E' possibile, ancora, una teoria dell'etica? Assumiamo la distinzione hegeliana di etica e morale: la prima, come aspetto oggettivo, storicamente realizzato, della morale, nelle istituzioni della famiglia, della società e dello stato [1] (ma anche, evolutivamente, nel comportamento individuale); la seconda, come soggettività della condotta. [2] Accettiamo poi la distinzione aristotelica - nello studio della condotta umana (individuale e sociale) - dell'analisi descrittiva dei comportamenti e delle scelte (l'etica, sotto il profilo dei costumi, delle tradizioni, delle istituzioni), dalla loro 'proposizione' normativa e prescrittiva. [3] La distinzione confusa, cancellata o abolita nella storia del pensiero filosofico e religioso - va mantenuta, per offrire l'opportunità di mettere in questione la 'validità' in generale del lato normativo, senza toccare l'importanza storico-descrittiva del fenomeno etico-morale. La distinzione tra aspetto descrittivo (scientifico:storico-fenomenologico,ecc.) dei principi, aspetto normativo (valutativo e legislativo) e aspetto prescrittivo (applicativo e giurisdizionale) rispecchia la distinzione tra 'sapere', 'voleredovere' e 'potere'. Trascurando il primo aspetto, che non porta ad alcuna 'fondazione teorica' dei principi, conserviamo la distinzione tra 'fondazioni' di validità di principi-'postulati' (e di conseguenza da essi) e 'fondazioni' di dimostrabilità di principi-'assiomi' (e di derivabilità da essi). Quando occorre, parleremo, nel primo caso di modelli semantici, nel secondo di strutture sintattiche dei sistemi etico-morali. Poniamo, come primo argomento, quello della verità (della certezza) dei principi [4] e, distinto, quello della legittimazione di quella verità, ricercata sia su basi esterne, [5] che su basi interne. [6] Il problema della verità del principio viene affrontato dal punto di vista formale (dal lato - sintattico - della forma e della coerenza degli enunciati) e da quello sostanziale (dal lato - semantico - del contenuto significato, cioè della corrispondenza all'oggetto di cui parla). [7] Solo il 'principio pratico' formale può garantire validità universale alla volontà. La verità del principio deve essere fatta cadere sotto la condizione della sua universalizzazione [8] e della sua sostantivizzazione. [9] La legittimazione interna dei principi s'identifica in una fondazione teorica. quella esterna, invece, è da vedere, piuttosto, come 'conseguenza' di giustificazioni per essa apportate - teorico-pratiche (metafisiche, ecc., sopra elencate) - che sono la loro ideologia. Ma affrontiamo prima la questione sul piano strettamente logico. Il primo punto da considerare è quello della 'costituzione' dell'enunciato valutativo, che fa da premessa all'argomentazione morale. Il secondo è quello della conseguenza o derivazione all'enunciato prescrittivo, che conclude l'argomento. Il terzo, quello della effettività oggettiva del sistema morale o della fattività soggettiva della legge, rispetto alla volontà. Il rapporto tra valutazione, prescrizione ed effettività è di ordine diverso da quello che si viene ad istituire nel diritto. non c'è, infatti, né prova da ostentare, né condanna da comminare. In questo senso, l'etica s'identifica piuttosto con la generalizzazione della morale soggettiva, dove norme di condotta non hanno né premio né punizione, se non come auto-gratificazione e autoriprovazione. Il giudizio valutativo, come ha mostrato la filosofia analitica, [10] non è universale, ma universalizzabile. Con Kant, si potrebbe dire che una 'certezza' del noumeno, del bene, distruggerebbe la morale stessa. La forma di questo giudizio è. 'è bene fare X' (dove con 'X' si può intendere - poniamo - uno dei principi kantiani, equivalenti tra loro, dell''operare in modo che', dell''agire come se'). Questa formulazione fa di essi dei principi-leggi formali (ma non oggettivi, come ritiene Kant. lo sarebbero se potessero essere validi o dimostrabili per la volontà di ognuno). Formali, in tal senso. 'è bene fare X' sta per 'è bene operare in modo che la massima valga come principio'. così il principio si auto-costituisce tale (circolarmente), come 'forma', senza riferimento al contenuto specifico della massima. 'Fare X' è il 'bene'. è, kantianamente, l'oggetto della ragione pratica, cioè il corrispondente semantico dell'enunciato valutativo. [11] 'X' stessa è - nel senso formale indicato - leggeimperativo, perché non c'è accordo di volontà e ragione. la premessa dell'argomento etico è dunque universalizzabile, ma non universale. la sua 'postulazione', secondo Kant, è un bisogno speciale, una 'fede' razionale e, come tale, problematica. Il criterio di 'validità' del principio-postulato è d'ordine semantico ed è assegnato dal 'riferimento' e dalla 'congruenza' all'oggetto, il 'bene'. [12] Ma, stando a Kant, c'è anche una sorta di 'dimostrabilità' (sintattica) dell'imperativo, come principio-assioma (quando Kant asserisce che la realtà oggettiva della legge non è dimostrabile per deduzione, essendo 'principio' di deduzione, intende dire che è assiomatica). L'auto-costituzione formale, per un principio, di far valere la massima come principio, ha questo valore. la massima è principio quando si astrae dai contenuti e diventa auto-evidente. Ma l'autoevidenza scaturisce dal fatto che è una 'volontà' (non universale) a dare alla massima un valore (formale) indipendente dal suo contenuto. La moralità non ha altro movente che se stessa, o meglio. la volontà (che dà valore di assioma alla massima) ed il bene (che ad essa dà valore di postulato). Legalità e moralità sono distinti proprio per i loro moventi e quindi per il diverso 'interesse' (rappresentazione del movente) che le muove. Ma, ancora su ciò, più oltre. Pur non ammesso che, dell'enunciato valutativo, un soggetto (individuo, gruppo sociale o stato) possa dare una formulazione generalizzabile ad ogni altro caso e soggetto. pur non supponendo, né che vi siano giustificazioni (esterne) contestabili, né che vi sia legittimazione normativa, sia dato, tuttavia, che un dovere-volere di applicabilità porti ad una conclusione prescrittiva. Dunque, 'X è da perseguire', come 'conseguenza' della postulazione e come 'derivabilità' dal valore assiomatico dell'imperativo. Questa 'prescrittività', così ottenuta, deve passare ora il vaglio della sua effettività oggettiva e della fattività soggettiva. in altre parole, il valore di conseguenza o di derivabilità nell'argomentazione - cioè della prescrittività della conclusione - non è una prescrizione. Ma il potere conclusivo del ragionamento deontico, a differenza di quelli descrittivo-enunciativi, è esterno alla necessità logica. Se anche da 'è bene fare X' consegue 'X è da perseguire', questa 'prescrizione' non asserisce nulla sul fatto che si possa (e voglia) anche perseguire 'X'. L'effettività oggettiva del sistema o la fattività soggettiva (che danno al principio il suo carattere morale) sono dipendenti da 'scelte' o 'condizioni' su impegni da assumere, indipendenti a loro volta dall'accettazione (e relative condizioni) delle premesse date (universalizzabili o universali che siano). Effettività-fattività sono distinte da validità-dimostrabilità, ma anche condizioni indispensabili di queste. nel divario tra principio e prassi, quest'ultima è condizione di esistenza reale di quello. Il volere-dovere ha bisogno di tradursi in potere. Scardinato questo primo argomento, strettamente logico, sulla verità e sulla legittimazione interna dei principi etico-morali, affrontiamo il secondo. Valutatività, prescrittività ed effettività-fattività presuppongono tanto il soggetto, come presenza extra-logica, che la scelta, senza di cui il ragionamento valutativoprescrittivo è puramente formale ed il 'potere' effettuativo neppure si pone. Nella storia del pensiero etico-morale il soggetto assume la proprietà specifica di 'persona'. Quindi, altro asse argomentativo, intrecciato col primo, della verità e della legittimazione dei principi, è quello dei concetti di libertà e di persona, come consustanziali al pensiero etico-morale. Se e solo se il 'principio' (postulato o assioma) è liberamente riconosciuto, esso è anche consapevolmente posto (libertà e persona 'consapevole' sono concetti reciproci). Occorre così postulare, a livello più profondo, una libertà (necessaria al libero riconoscimento degli stessi principi postulati). Una libertà, che storicamente si offre ed esiste sulla base del presupposto (non dimostrato) - ne diamo la formulazione kantiana - di un'autonomia nella scelta dei fini e dei relativi mezzi, che si fonda sull'idea di una modalità d'essere dell'intelletto (di una ragione, cioè) supposta indipendente sia dal mondo esterno al soggetto, sia da ogni altra 'regione' della soggettività (e possiamo dire. 'sensibile' o 'inconscia'). La libertà è dunque postulato dei postulati. e la volontà - con il potere di quella determinazione e di quella causazione, che sono propri di un essere che appartiene al mondo intelligibile e non naturale - è dunque facoltà indipendente dal mondo sensibile. Persona e libertà vengono in questi termini posti, nel mondo laico (e con Kant - lui non propriamente laico - in particolare), a fondamento dell'etica. Nel giudizio valutativo, la 'derivazione' o 'conseguenza' prescrittiva dalla premessa valutativa è valida e possibile solo in base a una libera scelta, cioè in base al presupposto di un concetto di 'persona', consapevolmente capace di porre principi e di riconoscerli come liberamente scelti. [13] 'Libertà', 'persona', 'autonomia di scelta'. cioè libero arbitrio - e ad esso opposto, il determinismo [14] - delimitano il quadro teorico possibile della 'responsabilità'. [15] la libertà del volere, costruita sulla distinzione di fenomeno e di intelligibile noumenico, apre, in effetti, il problema e tre possibilità si presentano.Se la libertà del volere è assenza di costrizioni oggettive e soggettive e, insieme, conformità alle inclinazioni soggettive, non si pone il tema della responsabilità ed il quadro generale è deterministico. Se, invece, libertà è data in presenza di costrizioni, ma anche come scelta possibile indipendente dalle inclinazioni, non si può più parlare di determinismo con riferimento al campo della volontà (c'è libero arbitrio), però ogni determinazione diventa anche arbitraria e cade, ancora una volta, l'idea di responsabilità. Se, infine - sola possibile soluzione per lasciare spazio alla responsabilità in presenza di costrizioni, la scelta non è autonoma (come lo era per Kant) rispetto ai fini e ai corrispettivi mezzi (la scelta condizionata e l'arbitrio non libero), ancora una volta, nella responsabilità - alfine riconoscibile di fronte a scelte vincolate - si riaffaccia lo spettro del determinismo. Si tratta di vedere se il quadro deterministico non sia inficiato da qualche errore d'impostazione. Occorre conservare una visione unitaria, non dualistica, del mondo e del soggetto in esso, ma insieme lo spazio della responsabilità. Nell'ipotesi dualistica, infatti, il libero arbitrio è 'arbitrio' libero. Soluzione allora proponibile è la seguente. una legalità naturale, anche in un quadro deterministico ed evoluzionistico (come - nonostante lo stato della scienza - è fortemente probabile), non richiederebbe né una postulazione monistica stretta (che chiude il problema della libertà e della responsabilità), ma neppure un postulato dualistico (che separa irrimediabilmente l'uomo dalle sue condizioni e dai vincoli naturali, che ne fanno un soggetto responsabile) soltanto nei seguenti termini. Supposto d'essere in un quadro di legalità naturale e in condizioni deterministiche, secondo il postulato monistico, sarebbe razionalmente ipotizzabile, secondo leggi deterministico-evolutive, una soggettiva 'resistenza' della mente ad accettare il determinismo, essendosi evolutivamente affacciato alla storia evolutiva della mente il principio di scelta.Supposto invece- dualisticamente che il soggetto, come tale sia fuori - in qualche modo - da condizioni deterministiche, senza per questo escludere il determinismo della natura, il postulato dualistico di questo scenario sarebbe ovviamente conforme ad un 'disinteresse' al sottostante determinismo e questa sorta di indipendenza, anzi, potrebbe essere considerata frutto di libera scelta. Problema senza soluzione possibile è decidere se la 'sordità' al decorso naturale (resistenza o disinteresse) sia frutto di libera scelta o del vincolo deterministico stesso. Il problema, infatti, è questo. io, soggetto, sono dentro o fuori del quadro deterministico? Se fossi dentro, la libera scelta potrebbe essere frutto di evoluzionismo deterministico. se fossi fuori, la scelta sarebbe un 'prodotto' dualistico. Ma questa domanda non può essere evitabile se si vuol conoscere la provenienza ed il genere del disinteresseresistenza al determinismo. Si noti che qui non ci si trova in una situazione di indeterminismo naturalistico dichiarato. l'incertezza non viene postulata nella natura, ma nella conoscenza. Inoltre non c'è indeterminismo della volontà, perché in ognuno dei due casi, la volontà sceglie -qualunque sia il motivo - su vincoli ed è quindi 'responsabile'. [16] Quindi è prospettabile una visione unitaria (monistica) compatibile con uno spazio di scelta vincolata e di responsabilità. Anche il secondo argomento, dopo quello logico, mette seriamente in crisi un pensiero eticomorale. Per dare significato ai concetti di 'persona' e della 'responsabilità' di essa, la scelta e la correlativa libertà non possono essere autonome. Il postulato dei postulati non regge alla critica. La libertà è sempre 'libertà di' o 'libertà da' e la scelta è vincolata da condizioni e costrizioni oggettive e soggettive. L'argomento del determinismo non è, insomma, decisivo e risolutivo nella soluzione del problema. si può ipotizzare uno scenario deterministico e monistico, senza rinunciare ai concetti di persona e di scelta, purché vincolati.Da un altro punto di vista e rispetto ad altro problema, si sostiene che il concetto di 'persona' è e dev'essere connotato come valore tout court, [17] perché uesta è anche la condizione della garanzia della sua integrità come soggetto. Ma il concetto, d'altra parte, potrebbe avere quella connotazione assiologico-metafisica, solo se fosse portatore d'uno stesso volere-dovere-potere. e questo non è vero, come s'è già osservato a proposito della 'universalizzabilità' dell'enunciato valutativo e della aleatorietà della prescrizione effettiva, di fronte alla prescrittività della conclusione, nell'argomentazione etico-morale. Il concetto di valore è però centrale. esso riposa su universalità ed effettività, cioè sulla universalizzazione e sulla sostantivizzazione della verità del principio. queste sono le condizioni della validità dei postulati e della dimostrabilità degli assiomi e sono la base della legittimazione interna. La giustificazione esterna dei principi non ha quella forza universalizzante e sostantivizzante, senza di cui l'assiologia entra in crisi. [18] Dopo la critica all'idea di libertàpostulato (dei postulati) e di persona assolutamente responsabile, come condizioni di fondazione dell'etica, s'affaccia ora, condizione ulteriore, l'idea di valore tout court. Questo valore della 'persona' è inteso come 'essenza' metafisica della persona stessa. Non proprietàattributo oggettivi, non predicato enunciativo d'un soggetto, esso è antecedente ad ogni determinazione, coesistente tautologico (persona-valore), con cui il soggetto pone se stesso 'prima di' e quindi 'fuori da' ogni predicabilità di garanzie e rende la sua esistenza oggettiva sfuggente ad ogni attribuzione di garantibilità. è la persona, proprio in quanto sinonimo di valore, che è fonte della garantibilita. Si nega, insomma, che essa possa e debba essere dichiarata soggetto e oggetto di garanzia soltanto per via di quel che essa in sé e con sé porta di predicati e di attributi d'ogni genere - e soltanto attraverso di essi - riassumibili in un insieme di aspettative e di bisogni, suoi propri e di derivazione storica e culturale, politica e sociale. Nel mettere ora da parte, nel concetto di persona, la connotazione assiologico-spiritualistica di cui è stato storicamente caricato, si vuole evidenziare l'inutilità dell''identificativo' di 'valore' tout court, per il soggetto-persona, sia per quanto riguarda l'uguaglianza degli 'individui' - occorrente alla universalizzazione dei principi - sia per quanto riguarda la singolarità (disuguaglianza) dei 'soggetti', in cui si rende comprensibile l'esistenza di un problema di sostantivizzazione, cioè di effettività da ottenere e di fattività da raggiungere, sul piano prescrittivo. [19] Sul piano logico, in effetti, neppure si pone la questione. L'elemento che 'diversifica' gli individui (fra loro uguali) è la loro 'soggettività' (l'essere 'persone'). ciò che 'rende uguali' i 'soggetti' (le persone, fra loro diverse) è il loro essere tutti 'individui'. La soggettività (personalità) è differenza specifica della individualità, che è il suo genere prossimo. Uguaglianza e diversità non chiedono un 'identificativo' di valore tout court. Passiamo al piano assiologico.nei 'valori primari' (che abbiamo già distinto dal 'valore tout court') tutti i soggetti (nella loro diversità) si uguagliano ('formalmente') come individui (tendendo alla universalizzabilità dei principi) e rispetto a quei valori ciascun individuo si differenzia ('di fatto', materialmente), come soggetto, spingendo alla sostantivizzazione dei principi. vale a dire che l'uguaglianza individuale e la differenza soggettiva, come principi, vogliono la loro sostantivizzazione, il primo (dell'uguaglianza) perché la diversità soggettiva sia materialmente possibile. il secondo (della diversità) perché l'uguaglianza di tutti gli individui sia perseguibile come scopo ideale.Quindi, la 'persona' (la soggettività), qualificata per il riferimento al 'valore primario', non richiede come necessaria una ulteriore categoria assiologica, di unificazione dei valori e di identificazione metafisica col concetto 'persona' (valore-persona). Così, anche per questo verso, la connotazione assiologica di 'persona' risulta ridondante.Quindi, da un punto di vista sia logico che assiologico, la diversità degli individui e l'uguaglianza dei soggetti è assicurata con riferimento ai semplici valori primari. Ma approfondiamo. Principi fondamentali sono che tutti i soggetti siano formalmente uguali come individui e che ogni individuo sia formalmente diverso come soggetto. Questi due principi sono enunciati valutativi, universalizzabili, ed esprimono un 'volere', come diritto all'uguaglianza e alla differenza, rispettivamente. Essi pongono il 'dovere', la prescrizione dell'uguaglianza di fatto, come individui, e della diversità di fatto come soggetti. L'effettività e la fattualità, come 'potere' di sostantivizzazione, costituisce l'attuazione garantistica del 'volere', immanente nel 'dovere' prescrivente.Il principio di uguaglianza formale, da cui discende il dovere di uguaglianza di fatto, è principio generale di uguaglianza per tutti gli individui, di cui sarebbe inutile cercare la 'legittimazione' (fondazione teorica) all'interno del principio stesso. La sua legittimazione è esterna, dunque una 'giustificazione', che dovrà essere trovata nell'origine 'contrattuale' dei rapporti tra individui, non potendo esserlo nell'essenza 'metafisica' del soggetto (persona).Il principio di diversità formale, da cui la prescrizione della difesa, della garanzia alla conservazione delle diversità di fatto delle individualità soggettive, è principio generale di libertà in quanto 'valore primario' (insieme, come s'è detto, dei valori primari dei bisogni e delle aspettative), principio di 'libertà di' e di 'libertà da'. La prescrittività di un'uguaglianza di fatto degli individui chiede di rimuovere la diversità sostanziale degli individui tra loro, a fronte della loro diversità formale come soggetti. in tali condizioni, infatti, non c'è libertà 'positiva' (quella libertà 'di' fare, che presuppone un'uguaglianza quanto a mezzi e strumenti necessari all'esercizio della libertà stessa).La prescrittività di una diversità di fatto delle persone chiede di rimuovere l'uguaglianza sostanziale fra soggetti, a fronte della loro uguaglianza formale come individui. A queste condizioni non c'è, in effetti, libertà 'soggettiva' (quella libertà 'da', in cui si fonda l'autonomia individuale e la diversità).L'uguaglianza tra individui chiede libertà 'positiva', la disuguaglianza e la singolarità delle persone tra loro chiede libertà 'soggettiva'. Se c'è libertà positiva - e dunque, presupposta, un'uguaglianza - allora può esserci libertà soggettiva e diversità (la prima è condizione necessaria, ma non sufficiente, della seconda). Altrimenti, una diversità sostanziale degli individui porta con sé una diversità non-libera dei soggetti. Viceversa. una diversità soggettiva (comunque sia essa. libera o meno) non implica libertà positiva e uguaglianza. possibile, infatti, è anche, diversità fra individui in quanto individui, cioè disuguaglianza. Solo se l'uguaglianza dei soggetti in quanto individui è garantita, allora la differenza fra individui in quanto soggetti è asseribile anche come principio. il diritto all'uguaglianza come individui, nei valori primari, dev'essere presupposto per un effettivo diritto alla differenza come persone. che i soggetti si uguaglino come individui nei valori primari è condizione affinché si qualifichino effettivamente nel riferimento a quei valori e si differenzino anche rispetto ad essi. L'uguaglianza, prima 'presupposto' di libertà, è ora 'proprietà' della libertà. Tutti gli individui sono uguali, solo in quanto l'attributo comune è di essere portatori di valori primari. La differenza soggettiva, l'attributo specifico della soggettività è di riferirsi, differenziandosi, rispetto a quei valori.Abbiamo così considerato il problema della persona rispetto a quelli della libertà e dell'uguaglianza, distinguendo soggetto e individuo, facendo del tutto a meno di una teoria metafisica dell'identità analitica di persona e valore (e della conseguente sinonimia linguistica), come condizione della garantibilità della persona stessa. Nell'ambito del giusnaturalismo sappiamo che nasce l'idea del 'contratto', attraverso cui gli uomini si pongono in relazione sociale tra loro. Ma una volta assunta l'origine contrattualistica dei rapporti umani, sul piano teorico certamente, si chiude l'esigenza d'uno spazio effettivamente necessario a un'etica per la 'fondazione' della condotta socialmente condivisa e del rapporto tra esseri umani. Tacitamente (ma non sempre in modo esplicito e consapevole) inizia il processo di assorbimento teorico dell'etica nel diritto. [20] In effetti, il punto centrale è che il ruolo e la funzione di un principio 'fondativo' del volere-dovere, nel nuovo quadro, non ha più ragion d'essere, dal momento stesso in cui la legittimazione dei postulati può essere declassata e ridotta al semplice ambito di giustificazione di un bisogno di accordo per la costituzione del rapporto sociale. Ad un contratto inteso come bisogno, 'bisogna' anche aderire, ma con un movente che è l'interesse stesso ad uscire dalla condizione di bellum contra omnes. La base del concetto 'giuridico' di persona e dell''altro' di fronte ad essa, nel nuovo orizzonte di riflessione, non sta più nell'uguale valore tout court, ma nell'uguale diritto contrattuale. E questo diritto uguale non ha a fondamento il presupposto metafisico del 'soggetto del diritto' (la 'personavalore', appunto), ma l'obbligo giuridico, legato al contratto, 'entro cui' la persona 'si definisce' soltanto come soggetto di diritto. Non potendosi 'universalizzare' i principi e quindi assegnare valore (etico-morale) ai 'fondamenti' dell'agire, non vi sono che valori primari e diritti-doveri fondamentali. non quelli, la cui garanzia sia base per soddisfare il valore tout court della persona, ma quelli 'contratti' nella costituzione della società civile. La persona, soggetto suscettibile di 'responsabilità', non ha bisogno di chiedere altro principio per dare validità alla sua definizione. Anche la tolleranza, nel superamento del bellum contra omnes, non ha bisogno della fondazione dell'uguale valore d'ogni persona, essendo quella già immanente e contenuta nell'attribuzione di diritti, derivante dall'uguale natura dei bisogni. Abbiamo riposto ora nel contrattualismo l'esigenza teorica di un assorbimento dell'etica nel diritto. Caduto il principio fondativo, la legittimazione decade a semplice giustificazione. La persona non è soggetto del diritto, ma persona giuridica. soggetto di diritto. Nella separazione di morale (etica) e diritto, s'è detto che non arriva a chiarezza consapevole la prospettiva d'assorbimento della prima nel secondo. Ma se la morale non è condizione, né necessaria né sufficiente, della validità della norma di diritto, [21] diritto e morale non sono neanche soltanto separati. Il dover essere normativo non ha fondazione e la legittimazionegiustificazione non può appoggiarsi a principi d'ordine 'etico'. La funzione fondativa dell'etica viene meno. Invece, quando essere e dover essere hanno origine contrattuale (giuridica) e non sono distinti (e separati) come campi specifici - del diritto (della legittimità normativa) l'uno, della morale (della giustificabilità assiologica) l'altro - la distinzione permane, ma interna al diritto contrattuale stesso e, con essa, anche l'inseparabilità di essere prescrittivo e dover essere normativo. Allora, l'insieme delle norme di fatto (vigenti), sia esso Costituzione o Codice, risulta 'giustificato', esternamente legittimato con un riferimento attorno al contratto stesso, e il punto di vista interno al contratto risulta determinato-condizionato, nel suo farsi (e solo in questo), da quel punto di vista esterno (che, ideologicamente può anche porsi nei termini di un'etica, ossia in termini politico-ideologico-morali, ma obnubilando, con questo, di fatto la sua cruda natura contrattuale). la legittimazione attorno al contratto è un processo di ri-'costituzione' del contratto (il processo della sua 'costituzionalizzazione') e di ri-definizione politico-sociale delle norme vigenti. Il dover essere delle norme si consolida in un sistema di norme oggettive, con una legittimità interna al sistema contrattualistico che esse rappresentano. Nel suo essere, contrapposto al suo farsi, il punto di vista interno (del contratto) è estraneo ed autonomo rispetto a quello esterno ('attorno' o 'sul' contratto). La separazione storica dei principi etico-politici (della legittimazione e della giustificazione) dal sistema di diritto si ricostruisce ora all'interno stesso del diritto contrattuale (come essere e dover essere - o farsi - del sistema di norme) ed il bisogno della legittimazione interna della norma e della giustificazione esterna si ripresenta, ma, rispettivamente, nel contratto e sul contratto (attorno ad esso). Possiamo dire, allora, ricapitolando. se non è possibile un'etica senza anche un sistema di diritto, è necessario invece un sistema di diritto 'indipendente' dal giudizio morale ed è possibile il sistema del diritto senza un'etica a sua legittimazione e giustificazione. Tornando ora sull'indipendenza della morale. il diritto non rispecchia, né deve rispecchiare la morale - i principi morali sono privi di legalità intrinseca perché fondati sulla coscienza autonoma del soggetto (sono extra-contrattuali) - ma deve porsi soltanto come prodotto di convenzioni legali. D'altronde, le norme individuali, come regole di condotta della morale soggettiva, non possono non essere riconducibili a norme di diritti-doveri socialmente condivisi o condivisibili. Rientrano pertanto nel diritto (nel volere normativo e nel dovere prescrittivo), come implicito terreno di regole della condotta individuale. La riduzione dell'etica al diritto include dunque, a fortiori, anche la morale individuale. [22] L'etica 'vorrebbe' l'universalità dei principi. la morale non chiede l'universalità delle regole individuali di condotta. Possiamo stabilire l'implicazione. se l'etica, allora la morale. ma non viceversa (la morale è condizione necessaria, ma non sufficiente dell'etica). Attraverso un percorso, che ha inizio al di fuori delle regole già costituite e vigenti (il percorso della 'costituzionalizzazione' delle norme fondamentali e dell'approvazione parlamentare delle leggi e dei codici), si modifica il sistema delle norme. È quindi nella 'contrattualità' esterna (attraverso decisioni politiche, anche con pretesa d'ordine etico-morale) che si interviene attorno o sul diritto. Ma, una volta esso posto, è in esso (cioè, dal punto di vista del diritto) che si ha (si deve avere) l'assoluta estraneità della norma alle decisioni 'contrattuali (e alle eventuali immanenti convinzioni etico-morali). Etica e morale si pongono, dunque, dal punto di vista della giustificazione esterna. ma questo è proprio il terreno della 'contrattualità' sociale, in cui esse esistono come opzioni ideologiche. Ma approfondiamo il quadro contrattualistico. Il punto di vista hobbesiano ha il vantaggio di muovere dalle condizioni peggiori del bellum contra omnes, dove nulla è scontato e garantito. Anziché dal 'dover essere' e dal 'valore' della persona, esso muove dal bisogno e dalle aspettative egoistiche, dal contratto fra individui e dalla condivisione sociale dell'interesse. Il contratto è prima un prodotto del bisogno, poi della volontà.[23] Determinante nella comprensione dell'origine del diritto è che il contratto sia prodotto in primis del bisogno. se la società si costituisce come tale attraverso l'autoimposizione di regole e di convenzioni (che assumono valore di norme oggettive attraverso i meccanismi stessi delle regole del contratto sociale), il diritto stesso ha quella origine contrattuale. Non è il ruolo etico, dichiarato a legittimazione e giustificazione, ad essere fondamento del costituirsi di un diritto, ma la 'costituzione' di convenzioni nel contratto sociale, la fondazione 'costituente' (sulla base del bisogno di garanzie fondamentali in tutti gli aspetti del contratto sociale).Il contratto non chiede una legittimazione necessaria, ma la sua garantificazione sufficiente. Diritto e stato esprimono scopi e fini di utilità, non di valore. [24] Il punto di vista interno, della legittimazione, e quello esterno (che è di giustificazione contrattualistico-politica e non etico-politica), sebbene distinti e autonomi, non sono separabili.L'unità e, insieme, la distinzione sono presupposto teorico di diritto 'garantista', che esclude auto-giustificazioni ideologiche ed etero-legittimazioni giuridiche del diritto; [25] esso è così valido, indipendentemente da ogni ideologia (anche quella contrattualistica, sovrapposta al 'fatto' contrattuale), e si giustifica sul piano contrattuale-politico, autonomamente da ogni sistema costituito di norme giuridiche. Ma questa separazione 'garantistica', è un atto che non ha - a sua volta - fondamento su altro. essa è 'costituente' la possibilità stessa della politica e del diritto. Lì si attua la 'convenzione' originaria di 'costituzione' della società, dove norme e regole assumono validità e oggettività, indipendentemente dal flusso 'sregolato' ed erratico delle giustificazioni ideologico-politiche. In altri termini. il sistema garantistico ha origine col contratto originario e come contratto. Dunque, c'è un 'atto costituente', prima che 'costituito', di garanzie. Un atto di garantificazione costituente, a fronte e prima di garanzie formali costituite. A questo punto il problema inizialmente posto dovrebbe aver avuto una risposta soddisfacente. I problemi 'al contorno' sono di soluzione facile e non vale insistervi. [26] Un ultima considerazione va invece fatta sul cosiddetto e noto 'circolo diritto-potere'. Nel campo dei diritti fondamentali non c'è ordine gerarchico fra essi, in quanto irrinunciabili; né può esservi 'bilanciamento'. Ciò discende dal contratto, che è anche presupposto dell'obbedienza alla legge, ma insieme presupposto della garanzia alla disobbedienza e alla riformulazione del contratto, relativamente ai contenuti della legge. Ma se il diritto è normativo nei confronti dei poteri,[27] è ineffettivo nei confronti dei macro-poteri degli stati. L'ineffettività del diritto inter-nazionale può essere superata solo in uno scenario sovranazionale, in cui il rapporto contrattualistico tra individui sia esteso agli stati, anche se, per questo, al di sopra degli stati (che rappresentano il punto di vista 'interno' al diritto) dovrebbe porsi la sovranità dei popoli come individui (che rappresentano il punto di vista contrattualistico, 'esterno' al diritto), con cui generare un nuovo contratto, di diritto sovra-nazionale piuttosto che internazionale, dove tutti i popoli sono uguali nel bisogno di uscire definitivamente dal bellum contra omnes. Ma la forza del potere, se posta a garanzia del diritto, non soggiace a sua volta a garanzie (fino alla risoluzione contrattuale); e viceversa il diritto, posto a garanzia contro il potere, soggiace a sua volta all'ineffettività (fino alla costituzione di un vigente diritto sovra-nazionale), dovendo avere sopra di sé un potere, per avere anche effettività. Il circolo fra l'essere del potere e il dovere del diritto è terreno di scontro, nel sistema irrelato delle società civili, per la formulazione di un contratto generale, che consenta universalizzazione e sostantivizzazione effettiva. La mancanza - fino ad oggi - di una base contrattualistica nei rapporti internazionali pone una questione, che sembra rimettere in discussione tutto l'insieme fin qui asserito. L'inesistenza di una 'società' sovra-nazionale suggerisce in effetti l'idea che il bisogno di superare con una libera scelta contrattuale la condizione di bellum contra omnes non sia un percorso obbligato, né una necessità dell'uomo. Se l'idea di un contratto fondativo della società degli uomini rendeva marginale il bisogno kantiano di un principio, la non-universalità di quel bisogno è dello stesso 'ordine di grandezza' nei confronti del bisogno del contratto. e ciò spinge a riproporre - nonostante la loro debolezza teorica - le tesi della necessità di un'etica per trascendere la condizione umana di bellum contra omnes. Questo ragionamento è, tuttavia, debole e ciò dipende dal diverso significato che assume il 'bisogno' in Kant e, per contro, in Hobbes e nel contrattualismo in generale. Stando a Kant, [28] 1. il bisogno è specifico della ragione (pura), 'di' e 'per' un'adesione al 'postulato'. 2. questa specificità fa sì che esso abbia radice (sia fondato) in un dovere (quello di fare del 'bene' l'oggetto della volontà), per cui 3. si deve postulare quel bene (cioè supporne la possibilità). 4. e quella volontà non si fonda su una 'inclinazione' soggettiva, ma sulla 'necessità oggettiva' del bisogno stesso (cosa che fa della supposizione, non un'ipotesi, ma un postulato). Questo 'bisogno' non è universale, sebbene oggettivamente necessario. Quindi appartiene alla 'volontà' (che si fonda - e scaturisce come tale - sulla sua necessità oggettiva) e al 'dovere' (si radica nel dovere del bene) appartiene alla 'ragione pura pratica'. la sua necessità oggettiva (riconducibile alla ragione) prende il posto dell'inclinazione soggettiva e il postulato prende il posto della semplice supposizione. In un quadro contrattualistico, 1. il bisogno è naturale e biologico impulso alla sopravvivenza. 2. quindi non è fondato su un dovere della volontà, ma fonda, semmai, doveri. 3. la possibilità di uscire dallo stato di bellum contra omnes non può essere, dunque, supposta e postulata, ma (posta come scopo) desiderata in quanto 'aspettativa'. 4. e l'impulso alla sopravvivenza ('inclinazione' naturale degli individui) è soggettivo (dell'individuo) ed oggettivo (come impulso della natura) ma non, per questo, universale (sebbene universalizzabile) né razionale (sebbene razionalizzabile). Dunque. Non una presunta universalità del bisogno della ragione, ma neppure, occorre dirlo, universalità del bisogno naturale di sopravvivenza. non un bisogno della volontà che si ponga come 'dovere', ma invece il bisogno di fondare un sistema di doveri (una società contrattuale). Non bisogno di aderire a un postulato, ma bisogno di un'aspettativa, che diventi uno scopo. Di più, di fronte alla conflittualità inter-nazionale, non si può dire, ma soltanto sperare che prevalga la spinta naturale alla sopravvivenza su quella alla dissoluzione della società degli uomini. In un mondo laico, la prospettiva di un'etica, che si fonda e si affida a principi la cui universalizzabilità è opinabile per principio, si presenta con la presunzione e l'arroganza, ma anche con la prepotenza latente dell'enunciato formulato da alcuni in nome di tutti, con pretesa di delega del pensiero e del volere. Un pensiero laico, che intenda e cerchi d'essere libero da principi apodittici, non costruisce e non costituisce un' 'etica' (sia pure laica), senza togliere valore all'idea stessa di 'laicità' e trasformandola in altro. C'è una contraddizione sottile ma intrinseca tra etica e laicismo. Tutt'altra cosa sembra essere, invece, l'idea di un pensiero laico legato ai bisogni, senza pretesa alcuna di costruire un''etica'. Non si può pensare ad un'etica laica, senza un'implicita sfiducia sul senso costituente del 'contratto' e senza l'idea che esso non debba e non possa bastare. Il contrattualismo è una buona premessa per una teoria del dialogo sociale attraverso cui si 'costituzionalizzano' le norme. [1] Il problema delle ideologie di fatto immanenti nelle istituzioni è diverso e non riguarda il senso dell'oggettività qui presupposto. [2] G.W.F. Hegel, Filosofia del diritto, par. 106 sgg e par.142 sgg. [3] Aristotele, An. Post., 89b9. Prescrittivo è ogni sistema etico-morale (quindi anche uno edonistico), che ponga principi come precetti. [4] L'aspirazione, per esempio, al loro rigore geometrico, in Platone o Spinoza. [5] Metafisica è l'inerenza dei principi alla struttura dell'essere, in Platone; storica e quindi relativizzante, invece, la legittimazione degli imperativi nella moderna riflessione sulla crisi dei 'valori' (da Schiller ed Hegel); legittimazione della verità dei principi, ricondotta, già nel pensiero sofistico, alla sua efficacia pratico-politica; e legittimazione civile, antropo-sociologica, nell'idea aristotelica della dynameis (come disposizione, facoltà o natura dell'uomo). Un rovesciamento della legittimazione, infine, quello operato da Marx ed Engels nella denuncia dell'ideologia costitutiva dei principi etici (la cui base fondativa riposa nel rapporto economico) e nella demistificazione dell'oggettività storica (hegeliana) delle istituzioni. [6] P. es. in Kant, su cui v. oltre. [7] Per esempio, nella filosofia analitica: J.L. Austin, S. Hampshire, R.M. Hare, H.L.A. Hart, W.C. Kneale, G. Ryle, S. Toulmin, ecc. Cfr. L. Formigari, A. Gianquinto, Studi di analisi del linguaggio ad Oxford, in «Rassegna di filosofia», IV, II, 1955, 131-147. [8] Già l'etica stoica intende porsi in termini universali e cosmopolitici, con l'escludere la relazione al costume e la sussunzione del comportamento al 'dovere'; poi il neoplatonismo, con una liberazione dalle passioni e dalle apparenze, attraverso l'ascesi. Nel Cristianesimo, un'etica si pone solo nella 'comunità ecclesiale': qui anche la 'salvezza' - che è 'grazia', da cui dipende la 'fede' e senza di cui non c'è salvezza stessa - ha la pretesa dell'universalità. Destino, predestinazione e salvezza pongono l'etica sotto il segno di una filosofia della storia (la città di Dio); fede-grazia-salvezza vanno considerate in un quadro di legittimazione: le virtù cardinali (le virtù morali di Platone): prudenza, fortezza, giustizia, temperanza, sono regole (cioè principi-precetti) della condotta umana, rispetto alla realtà terrena. Il tema dell'universalità dei principi si riproduce nel pensiero moderno (e su di esso torneremo, quando necessario). [9] Cioè l'effettività oggettiva e la fattività soggettiva della 'prescrizione'. [10] In particolare, R.M. Hare, The Language of Morals, Oxford, At the Clarendon Press, 1952. [11] La formulazione semantica 'X' è bene' non è chiaramente dello stesso tipo di 'X' è vera': mentre per quest'ultima vale effettivamente 'X' è vera' se e solo se 'X', dove X è un evento reale, 'X' è bene' se e solo se X non ha il carattere della formulazione tarskiana (di verità), in quanto X è semplicemente una massima, che non è, in senso proprio, corrispondente o congruente semantico di 'X' è bene'; in effetti, non assicura la 'bontà' di X, come invece accade (data la presupposta corrispondenza, cioè il parallelismo linguaggio-realtà) per la 'verità' di X. [12] Il 'bene', in quanto concetto presupposto, categoria generale dell'etica, è oggetto di principio (postulato); in quanto suo scopo e suo fine è, invece, oggetto di precetto. Ma dove non c'è legittimità del principio-precetto, non resta che la validificazione, fornita nella condivisione sociale in base ad un criterio esterno (p. es. quello della maggioranza o della competenza). [13] La storia della contrapposizione tra legge di natura, come legge morale, e legge positiva, come legge della società, non può essere vista semplicemente come storia di una diversa legittimazione e giustificazione del pensiero etico-morale: con il giusnaturalismo si apre insieme la strada al contrattualismo, dove (e non può esserci dubbio in proposito) viene meno uno spazio per l'etica: Hobbes, in effetti, intende la natura, da un lato, come impulso all'auto-conservazione; la legge, dall'altro, è prodotto artificiale. E, di nuovo, in Spinoza, l'asserzione che si possa 'fare consapevolmente solo ciò che non si può non fare, perché già determinato' è tale da tagliare via la possibilità stessa della libertà e della scelta: nell'unità - nella sostanza - dei modi d'essere (uomonatura), non resta spazio per un senso da attribuire al concetto di libertà riferito alla sostanza causa sui; e non c'è spazio per una scelta che resti tale e, insieme, si ponga di fronte all'unità della sostanza. La radicalizzazione kantiana della opposizione uomo-(società)-natura viene infine spazzata via dallo storicismo: l'imperativo deve vivere nella storia, ma come tale, allora, si relativizza. [14] Ricordiamo preliminarmente e per il prosieguo che determinismo e convenzionalismo sono termini che possono coesistere in uno stesso contesto, perché, mentre il primo è un'ipotesi scientifica, il secondo appartiene alla struttura logica di un'ipotesi (eventualmente deterministica): si tratta di due ordini di problemi distinti, non in contraddizione tra loro. [15] E con la responsabilità, anche l'intenzionalità dell'azione, l'imputabilità del 'soggetto agente', di fronte a un sistema di diritto e al suo codice, e l''azione' di trasgressione e la colpevolezza, sia a fronte della norma (materializzante la normatività del volere), sia a fronte della sua codificazione nel sistema del diritto. [16] Si esclude come privo di spessore il ragionamento che enfatizza apoditticamente la possibilità di enunciare libertà di scelta come effetto e prodotto tout court dell'umano disinteresse al decorso degli eventi naturali. Si dovrebbe, in questo caso, anche postulare un'autonomia di fronte alle leggi di natura ed asserire, insieme, tanto che sia il sole a sorgere e tramontare, quanto che il soggetto sia libero, semplicemente perché non conosce o non intende conoscere l'insieme dei vincoli della natura. Si esclude anche la funzionalizzazione, non infrequentemente operata, delle tesi indeterministiche della meccanica quantistica ad una difesa del libero arbitro: cioè la riduzione della problematica scientifica a quella della soggettività e dell'uomo (è il cosiddetto 'principio antropico', con cui leggi di natura vengono considerate, rovesciando la loro 'giustificazione' sul 'fatto' dell'esistenza dell'uomo: rovesciando, in sostanza, il rapporto di causa-effetto). [17] Distinguiamo 'valore' tout court, con riferimento al concetto assiologico universale, dai 'valori primari', con riferimento all'accezione empirica di 'valore', cioè all'insieme dei bisogni e delle aspettative. [18] Già la critica di Schiller alla morale kantiana sottolinea il fatto che l'imperativo non può non avere esistenza storica, dove si relativizza. Il marxismo, evidenziando il fatto che i valori sono forme dell'ideologia, con cui si occultano interessi e rapporti di potere; e Nietzsche e poi Freud, riconducendo i principi a rapporti di forza e, nella psicanalisi, dissolvendosi la persona in una lotta di impulsi: il valore collassa con il soggetto stesso e attraverso la sua storicizzazione; il richiamo all'impulso ed ai moventi istintuali, da Hobbes a Nietzsche, alla psicanalisi, assieme alle considerazioni marxiane sulla storicità dei 'valori', tolgono alla riflessione etica tanto l'oggettività del 'valore', quanto il terreno ad una soggettività 'unitaria' dell'individuo. Portando l'attenzione dell'etica a una dottrina del dialogo, della costruzione convenzionale dei valori e delle regole, nella relazione democratica, la riduzione dell'etica al diritto e alle regole della formazione costituzionale e parlamentare delle leggi, è compiuta. [19] Se gli individui sono uguali, allora si può avere universalizzazione dei principi sull'universalità (generalità) del volere-dovere; se i soggetti sono disuguali, allora un 'potere' sostantivizzante si pone sia attraverso le garanzie delle condizioni materiali che rendano effettivo l'esercizio dei principi e dei diritti, sia attraverso le decisioni che rendano fattivi quei principi e diritti. Sulla sostantivizzazione, cfr. G. Zagrebelsky, Il diritto mite, Torino, Einaudi 1992, p. 100. [20] Questo 'assorbimento' si presenta nella realtà storica dell'illuminismo come 'separazione' di etica-morale e diritto: una separazione, che ha ragion d'essere nella grande opportunità ideologica, del pensiero laico, della duplicazione dei piani; una separazione, che si può tuttavia intendere come opzione ulteriore rispetto a quanto già implicitamente asserito al livello del rapporto contrattuale. [21] Cfr. L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Bari, Laterza 1989, p. 204 sgg. [22] Giudizio, proibizione, punizione (la liceità di un atto) appartengono al diritto, non all'etica sociale,né alla morale individuale. La libertà del singolo, nel cui ambito si pongono le regole della condotta, anche socialmente condivise, commisurata all'uguaglianza-diversità dell'individuopersona rispetto al 'contratto' in cui essa si definisce, non può non inquadrarsi nel sistema di diritto che il 'contratto' di per sé pone ed esserne pertanto condizionata e delimitata. Etica e morale individuale vivono dunque nell'orizzonte del contratto: non lo condizionano dall'interno, ma soltanto, mediatamente, attraverso il processo della 'giustificazione', che opera nel farsi del diritto. Quest'ultimo, invece, condiziona dal suo interno etica e morale individuale, vincolandole al suo sistema di norme contrattuali (socialmente condiviso come bisogno contrattuale, anche se non come sistema vigente di norme). [23] Non è essa, infatti, a determinare in prima istanza la forma dell'agire; non è essa legislatrice a se stessa, contro le inclinazioni sensibili; non è essa universale. [24] Ferrajoli riassume così la separazione assiologica di etica e diritto (Op. cit., p.207 sgg): nel reato (giustificazione della legislazione) il diritto non deve imporre una morale; nel processo (giustificazione della giurisdizione) il giudizio non verte sulla morale del reo; nella giustificazione dell'applicazione della pena e dell'esecuzione, la sanzione non ha contenuti e scopi morali. [25] L. Ferrajoli, Op. cit., p. 200. [26] Sul tema e sul nesso giustizia-libertà, non regge la tesi che un diritto di giustizia, a differenza di quello di libertà, debba avere a fondamento 'principi' e quindi un 'dovere' etico. Dal punto di vista del contratto sociale, abbiamo posto che i diritti di giustizia sono ricondotti a quelli di libertà e su di essi fondati: nel contratto stesso sono fissati limiti di libertà e regole d'uguaglianza. Ma su questo, più approfonditamente, cfr. i miei: Uguaglianza e libertà alla base del garantismo attivo e dei confini della liceità, in «Tempo presente», 160, 1994; Libertà e Costituzione o del garantismo attivo, in «Democrazia e Diritto», 4-94/1-95, Costituenti, 1995, pp.165-184; Sul contenuto etico dei 'diritti di giustizia', in «Democrazia e Diritto», 2-3, Liberalismi, 1996, pp. 425-468. [27] Poteri, che possono essere giuridici e generare disuguaglianze giuridiche, oppure extragiuridici e generare disuguaglianze politico-sociali. In proposito, L. Ferrajoli, Op. cit., p. 977. [28] Ci riferiremo soprattutto alla seconda Critica, Parte prima, II, II, 8.