzo punto tiene conto dei tempi caratteristici dell’evoluzione biologica e, basandosi sui tempi caratteristici della Terra, questi possono essere stimati come 4 ± 1 miliardi di anni. Come per la HZ, anche la GHZ è fortemente dipendente dal tempo e possiamo approssimativamente vederla come un anello all’interno del piano galattico con una estensione e posizione che variano con la storia della Galassia. Attualmente questo anello si estende tra i 23000 e i 30000 anni luce dal centro della Via Lattea e contiene circa il 10% del totale delle stelle. Tenendo conto dei flussi radiali di gas verso l’interno del disco galattico, dovuti all’interazione con la materia galattica in rotazione [21, 22] e responsabili dell’alterazione del gradiente di metallicità lungo il raggio della Galassia, Spitoni et al. [23] stimano un aumento del 38% del numero di stelle nella zona abitabile rispetto al valore ottenuto da Lineweaver et al.. In conclusione, possiamo stimare fGHZ come 0.12 ± 0.04. 2.3. Sistemi stallari binari Passando al fattore fbin, l’esclusione di sistemi multipli di stelle può essere un fattore molto importante nell’equazione di Drake, in quanto dal 40% al 60% delle stelle appartengono a questi sistemi. Nei sistemi binari la stabilità dell’orbita dei pianeti del sistema diventa molto più critica rispetto a quella di un sistema a stella singola [25]. Diverso potrebbe essere comunque il caso di caso di un pianeta che ruoti a grande distanza attorno a due stelle di piccola massa che a loro volta ruotano molto vicine attorno al comune centro di massa. In questo caso il calcolo dell’ammontare di energia ricevuta dal pianeta in ogni punto della sua orbita diviene una complicata somma dei flussi spettrali combinati delle due stelle e il raggio della HZ presenta delle oscillazioni per via del moto delle due stelle [24]. Per quanto ancora ne sappiamo oggi, questi tipi di sistemi non 78 organica. Approssimando infatti lo spettro di emissione di una stella con quello di un corpo nero e utilizzando la Legge di Spostamento di Wien, il picco dell’emissione del Sole (temperatura superficiale 5580◦K) cade nella lunghezza d’onda di ∼502 nm (verde), mentre per Lalande (3800◦K) questo si sposta a ∼760 nm (vicino infrarosso) e a ∼300 nm (UV-B) per Vega (9600◦K). Per quanto riguarda l’Equazione sembrano adatti per la vita, almeno nella sua forma complessa. Quindi, fbin può essere stimato come 0.5 ± 0.1. di Drake, queste stelle molto grandi sono molto più rare delle stelle piccole (meno del 1% delle stelle di sequenza principale), quindi il loro contributo è molto modesto. Da escludere per l’evoluzione di vita complessa sono anche con elevata probabilità le stelle arrivate agli ultimi stadi della propria esistenza. Queste stelle, classificabili al di fuori della sequenza principale, come le Nane Bianche e le Giganti Rosse, costituiscono insieme circa il 9% del totale [25]. 2.4. Selezione stellare 2.5. Tidal Locking Il parametro fM ha infine a che fare con la selezione fine della massa della stella attorno alla quale deve orbitare un pianeta abitabile. Il tempo di permanenza Tms di una stella di massa M nella fase di sequenza principale espresso in miliardi di anni, è approssimativamente dato da [26]: (6) Fino a questo punto le stelle Nane Rosse di classe M, più del 75% delle stelle di sequenza principale, sembrano essere le migliori candidate per trovare la vita extraterrestre, soprattutto per via della loro abbondanza e notevole longevità. Tuttavia, l’abitabilità di questo tipo di stelle risulta essere oggi un argomento molto controverso e dibattuto, soprattutto per via del tidal locking, fenomeno che interviene quando la rotazione di un pianeta viene rallentata a causa delle forze mareali esercitate dalla stella. La rotazione dei due corpi attorno al comune centro di massa (praticamente coincidente con quello della stella) crea una deformazione (tidal bulge) diretta verso quest’ultimo. Durante la rotazione del pianeta, il bulge risulterà attratto dalla gravità del pianeta in direzione opposta inducendo nel tempo il raggiungimento di una condizione di equilibrio che prevede la coincidenza del periodo di rotazione con quello di rivoluzione. Questa rotazione sincrona (tipica della Luna in rotazione attorno alla Terra), causa una faccia del pianeta sempre rivolta all’astro e l’altra perennemente avvolta nelle tenebre. Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 ! Figure 1. Quindi si passa da circa 1.6 miliardi di anni per una stella di tipo A come Vega (M/M⊙ ≃ 2.1), ai ∼ 10 del Sole, fino ai ∼70 della nana rossa Lalande (M/M⊙ ≃ 0.46). In figura 1 è riportata la vita della stella in funzione della massa e la linea verde delimita approssimativamente un confine temporale necessario per una evoluzione biologica simile a quella terrestre. Le stelle al di sotto di questa linea (di tipo A e B, oltre alle O non riportate) hanno una durata della vita troppo breve ed inoltre presentano una notevole componente UV nello spettro di emissione, particolarmente pericolosa per la vita 79 Queste condizioni estreme possono portare anche al collasso dell’atmosfera del pianeta [30]. Dal punto di vista dell’abitabilità, risulta utile stimare, data la massa di una stella, il raggio dell’orbita Rtl al di sotto del quale questa condizione di equilibrio viene raggiunta nei tempi t compatibili con lo sviluppo della vita [27, 28, 29]: (7) In conclusione, un pianeta in rapida rotazione su sé stesso all’interno della zona abitabile di una stella di tipo G, F o K (almeno quelle di massa maggiore), può sembrare uno scenario eccessivamente antropocentrico, ma, per quello che sappiamo, rappresenta anche la stima più ragionevole. Stimiamo quindi, introducendo l’incertezza nell’inclusione o meno delle stelle di tipo K, fM = 0.27 ± 0.05. Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 2.6. Caratteristiche del Pianeta dove P0 è la velocità di rotazione iniziale del pianeta, M la massa della stella e Q un fattore che descrive la capacità di dissipazione mareale. Fissando Q = 100 (pianeta secco), P0 = 13 ore e t = 4.5 miliardi di anni, si ottengono valori di Rtl che coprono la regione abitabile per le stelle di tipo M e per le stelle di tipo K meno massive. Per le stelle di tipo M un altro ulteriore ostacolo è rappresentato dal fatto che il pianeta riceve un ammontare di radiazione X e UV superiore rispetto a quella dei pianeti orbitanti attorno a stelle simili al Sole [31], soggette ad una minore variabilità. Nonostante modelli più recenti introducano scenari nei quali esiste la possibilità di trovare pianeti biocompatibili attorno alle stelle di piccola massa [32, 33, 34, 35], in attesa sia della ricerca teorica che dell’osservazione diretta ed infine ricordando che lo scopo è la ricerca di vita complessa, possiamo ragionevolmente escludere le stelle di piccola massa dall’Equazione di Drake. Come piccola ed intuitiva corroborazione di questa stima, dato che le stelle dalla massa simile a quella del Sole sono molto meno frequenti (circa il 90% delle stelle di sequenza principale hanno una massa minore), potremmo trovare poco probabile che l’unica vita complessa che conosciamo si sia evoluta proprio attorno ad una di queste stelle meno longeve. Una caratteristica importante prevede l’essere geologicamente attivo e la presenza di tettonica a zolle, indispensabile per il ciclo carbonio-silicio e per favorire la presenza di terre emerse e la produzione di biodiversità. J. N. Pierce [25] suggerisce anche che l’attività geologica è inoltre in grado di mettere a disposizione elementi pesanti e fonti di energia ad una futura civiltà extraterrestre e una assenza della tettonica a zolle potrebbe quindi in ogni caso stroncare sul nascere qualsiasi eventuale sviluppo tecnologico. Inoltre il nucleo differenziato terrestre produce il campo magnetico che permette lo schermaggio dalle particelle cariche del vento solare. Queste caratteristiche dipendono dal calore interno di un pianeta, il quale a sua volta dipende da diversi fattori e in particolare dalla presenza di elementi radioattivi. Assieme alla capacità di trattenere un’ atmosfera, la capacità di conservare un calore interno dipende quindi sostanzialmente dalla massa, che non può essere troppo piccola. Per quanto riguarda fP′ , qui ridefinito come la frazione di stelle con pianeti dalle dimensioni simili alla Terra nella HZ, recenti lavori riportano questa stima basandosi sui dati provenienti dal catalogo ricavato dalla missione Kepler [36, 37, 38] e la stima che qui useremo per fP′ sarà quindi di 0.06 ± 0.03. Il successivo parametro da stimare ne include le caratteristiche che un pianeta deve possedere per essere adatto all’evoluzione della vita, molte 80 delle quali in realtà abbiamo già inglobato nei precedenti coefficienti. Nel 2000, il noto testo “Rare Earth: Why Complex Life is Uncommon in the Universe” [39] di P. D. Ward e D. Brownlee suggeriva che i requisiti che dovrebbero essere posseduti da un pianeta per essere adatto alla vita complessa fossero così stringenti da rendere la Terra una rarità altamente improbabile nell’Universo. Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 Una importante caratteristica ad esempio individuata da Ward e Brownlee è la presenza di un grande satellite in grado di stabilizzare l’asse di rotazione terrestre. Rimandando ai numerosi testi esistenti la discussione e l’approfondimento di questi fattori (ad esempio [39, 25, 40, 41, 42]), cerchiamo di dare una stima di ne, che in pratica nel nostro caso deve tenere conto solo dell’eccentricità dell’orbita e dell’inclinazione dell’asse di rotazione. In pratica si tratta rispettivamente dei coefficienti Pe e Pi dell’Equazione di Dole, l’analoga all’equazione di Drake per i mondi abitabili [43]. I dati per stimare con precisione questi coefficienti sono ancora insufficienti e quindi, seguendo Dole [49], stimiamo ne = 0.76 ± 0.02. 2.7. Presenza della vita complessa Per stimare i prossimi coefficienti non possiamo far altro che assumere che la vita spontaneamente emerga da un ambiente abiotico e che si evolva verso forme più complesse una volta che il tempo e le condizioni ambientali giochino a suo favore. Individuiamo quindi il coefficiente fl′, qui ridefinito come la frazione di pianeti con vita complessa, considerando i 3 seguenti “colli di bottiglia” principali: la comparsa dei procarioti, degli eucarioti e delle forme complesse multicellulari. Se questi salti evolutivi fossero invece molto improbabili anche in circostanze favorevoli, le conclusioni riguardo la possibilità di trovare vita extraterrestre diventerebbero piuttosto ovvie. Da notare anche che, avendo selezionato precedentemente solo pianeti adatti alla vita complessa, avremo una sottostima dei pianeti ospitanti solo forme di tipo batterico, in quanto sottoposte a vincoli meno stringenti. Il presente scopo risulta infatti indirizzato alla stima del numero finale N delle civiltà extraterrestri e non alla valutazione dei passaggi intermedi. Per stimare fl′ è stata effettuata una semplice simulazione numerica nella quale è stata inclusa la durata delle finestra temporale di abitabilità del pianeta per i 3 diversi tipi di vita (Sez. 1.3) scalata per la vita della stella nella sequenza principale data dall’ equazione 6, l’età media t ̃ (6.4 ± 0.9 miliardi di anni) di una stella nella GHZ [15], la distribuzione in massa [45] e un tempo aggiuntivo tfr durante il quale la comparsa della vita è “frustrata” dalla stabilizzazione del pianeta [46]. Un tipo di vita, se la relativa finestra la supporta, può comparire sul pianeta in un tempo casuale dato dal tipo di salto evolutivo e i tempi di possibile comparsa sono assunti con distribuzione normale centrata sui valori tipici della Terra [47, 48], mentre l’incertezza è stata calcolata includendo o meno le stelle di tipo K. Quindi questa simulazione, di tipo Monte Carlo, consiste essenzialmente nel simulare grossolanamente la storia di certo numero di stelle attraverso la generazione di numeri casuali e le costrizioni date dai parametri immessi. Questa stima molto approssimata dà un valore piuttosto alto, come c’era da aspettarsi′ dalla stima di t: fl = 0.79 ± 0.9. 2.8. Vita intelligente Per quanto riguarda l’emersione di vita intelligente (noogenesi) da forme di vita complessa, molti autori sono concordi nell’assegnare ad fi un valore abbastanza elevato [40]. Personalmente considero questa stima forse piuttosto ottimistica in quanto non esiste una “nicchia ecologica per l’intelligenza”; la Natura ha infatti prodotto attraverso l’evoluzione tantissimi tipi di esseri viventi, “reinventando” caratteristiche analoghe secondo Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 81 percorsi evolutivi alternativi e prosperando senza la comparsa di specie intelligenti (nel senso di potenziali precursori di una civiltà tecnologica). Risulta possibile che i meccanismi che hanno sottoposto a pressione selettiva il tratto dell’intelligenza siano comparsi probabilmente a causa di peculiari caratteristiche di un particolare e raro ambiente creatosi nel continente africano in un certo momento della storia biologica. L’evoluzione ha prodotto quindi un “cespuglio” di specie di ominidi, analogamente ad ogni altra specie animale, che condividevano parte di questo particolare tratto. La situazione finale che osserviamo oggi è quella dell’estinzione di tutte queste specie, che per un lungo periodo di tempo hanno convissuto, eccetto quella della quale facciamo parte. Dopo questa doverosa precisazione, osserviamo tuttavia che non abbiamo elementi per stimare con precisione la possibilità di noogenesi e l’unica via resta quella di assumerla come un non troppo improbabile risultato della presenza della vita complessa. Tenendo conto dei valori assegnati dei diversi autori, proponiamo il valore: fi = 0.5 ± 0.2. Per quanto riguarda l’emersione di una civiltà comunicante, i prerequisiti fisici sulla specie intelligente per un futuro sviluppo tecnologico sono quelli di essere una creatura terrestre dotata di appendici con le quali manipolare gli oggetti. Una specie che abbia queste caratteristiche dovrebbe evolversi velocemente in una civiltà tecnologica in tempi del tutto trascurabili rispetto a quelli geologici. I dubbi riguardano soprattutto i limiti possibili dello sviluppo tecnologico e, soprattutto, la durata della civiltà. Analogamente a fi, tenendo conto dei valori assegnati da diversi autori: fc = 0.6 ± 0.3. Stiamo qui considerando la capacità di comunicare e non la capacità di viaggio e colonizzazione interstellare, la quale presenta delle limitazioni fisiche che ancora non sappiamo se siano o meno sormontabili. In quel caso la stima di fc probabilmente crollerebbe verso valori più bassi e difficilmente prevedibili. Passando alla frazione f L delle civiltà attualmente viventi, ci troviamo di fronte ad un parametro del tutto sconosciuto e quello che possiamo fare è ipotizzare alcuni valori L per la vita media di una civiltà comunicante ed effettuare i calcoli. Prendendo l’invenzione della radio come ideale punto di partenza, la nostra ad esempio è una civiltà comunicante da poco più di 100 anni, intervallo durante il quale ha già rischiato l’estinzione sotto la minaccia di una guerra nucleare. Seguendo il metodo di Pierce [25], potremo semplificare il problema dividendo L per il tempo medio to di origine di una civiltà nella Galassia. Considerando una età media per i pianeti abitabili di 6.4 miliardi di anni [15] e considerando una media di 4 miliardi di anni necessari per l’evoluzione [18], possiamo individuare un intervallo temporale di 2.4 miliardi di anni. Se i tempi di origine di queste civiltà sono uniformemente distribuiti in questo intervallo di tempo, t0 diviene 1.2 miliardi di anni. 3. Risultati e discussione Omettendo qui il procedimento di calcolo, possiamo determinare la distribuzione trovata da Maccone in funzione dei parametri descritti e stimati. Assumendo che le civiltà siano uniformemente distribuite all’interno della GHZ (nel suo calcolo, Maccone assume che le civiltà siano all’interno dell’intero disco galattico [49]), possiamo anche calcolare la funzione di densità di probabilità per la distanza della civiltà più vicina, informazione senz’altro importante per le speranze di un contatto e il progetto SETI. I valori scelti per L saranno 103, 104, 105 e 106 anni, quindi si va dalla scala di grandezza del migliaio a quella del milione di anni. In figura 2 sono presentati a titolo di esempio la funzione per il numero di civiltà (A) e per la distanza media della civiltà più vicina (B) per L = 105 anni. Interessante notare nella figura 2-(B) come entro circa 500 anni luce la probabilità di individuare una civiltà sia praticamente nulla e che per un messaggio inviato all’ipotetica civiltà 82 più vicina bisognerebbe probabilmente aspettare alcune migliaia di anni per ricevere una risposta. Nella tabella 3 sono riportati i valori medi e la moda (il valore più probabile, cioè il picco della distribuzione) al variare di L. Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 In conclusione, in questo articolo abbiamo cercato di stimare i parametri dell’Equazione di Drake utilizzando il calcolo statistico derivato da Maccone, ridefinendo/aggiungendo inoltre dei fattori dove era ritenuto necessario. Abbiamo ripercorse alcune delle più importanti tematiche in campo astrobiologico e abbiamo cercato di fornire una stima più moderna ai parametri nella nuova veste data all’Equazione di Drake. Molte delle stime effettuate possono essere soggette a notevoli correzioni, soprattutto grazie ai dati provenienti dalla ricerca, mentre altre possono essere anche stravolte da ulteriori e motivate considerazioni. Alcuni coefficienti incerti, come ne e come fl potrebbero dipendere da fattori che ne potrebbero far precipitare il valore rispetto a quello riportato, causando uno spostamento della moda di N verso valori molto più bassi e prossimi allo 0. La rilevazione di una biogenesi indipendente a quella terrestre rappresenterebbe in questo senso una scoperta straordinariamente importante. Rimangono inoltre molti dubbi riguardanti la noogenesi e abbiamo visto che lo stabilire diverse durate per la vita media di una civiltà stravolge i risultati del calcolo anche nel caso statistico, vanificando quindi anche in parte lo s f o r z o d i s t i m a r e i v a r i c o e ff i c i e n t i dell’Equazione Statistica di Drake. Infine, non sono stati qui considerati ulteriori interrogativi e anche paradossi riguardanti l’ipotetica esistenza di civiltà extraterrestri, come anche la possibile presenza di limitanti “meccanismi di regolazione” per la noogenesi e la sua evoluzione. Rimandiamo la discussione di questi suggestivi interrogativi in un prossimo articolo Ringraziamenti Ringrazio il Dr. Alessio Gnerucci per le importanti osservazioni e suggerimenti. 83 Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 Bibliografia [1] G. Horneck, P. Rettberg, “Complete Course in Astrobiology”, Wiley (2007) [2] F. Dyson, “Origins of Life”, Cambridge University Press (1999) [3] B. A. Banathy, “An information typology for understanding living systems”, Biosystems 46 89– 93 (1998) [4] E. Schrödinger, “What is Life? The Physical Aspect of the Living Cell”, University Press (1944) [5] D. Schulze-Makuch, H. Guan, L.N. Irwin, E. Vega, “Redefining life: an ecological, thermodynamic, and bioinformatic approach”, Fundamentals of Life Elsevier SAS, 169–179 (2002) [6] C. Sagan, “The Cosmic Connection”, Anchor Books (1973) [7] D. Goldsmith, T. Owen, “The Search for Life in the Universe”, University Science Books, Sausalito, California (2003) [8] M. J. 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Maccone, “SETI and SEH (Statistical Equation for Habitables)”, Acta Astronautica 68, 63-75 (2011) 85 SCHIAVI DEGLI DEI Recensione del Prof. Valentino Ceneri Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 di Valentino Ceneri Preparatevi a rivedere e ad aggiornare tutte le vostre cognizioni sul sistema solare, sulla formazione del pianeta terra, sulla nascita e la successione degli ominidi e delle specie antropomorfe più vicine a noi – comprese l’Homo di Neanderthal e l’Homo sapiens sapiens – voi che vi accingete a leggere il libro di Biagio Russo Schiavi degli dei, edito da Drakon Edizioni nel 2010. Lasciate da parte, per un po’, anche quel sapete sulla Bibbia e sulle antiche civiltà sparse nell’arco della cosiddetta Luna fertile, perché anche quei frammenti di conoscenze devono essere riposizionate per arrivare ad uno sguardo d’insieme più coerente e più significativo. Si tratta di una revisione della storia delle civiltà del Medio oriente, a cominciare dalla primaria postazione tra i due fiumi – detta la culla della civiltà – per la quale occorre dimenticare l’impostazione evoluzionista o positivista, quella, per intenderci, che enuncia le fasi della civilizzazione come una progressione dal meno al più civile o dal meno perfetto al più perfetto. I Sumeri, a detta di Biagio Russo, erano arrivati già a coprire, con la loro indagine, tutte le conoscenze di cui disponiamo noi, grazie allo sviluppo delle scienze astronomiche, astrofisiche e delle scienze della terra. La nostra astrofisica e l’astronomia dei più moderni osservatori astronomici erano già codificati nelle loro biblioteche di mattonelle cuneiformi, conservate nella collezione più antica della storia: quella del Re assiro Assurbanipal. Gli eventi che avevano preceduto l’attuale posizione astrale delle orbite dei pianeti e dei loro satelliti erano stati descritti e disegnati proprio in quei supporti impastati di argilla. Il loro significato non solo è stato interpretato ma anche esplicitato nei suoi contenuti scientifici sorprendentemente congrui con le ultime ricerche della NASA e di astrofisici di chiara fama. Naturalmente, per i credenti delle varie religioni, nessun pericolo per i loro dogmi. Non si tratta di spodestare gli dei dal loro Olimpo, ma solo di vedere da vicino come possa cambiare la prospettiva di vita, una volta accertato che le collisioni e gli sfioramenti tra i pianeti e gli altri corpi celesti abbiano, di fatto, reso possibile la predisposizione delle condizioni di vita sulla terra. La Tiamat babilonese e la Tehom di cui parla la Bibbia. Immagino la costernazione dei teologi, quando non potranno più raccontare la favoletta della creazione, resa banale dalla ovvietà autorefenziale del loro codice interpretativo volto alla sottomissione ai loro dei. Perché nessuna delle narrazioni antiche è banale e antiscientifico. Era questo che ci si aspettava dagli studiosi. Ed è ciò che Biagio Russo, con la sua sagacia condita da una passione adolescenziale, è riuscito a darci. L’antico e il moderno, le formule matematiche più complesse e impensabili, per una comunità scientifica ritenuta primitiva, confrontate col calcolo infinitesimale dei calcolatori di ultima generazione, fanno un mix di notti insonni nell’umile tentativo di svelare l’arcano. Si narra della vicenda del corpo deforme del pianeta Terra (Tiamat), reso tale dall’urto inaspettato di un corpo celeste (Marduk), un pianeta girovago dall’orbita imprevedibile, che le liscia la pancia –si fa per dire- rendendogliela concava e che la mette in condizione di far emergere l’asciutto, in modo tale che, poi, da Pangea, con la deriva dei continenti, si arrivi all’attuale sua conformazione di oceani e continenti. L’evento è descritto in un grande Poema Epico della Creazione dei Sumeri, Enuma elish (Quando in alto), databile al 3.000 a. C., la cui descrizione corrisponde perfettamente alle risultanze delle ipotesi scientifiche, fattesi strada da non più di due secoli fa e confermate dalle ultime scoperte astronomiche. 86 Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 Nel passare alla seconda parte, ci rendiamo subito conto che gli assunti di base espressi nella semantica grafica della copertina del libro di Biagio Russo, Schiavi degli dei, non sono stati enunciati per scherzo. Il nocciolo della rivelazione consiste in un ribaltamento della interpretazione della tradizione biblica. Anzi, più che in un ribaltamento – citazione dopo citazione – il testo ci porta alla rielaborazione di tutto il nostro sapere dei miti della creazione, di quelli della Bibbia in prima linea. E’, difatti, un riposizionamento del grande puzzle scenografico della creazione, con l’aggiunta e lo spostamento dei vari tasselli già esistenti con l’integrazione con quelli dei nuovi rinvenimenti. Trovate, così, enumerati tutti gli attori elencati negli scritti di letteratura antica e negli scritti delle moderne scienze dell’uomo. Non siete contenti di vederveli balzare incontro? Non abbiate paura. La maggioranza di loro li conoscete già. Ma attenti! Per non andare in crisi, dovete liberarvi dagli stereotipi. Dovrete imparare la nuova semantica e sarete costretti anche a cambiare il vostro punto di vista. L’uomo, lulu, i giganti, i figli di dio, gli angeli, i guardiani/vigilanti, i Neftlin confrontati con gli australopiteceni, gli afarensi, l’homo erectus, l’homo abilis, l’Homo di Neanderthal, fino l’Homo di Cro-Magnon(Homo sapiens sapiens), e poi Ea, Tiamat, le dee madri, la Signora che diede la vita, Hawwah, Marduk, Nintu, Anu il dio del cielo, gli Anunnaki, Enuki il Signore della terra, per citarne i più noti. dei continenti, a leggere quelli di Astrofisica e di biologia molecolare. Tutte queste fonti, confrontate e riorganizzate per arrivare ad una tesi finale tra l’inverosimile e il sorprendente: l’homo sapiens sapiens, diventato la persona che noi siamo, è il frutto di un cammino accidentato e di combinazione di forze contrapposte, che ora si ritrovano a coesistere proprio nell’essere umano che noi siamo. Le aspirazioni verso il dialogo col cielo e il desiderio del ‘divino’ hanno potuto diventare verosimili e alimentare il miraggio –forse- di un’ultima dimensione dell’umano che supera le barriere della morte, grazie al cedimento dei figli di Dio che si erano invaghiti della bellezza delle figlie degli uomini. Come è affermato nella Bibbia Sacra. E così sia. Il resto lo leggerete di persona. “Ne verbum quidem”, allora, sull’opera di Biagio Russo? Con chiarezza egli afferma di essersi fermato a considerare le civiltà della cosiddetta Mezzaluna fertile. Delle altre, sparse nel mondo intero, non se n’è occupato, lasciando da parte anche l’Europa. Ma questo non può essere un demerito. Alla base di tutta la nuova visione delle cose, i testi ritenuti sacri, a cominciare dalla Bibbia, dai testi egiziani e soprattutto dagli scritti dei Sumeri, degli Ittiti, degli Assiri, dei Babilonesi, dei Persiani. Troverete citazioni dirette delle edizioni critiche della Bibbia, del Poema di Ghilgamesh, de La Leggenda di Sargon, del Poema Epico della Creazione Enuma elish (Quando in alto), il Poema di Atrahasi o del Grande Saggio, il Libro di Enoch, l’Apocrifo della Genesi e di tanti altri documenti. Una nutrita documentazione archeologica e paleografica vi guiderà alla comprensione delle dimostrazioni più dirompenti contro gli stereotipi della dormiente cultura dei vari cristianesimi che cullano il sonno della ragione dell’occidente. Certo, il vantaggio di disporre di ricerche innovative nel campo della protostoria consiste nel fatto che esse aprono scenari insospettati che scombussolano le stereotipie, le visioni cosmologiche, antropologiche e anche escatologiche che hanno fatto, per millenni, da argine all’immane follia della percezione del caos e da guida verso le incerte mete dell’umanità. D’altra parte, prendere in considerazione le ipotesi espresse da alcuni autori, come i datati Gordon Childe, Gimbulas e Renfren, ma anche più recenti come Riccardo Lala (10.000 anni di civiltà europea), sulla cosiddetta Civiltà danubiana della mitteleuropa, risalente a quella stessa distanza di tempo, non avrebbe portato ad un conflitto di attribuzioni tra le culture, anche se da quelle parti che alcuni autori ipotizzano la nascita del linguaggio simbolico, al tempo dell’apparizione dell’Homo sapiens sapiens. Sarete costretti, inoltre, a rileggere i testi delle scienze della terra, a rinverdire la Teoria della deriva Non posso tacere neanche sulla sorpresa della recentissima (1994-2006) scoperta del sito Gobekli 87 Tepe, in Turchia, che arretrerebbe la nascita della civiltà a 12.000 anni fa, in epoca sicuramente antidiluviana, collocandola territorialmente molto più a nord di Ur dei Sumeri al confine tra la Turchia e la Siria, vicino all’antica Harram (la Carre romana). Ma la scoperta è troppo recente per essere metabolizzata e rielaborata dal mondo accademico Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 Tutto questo non toglie nulla al merito di Biagio Russo, per la sua onestà intellettuale e per la grande fatica che si è sobbarcato nel fare le ricerche nelle migliori biblioteche europee e nel mettere a confronto una vasta bibliografia, che rende il libro indispensabile per coloro che avvertono il bisogno di scrollarsi di dosso i dogmatismi che infestano la cultura contemporanea. La crisi della cultura, la rottura degli stereotipi è motivo di sofferenza per coloro che si fidano solo degli schemi del passato. Solo il rinnovamento dei modelli di vita, basati non sugli stereotipi ma sulla conoscenza scientifica dell’evoluzione della specie umana potrà garantire una solida base di partenza per le trasformazioni-metamorfosi dell’uomo contemporaneo, che dovrà affrontare molte lotte ancora per non essere ‘schiavo’ di nessun altro essere. Compresi quelli chiamati “dei”. Valentino Ceneri è nato a Cappelle sul Tavo (PE) nel 1939. Ha conseguito: il Dottorato di ricerca in Teologia, presso la Pontificia Università Lateranense di Roma; la Laurea in Sociologia, specializzazione etnoantropologica e la Laurea in Psicologia presso l'Università La Sapienza di Roma; il Diploma di Psicoterapia presso l'I.P.A. di Roma. Ha insegnato: Antropologia culturale presso la Pontificia Università di S. Tommaso di Roma; Scienze sociali, Psicologia, Pedagogia presso le Scuole Secondarie della provincia di Pescara. È stato Giudice onorario del Tribunale per i minorenni de L'Aquila. È Psicologo clinico Psicoterapeuta. Vive con la famiglia a Moscufo (PE) Ha pubblicato numerosi saggi tra cui: Mutamenti socioculturali e valori cristiani, 1977, Roma; Dalla Psicoanalisi alla psicoterapia analitica esistenziale, 1981, Pescara; Il complesso di Edipo: tramonto o superamento?, 1983, Roma; La nascita del linguaggio, 1984, Franco Angeli, Milano; L’evoluzione psichica dell’uomo; Lettera a Pinocchio; L’identità rispettata; Valori: gabbie o libertà; La nascita del desiderio (La filogenesi dell’amore), Ed. Carabba, 1998, Pescara; Il Minotauro; Prometeo, Ed. Psi. co.ra, 1999, Pescara, Il punto Omega e gli attrattori della mente, A. Molinaro - F. De Macedo, edizioni Pro Sanctitate, 2006, Roma; Tutto il corpo nella mente e tutta la mente nel corpo?, Roma, 2008. Il Maestro d'ascia, Edizioni Tracce, 2011, Pescara, è il suo primo romanzo. Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015 88 ‘UNITED WE STAND, DIVIDED WE FALL’ www.associazioneaspis.net