EVOLUZIONE BIOLOGICA INTRODUZIONE La teoria dell'evoluzione è indubbiamente la teoria più importante in campo biologico sia per le sue potenzialità scientifiche sia per gli stimoli intellettuali che da essa derivano. Non esiste un settore della biologia che non sia stato condizionato dalla teoria dell'evoluzione e numerose discipline al di fuori della biologia ne sono state fortemente influenzate. Vale la pena di sottolineare come la biologia evoluzionistica sia una disciplina molto ampia e in continua espansione, ricca di argomenti ancora dibattuti ed estremamente vitale. I biologi che compiono ricerche sui meccanismi e sui processi dell'evoluzione biologica, utilizzano metodi di lavoro estremamente diversificati e affrontano lo studio di aspetti del mondo vivente che interessano scale temporali di varia ampiezza: possono osservare la reazione di determinati composti chimici in una provetta nell'arco di pochi minuti, seguire gli spostamenti di un animale nella savana per alcuni giorni o mesi, oppure cercare fossili in formazioni rocciose risalenti a diversi periodi geologici. La teoria dell'evoluzione può essere messa alla prova in tutti questi diversi contesti. Non solo: l'enorme varietà nella colorazione delle penne degli uccelli o le stranezze nella forma di alcuni pesci, come anche il curioso comportamento del gatto di casa quando fa le fusa, acquistano tutti, alla luce della teoria evolutiva, un significato più ampio che va ben al di là delle semplici considerazioni di natura estetica o affettiva sul singolo fenomeno osservato. Sulla base della teoria dell'evoluzione scopriamo che tutte le caratteristiche di un organismo, sia che riguardino la forma, il colore, il comportamento o qualsiasi altro aspetto, possono essere messe in relazione tra loro e con quelle di altri organismi e possono essere interpretate per scoprirne il valore adattativo o per rintracciare i segni del passato: sotto questo punto di vista, la teoria evolutiva è l'unica teoria a cui si possa seriamente attribuire un ruolo unificante per tutti i campi della biologia. Come dice Theodosius Dobzhansky (1900-1975), uno dei maggiori evoluzionisti del nostro secolo: «Niente ha senso in biologia se non alla luce dell'evoluzione». GENERALITÀ Ma cosa significa evoluzione? Evoluzione significa cambiamento, un cambiamento che può riguardare l'aspetto esteriore, la fisiologia, il comportamento di un organismo e sicuramente il suo patrimonio ereditario, tra diverse generazioni. Invece, cambiamento non significa necessariamente evoluzione: un organismo può cambiare durante la sua crescita, ma in questo caso non evolve in senso darwiniano. Infatti, i fenomeni evolutivi non riguardano il singolo organismo, ma la sua discendenza. Perché un organismo dovrebbe evolvere? I principali artefici dell'evoluzione sono il cambiamento delle condizioni ambientali nel corso del tempo e la variazione genetica casuale. La variabilità costituisce il materiale su cui agisce l'evoluzione, mentre la direzione di tale cambiamento viene stabilita dalle condizioni ambientali. Non potendo prevedere né l'uno né l'altro di questi fenomeni, non possiamo nemmeno prevedere il cambiamento futuro. L'evoluzione biologica ha una direzione (imprevedibile) ma non una finalità, il termine "progresso" è avulso dagli studi di biologia evoluzionistica e la grande diversità delle specie viventi è frutto di un cambiamento durante il quale, a partire da un singolo antenato comune, si sono verificate ramificazioni, biforcazioni, vicoli ciechi e modificazioni della stessa linea evolutiva. E sono proprio il cambiamento e la biforcazione delle linee evolutive degli organismi i principali argomenti affrontati dalla biologia evoluzionistica. Altro concetto fondamentale della teoria evolutiva è quello di adattamento. L'adattamento è un termine che si riferisce a quelle proprietà degli organismi che permettono loro di sopravvivere e riprodursi. Gli esempi di adattamento che si possono trovare in natura sono innumerevoli. Occorre tener presente però che non tutte le caratteristiche morfologiche o comportamentali degli esseri viventi possono essere considerate adattative, anche se quelle adattative sono decisamente le più comuni e una spiegazione alla loro presenza deve essere fornita. BREVE STORIA DELLA BIOLOGIA EVOLUZIONISTICA L'EVOLUZIONE SECONDO LAMARCK Il naturalista che per primo propose la teoria dell'evoluzione, secondo la quale tutti gli esseri viventi avrebbero subito nel corso del tempo continue trasformazioni, fu Jean-Baptiste de Lamarck (17441829), agli inizi del XIX secolo. Secondo la sua ipotesi, definita del trasformismo, i caratteri acquisiti durante lo sviluppo individuale sarebbero ereditabili: l'adattamento sarebbe dunque il risultato di modificazioni corporee prodottesi durante la vita degli individui in seguito all'uso o al disuso di determinati organi e da questi trasmesse ai loro discendenti. Per esempio, un uomo che fa molta ginnastica dovrebbe dar vita a figli con maggiore tendenza a sviluppare muscoli una volta divenuti adulti. LA TEORIA DI DARWIN La giusta formulazione dei meccanismi evolutivi fu elaborata da Charles R. Darwin (1809-1882) ed esposta nel celebre libro L'origine delle specie, pubblicato nel 1859. Darwin spiegò gli adattamenti e la formazione di nuove specie con la teoria della selezione naturale secondo cui solo alcuni individui di una popolazione contribuiscono in maniera consistente alla generazione della prole, mentre gli altri individui contribuiscono meno o per niente. Poiché le caratteristiche della prole riflettono quelle dei genitori, i caratteri dei genitori che hanno prodotto più figli diverranno sempre più frequenti nelle generazioni successive e la composizione genetica della popolazione cambierà nel tempo. LA SINTESI MODERNA Nonostante i vari tentativi di affossare la teoria darwiniana e la difficoltà da parte dell'ambiente scientifico fino all'inizio del secolo di accettare la teoria della selezione naturale, questa sopravvisse e prese speciale vigore a partire dagli anni Venti, grazie in parte alla riscoperta degli esperimenti di Gregor J. Mendel, fondatore della genetica e agli sviluppi degli studi biometrici (biometria). Fu infatti grazie alla riconciliazione tra le teorie mendeliane e allo studio della variabilità dei caratteri nelle popolazioni naturali che si arrivò alla cosiddetta "sintesi moderna" della teoria dell'evoluzione, o "neo-darwinismo", o "teoria sintetica dell'evoluzione". I nomi legati a questa fase sono quelli del matematico inglese Ronald A. Fisher (1890-1962), del genetista John B. S. Haldane (18921964) e del matematico americano Sewall Wright (1889-1988), i quali nei primi anni Trenta pubblicarono i fondamenti di quella disciplina detta genetica di popolazioni che costituisce il legame tra le leggi della genetica di Mendel e la variabilità osservabile nelle popolazioni naturali. La genetica a sua volta si orientò verso gli studi evoluzionistici grazie al lavoro di Theodosius Dobzhansky (1900-1975), nato in Russia ma attivo negli Stati Uniti, e ai suoi studi sull'evoluzione delle popolazioni del moscerino della frutta, la drosofila. Altri ricercatori inglesi come E. B. Ford e H. B. D. Kettlewell lavoravano sul campo studiando la selezione nelle popolazioni naturali e fondando la cosiddetta "genetica ecologica". Un altro nome strettamente legato a questa fase di fioritura degli studi di biologia evoluzionistica è quello di Julian S. Huxley (1887-1975), il quale per primo introdusse il termine "sintesi moderna" e divulgò a un più vasto pubblico i concetti teorici elaborati da Fisher, Haldane e Wright. La strada dell'evoluzionismo è stata irta di ostacoli (e lo è per vari aspetti tuttora). Negli anni Trenta vi erano molti studiosi di sistematica (G. C. Robson e O. W. Richards) che non accettavano né le teorie di Mendel né tantomeno quelle di Darwin, oppure genetisti come il tedesco R. Goldschmidt che sostenevano la teoria delle macromutazioni, secondo la quale le specie evolvono non attraverso la selezione di piccole varianti ma bensì con il succedersi di mutazioni dagli effetti rivoluzionari. Sebbene l'opera di Darwin si intitolasse L'origine delle specie, il problema di come effettivamente si originassero le specie non veniva affrontato dall'autore e in effetti la discussione riguardo al problema dell'origine delle specie è tuttora molto viva. Ernst Mayr (1904-2005), che aveva lasciato la Germania nazista insieme a Goldschmidt, si è occupato molto di speciazione (cioè delle modalità con cui si originano nuove specie) e della definizione del concetto di specie, con una serie di conseguenze importanti a livello degli studi di sistematica. In effetti la biologia sistematica, un ramo che si occupa di definire gruppi di esseri viventi e di classificarli sulla base delle loro affinità, fu la prima disciplina a subire gli effetti della sintesi moderna, attraverso la revisione dei suoi metodi e delle sue conclusioni. Altro grande innovatore fu il paleontologo americano George G. Simpson (1902-1984), il quale applicò la sintesi moderna agli studi paleontologici confutando tra l'altro la credenza di allora secondo cui le serie fossili sarebbero state espressione di una tendenza implicita delle specie a evolversi in una specifica direzione. Così, verso la metà degli anni Quaranta, la sintesi moderna aveva influenzato più o meno tutti i campi della biologia ma la strada doveva essere ancora difficile e le idee contrastanti. LE CRITICHE ALLA TEORIA SINTETICA Con lo sviluppo della biologia molecolare, a partire dagli anni Sessanta, la scala secondo cui mettere alla prova le nuove teorie ha raggiunto le dimensioni delle singole molecole proteiche e una grande quantità di dati ha confermato la sintesi moderna anche a livello molecolare. I lavori del genetista di popolazioni giapponese Motoo Kimura hanno tuttavia messo in evidenza il ruolo importante del caso nel cambiamento evolutivo sia a livello proteico che, in seguito, anche a livello del DNA, dimostrando che la maggior parte dei cambiamenti evolutivi delle sequenze del DNA è neutrale nei confronti dell'evoluzione (teoria neutralista). Sulla scala opposta, quella della paleontologia, gli americani Niels Eldredge, S. J. Gould e S. M. Stanley hanno proposto, dopo un accurato studio delle testimonianze fossili a livello di macroevoluzione, la teoria degli equilibri intermittenti, secondo la quale l'evoluzione delle specie non procederebbe in maniera graduale, ma ci sarebbe un'alternanza tra lunghi periodi di stasi e brevi ma intensi periodi di cambiamento evolutivo. I CREAZIONISTI Tutt'oggi, nonostante l'enorme mole di studi e di conferme, molte persone ignorano o addirittura avversano la teoria dell'evoluzione. Il caso più lampante è quello del movimento creazionista americano che nega l'esistenza dell'evoluzione e propone una specie di "creazionismo scientifico". Il movimento sembra così influente, se non scientificamente almeno dal punto di vista politico, che alcuni famosi evoluzionisti (S. J. Gould, paleontologo di Harvard, D. Futuyima, biologo evoluzionista dell'Università dello Stato di New York, R. Dawkins, professore di zoologia all'Università di Cambridge) sono stati indotti a scrivere articoli o interi volumi in difesa dell'evoluzione. Ancora una volta, l'importanza e il grande potere interpretativo della teoria dell'evoluzione fanno sì che essa venga considerata un ostacolo, non tanto per le implicazioni biologiche che comporta, ma per il ruolo in cui l'uomo viene relegato e più in generale per le implicazioni filosofiche. L'EVOLUZIONE E' UN FATTO Nonostante l'evoluzione sia ormai ritenuta un fatto incontrovertibile, può essere utile fornire un ristretto numero di esempi che permettano, anche a chi è completamente digiuno di argomentazioni teoriche, di difendersi dall'ignoranza o dalla malafede. Cercare prove a sostegno dell'evoluzione significa trovare prove scientifiche che una specie si sia evoluta nel corso del tempo e argomentare su questa base contro coloro che sostengono la fissità delle specie e la loro separata creazione. Le prove di questo tipo sono innumerevoli e comprendono prove osservabili direttamente su piccola scala, prove deducibili dalla relazione tra varie strutture (molecolari, o semplicemente morfologiche) presenti nei vari organismi viventi, e prove riscontrabili attraverso lo studio delle documentazioni fossili. La teoria dell'evoluzione, nella sua semplicità, ha reso chiari e intellegibili questi fenomeni rimasti oscuri ed enigmatici per lunghissimo tempo durante lo sviluppo degli studi biologici. PROVE DIRETTE Alcune prove dell'evoluzione possono essere osservate direttamente: sono fenomeni evolutivi su piccola scala osservabili in un arco di tempo compatibile con la durata della vita umana. Forse il più famoso è quello della Biston betularia, una farfalla notturna la cui forma scura (melanica) costituiva solo l'1% della popolazione in una zona vicino a Manchester nel 1848 mentre ne costituiva il 99% nel 1898, in seguito all'industrializzazione. Questa forma di melanismo industriale è piuttosto diffusa oggi in tutti i paesi industrializzati e rappresenta una caso classico di selezione naturale. Ecco cosa è accaduto alle farfalle di Manchester nel secolo scorso: a causa dell'annerimento da fuliggine degli alberi su cui si posavano, le varianti più chiare di questi insetti risultavano più evidenti agli occhi dei predatori e venivano perciò catturate più facilmente dagli uccelli mentre le varianti più scure venivano avvantaggiate a ogni generazione. Così, con il trascorrere delle generazioni, le forme scure sono diventate le più diffuse e frequenti. Questo esempio dimostra che nonostante si abbia l'idea che l'evoluzione sia un processo lento non deducibile da prove dirette, tuttavia essa può effettivamente essere osservata "in atto" ed è questo lo scopo di molti studi riguardanti la microevoluzione. Il cambiamento evolutivo può anche essere prodotto artificialmente. La selezione artificiale operata dall'uomo nel corso di migliaia di anni ha dato origine a varietà di piante coltivate con raccolti sempre migliori, a galline che depongono uova in numero sorprendente, mucche che producono grandi quantità di latte, un'enorme varietà di razze di cani e piccioni, il tutto attraverso la selezione di particolari caratteristiche tra una generazione e l'altra. I risultati della selezione artificiale forniscono una prova evidente che le specie possono andare incontro a cambiamenti evolutivi in tempi relativamente brevi. Il fatto che in natura si osservino specie ben distinte tra loro non significa che non ci sia una certa gradualità nella variazione. L'argomento dell'apparente separazione tra le diverse specie in natura viene spesso impugnato da coloro che credono nella creazione separata di ciascuna specie per opera divina. Due specie ritenute tali, se osservate in particolari zone geografiche, possono apparire come sfumare l'una nell'altra, tanto da far seriamente dubitare che esse siano effettivamente due specie diverse piuttosto che una sola specie variabile a seconda della località geografica. In questi casi la definizione stessa di specie sembra difficile, tuttavia, la variabilità è la norma in natura, e ogni tentativo di rendere discreto ciò che invece è continuo deve essere considerato una semplice comodità operativa e pedagogica. TESTIMONIANZE FOSSILI A volte le testimonianze fossili mostrano tutti i passaggi attraverso i quali da una singola specie se ne sono formate due, ma il più delle volte si è in grado solamente di osservare il risultato del processo senza avere accesso alle fasi intermedie. Un eccezionale fossile che testimonia l'evoluzione degli uccelli a partire dai rettili è costituito dall'Archaeopteryx, nel quale caratteri rettiliani sono mescolati come in un mosaico con quelli degli uccelli (evoluzione degli uccelli). Purtroppo ritrovamenti come questi non sono frequenti e a volte mancano gli anelli di congiunzione che permettano una ricostruzione completa del quadro evolutivo. In ogni caso, la continuità di alcune serie fossili, come quelle di alcune diatomee, alghe unicellulari dotate di un guscio rigido, può essere portata come prova fossile di un processo di evoluzione. Inoltre, studiando i caratteri di ciascuna classe di vertebrati odierni, si è portati a stabilire una rete di relazioni: i pesci, come gli anfibi allo stato larvale, ma diversamente dai rettili, dagli uccelli e dai mammiferi, hanno le branchie, ma gli anfibi hanno quattro zampe come gli altri vertebrati terrestri, a differenza dei pesci. Si sarebbe portati quindi a supporre una progressione evolutiva dai pesci agli anfibi fino ai rettili e infine ai mammiferi. In effetti, lo studio dei fossili testimonia esattamente questa gerarchia e i primi vertebrati a comparire nelle rocce più antiche sono appunto i pesci seguiti dagli anfibi, dai rettili e infine dai mammiferi (evoluzione degli animali). Le testimonianze fossili indicano anche una continua modificazione di strutture: specie che esistevano un tempo non esistono più e sono state sostituite dai loro discendenti, e sembra logico pensare che i meccanismi che agiscono oggi nel determinare l'evoluzione delle specie abbiano agito anche in passato quando l'uomo non poteva essere lì per osservarle. In questo modo dalla piccola scala temporale che rappresenta il nostro livello di osservazione si passa a una scala diversa, molto più grande, che riguarda i cambiamenti evolutivi che dai primordi della vita hanno portato alla grande varietà delle forme viventi attuali. OMOLOGIE Anche se la varietà è ciò che sorprende maggiormente quando si studiano le forme viventi, allo stesso tempo è sorprendente notare come le innovazioni vere e proprie siano relativamente scarse. Come ha fatto notare un collega di Darwin (Milne Edwards) in una frase riportata dallo stesso Darwin ne L'origine delle specie: «La natura è prodiga di varietà ma avara di innovazioni». E' come se l'evoluzione lavorasse con un grado sorprendente di inventiva ma tendenzialmente solo sul materiale che ha già a disposizione. Da questo deriva il fatto che due specie prese a caso in natura presentano un qualche grado di somiglianza. La similitudine può essere generalmente di due tipi: una similitudine per omologia e una similitudine per analogia. Squali, delfini e balene possiedono tutti una forma idrodinamica che può essere spiegata con la loro attitudine al nuoto: questi animali hanno una forma analoga perché condividono uno stesso modo di vita: le ali degli insetti, degli uccelli e dei pipistrelli sono strutture analoghe necessarie al volo. Se si considera invece l'arto degli anfibi, dei rettili, degli uccelli e dei mammiferi, si può osservare come, a parte specifiche modifiche presenti negli individui adulti, questo sia sempre un arto a cinque dita (pentadattilo). Non esiste una ragione ambientale o funzionale perché l'arto di questi animali debba sempre essere a cinque dita. In effetti, dato il diverso utilizzo che le specie ne fanno, l'arto si è modificato in una moltitudine di forme diverse, ma l'anatomia comparata ha evidenziato come la struttura a cinque dita sia sempre riscontrabile in queste diverse classi di vertebrati. Questo tipo di somiglianza veniva chiamato dai morfologici prima di Darwin "piano della natura", una definizione in aria di misticismo, totalmente priva di spiegazione scientifica. La spiegazione scientifica alla luce dell'evoluzione risulta molto semplice: l'arto è a cinque dita perché anfibi, rettili, uccelli e mammiferi, discendono tutti da un antenato comune anch'esso pentadattilo. Questo tipo di somiglianza dovuta alla condivisione di un antenato comune, viene detta omologia. E omologie possono essere trovate a ogni livello dell'organizzazione della vita: dagli arti alle molecole fino alle sequenza di DNA. Sono proprio le omologie tra le specie viventi e quelle fossili che mostrano in maniera inconfutabile il fatto che entrambe abbiano avuto origine da un antenato comune. Alcune di queste omologie sono immediatamente molto convincenti: le balene, sebbene non abbiano gli arti posteriori, hanno, seppur fortemente ridotti, un femore e le ossa del bacino, così come i boa e i pitoni. Queste strutture vengono dette vestigiali e nel caso delle balene e di alcuni serpenti, suggeriscono la loro origine da animali a quattro zampe. La fauna che popola le caverne presenta generalmente occhi ridotti e assenti, forme vestigiali un tempo funzionali negli antenati che vivevano all'aperto. L'uomo presenta un'appendice dell'intestino che probabilmente funzionava nei suoi lontani antenati come cavità digerente accessoria: oggi questa appendice forse non ha funzioni particolari e anzi spesso si infetta provocando l'appendicite e rendendo necessaria la sua asportazione. Non tutte le strutture vestigiali sono prive di funzione: sembra che in una balena fossile risalente a 40 milioni di anni fa le ossa del bacino funzionassero come supporto durante l'accoppiamento! Come si vede la natura è veramente prodiga di variazioni. Per rimanere in tema di balene e per riprendere il tema dell'avarizia della natura si può considerare il fatto che i fanoni e la pinna dorsale delle balene, che sono semplicemente delle produzioni cutanee, sono le sole strutture che non rappresentino modificazioni di parti del corpo presenti negli altri mammiferi. Il pungiglione delle vespe è una modificazione dell'organo utilizzato in altri insetti per deporre le uova (è questo il motivo per cui pungono solo le femmine); lo zoccolo del cavallo si sviluppa a seguito di un rallentamento della crescita delle dita laterali e un'accelerazione di quella del dito medio; la struttura portante delle ali di un pipistrello si ottiene attraverso l'eccezionale sviluppo delle dita dell'arto anteriore; le ali di una manta altro non sono che pinne pettorali enormemente sviluppate; gli sfiatatoi dei cetacei sono narici traslate nel posto più congeniale per poter respirare con la testa sott'acqua. D'altro canto queste variazioni sul tema possono a volte portare a degli inconvenienti: dobbiamo estrarre i denti del giudizio perché la nostra mascella è diventata più corta di quella dei nostri antenati per ospitare lo stesso numero di denti. Dobbiamo assumere vitamina C poiché i nostri antenati mangiatori di frutta avevano perso la capacità di sintetizzarla. PROVE EMBRIOLOGICHE Anche lo studio dello sviluppo embrionale fornisce delle interessanti indicazioni e permette di intuire l'origine di organismi diversi da antenati comuni. Le prime fasi dello sviluppo embrionale in tutti i vertebrati sono sorprendentemente simili tra loro e un embrione precoce di anfibio è difficilmente distinguibile da un embrione precoce di mammifero. Come si può spiegare questo fatto se non con l'ipotesi di una comune discendenza? Se non discendessero dai rettili, perché gli uccelli presentano denti in certe fasi dello sviluppo embrionale e ne sono privi allo stadio adulto? Se non ci fosse una parentela comune tra tutti i vertebrati, perché in un certo stadio l'embrione custodito nel grembo materno di una tranquilla signora di una città del XX secolo dovrebbe presentare degli abbozzi di branchie? I PILASTRI DELLA TEORIA EVOLUTIVA LA SELEZIONE NATURALE E LA VARIAZIONE Una femmina di merluzzo atlantico di dieci anni può rilasciare nell'acqua fino a 2.000.000 di uova. Se tutte queste uova schiudessero e se tutte le larve sopravvivessero fino allo stadio adulto, nel giro di pochi decenni ci prenderemmo tutti a pesci in faccia. La verità è che in media di questi due milioni di uova, ben 1.999.998 non arrivano a dare vita a un individuo adulto. In molte specie animali la mortalità è concentrata nei primi stadi di sviluppo, in altre è diluita nel corso del tempo. Anche in specie che producono una discendenza estremamente poco numerosa, come gli elefanti, è stato calcolato dallo stesso Darwin che se tutti gli individui nati da una coppia sopravvivessero, in circa 700 anni ci sarebbero 19 milioni di elefanti loro discendenti. E' chiaro che nel mondo non esistono risorse sufficienti per alimentare un mare denso di merluzzi né una terra coperta di elefanti. E' per questo che gran parte della prole di tutti gli animali e delle piante muore prima di riprodursi. Il problema è quello di stabilire chi sopravvive. A volte può essere una questione di fortuna, ma più in generale sopravvive chi è in grado di competere con successo con altri individui, chi è in grado di sfuggire meglio al predatore, chi è in grado di resistere meglio a un'infezione, cioè un insieme di proprietà che gli anglosassoni chiamano fitness. La lotta per l'esistenza è un'espressione metaforica che non ha niente a che vedere con la lotta fisica, ma che descrive le grandi difficoltà che un organismo deve affrontare per crescere e riprodursi (comportamento animale). La selezione naturale, come motore dell'evoluzione, opera grazie a questa elevata fecondità sfruttando la variabilità presente nei caratteri della progenie. Così nel fenomeno di melanismo industriale osservato per la prima volta in Biston betularia, una delle prove dirette dell'evoluzione, la selezione naturale favoriva a ogni generazione quelle varianti più scure che, avendo meno probabilità di essere predate, riuscivano ad arrivare con successo alla riproduzione. La prole di queste varianti più scure ereditava la caratteristica colorazione dei genitori ma a sua volta presentava un grado di variabilità nella colorazione. Di nuovo, le varianti più scure venivano selezionate. Quindi, perché vi sia selezione naturale, ci deve essere una riproduzione, una variabilità e un'ereditabilità. Vale la pena di osservare come la selezione naturale produce l'evoluzione creando specifici adattamenti. La popolazione di Biston betularia si è evoluta in cinquant'anni verso una colorazione scura e questa colorazione rappresenta un adattamento all'annerimento delle cortecce degli alberi dovuto all'inquinamento. Questo modello di ragionamento può essere applicato anche a un evento su una scala di milioni di anni come quello dell'evoluzione degli anfibi dai pesci: tra i 360 e i 370 milioni di anni fa, l'abbassamento del livello del mare probabilmente facilitò l'evoluzione di alcuni adattamenti alla vita terrestre. La selezione naturale operò per favorire quelle varianti che sviluppavano caratteristiche più adeguate alla vita terrestre, fornendo le basi per l'evoluzione degli anfibi e determinandone gli adattamenti. Per avere un'idea della variabilità presente in natura, basta guardarsi intorno e osservare come non esistono due esseri umani uguali, a meno che non siano gemelli omozigoti. La variabilità è presente a ogni livello della vita, a livello delle strutture macroscopiche come gli organi o gli arti, così come a livello delle cellule, a quello delle proteine o delle sequenze di DNA. In ciascuna popolazione esiste una variabilità e questa, presente a ogni livello, può risultare in una variabilità nella fitness degli organismi che compongono la popolazione. Gli organismi che hanno una fitness maggiore hanno anche una maggiore probabilità di riprodursi e di contribuire in misura consistente alla generazione successiva. ORIGINE DELLA VARIABILITÀ Se la variabilità è uno degli aspetti più rilevanti negli esseri viventi, ci si può chiedere quale sia la sua origine. L'unione dei diversi corredi cromosomici (cromosomi) nel corso della riproduzione sessuale è fonte di variabilità; inoltre negli animali l'immigrazione può contribuire a un aumento della variabilità quando si verificano accoppiamenti fra individui appartenenti a popolazioni diverse della stessa specie e provenienti da parti lontane dell'areale. Ma la sorgente primaria di variabilità è costituita dalle mutazioni. La maggior parte delle mutazioni sono probabilmente dovute a errori di copiatura del DNA durante la fase di replicazione e possono coinvolgere un singolo gene così come interi cromosomi. La maggior parte delle mutazioni prodotte sperimentalmente è letale per l'individuo portatore, ma in ogni caso queste rappresentano una fonte importantissima di variabilità. E' importante inoltre sottolineare che la necessità di adattamento di una specie a particolari condizioni ambientali non influenza in alcun modo l'insorgenza di particolari mutazioni. Queste sono infatti casuali rispetto alla direzione dell'adattamento. La mutazione che permette alla giraffa di avere un collo leggermente più lungo di quello dei suoi predecessori non avviene perché un collo più lungo è necessario per raggiungere i rami più alti. La mutazione avviene e basta! E' compito della selezione naturale favorire quegli individui che presentano mutazioni vantaggiose comparse casualmente. LA DERIVA GENETICA Se nelle popolazioni relativamente grandi la variabilità e la selezione naturale costituiscono i principali fattori chiamati in causa per spiegare i cambiamenti evolutivi, in una popolazione piccola e isolata come per esempio una popolazione insulare, può accadere che, da una generazione all'altra, si perda una certa quantità di variabilità genetica per motivi casuali. Infatti, essendo la popolazione molto piccola, gli individui riproduttivamente maturi del momento possono non essere portatori di tutti i caratteri della popolazione. Se vi sono dei caratteri ereditari più frequenti rispetto ad altri è probabile che, sempre per effetto del caso, questi caratteri tendano a essere gli unici presenti nelle generazioni discendenti e che, proprio per questo motivo, tali popolazioni tendano a diventare razze geografiche o addirittura specie distinte. Questo fenomeno, detto deriva genetica, contribuisce, accanto alla selezione naturale, al cambiamento evolutivo. L'ADATTAMENTO Oltre al fatto che le forme di vita esistenti sulla Terra presentino una grande diversità e variabilità, gli organismi viventi hanno anche un'altra caratteristica fondamentale che è quella di essere adattati all'ambiente in cui vivono, cioè di avere strutture e funzioni idonee e specializzate a favorirne o garantirne la sopravvivenza in quel particolare ambiente. In una visione evolutiva, gli organismi devono affrontare una serie di problemi che vengono posti loro dall'ambiente: variazioni della temperatura, attacco da parte dei predatori, infezioni parassitarie, scarsità di cibo. Nel corso delle generazioni, la selezione naturale, lavorando sulla variabilità ereditaria presente nelle popolazioni, crea le soluzioni via via migliori a questi problemi. Il risultato finale è che l'organismo risulta essere adattato all'ambiente in cui vive. La teoria dell'evoluzione per selezione naturale si basa su tre fondamentali principi: la presenza di una variabilità tra diversi organismi, l'ereditabilità di questa variazione, e il fatto che varianti diverse contribuiscono in modo differente al numero di discendenti nelle generazioni successive. L'adattamento non è contemplato in questi tre punti e Darwin stesso lo introdusse come quarto principio sostenendo che quei caratteri che aumentano la probabilità di sopravvivenza e il successo riproduttivo di un individuo, hanno anche una maggiore probabilità di essere conservati nelle generazioni successive. E' importante sottolineare come l'adattamento si riferisca alle condizioni ambientali presenti: se a volte si osserva un carattere che non sembra perfettamente adattativo, può essere che la selezione naturale non abbia ancora avuto il tempo di renderlo adeguato alle nuove condizioni ambientali. Questa rincorsa tra gli adattamenti necessari e le mutevoli condizioni ambientali è un meccanismo che offre notevoli spunti di studio e di osservazione e che può aiutare a spiegare perché la maggior parte delle specie apparse nel corso della storia della Terra siano estinte come emerge dall'analisi dell'evoluzione degli animali e da quella dell'evoluzione delle piante. Ma possiamo asserire che la teoria della selelezione naturale spiega tutti gli adattamenti conosciuti? In realtà, anche se apparentemente potrebbe sembrare difficile, tutti gli adattamenti possono essere spiegati attraverso la selezione naturale, direttamente o indirettamente. L'ADATTAMENTO E' UN CONCETTO RELATIVO Anche se l'adattamento (vedi paragrafo precedente) è un fenomeno generalmente riscontrabile negli esseri viventi, esistono delle caratteristiche che sembrano non essere adattative e quindi non attribuibili a selezione naturale. Per esempio l'acquisizione di una particolare forma da parte della conchiglia di un mollusco gasteropode può essere dovuta a vincoli che si esercitano nel corso del suo sviluppo embrionale, oppure una particolare morfologia può non essere possibile perché le leggi dell'embriologia (o a volte le leggi fisiche) non lo consentono. Non tutti i cambiamenti evolutivi sono dunque adattativi. Per esempio, potremmo avere una qualche difficoltà nel trovare un significato adattativo ai capezzoli del maschio dell'uomo: questi costituiscono infatti prodotti secondari di geni necessari allo sviluppo degli organi sessuali. L'adattamento è inoltre un concetto relativo: una zebra che corre più veloce lascerà più discendenti solamente se il problema principale da risolvere è quello di sfuggire dai predatori. Se il problema è invece di dover resistere a una malattia, la zebra più adattata sarà quella che presenta la resistenza contro quella specifica malattia. Se si osserva una testuggine marina arrancare sulla sabbia per deporre le uova, certamente non si ha l'impressione che le sue zampe siano adattate per questo particolare compito, la testuggine comunque si muove sulla sabbia meglio di una balenottera spiaggiata. L'adattamento in questo senso deve essere considerato un compromesso e l'evoluzione può essere paragonata a un ingegnere che debba continuamente fare compromessi: potrebbe progettare un serbatoio per la benzina a prova di bomba, ma il peso della vettura sarebbe tale che il consumo di carburante diventerebbe insostenibile. Così la morfologia di un'aringa è un compromesso tra i requisiti idrodinamici di un nuotatore infaticabile (un corpo affusolato e una pinna caudale falcata) e la necessità di non essere troppo visibile ai predatori che nuotano nelle acque sottostanti (un corpo compresso lateralmente); la nostra lingua ha un ruolo sia nella masticazione sia nell'emissione di suoni e la sua morfologia deve risultare in un compromesso tra queste due necessità; la possibilità di mantenere la postura eretta ci permette di trasportare oggetti e bambini ma ci espone comunque a problemi di mal di schiena! Un aspetto importante dei caratteri adattativi, prendendo in considerazione le differenze tra due specie per un determinato carattere, è che queste non sono necessariamente differenze nel grado di adattamento ma possono bensì essere soluzioni alternative a uno stesso problema. Il rinoceronte indiano ha un solo corno mentre quello africano ne ha due, ma non c'è motivo di ritenere che un corno solo sia un adattamento contro i predatori indiani e che due corni rappresentino un adattamento contro i predatori africani. Molto più semplicemente, si può pensare che le due specie siano partite da condizioni iniziali leggermente diverse e che abbiano reagito alle condizioni esterne (predatori) in maniera leggermente diversa. Sulla base di queste considerazioni e ricordando che alcuni cambiamenti evolutivi sono del tutto casuali, non bisogna eccedere nel tentativo di trovare una spiegazione adattativa per tutti i fenomeni biologici. L'adattamento comunque esiste ed è costantemente osservabile nel mondo che ci circonda: un pesce ha le pinne come adattamento al nuoto così come un cetaceo, un uccello ha le ali adattate al volo e lo stesso vale per un pipistrello o per una farfalla. Questa convergenza di forme tra linee evolutive indipendenti testimonia il fenomeno adattativo. RIPRODUZIONE, SESSO E ADATTAMENTO Il problema dell'adattamento riguarda anche la nascita e il mantenimento del sesso. Una femmina che si riproduca per semplice riproduzione asessuata produrrà femmine che a loro volta si riproducono asessualmente. Invece una femmina che ha bisogno di un partner per riprodursi, avrà mediamente una prole costituita da metà maschi e metà femmine. Se supponiamo che ciascuna femmina abbia due figli, le femmine che si riproducono asessualmente saranno semplicemente il doppio alla seconda generazione, mentre il numero di quelle che si riproducono sessualmente rimarrà costante. Ciò rappresenterebbe uno svantaggio, in termini evolutivi, per la riproduzione sessuata che condurrebbe a una minore fitness. Immaginiamo ancora che una femmina matura abbia un corredo genetico ideale, perfettamente adattato all'ambiente in cui essa vive. La femmina asessuata trasmetterà intatto questo corredo. La femmina sessuata trasmetterà invece solo metà dei suoi geni alla prole, perché l'altra metà verrà fornita da un maschio, da un estraneo che potrebbe non essere affatto adattato al suo ambiente. In questo modo la prole della femmina asessuata potrebbe avere vantaggi notevoli rispetto a quella della femmina sessuata. Quale significato adattativo può avere dunque la riproduzione sessuale rispetto all'evoluzione? Una risposta potrebbe essere formulata considerando che la riproduzione sessuata genera variabilità e che questa variabilità può essere vantaggiosa alla progenie perché gli offre una gamma più vasta di possibilità di rispondere alle mutevoli condizioni ambientali. In ogni caso, l'esistenza e il mantenimento della riproduzione sessuale rimangono ancora un mistero dal punto di vista evolutivo. Sempre legate al sesso sono delle particolarità di alcuni organismi che mettono in luce l'imperfezione di certi adattamenti. I maschi di molti uccelli hanno un piumaggio vistoso e sorprendentemente colorato che essi mettono in mostra attraverso una serie di rituali durante il corteggiamento. Certo è che la femmina tenderà a scegliere il maschio la cui performance le sembrerà migliore. Ma che ne è del pericolo in cui incorre il maschio di fronte a un predatore portandosi in giro una livrea simile? Questo tipo di caratteri vengono detti deleteri e generalmente sono rappresentati dai caratteri sessuali secondari, ossia da quei caratteri che non vengono direttamente messi in gioco durante l'atto riproduttivo o nella cura della prole. La coda del pavone è uno degli esempi più noti. L'uccello sarà scelto dalla femmina per la sua splendida livrea e per il suo straordinario rituale, ma che dire quando viene attaccato da un predatore ed è costretto a scappare, appunto, con la coda tra le gambe? Evidentemente, in molti animali, almeno per i maschi, il successo riproduttivo è più importante del rischio di predazione. LE UNITÀ DELLA SELEZIONE Siamo abituati a studiare la vita a diversi livelli di organizzazione: il DNA, le proteine, le cellule, i tessuti, gli organi, gli organismi. Gli organismi possono essere parte di gruppi sociali con diversi gradi di parentela e formare delle popolazioni. Una o più popolazioni costituiscono una specie e diverse specie possono costituire una comunità ecologica. La domanda che ci si pone adesso riguarda il livello a cui agisce la selezione naturale. Per certi adattamenti è piuttosto semplice osservare come vengano favoriti gli individui che li posseggono (questo vale nel caso delle pinne di un pesce o delle ali di un uccello), ma altre volte è più difficile riconoscere il beneficiario delle strutture, delle funzioni dei comportamenti o di altre caratteristiche osservate, ossia, in termini evolutivi, riconoscere l'unità di selezione. Il lemming è un roditore che vive nella tundra artica le cui popolazioni ogni 2-3 anni subiscono degli incrementi tali da costringerle a compiere delle emigrazioni in massa. Durante questi esodi è stato osservato un comportamento apparentemente assurdo. Se arrivano in prossimità del mare o dei corsi d'acqua, i lemming non si fermano ma vi si gettano dentro in massa e molti annegano. La domanda è la seguente: chi viene avvantaggiato da questo comportamento? E questo rappresenta dunque un adattamento? Nel caso in cui rappresenti un adattamento, certo non è un adattamento che privilegia il singolo lemming che si getta nell'acqua senza salvagente. Alcuni studiosi hanno pensato che questo suicidio collettivo possa rappresentare invece un adattamento che favorisce la popolazione nel suo insieme, rendendola meno numerosa e di conseguenza rendendo più disponibili le risorse alimentari. La selezione agirebbe sul gruppo piuttosto che sull'individuo. Questa visione delle cose è stata ampiamente criticata, ma in alcuni casi sembra che possa esistere realmente un tipo di selezione di gruppo, anche se questa non rappresenta certo la spinta portante dell'evoluzione. Secondo una visione più moderna, la selezione naturale beneficia i geni e gli individui che ne sono portatori. Da studi più recenti pare che i lemming che annegano non sono così numerosi: quando il cibo comincia a scarseggiare, verso la fine dell'inverno, i lemming migrano in grandi gruppi frettolosi e probabilmente non si accorgono dei piccoli laghi o delle distese di acqua che vengono create dallo scioglimento delle nevi. Se il comportamento di annegamento collettivo fosse adattativo significherebbe che ciascun lemming che annega ha dei geni "nobili" che lo spingono a sacrificarsi per il bene del gruppo. Mettiamo il caso che pochi lemming non abbiano questo gene: dopo il tuffo nell'acqua i lemming nobili morirebbero mentre quelli più furbi rimarrebbero sulle sponde a guardar morire i loro nobili compagni. Quel che è certo è che alla generazione successiva il gene "nobile" sarebbe presente con una frequenza infinitamente minore rispetto alla generazione precedente e così via fino alla sua completa scomparsa. Una visione estremista nell'altro senso vede gli organismi come semplici contenitori di geni, creati dai geni stessi per far sì che essi possano replicarsi e lasciati morire una volta che questo compito viene assolto. L'ipotesi è suggestiva. In questa prospettiva, è chiaro che l'evoluzione non può e non deve essere vista come un processo che tende verso l'armonia e la stabilità: al contrario la norma è il contrasto e la disarmonia. La natura può apparire bella ai nostri occhi, ma avvicinando lo sguardo si colgono tutti gli aspetti più stridenti e conflittuali. Questa visione del "gene egoista" può a volte apparire inadeguata a descrivere delle situazioni: sono quelle in cui appare il comportamento altruistico. Un genitore che rischia la propria vita per difendere la prole così come le caste sterili presenti nelle vespe, nelle api, nelle formiche e nelle termiti che si curano altruisticamente delle compagne arrivando addirittura al sacrificio della propria vita, rappresentano paradossi apparenti riguardo alle unità di selezione. Che vantaggio può trarre una madre a mostrarsi al predatore per evitare che questo divori la sua progenie, o un'ape operaia che punge e muore per difendere la regina? J. B. S. Haldane, un famoso genetista inglese, una volta scrisse che non avrebbe sacrificato la sua vita per un singolo fratello ma lo avrebbe fatto per due fratelli o per otto cugini. In effetti, la selezione favorisce il comportamento altruistico nei casi in cui è diretto verso individui che condividono il nostro patrimonio ereditario e che ci assicurano una discendenza. Le api operaie sono sterili, ma sono anche tutte sorelle e si devono, in senso evolutivo, preoccupare del rispettivo stato di salute, nel senso che i geni della singola ape per questo comportamento altruistico saranno avvantaggiati perché favoriscono la continuità del proprio patrimonio ereditario. Con un fratello o una sorella condividiamo metà del nostro patrimonio ereditario, con un cugino ne condividiamo un ottavo. E' questo il senso dell'affermazione di Haldane. A ogni modo, i geni nella stragrande maggioranza dei casi sono le unità di selezione e prima di considerarne altre di ordine superiore occorre sempre una certa cautela e un attento studio. D'altro canto non bisogna mai scordare che un gene "nudo" non può di certo sopravvivere. Esso ha bisogno di un contorno che gli permetta di replicarsi, di resistere alle condizioni ambientali esterne e di rendersene il più possibile indipendente. Chiaramente la selezione agirà anche su questo livello superiore di organizzazione, ossia, e siamo ritornati al punto di partenza, sull'individuo. LA SPECIAZIONE Prescindendo dalle molteplici definizioni del concetto di specie, l'evento cruciale per l'origine di una nuova specie è comunque sempre l'isolamento riproduttivo. Di conseguenza, per capire come due specie si originano da una singola specie preesistente, bisogna comprendere i meccanismi attraverso i quali si forma una barriera riproduttiva tra la specie ancestrale e quella nuova da essa derivata. Vi sono varie possibilità: la formazione di due specie distinte può essere il risultato di processi evolutivi che interessano popolazioni isolate dal punto di vista geografico; oppure la nuova specie può evolversi in zone contigue, adiacenti rispetto alla specie ancestrale; una terza situazione è quella in cui, a partire da una singola popolazione, le due specie si evolvono nella medesima area geografica. Questi tre diversi meccanismi vengono detti rispettivamente speciazione allopatrica, speciazione parapatrica e speciazione simpatrica. Per raccontarli senza ricorrere a descrizioni troppo complesse consideriamo due specie immaginarie, una di "pincopallini" e una di "pincopalloni". Per far sì che una specie di pincopalloni si origini da una specie iniziale di pincopallini, occorre che all'interno di quest'ultima specie vi sia una variante genetica con le caratteristiche tipiche dei futuri pincopalloni e che queste varianti non amino molto i pincopallini e tendano preferenzialmente a riprodursi tra di loro. Questa preferenza può essere rafforzata nel corso del tempo e in seguito i pincopalloni potrebbero cominciare a mangiare cose leggermente diverse dai pincopallini, a preferire il mare alla montagna, la notte dal giorno. Alla fine del processo, da una popolazione iniziale si avranno due popolazioni separate e isolate riproduttivamente anche dal punto di vista genetico. A questo punto i pincopallini e i pincopalloni potranno essere considerati due specie. In particolare ci si può domandare perché e in quali circostanze la nuova variante genetica evolva. SPECIAZIONE ALLOPATRICA La variabilità, come specificato più volte, è una caratteristica intrinseca di tutte le popolazioni naturali. La variazione geografica è un aspetto importante di questa variabilità e ogni popolazione di una specie è diversa sotto molteplici aspetti dalle altre popolazioni della stessa specie. Gli stessi caratteri che vengono solitamente usati per distinguere una specie sono essi stessi soggetti a variazione geografica e la selezione naturale tende a favorire queste piccole differenze per dar vita a varianti che siano meglio adattate alle diverse zone geografiche di diffusione della specie. Nel caso della speciazione allopatrica, due popolazioni vengono separate da una barriera geografica, quale un monte, un fiume, ecc. Nel corso del tempo, non essendoci contatti né incroci, le due popolazioni cominceranno a divergere. Questo può avvenire per effetto delle mutazioni: essendo le mutazioni casuali esse possono determinare cambiamenti completamente diversi nelle due popolazioni. Inoltre, la divergenza può essere favorita da fattori diversi della selezione naturale nei due ambienti: diversi predatori, diverse risorse alimentari e diversità di clima impongono una diversa direzione al cambiamento. La divergenza può avvenire però anche per semplice effetto del caso: in due popolazioni di dimensioni ridotte i fenomeni di deriva genetica possono determinare l'affermazione di caratteristiche peculiari a ciascuna di esse. Così a un certo punto avremo una popolazione di pincopallini e una popolazione di pincopalloni. Se la barriera persiste nel tempo, le due popolazioni rimarranno separate e non avremo prove dirette del fatto che siano effettivamente specie diverse. Se, al contrario, per un qualche motivo, la barriera viene meno (per prosciugamento del fiume oppure semplicemente per migrazione), i pincopallini e i pincopalloni entreranno nuovamente in contatto e potrebbe succedere che gli elementi necessari a riconoscersi come membri di una stessa specie siano scomparsi. In questo caso, le due popolazioni costituiranno due specie differenti. La speciazione allopatrica è un processo molto importante ai fini dell'evoluzione e sembra essere piuttosto comune come si potrebbe supporre dagli innumerevoli casi di variazione geografica documentati. SPECIAZIONE PARAPATRICA Nel caso della distribuzione spaziale cosiddetta parapatrica, i pincopallini che inizialmente occupano una certa area geografica a un certo punto incominciano ad avere mire espansionistiche e a occupare una zona contigua. Mettiamo il caso che queste zone contigue siano piuttosto diverse ecologicamente da quella originaria e che qui la selezione naturale favorisca pincopallini con la coda lunga e prensile. In questa popolazione si accumuleranno nuove varianti genetiche e le differenze tra i pincopallini appartenenti alle due popolazioni (quella centrale e quella periferica) tenderanno ad aumentare. Il primo passo della speciazione parapatrica è quello della formazione, al confine tra le due popolazioni, di una zona dove sono presenti ibridi, ossia gli incroci tra i membri delle due popolazioni di pincopallini. Se gli ibridi non sono svantaggiati, le due popolazioni rimarranno semplicemente due varianti geografiche della stessa specie di pincopallini collegate da un flusso genico che impedisce la speciazione. Può tuttavia avvenire che gli ibridi vengano eliminati dalla selezione naturale come nel caso di pincopallini ibridi con la coda né lunga né corta, che non può servire ad arrampicarsi sugli alberi e che anzi è loro di impedimento nella corsa per sfuggire ai predatori di pincopallini. In questo caso, poiché la selezione naturale avvantaggerà le coppie che hanno una prole senza coda o quelle che hanno una prole con coda lunga, la popolazione di pincopallini con coda lunga tenderà a essere isolata riproduttivamente da quella senza coda, completando il processo di speciazione parapatrica. Un esempio di zona ibrida lo abbiamo quasi sotto gli occhi. La cornacchia grigia che si incontra così spesso ai bordi delle strade italiane appartiene alla specie Corvus corone. Se partendo dall'Italia meridionale ci dirigiamo verso nord, ne osserveremo parecchie durante il nostro cammino, questo finché non superiamo le Alpi ed entriamo in Francia. A questo punto cominceremo a vedere solo cornacchie del tutto simili come forma e abitudini a quelle viste fino a quel momento, ma completamente nere. A uno studio più attento si potrà osservare come le due cornacchie sono diverse sotto molteplici altri aspetti oltre che per il colore. Nel corso dei pochi chilometri che ci separano dalla cornacchia grigia abbiamo attraversato inconsapevolmente una zona di ibridazione. Infatti i meccanismi di isolamento riproduttivo tra le due varianti geografiche di cornacchia non si sono ancora evoluti. Se questo succedesse, si avrebbero due specie e il meccanismo di speciazione sarebbe quello parapatrico. SPECIAZIONE SIMPATRICA L'ultimo meccanismo che rimane ancora da descrivere è quello della speciazione simpatrica. L'esistenza effettiva di questo meccanismo come fenomeno di speciazione risulta ancora piuttosto controversa negli studi di biologia evolutiva. Si può immaginare comunque che nella popolazione di pincopallini ci siano delle varianti tra le quali, per esempio, alcuni pincopallini con un becco piccolo e altri con un becco più grande. La dimensione del becco determina il tipo di cibo che i pincopallini possono assumere. Mettiamo che i pincopallini con il becco grande siano in minor numero rispetto a quelli col becco piccolo e che di conseguenza cibandosi di semi più grandi non siano in competizione con gli altri, ma che anzi abbiano a disposizione cibo in grandi quantità, si nutrano di più e facciano più figli. La selezione naturale favorirà gli incroci che daranno una progenie in grado di cibarsi meglio e così può avvenire che i pincopallini col becco grande comincino a scegliere i partner simili a loro. Si potranno così formare meccanismi di isolamento riproduttivo tra le due varianti di pincopallini e alla fine si potrà assistere alla nascita di una nuova specie, quella dei pincopalloni, che in questo caso sarebbe meglio chiamare "pincobecconi". Le condizioni per la speciazione simpatrica sono più restrittive rispetto agli altri meccanismi poiché necessitano della presenza di varianti stabili (dette polimorfismi - come i pincopallini dal becco grande e quelli dal becco piccolo) all'interno di una stessa popolazione, di varianti che vengano cioè mantenute dalla selezione naturale. EVOLUZIONE E CLASSIFICAZIONE DARE ORDINE ALLA NATURA Le specie viventi descritte fino a oggi sono circa un milione e mezzo e il loro numero aumenta costantemente mano a mano che nuove specie vengono descritte. La descrizione di una specie è uno dei compiti fondamentali del tassonomo, ossia di colui che si occupa di classificare gli organismi. La classificazone degli esseri viventi deve rispettare una gerarchia di livelli precostituita e ciascun tassonomo si occupa di attribuire gli organismi alle categorie corrette di questa gerarchia. Ma qual'è la necessità di classificare gli organismi secondo una gerarchia? Innanzitutto è necessario stabilire delle regole nell'enorme varietà degli esseri viventi, in modo da dare una sistematicità allo studio della natura, ossia in modo da stabilire una nomenclatura e un ordine. Questo risulta utile perché fra gli studiosi e anche fra la gente comune ci si possa intendere sul significato di un termine e anche perché il fatto di cercare un ordine conduce necessariamente alla ricerca di somiglianze e differenze tra i vari organismi. Queste somiglianze e differenze riflettono la storia evolutiva e di conseguenza la classificazione a sua volta è tendenzialmente conforme ai rapporti evolutivi tra le diverse specie. Il livello più alto della gerarchia tassonomica è il regno: si distingue, per esempio, il regno animale da quello vegetale. Il secondo livello è costituito dal phylum: il phylum dei cordati include diverse classi fra cui i pesci, gli anfibi, i rettili, gli uccelli e i mammiferi, mentre il phylum degli artropodi include, per esempio, gli insetti, i crostacei, gli aracnidi e altri invertebrati. Il livello successivo è rappresentato dall'ordine: i mammiferi vengono classificati in 33 ordini, tra i quali l'ordine dei primati che include anche l'uomo e le scimmie. Un ordine può essere composto da più famiglie, le famiglie da più generi e infine il genere può essere rappresentato da più specie. Ciascun organismo vivente viene definito attraverso la combinazione di due termini, una nomenclatura che viene detta binomia, proposta nel XVIII secolo dal sistematico svedese Carlo Linneo, fondamentale sia in botanica che in zoologia): il primo termine si riferisce al genere il secondo alla specie. Il lupo, Canis lupus, appartiene al genere Canis come lo sciacallo, Canis aureus. Insieme, questi due animali vengono classificati, come la volpe, che però appartiene al genere Vulpes, nella famiglia dei canidi. Insieme agli orsi, ai procioni, alle donnole, alle iene, ai leoni e alle foche, i canidi appartengono all'ordine dei carnivori. Questi ultimi, a loro volta, insieme a molti altri ordini costituiscono la classe mammiferi. Risalendo ancora nella scala gerarchica della classificazione animale, i mammiferi appartengono con i pesci, gli anfibi, i rettili e gli uccelli al phylum dei cordati. Non essendo né piante, né funghi, né batteri, i lupi infine sono inclusi nel regno animale. Questa gerarchia, regno, phylum, ordine, classe, famiglia e genere (tranne per quanto riguarda la specie) è una costruzione artificiale. Infatti, la natura non presenta nessun livello gerarchico e le categorie dei viventi variano con continuità, a volte sfumando le une nelle altre. Questa gerarchia però risulta essere di una certa utilità pratica dal punto di vista didattico per classificare gli organismi dai più semplici ai più complessi. CLADISMO E FENETICA Esistono diverse scuole di tassonomia che utilizzano metodi e filosofie differenti per classificare gli organismi. La scuola cladistica, o filogenetica, tende a costruire un sistema nel quale gli organismi vengono raggruppati in categorie che rispecchiano i loro rapporti di parentela. Secondo il suo fondatore, Willi Hennig, si tratta di trasformare un albero genealogico in classificazione in base a determinati criteri. I caratteri vengono analizzati e riconosciuti come caratteri ancestrali oppure come caratteri derivati (cioè caratteri evolutivamente più avanzati e moderni) e tale criterio è la guida per la ricostruzione filogenetica e l'inquadramento sistematico di animali e piante. Invece la scuola fenetica considera il maggior numero possibile di caratteri, indipendentemente dal loro significato evolutivo, e li utilizza con metodi di elaborazione matematica (tassonomia numerica). Essa rinuncia a priori a operare una ricostruzione evolutiva degli organismi e mira a una classificazione di ordine pratico. I risultati dei due tipi di metodologia possono essere completamente diversi. Per esempio, gli uccelli e i coccodrilli hanno un antenato in comune più recente rispetto all'antenato comune di coccodrilli e lucertole. La scuola fenetica metterebbe coccodrilli e lucertole vicini in una classificazione, la scuola filogenetica unirebbe in uno stesso gruppo uccelli e coccodrilli. Entrambi i sistemi classificatori soffrono di alcuni limiti. Il metodo fenetico non dà informazioni sulle relazioni di parentela fra gli organismi. E' possibile che nella classificazione vengano lasciati fuori dei caratteri importanti ma non inquadrabili numericamente. La scuola filogenetica, da parte sua, pur essendo decisamente più oggettiva, può a volte essere piuttosto incerta e lacunosa proprio perché la storia evolutiva di una specie e i suoi rapporti filogenetici con altre non sempre sono chiari o ben conosciuti. Recentemente una nuova scuola di classificazione, la tassonomia evolutiva, ammette l'uso di entrambi gli approcci metodologici (l'analisi filogenetica dei caratteri e l'elaborazione numerica), unificando in un unico metodo i vantaggi delle due scuole precedenti. IL CONCETTO DI SPECIE DAL CRITERIO MORFOLOGICO AL CONCETTO BIOLOGICO I biologi sono pressoché tutti d'accordo nel ritenere la specie l'unità fondamentale della classificazione biologica mentre mostrano una diversità di vedute per quanto riguarda la sua definizione. Questa controversia è di tipo teorico mentre, per problemi pratici, come per esempio distinguere due specie di gabbiani in una baia, si ricorre generalmente a un approccio di tipo morfologico. Una guida al riconoscimento degli uccelli darà una serie di indicazioni generalmente piuttosto semplici per distinguere un passero da un cardellino. Il problema insorge però quando due popolazioni di una stessa specie che vivono in località geografiche diverse mostrano caratteri diversi. E in effetti questo tipo di variazione, che viene detta variazione geografica, è piuttosto frequente in natura, ed è presente anche nell'uomo (variabilità dell'uomo). Altre volte, la definizione pratica di una specie risulta molto più complessa, come nel caso di specie che sfumano gradualmente le une nelle altre nell'arco della loro distribuzione geografica. In questi casi, l'approccio semplicemente morfologico non è adatto per il fatto che, trattandosi di specie discendenti da un antenato comune, è probabile che ci siano delle popolazioni intermedie non chiaramente distinguibili come specie separate. Così i biologi evoluzionisti hanno cominciato a proporre diverse definizioni del concetto di specie. La più antica è senza dubbio quella morfologica secondo cui la specie viene definita come un gruppo comprendente una serie di organismi che si somigliano tra loro e che sono distinguibili da un altro gruppo. Nel 1969 il biologo evoluzionista Ernst Mayr (1904) definì una specie come un insieme di popolazioni naturali in grado di incrociarsi tra loro (interfeconde) e isolate riproduttivamente da altre popolazioni simili. Questo è il concetto biologico di specie, certamente il più diffuso anche se non universalmente accettato. Ponendo l'accento sulla riproduzione, la specie può venir anche identificata con il suo patrimonio genetico. Due individui che non possono accoppiarsi tra loro e quindi non possono neanche scambiarsi geni, di conseguenza sono isolati dal punto di vista riproduttivo e appartengono a due specie diverse. Dal punto di vista pratico, definire una specie secondo questo concetto risulta essere piuttosto difficile: dovremmo seguire il passero e il cardellino durante tutta la loro stagione riproduttiva e vedere se non ci siano degli ibridi in giro. Chiaramente il criterio morfologico è molto più diretto in questo caso ed è pienamente giustificato dal concetto biologico di specie per il semplice fatto che i caratteri morfologici in comune tra due individui della stessa specie sono indicatori della loro interfecondità. Molto spesso però i membri di una stessa specie non hanno affatto caratteri uniformi, ossia al loro interno si distinguono molti tipi morfologici: è questo il caso delle specie cosiddette politipiche (formate da molte razze geografiche distinte). Le popolazioni che compongono ciascuna razza possono comunque incrociarsi tra loro e quindi appartengono alla stessa specie. Il morfologo classico invece non resisterebbe alla tentazione di distinguere le popolazioni come specie diverse. Al contrario, può succedere che due popolazioni morfologicamente identiche siano invece isolate riproduttivamente, motivo per cui vanno considerate specie diverse (si parla in questo caso di specie sorelle), anche se per il morfologo esse costituirebbero una singola specie. L'argomento riguardante il concetto biologico di specie può essere ulteriormente approfondito: ci si può chiedere a questo punto quali siano i meccanismi che impediscono l'incrocio tra diverse specie. Una cavalla è piuttosto restia a incrociarsi con un asino poiché genererebbe una prole sterile (il mulo) e tutti gli sforzi che compirebbe per trasmettere i suoi geni diventerebbero vani alla generazione successiva. E' chiaro quindi che la selezione naturale deve aver agito e agisce tuttora in maniera molto consistente per mantenere vivi i meccanismi d'isolamento riproduttivo. Le specie non si incrociano per una moltitudine di motivi: perché hanno habitat differenti, perché hanno periodi riproduttivi diversi, diverse modalità di corteggiamento e linguaggi diversi. Tutto questo fa sì che le specie abbiano un'identità genetica ben definita e che vengano prodotti ibridi sterili. IL CONCETTO ECOLOGICO Oltre ai concetti già esaminati, esiste un altro concetto di specie basato sulle caratteristiche ecologiche delle popolazioni naturali: tale concetto definisce una specie come l'insieme di quegli organismi che occupano la stessa nicchia ecologica. Il concetto ecologico di specie sottolinea quei motivi più generali per i quali la selezione limita in pratica l'incrocio tra diverse specie. Dal punto di vista ecologico, la selezione limiterebbe la formazione di ibridi poiché questi non sono ben adattati. Gli ibridi ricevono geni da due specie diverse e questi geni necessariamente, dato il distinto passato evolutivo delle due specie in esame, non possono interagire in maniera adeguata. In sostanza gli ibridi non sono né carne né pesce. E in natura, secondo i sostenitori di questo approccio, non ci sarebbe posto per tali organismi poiché la natura è divisa in zone adattative, con dei salti tra l'una e l'altra. Ciascuna zona adattativa è definita in maniera piuttosto precisa e ogni specie vi si è adattata nel corso della sua storia evolutiva. L'ibrido non sarebbe in grado di sfruttare alcuna zona adattativa e necessariamente non potrebbe sopravvivere. Questo concetto spiega in sostanza perché in natura gli ibridi siano così rari e pone l'accento sulla selezione naturale come principale promotore dell'identità di una specie. In realtà, il concetto biologico e quello ecologico di specie sono strettamente legati: se i membri di una specie si incrociassero con una gamma troppo ampia di partner, dando vita a una progenie disadattata, la selezione agirebbe cercando di far loro aggiustare il tiro, in sostanza di essere un po' più selettivi nelle loro scelte sentimentali.... In questo senso l'approccio ecologico e quello biologico si possono integrare. LA SPECIE CLADISTICA Le argomentazioni teoriche riguardanti la definizione del concetto di specie possono essere spostate su un terreno diverso, quello storico. La specie è visibile oggi, ma la sua storia evolutiva dura forse da milioni di anni. In questa visione prospettica come possiamo distinguere una specie dal suo predecessore? A che punto della linea evolutiva possiamo inserire una ramificazione o una divergenza? Né il concetto morfologico (per la sua arbitrarietà) né quello biologico (come conoscere le abitudini riproduttive di una specie estinta?) né il concetto ecologico (non sempre si riescono a ricostruire le caratteristiche ecologiche di forme fossili) ci possono aiutare a questo riguardo. Una soluzione obiettiva potrebbe provenire dalla scuola cladistica (o filogenetica) di classificazione (cladismo). La specie cladistica può essere definita come quell'insieme di organismi che occupano una linea evolutiva compresa tra due punti di biforcazione. Questo elimina qualsiasi arbitrarietà nel suddividere la linea evolutiva. Un altro concetto che prende in considerazione il passato evolutivo delle specie è il cosiddetto concetto evolutivo che definisce la specie come una sequenza di popolazioni tra gli antenati e i discendenti che si evolvono separatamente da altre linee evolutive. CONSIDERAZIONI FINALI Come si vede le definizioni sono molteplici e riguardano diversi aspetti della realtà complessa del fenomeno specie. In natura la variabilità è la norma e rendere discreto qualcosa che si presenta come un continuum sia dal punto di vista spaziale che sotto il profilo temporale risulta comunque un procedimento articolato. Il problema è di ordine filosofico: le specie, ma anche i generi, le famiglie, le classi, esistono veramente in natura o sono delle categorie imposte artificialmente dall'uomo? Per quanto riguarda la specie, il concetto biologico e forse anche quello ecologico, definiscono qualcosa di realmente esistente, mentre non si può dire lo stesso per il concetto cladistico o evolutivo. E' già qualcosa. Ma che dire dei raggruppamenti superiori? Per molto tempo questi sono stati definiti attraverso attributi soprattutto morfologici. Si è già visto precedentemente come la scelta di questi attributi sia piuttosto soggettiva. A questa considerazione possiamo aggiungere un'ulteriore osservazione: quando un gruppo di giapponesi scende da un autobus, agli occhi di un europeo sembrano pressoché tutti uguali (ma lo stesso vale per i giapponesi quando sono gli europei a recarsi in Giappone). Tuttavia, se un europeo vivesse in Giappone per qualche tempo probabilmente sarebbe in grado di distinguere anche due gemelli. Il criterio morfologico ha un livello di soggettività molto elevato e se i raggruppamenti superiori fossero basati su questo criterio dovremmo concludere che in natura non esistono e che sono solo delle semplificazioni utili e necessarie quando ci si avvicina allo studio della natura. MACROEVOLUZIONE Quando si affrontano problemi relativi a fenomeni che avvengono a un livello al di sotto della specie si parla di microevoluzione. La speciazione è un meccanismo che viene studiato al di sotto del livello di specie e pertanto è un meccanismo microevolutivo. Quando si abbandona questo livello di osservazione e si incominciano a osservare i cambiamenti evolutivi su larga scala si stanno affrontando invece dei problemi di macroevoluzione. La domanda principale che ci si pone ampliando questa scala di osservazione è la seguente: la macroevoluzione è una microevoluzione estrapolata a una scala temporale molto più ampia oppure è un fenomeno a se stante, non incompatibile, ma che prevede meccanismi diversi rispetto a quelli della microevoluzione? Lo strumento fondamentale per lo studio della macroevoluzione è costituito dalla misura del tasso di evoluzione di una struttura o di una specie a partire dalla datazione dei reperti fossili. IL TASSO DI EVOLUZIONE Il tasso di evoluzione è una misura facilmente calcolabile una volta che i fossili siano stati datati. E' una funzione della differenza tra la struttura esaminata nell'individuo più moderno rispetto a quella dell'individuo ancestrale diviso l'intervallo di tempo trascorso. Lo studio dei tassi di evoluzione permette per esempio di osservare come il tasso di evoluzione dei mammiferi sia più rapido di quello dei molluschi, come generalmente le forme di vita più complesse subiscano un'evoluzione più rapida rispetto a quelle più semplici. Inoltre è stato suggerito, sempre attraverso lo studio dei tassi di evoluzione, che le specie tendono a evolvere più rapidamente durante i fenomeni di speciazione piuttosto che tra di essi. Quest'ultimo argomento costituisce la base di una delle controversie attuali riguardante la macroevoluzione, quella tra i sostenitori della teoria degli equilibri intermittenti e i sostenitori del gradualismo. GLI EQUILIBRI INTERMITTENTI L'incompletezza dei reperti fossili aveva creato qualche problema allo stesso Darwin poiché questi non mostravano cambiamenti evolutivi graduali. Da allora molti paleontologi si misero al lavoro per cercare di trovare esempi fossili di cambiamenti evolutivi graduali. Due di loro in particolare, Niels Eldredge e Stephen J. Gould, hanno concentrato la loro attenzione sui meccanismi di speciazione allopatrica: se i pincopalloni (vedi esempio nel precedente paragrafo) evolvono in un'area geograficamente diversa da quella della specie ancestrale di pincopallini, queste due lasceranno fossili solo nelle rispettive aree che abitano, a meno che i pincopalloni non reinvadano le aree occupate dai pincopallini. In questo caso, la nuova specie avrà la sua completa dignità di pincopalloni e sarà probabilmente piuttosto diversa dalla specie ancestrale dei pincopallini. Quando il paleontologo troverà i resti di queste antiche specie, troverà fossili di pincopallini e di pincopalloni negli stessi strati di roccia, ma non troverà forme intermedie di pincopallonini. Di conseguenza, il cambiamento evolutivo sembrerà non essere graduale semplicemente per il fatto che il processo di divergenza è avvenuto altrove. Da questa considerazione i due studiosi si sono spinti oltre e hanno proposto una teoria che viene detta "degli equilibri intermittenti" in cui sostengono i seguenti punti fondamentali: 1) le specie evolvono soprattutto per suddivisione delle linee evolutive: il nuovo si origina a partire dalla specie ancestrale per divergenza; 2) le nuove specie evolvono rapidamente; 3) le nuove specie si originano a partire da una piccola popolazione della forma ancestrale, 4) la nuova specie si origina in una piccola porzione dell'area di distribuzione della specie ancestrale - preferenzialmente in una zona isolata periferica. IL GRADUALISMO In opposizione a quanto enunciato dai sostenitori della teoria degli equilibri intermittenti (vedi paragrafo precedente), i sostenitori del gradualismo sostengono invece che generalmente i pincopallini si modificano gradualmente nel tempo dando vita ai pincopalloni, che questa trasformazione è graduale e lenta e che coinvolge tutta la popolazione originale di pincopallini. La differenza sostanziale tra le due teorie riguarda il tasso di evoluzione durante e tra gli eventi di speciazione. Nel caso del gradualismo, il tasso è costante nel corso del tempo, al contrario, per i sostenitori degli equilibri intermittenti, questo tasso è molto elevato al momento della suddivisione della linea evolutiva mentre tra gli eventi di speciazione il cambiamento evolutivo è molto piccolo o inesistente, una condizione che Eldredge e Gould chiamano "stasi". La controversia è ancora molto attuale e ha avuto il grande merito di stimolare un gran numero di studi orientati in maniera molto precisa a cercare di suffragare l'una o l'altra posizione teorica. Ancora molto lavoro è necessario per chiarire i meccanismi macroevolutivi, ma lo stimolo intellettuale fornito da due teorie contrastanti sembra ricco di prospettive e di chiarimenti. Il tutto a favore della comprensione della storia evolutiva. FENOMENI MACROEVOLUTIVI Lo studio della macroevoluzione, oltre a determinare i tassi di evoluzione e i meccanismi attraverso i quali il cambiamento si attua (vedi paragrafi precedenti), si pone anche il problema di definire i modi in cui le transizioni tra i grandi gruppi di animali ebbero luogo. L'evoluzione dei mammiferi e degli uccelli a partire dai rettili, la conquista della terraferma da parte degli anfibi o delle piante terrestri, l'evoluzione di organismi pluricellulari a partire da organismi unicellulari, sono tutti argomenti che richiedono una spiegazione sulle modalità attraverso le quali la vita ha raggiunto la ricchezza attuale. Altro argomento importante negli studi sulla macroevoluzione riguarda il fenomeno della coevoluzione, con cui si indica l'evoluzione interdipendente di due (o più) specie che abbiano una chiara relazione ecologica e che traggano entrambe benefici dalle interazioni. Come esempio si può considerare quello di una specie di formica ampiamente diffusa in Europa (Formica fusca) che utilizza come nutrimento una sostanza prodotta da un organo particolare di un bruco. Il motivo per il quale il bruco produce tale secreto sembra essere unicamente quello di nutrire la formica. La formica in compenso protegge il bruco da una serie di pericolosi parassiti. Il fenomeno, molto diffuso in natura, viene chiamato mutualismo. L'evoluzione del comportamento della formica (difesa dai parassiti) e quella dell'organo del bruco sono strettamente legate. Da un punto di vista evolutivo, si può immaginare che con l'aumentare del liquido prodotto, la formica abbia avuto la tendenza a scoraggiare sempre di più i parassiti che avessero potuto indebolire o uccidere questa fabbrica ambulante di delizie. Questo comportamento protettivo a sua volta avvantaggiava il bruco, e rendeva evolutivamente vantaggiosi gli organi più attivi nella produzione della sostanza. In questo caso, come in altri, si crea così una specie di gara, che tende verso il bene comune di entrambe le specie. Questo tipo di meccanismo produce cambiamento evolutivo e per questo viene detto coevoluzione. Un altro tipo di coevoluzione riguarda il rapporto tra l'ospite e il parassita: un miglioramento nelle capacità del parassita deve necessariamente comportare, prezzo la vita o la morte, un aumento nel corso dell'evoluzione delle capacità difensive dell'ospite. L'evoluzione del sistema immunitario ha molto a che vedere con fenomeni coevolutivi. Questa "corsa agli armamenti" può essere evidente anche quando si vadano a studiare i fossili di prede e predatori del passato e li si confrontino con forme attualmente viventi. Si nota come la dimensione del cervello aumenti in entrambi, sia nella preda che nel predatore, nel corso del tempo. Più furbo il predatore, più furba si deve fare la preda per sfuggirgli, più furba la preda più furbo deve diventare il predatore per catturarla e così via. Se l'intelligenza di una preda o di un predatore è legata alla dimensione del cervello, vi sarà un aumento del volume cerebrale nel corso del tempo nelle diverse specie di prede e predatori. Attenzione però, qui si sta parlando di tempi evolutivi su grande scala (decine di milioni di anni) e di una serie di specie nel corso del tempo: questo concetto non si può e non deve essere esteso all'uomo, la qual cosa significherebbe considerare stupido chi ha la testa piccola, come hanno tentato studiosi in malafede del secolo passato. Il cervello di Albert Einstein (1879-1975), ha un peso che rientra perfettamente nella media. Questo dovrebbe servire sempre come monito a tutti coloro che tentano, attraverso argomentazioni pseudo-evolutive, di giustificare atteggiamenti razzisti o discriminanti in un contesto che non ha niente a che vedere con quello evolutivo. LA TEORIA NEUTRALISTA A livello molecolare, l'importanza relativa della selezione naturale nell'evoluzione è stata recentemente messa in discussione dalla cosiddetta "teoria neutralista" proposta dal genetista di popolazioni giapponese Motoo Kimura. Secondo questa teoria, basata su una serie di osservazioni effettuate a livello molecolare, l'evoluzione è dovuta essenzialmente a mutazioni neutrali nei confronti della selezione, ossia a cambiamenti che non migliorano né peggiorano la fitness dell'individuo. I neutralisti sostengono quindi che la maggior parte dei cambiamenti evolutivi delle molecole siano dovuti a una deriva genetica casuale, mentre secondo i sostenitori della selezione naturale è quest'ultima a determinare l'evoluzione, anche a livello delle molecole. La teoria neutralista non prevede che la deriva casuale spieghi ogni cambiamento evolutivo e la selezione naturale è ancora necessaria per spiegare l'adattamento. Ciò che tende a sottolineare la teoria neutralista è che gli adattamenti che si osservano in natura siano rappresentativi solo di una minoranza di tutti i cambiamenti evolutivi che sono presenti e registrati nel DNA. A livello del DNA e delle proteine, secondo i neutralisti, il caso ha un effetto fondamentale e, di conseguenza, la maggior parte del cambiamento che si osserva a questo livello è un cambiamento non adattativo. La discussione tra le due scuole, quella neutralista e quella tradizionalista, è tuttora piuttosto vivace e l'argomento denso di interesse e di conseguenze sul piano teorico. USI E ABUSI DELLA TEORIA EVOLUTIVA GLI ABUSI Scienziati di epoche passate e anche recenti hanno spesso dimostrato pregiudizi razziali estendendo teorie formulate in contesti particolari per mettere in luce pesanti pregiudizi sociali. La discriminazione contro gli afroamericani, contro gli indiani d'America, contro gli ebrei, e in genere contro qualsiasi tipo di "diversità", ha cercato basi scientifiche e trovato sostenitori dall'Ottocento fino ai nostri giorni. Questi pregiudizi purtroppo alimentano ancora, navigando nel mare dell'ignoranza, sentimenti razzisti nelle moderne società attuali. Una parte influente del mondo scientifico ha avallato e sostenuto questi atteggiamenti - non si dimentichi mai che alla stesura del manifesto della razza, il fondamento della discriminazione e la base razionale del genocidio degli ebrei, hanno partecipato eminenti scienziati in Germania, in Francia e anche in Italia, dove alla riunione per la stesura del manifesto capeggiata dal gerarca fascista Starace il 13 luglio del 1938 parteciparono ben 10 accademici delle università italiane che sottoscrissero il documento. Il concetto di sopravvivenza del più adatto, estrapolato dal contesto darwiniano, fu in passato utilizzato per giustificare come inevitabile la povertà dei ceti sociali più deboli, la superiorità di quelli più agiati, il colonialismo, l'imperialismo inteso come conseguenza inevitabile della "supremazia" biologica della razza occidentale. Niente di biologico e di scientificamente corretto esiste in questi atteggiamenti, i risultati di alcune ricerche sono stati manipolati in maniera meschina, gli esperimenti disegnati con vizi di fondo e prospettive distorte. Elementi derivati dalla teoria evolutiva furono applicati anche alla criminologia: Cesare Lombroso (1835-1909), un medico italiano della seconda metà dell'Ottocento, tentò di determinare una relazione tra la fisionomia dei delinquenti e quella delle scimmie, affermando che il criminale è tale dalla nascita. In maniera grottesca Lombroso cercò di dimostrare la tendenza al crimine nelle specie animali per giustificare il proprio approccio alla criminologia. L'equazione animale = criminale fu spinta a conseguenze ridicole, addirittura postulando una somiglianza significativa tra l'asimmetria del volto di alcuni criminali con quella delle sogliole, nelle quali entrambi gli occhi risiedono su una sola parte del corpo, oppure stabilendo che le prostitute avessero una tendenza ad avere piedi prensili come quelli delle scimmie. Il pensiero di Lombroso fu determinante e la sua influenza si manifestò per molti anni nei circoli penali. Ancora oggi, saltuariamente, il comportamento criminale viene messo in relazione con caratteristiche fisiche ma la malafede è più sottile e utilizza studi di genetica per tentare di dimostrare le sue ipotesi fallaci, dimenticando quanta fondamentale importanza riveste l'ambiente sociale nella formazione di tendenze criminali. E allora si cerchi sempre di avere ben presente questo piuttosto che cercare di ascrivere il comportamento violento di persone disperate a caratteristiche fisiche o genetiche. FILOSOFIA L'impatto della teoria dell'evoluzione sul pensiero filosofico e sulla posizione dell'uomo nella natura determinò una rivoluzione culturale. L'uomo pre-copernicano pensava di essere al centro dell'universo e che questo fosse stato creato per lui e a causa di lui. Keplero, Galileo e Newton più tardi cambiarono l'immagine dell'universo e dell'uomo: la Terra fu vista come un pianeta piuttosto piccolo ruotante intorno a un Sole molto più grande; niente sfere celesti ma soltanto il vuoto, altri pianeti e galassie; l'uomo perduto negli spazi cosmici. Darwin rappresentò in un certo senso il Newton della biologia, dimostrando che le specie biologiche, uomo compreso, non sono comparse sulla Terra come un pacchetto preconfezionato. Ogni specie discende da progenitori diversi e diversa è la sua storia evolutiva. La diversità dei viventi è una conseguenza dell'adattamento ad ambienti differenti; l'infinita varietà di strutture e funzioni rende possibile un'infinita diversità di modi di vita. La specie umana presenta però una particolarità rispetto alle altre specie animali: l'adattamento all'ambiente in cui vive viene fortemente mediato dalla cultura. Di generazione in generazione, l'eredità culturale viene trasmessa, svincolando l'uomo, almeno parzialmente, dai condizionamenti dell'ambiente fisico in cui vive. Il concetto del divenire e la trasformazione vengono visti alla luce dell'evoluzione come caratteristiche fondamentali del mondo biologico. Il divenire diventa di conseguenza un processo onnipresente, che può essere esteso a tutto l'universo. E' evidente come questa impostazione cambi in maniera decisiva la posizione dell'uomo nella natura. L'universo sta andando da qualche parte? Dove? La serena regolarità delle leggi fisiche dell'universo, la quale ci permetterebbe forse di fare sogni più tranquilli, viene stravolta da questo costante cambiamento. Anche se i meccanismi attraverso i quali opera l'evoluzione inorganica sono diversi da quelli che interessano l'evoluzione biologica e l'evoluzione culturale dell'uomo, il divenire e il movimento rappresentano il contesto in cui l'uomo si viene a trovare. Divenire e movimento sono concetti entrati nella scienza grazie alla teoria evolutiva: l'universo non è statico ma dinamico. Il movimento a sua volta ha una direzione e vi sono state molte controversie tra i teorici della biologia evoluzionistica sul fatto che questo movimento fosse più o meno assimilabile a un progresso. In realtà, la nozione di progresso non è applicabile all'evoluzione animale: esiste una direzione nel cambiamento ma il termine progresso ha una connotazione etica che non ha niente a che vedere con i processi che governano l'evoluzione delle strutture e degli organi: un batterio che si riproduce in maniera vertiginosa e che lascia una moltitudine di discendenti in poche ore è forse meno progredito di una dinamica coppia metropolitana con il loro amatissimo figlio unico? La concezione di progresso nel mondo animale è fortemente influenzata dal nostro antropocentrismo. In questo contesto ci si può chiedere che cosa rappresenti l'uomo. L'evoluzione è un processo creativo e la creatività rischia spesso l'insuccesso, il vicolo cieco. Ogni specie biologica, compresa la nostra, è un esperimento della natura. Ma non si deve scordare che il nostro ruolo nella natura è assai più condizionante rispetto a quello di tutte le altre specie: «Quale ruolo deve recitare l'uomo nell'evoluzione? Dev'essere un semplice spettatore o, per caso, la punta di diamante di questo processo o infine il regista? Vi sono persone che si libererebbero del quesito con una spallucciata, o se ne ritrarrebbero, considerandolo un'esibizione di folle arroganza. Tuttavia, poiché l'uomo è uno, e presumibilmente l'unico essere razionale ad aver acquistato consapevolezza del procedere dell'evoluzione, difficilmente può evitare di porsi simili interrogativi. Il problema implicato non è nulla di meno che il significato della sua stessa esistenza. L'uomo vive soltanto per vivere, e non vi è per lui scopo o significato diverso da questo? Oppure è chiamato a partecipare alla costruzione del migliore degli universi pensabili?» (Theodosius Dobzhansky, 1975: Diversità genetica e uguaglianza umana) PSICOLOGIA Anche la psicologia ha potuto trarre vantaggi dall'integrazione con le teorie evolutive. Il fatto di considerare l'uomo come discendente di altri vertebrati può aiutare a comprendere alcuni suoi comportamenti e a mettere in luce alcuni apparenti contrasti. Tali contrasti possono essere semplicemente dei compromessi tra necessità istintive ereditate evolutivamente dai suoi parenti ancestrali e influenze culturali dovute all'ambiente sociale in cui vive. La corteccia cerebrale, la parte del cervello che ha fatto la sua comparsa in tempi piuttosto recenti, è fondamentale per le capacità intellettive, la logica, la risoluzione di problemi complessi, le decisioni e le scelte per la mente dell'uomo. A volte le parti cerebrali sottostanti la corteccia, quelle più antiche, spingono l'uomo a comportarsi in maniera evolutivamente più desiderabile. L'equilibrio dell'uomo può dipendere molto dalla flessibilità dell'integrazione degli stimoli provenienti da queste due aree diverse del cervello e una caratteristica di molti disturbi psichici è proprio quella di alterare questa plasticità determinando una serie di malattie psicologiche. MEDICINA E AGRICOLTURA Nel corso degli ultimi decenni, sembra sempre più evidente l'insuccesso degli approcci tradizionali alla lotta contro le malattie infettive e contro gli agenti infestanti nelle colture agricole. Così l'aumento del numero di sostanze antibiotiche sembra essere accompagnato dall'insorgenza di nuove e pericolose malattie - sono infatti di questi ultimi anni malattie quali l'AIDS, la febbre emorragica venezuelana, la malattia del legionario, il virus Ebola. Ancora, l'aumento del numero di pesticidi si accompagna a un aumento dei problemi derivanti dalle infestazioni alle coltivazioni, con pesanti danni all'agricoltura. Tutto questo sembra far pensare che il modo in cui i paesi occidentali hanno finora affrontato gli organismi infestanti sia arrivato a un punto morto. Le coscienze si sono entusiasmate ai primi risultati degli antibiotici e dei pesticidi e si sono fossilizzate su queste modalità di lotta. Lo studio del nuovo è stato affrontato assumendo che tale nuovo fosse identico al vecchio. Oggi molti scienziati tendono a far risaltare come queste strategie incomincino a fare acqua da tutte le parti. Sono nate nuove linee di pensiero come la cosiddetta "medicina darwiniana" o la lotta biologica agli agenti infestanti. In questo senso la moderna teoria dell'evoluzione può aiutare, insieme all'ecologia, a determinare un approccio completamente nuovo. Occorre considerare la variabilità genetica delle specie, bisogna tenere conto del fatto che specie e ambiente sono entità complesse, le cui dinamiche non sono sempre prevedibili, e pensare che niente è in realtà costante nel tempo: le nostre soluzioni vanno sempre considerate come temporanee. Se si comincia a considerare il corpo umano come il prodotto dell'evoluzione, come un corpo perfetto e complicato sotto molti punti di vista ma anche pieno di imperfezioni e di compromessi dovuti alla sua storia evolutiva, allora il punto di vista cambia e con esso anche il nostro approccio alla medicina. Siamo in grado di spiegare la nausea e il vomito delle donne incinte come reazioni adattative nel senso che inducono a evitare sostanze che possano in qualche modo essere dannose al feto; possiamo interpretare il nostro disgusto per alcuni cibi perché essi contengono sostanze che il nostro organismo recepisce come dannose. Allo stesso tempo bisogna cercare una spiegazione a quei fenomeni che ci rendono estremamente imperfetti: perché la selezione naturale non ha eliminato quei geni che permettono il deposito di colesterolo nelle vene determinando malattie cardiovascolari e anche la morte; perché siamo golosi di cibi spesso nocivi e guardiamo invece con sdegno verdure e farinacei, continuando a mangiare anche quando sappiamo di essere troppo grassi? Anche un virus, un batterio o qualsiasi agente infestante deve essere considerato come frutto dell'evoluzione, rispondente alla selezione naturale, in continuo cambiamento, in relazione filogenetica con altre specie (filogenesi). Contemporaneamente, le cause di una malattia dovrebbero essere considerate nel loro insieme. Un qualunque individuo si ammala non perché un virus lo ha infettato, ma perché il suo ambiente interno in quel momento era consono alle necessità del virus e perché è venuto in contatto con un altro individuo malato che gli ha trasmesso questo agente patogeno. In questa visione più ampia, valga il seguente esempio estremizzato. L'eutrofizzazione delle acque costiere dovuta all'erosione, ai fertilizzanti usati in agricoltura, alle discariche urbane e anche al riscaldamento del mare, determina fioriture algali che servono da terreno di coltura per il vibrione del colera, in zone costiere di paesi in cui l'igiene e i servizi sociali in genere sono piuttosto carenti. La scarsa assistenza sociale dovuta allo strozzamento economico dei paesi poveri (causata del debito contratto con paesi più ricchi) fa sì che i governanti sottovalutino la portata del fenomeno. Così il colera prolifera e miete vittime. Quest'ultimo esempio è estremo e mostra che non solo in medicina è necessario un nuovo approccio in cui la teoria evolutiva abbia una giusta collocazione, ma che un cambiamento di scala nel considerare i problemi è fortemente raccomandato: così come non si può pensare che la causa di un'infezione sia semplicemente dovuta alla penetrazione fisica di un virus, allo stesso modo non si può pensare di combattere un'epidemia di colera solamente isolando le persone colpite. La teoria evolutiva può aiutare ad avere una visione globale dei fenomeni, necessaria per poterne comprenderne i meccanismi.