XX La famiglia Moroni e la storia di Antrona L a serata del ballo mi consentì di fare la conoscenza con tutti i giovani e le persone più importanti del paese. In particolare mi consegnò all’amicizia della famiglia Moroni, in seno alla quale la signora Renata, sin dalle prime battute, appariva la più interessata a stringere con me un rapporto preferenziale e durevole. Ella per recarsi in paese per le provviste giornaliere, era costretta a passare davanti alla nostra caserma ed il più delle volte si soffermava a discorrere con il primo che incontrava. Uno dei giorni seguenti, io e Carcassi, un altro sardo proveniente dalla città di Cagliari, fummo comandati a svolgere uno dei servizi di perlustrazione di sei ore, nella bassa Valle Antrona. Rientrando in caserma incontrammo la Renata, donna piena di spirito e ciarliera, che si intrattenne alcuni minuti a parlare con noi. Al termine della chiacchierata ci invitò per il dopo cena a passare da casa sua perché ci avrebbe offerto un genuino bicchiere di grappa. Così facemmo e trascorremmo la serata in casa Moroni a discorrere di politica e di avvenimenti del giorno con il capo famiglia, mentre la moglie lavorava la lana con una macchinetta metallica quadrata, per ottenere dei riquadri grandi come un pacchetto di sigarette che ricuciti opportunamente componevano dei graziosi scialli, esattamente come quello che sfoggiava sua figlia la sera del ballo. La ragazza, sebbene giovanissima, seguiva attentamente la conversazione, anche se non poteva dare alcun contributo. Moronin era un uomo semplice, parlava usando in molti passaggi il dialetto locale, e qualche volta, quando si ricor165 dava di essere di fronte a dei foresti, traduceva in italiano alcuni termini, per timore di non essere compreso. Era chiaro che in famiglia si usava il dialetto, tanto che la Renata e la figlia facevano fatica a completare una frase senza utilizzare nei passaggi più impegnativi il loro idioma. Io, dopo le prime battute in cui mi trovai disorientato, lentamente incominciai a capire più per logica o studio dei gesti che per altro. Il nostro uomo incominciò poi a parlare delle lotte partigiane che avevano visto la Val d’Ossola teatro di feroci vendette durante le ultime fasi della “liberazione”. Alle ore 22,30 salutammo perché era l’ora della ritirata, non senza assicurare i signori Moroni che saremmo ritornati a passare la sera in loro compagnia quando volevamo. Iniziai a frequentare quella famiglia anche da solo, data la comodità di raggiungere l’abitazione, proprio lì a cinquanta metri verso valle, in prossimità della curva sul ponte che attraversava il torrente Troncone e dove era posto il cartello stradale di arrivo in Antronapiana. Il Troncone più a valle si congiunge con il Loranco e forma il più grande Ovesca che prosegue sino a Villadossola dove si versa nel Toce (Foto n. 25). Questa famiglia abitava in una vecchia e lunga baracca, tutta posta a piano terra ed a forma rettangolare. Le pareti, il pavimento ed il soffitto erano completamente in legno, e nel vederla dall’esterno se non si notava il fumaiolo di zinco sporgente dalla costruzione si aveva l’impressione di entrare in un deposito o magazzino (Foto n. 26). Davanti aveva un ampio piazzale in terra battuta e nella parte posteriore, più lontana dalla strada, si notava una casetta in cui era situato il pollaio con una diecina di galline ed un gallo. In un angolo riparato, vicino alla porta di ingresso, c’era una grossa catasta di tronchetti di legno molto bene allineati che dovevano servire ad alimentare la stufa per riscaldare la casa durante l’inverno. Anche qui, all’interno, non mancava la tipica miscela di odori di ambiente chiuso che avevo notato la prima sera nelle botteghe del paese, e che al primo impatto mi facevano rimpiangere la fresca e sana aria esterna. I locali erano angusti e l’arredamento molto semplice. La sala più importante era con166 temporaneamente cucina e sala da pranzo. In un angolo era posizionata la stufa a legna per la cottura dei cibi, un lavandino con acqua corrente, ed a fianco una grossa credenza a vetri all’interno della quale si vedevano ben riposti cibi e stoviglie. Sulla parete opposta troneggiava un largo camino, sempre acceso, con alte lingue di fuoco perché doveva contribuire a riscaldare. Tra la stufa e il camino ben allineati dentro ad una cassa di legno era deposta la legna asciutta, pronta per rinfocolare l’una e l’altro e tenere sempre ben caldo l’ambiente. Al centro della saletta c’era un tavolo di legno non molto grande, attorno al quale passavamo le ore a discorrere su argomenti vari e principalmente sulla storia della Valle. Il pavimento di legno scricchiolava sotto i nostri piedi ad ogni movimento mentre io ascoltavo con molto interesse i racconti dell’ultima guerra da parte del Moronin. Quando passavo la serata in casa Moroni la signora si prodigava nell’offrirmi assaggi di piatti particolari tipici locali. Fu qui che una sera mi venne offerto una pietanza veramente eccezionale: lo spezzatino di “gatto”, sì, proprio gatto, cucinato con maestria dalla signora Renata. A me sembrava più carne di coniglio che altro. Ebbene mi fu spiegato che per togliere il selvatico dalla carne di gatto, bisognava introdurre la bestia uccisa in un sacco e tenerla per dodici ore immersa nell’acqua corrente del torrente, in modo che scaricasse il sapore pungente. In loro compagnia imparai a gustare i profumati formaggi di mucca, ottenuti dalla lavorazione del latte munto negli alpeggi. Imparai ad apprezzare il gusto ed il profumo del vero sbrinz, un formaggio conosciuto sin dal ’500, quando il vescovo di Novara ne aveva mandato due casse in dono allo stesso Papa. I piatti locali erano principalmente a base di carne, polenta, zuppe di verdure o “masclota”, funghi in umido, e castagne bollite con acqua, vino, zucchero, sale e burro. Le castagne così cariche di gusto e di calorie, venivano consumate con vino o latte fresco. Erano molto in uso anche piatti a base di legumi, verdure e patate. Il mio interlocutore ci tenne però a precisare che in montagna nelle malghe, durante l’alpeggio estivo, i pasti che consumavano gli antronesi erano molto più 167 semplici. Quando in primavera riportavano gli armenti nei pascoli oltre i mille metri, si trascinavano a spalle semplicemente sacchi di polenta e bottiglioni di vino. Al mattino ed a sera abbinavano la polenta con il latte munto dalle loro mucche, oppure con il vino. Per i loro pasti adoperavano un grosso cucchiaio che immergendolo in una grossa ciotola lo riempivano contemporaneamente con un boccone di polenta e un sorso di latte o vino. Se la malga era in prossimità di uno dei cinque laghi del territorio, avevano la possibilità di arricchire la mensa con la cottura sulla brace delle trote pescate, condite con il loro burro, di cui erano bravi produttori e ghiotti consumatori. Con questa sobria e salutare alimentazione, abbinata al movimento continuo per seguire e controllare gli armenti al pascolo, i valligiani non avevano bisogno di particolari diete per mantenere una corporatura asciutta e snella. Il Moroni era uomo mite, di buona cultura, socievole e desideroso di scambiare idee e opinioni; amava la sua Valle di cui aveva più di altri approfondito gli usi ed i costumi e le origini remote. La mia innata curiosità non aspettava altro che incontrare un uomo così per apprendere idee e notizie di avvenimenti verificatisi in situazioni ed ambienti molto lontani dal mio. Da lui imparai a conoscere, sera per sera, tante notizie sulla Valle e sui valligiani, sulle origini del luogo e sulla provenienza degli uomini che nei tempi andati erano venuti a popolare questa zona impervia e misteriosa. Quante novità dovevano arrivare alle orecchie di un “campano” da parte di un “antronese”! Mentre respiravo l’aria del Monte Rosa fortemente incuriosito dalle rivelazioni del Moronin, spesso il pensiero correva al mio lontano luogo di provenienza, poco distante dalle falde del Vesuvio. Ascoltavo con grande attenzione le affascinanti notizie sui miti e sulle leggende che avvolgevano la Valle, sulle varie ipotesi riguardanti i primi suoi abitatori e imparai a conoscere il nome delle alte vette che proteggono e minacciano nello stesso tempo questa isolata vallata. Più raccontava e più cresceva in me la voglia di apprendere e approfondire; le serate invernali erano lunghe e pertanto giocavano un 168 ruolo tutto a mio favore e inoltre mi consentivano di beneficiare di un amichevole ambiente familiare, di un sito ben riscaldato e di una spontanea e disinteressata accoglienza. Seppi che la montagna più alta del territorio è il Pizzo Andolla, che tocca i 3656 metri di altezza. E’ questa la montagna sacra del versante italiano contrapposta all’elvetica Weissmies, che custodisce i segreti dei “Ses”, o dei “Sassi”. I cittadini antronesi si chiamano anche “Ses” (da sasso) al maschile e “Sosa” al femminile, sempre riferiti ai sassi che erano sparsi ovunque. Moroni mi spiegò che sull’origine del paese non esistevano notizie certe, né date certe e che varie erano le ipotesi formulate da studiosi negli ultimi tempi. Egli aveva attinto anche ad alcune leggende tramandate oralmente, da vecchi di Antrona, allora purtroppo non più in vita. Era quindi pervenuto ad una sua personale conclusione che mi avrebbe esposto in quelle buie e fredde notti del gennaio 1956, se io avessi avuto la voglia e la pazienza di ascoltarlo. Ero come incantato e non mi sembrava vero di essere divenuto inconsapevolmente amico dell’uomo giusto, e pertanto lo assicurai che sarei stato ben felice di apprendere a quali conclusioni era arrivato sulle origini degli antichi abitatori di quelle vette incontaminate, di quelle acque scroscianti e di quelle terre conquistate ed abbandonate nel corso dei millenni. Il mio narratore aveva circa cinquant’anni ed una buona cultura, e tra l’altro aveva l’abilità di tenermi legato alle sue incessanti narrazioni, arricchite da termini prettamente locali, ma soprattutto per la passione che scaturiva dalle sue parole. In più sere appresi come in un film a puntate le varie soluzioni possibili. La prima ipotesi avanzata e ritenuta, a suo dire, la meno credibile riguardava l’arrivo in valle di una tribù di GalliLeponzi facenti parte della popolazione celtica. Riferì poi di un’altra possibilità, ma anche questa scarsamente attendibile, da parte sua, della invasione dei Normanni o Vichinghi provenienti dalle regioni scandinave. Aggiunse che questo popolo feroce e privo di regole, poco conoscitore del Mediterraneo, arrivato alla foce del Magra lo confuse con il Tevere e scam169 biò la città di Luni con quella di Roma a causa dei suoi sontuosi palazzi ricoperti di bianche lastre di marmo, per cui la rase al suolo. Luni era un’antica città dell’Etruria situata sulla riva sinistra del Magra, abitata sin dal paleolitico e in più fasi occupata dagli etruschi, dai liguri e anche dai romani. Intorno all’anno 100 a.C. Roma vi stabilì una base militare con l’invio di circa duemila uomini che ampliarono il porto per fornire alla Madre Patria blocchi sgrossati di marmo bianco, cavati dalle vicine Alpi Apuane, necessari per scolpire statue, per pavimentare regge, per rivestire palazzi e per costruire templi nella Città Eterna. Sino ad allora i romani avevano dovuto acquistare i marmi dalla vicina e non sempre amichevole Grecia. I Vichinghi intorno all’anno 900, giunti di fronte a questa grande e lussuosa città, attraversata da un lungo fiume e situata a poche miglia dal mare come Roma, e accecati dall’odio verso i romani, furono tratti in inganno dalla posizione di Luni, e perciò,come abbiamo detto, la incendiarono e la rasero al suolo. Un gruppo di questi pirati, sconfitti dai romani accorsi in aiuto di quella colonia, sarebbe sfuggito ad un caparbio inseguimento e, superata la valle padana, avrebbero raggiunto Antrona, attraversando indenni tutto l’arco alpino. Mi parlò poi anche della possibilità, maggiormente attendibile, della presenza in valle dei Sassoni; attendibilità dovuta all’assonanza del loro nome con il nomignolo di “Ses”, attribuito agli abitanti di Antronapiana. Anche i Sassoni erano un popolo che abitava a nord dell’attuale Germania, sconfitto a più riprese in epiche battaglie da Carlo Magno, Imperatore del Sacro Romano Impero, che con un editto intimò agli sconfitti di convertirsi al cristianesimo o, in alternativa, subire la decapitazione. Una tribù per sottrarsi al genocidio, non volendo abbracciare una nuova religione, ma conservare la credenza nei propri idoli e totem, organizzò la fuga dalla propria terra e iniziò un lungo vagabondare nel centro d’Europa. Attraversò la Germania, la Svizzera, sostò nella Val di Saas, e attraverso l’omonimo valico scese nella piana di Antrona. Avendola trovata disabitata, vi si stabilì. L’uomo narrava con soddisfazione e piacere le varie 170 ipotesi da lui conosciute, mentre io ormai scalpitavo per conoscere quella che egli ritenesse la più attendibile. Insisteva nella sua narrazione secondo un disegno preciso, e non si lasciava influenzare da me che volevo rapidamente arrivare a conoscere il popolo che con maggiori probabilità aveva dato origine a quella gente mite e operosa. Più lui ritardava a dare una risposta convincente alle mie domande e più cresceva la mia curiosità. Con un sorriso compiaciuto e soddisfatto, una sera mentre mi congedavo dalla sua casa, quasi per assicurarsi la mia presenza per la sera successiva, il Moronin mi promise che la volta seguente mi avrebbe parlato dell’ultima ipotesi, la più attendibile, secondo la sua personale convinzione e le sue conoscenze . 171