Filosofia e teologia nel Novecento - Istituto Superiore di Scienze

Filosofia e teologia nel Novecento
Il rapporto tra filosofia e teologia è stato organizzato secondo tre grandi modelli:
1) La piena coincidenza: sia nel senso di una sussunzione della filosofia nella teologia
(poiché la teologia è il “vero discorso” su Dio, la filosofia, che aspira alla
conoscenza del divino, finisce con il risolversi ed inverarsi nella teologia: per es.
patristica), sia, all’opposto, in una riduzione della teologia in filosofia (per es.
Hegel, per cui solo la filosofia è la vera “scienza dell’Assoluto”).
2) La totale incompatibilità: la f. presuppone la ragione critica e la ricerca razionale, la
t. la fede in Dio. Su questa affermazione concordano opposti punti di vista: il
fideismo puro (Lutero, Barth) e il razionalismo puro (per es. Neopositivismo).
3) La possibilità di un incontro parziale: in quanto la t. come riflessione razionale sul
problema di Dio si avvale di categorie filosofiche, mentre la f. come riflessione a
tutto campo sui problemi dell’uomo si apre anche al confronto con la ricerca
teologica. Cfr. su questo punto il titolo VI della Fides et ratio (Interazione tra
teologia e filosofia) in cui si parla del contributo della f. sia circa l’ auditus fidei sia
in rapporto all’intellectus fidei. La stessa enciclica ricorda anche l’influenza della
teologia e della Scrittura sull’opera di grandi pensatori, non soltanto del periodo
medievale e moderno, ma anche contemporaneo (Newman/ Rosmini/ Maritain/
Gilson/ Stein/ Soloviev).
Naturalmente bisogna tener presente anche l’orizzonte storico in cui questo scontro/
incontro tra f. e t. si pone. In una sola parola si potrebbe dire: la secolarizzazione, ma se ne
possono specificare gli elementi. La fine degli stati confessionali e la nascita di stati laici e
pluralisti, il successo di teorie politiche spesso in antitesi totale o parziale con il
Cristianesimo (liberalismo, socialismo, totalitarismo, democrazie sociali), l’affermazione
della scienza e di una conseguente mentalità razionalista, il trionfo dell’industrialismo con
le sue pesanti ricadute immanentistiche sulla mentalità e sui costumi morali: tutto ciò ha
contribuito a determinare un netto divorzio tra cristianesimo e civiltà moderna (cfr. come
esempio il Sillabo di Pio IX del 1864).
La via per un nuovo possibile incontro tra f. e t. è cominciata dapprima con
l’affermazione, in campo protestante, della teologia liberale (Harnack) e, in campo
cattolico, con l’esordio (sia pure contestato dalla gerarchia, cfr. enciclica Pascendi di Pio
X del 1907) del cosiddetto modernismo (Loisy/Buonaiuti). E’proseguita poi con l’opera di
grandi figure di filosofi-teologi sia protestanti (Bultmann/Schweitzer/Tillich) sia cattolici
(Guardini/Przywara/Adam) e con quel generale rinnovamento della teologia cattolica negli
anni 30 che ha preparato (e in certo senso anticipato) il Concilio Vaticano II (Chenu/ De
Lubac/ Danièlou/ Congar/ Thils ).
Sarà appunto il Concilio Vaticano II (1962-65), promosso nel segno dell’aggiornamento
della Chiesa, a legittimare in modo definitivo il dialogo tra filosofia e teologia. Esso può
essere considerato come “lo storico punto di arrivo delle istanze di rinnovamento emerse
nei decenni precedenti e come la sostanziale “riabilitazione” di quelle correnti teologiche
che si erano battute per una Chiesa più sensibile ai segni dei tempi” (Fornero).
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Per quanto riguarda il mondo protestante i fattori di incentivazione del dialogo tra fede e
mondo moderno sono rappresentati soprattutto dalla riscoperta postuma del pensiero di
Dietrich Bonhoeffer (1906-1945), vittima del nazismo a soli 39 anni, e dal successo anche
presso il pubblico dei “non addetti” delle opere di Paul Tillich (1886-1965).
E’ molto difficile raggruppare i diversi indirizzi teologici (sia protestanti sia cattolici) in
un ordinato quadro d’insieme, perché molteplici sono le provenienze storico-culturali dei
vari protagonisti, numerose le tematiche considerate (la secolarizzazione, la speranza, il
rinnovamento della Chiesa, la prassi di liberazione, l’ermeneutica, l’identità cristiana,
ecc.), diverse le scelte metodologiche e le competenze messe in campo.
Giovanni Fornero, nella sua Filosofia contemporanea (vol.IV, Torino, UTET, 1991) ha
provato a racchiudere il panorama della teologia del Novecento in 6 grandi linee portanti:
- Centralità della questione antropologica: la nuova teologia è “un discorso fatto
all’uomo, sull’uomo, a misura d’uomo” (Mondin).
- Recupero della categoria della storicità: la teologia non si avvale di modelli
immutabili, fuori del tempo e dello spazio, ma si cala nella concreta quotidianità,
nel dinamismo evolutivo delle culture e delle istituzioni.
- Parlare di Dio deve essere “credibile” e “comprensibile” per l’uomo di oggi: la
teologia deve perciò utilizzare le categorie proprie della filosofia moderna e delle
scienze umane, per poter penetrare nella mentalità dell’uomo contemporaneo e
captarne i bisogni, le inquietudini, le domande.
- I modelli e i paradigmi teologici non sono “per sempre”, quasi facessero parte di
una sorta di perenne geometria soprannaturale, ma sono semplici “prospettive” : la
“teologia è un’interpretazione del dogma e non il dogma stesso e le sue
interpretazioni possono essere varie e mutevoli” (Mondin).
- Non esiste una teologia “al singolare”, ma solo teologie “al plurale”: c’è una
molteplicità di approcci teologici all’unica verità, determinati dalla diversità di
culture, di ottiche filosofiche, di metodologie di ricerca.
- La nuova teologia è ecumenica: il dialogo interconfessionale ha infatti legittimato.
promosso e favorito lo scambio, la collaborazione e la reciproca interazione fra le
diverse scuole e i diversi indirizzi, anche se appartenenti a chiese diverse.
Cenni sul pensiero di Paul Tillich: una teologia sul confine
Paul Tillich (1886-1965) è stato definito un “teologo di frontiera” (un suo saggio del
1964 si intitola appunto On the boundary) per essersi trovato a pensare sul crinale di
due secoli (Ottocento/Novecento), due culture (europea e americana), due discipline
(filosofia/teologia). Sua opera fondamentale è Systematic Theology (1951-1963).
La sua idea di fondo è quella di costruire una Teologia apologetica, diversa da quella di
impianto tradizionale: non si tratta di riconfermare o ribadire ciò che già si conosce o si
crede, quanto di misurarsi col “moderno disincanto”, di dialogare con il mondo
secolarizzato per offrirgli quelle risposte che esso cerca (answering theology: una
teologia che risponde). Mondin ha parlato di un programma di “transmitizzazione” del
Cristianesimo, in quanto la teologia si deve spogliare di linguaggi e simboli ormai
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desueti e ritradurre di nuovo i suoi perenni contenuti nel linguaggio e nei simboli
secolarizzati dell’uomo postmoderno.
Il metodo fondamentale di Tillich è quello della correlazione, cioè della
interdipendenza di due realtà in sé distinte e non sovrapponibili, ma che non possono
essere separate e che anzi si richiamano vicendevolmente. Nel suo caso le due realtà
correlate sono quella dell’uomo (la domanda) e quella di Dio (la risposta). Infatti la
domanda dell’uomo (i suoi problemi esistenziali, morali e conoscitivi) si pone in
rapporto con la possibile risposta di Dio: “Le risposte contenute nella rivelazione
acquistano significato solamente se sono messe in connessione con le questioni che
riguardano la totalità della nostra esistenza, ossia con le questioni esistenziali” (S.T.).
N.B. Tillich, che ha conosciuto Heiddeger a Marburgo, è convinto che l’esistenzialismo
rappresenti l’autocomprensione più alta e più completa dell’uomo del XX secolo.
Naturalmente la domanda e la risposta sono indipendenti l’una dall’altra, perché se la
risposta di Dio dipendesse dalla domanda si negherebbe ogni soprannaturalismo (Dio
si manifesta solo tramite se stesso), mentre se la domanda derivasse dalla risposta
sarebbe negato il naturalismo (è l’uomo stesso che pone la domanda semplicemente
esistendo: “la domanda che l’uomo pone è lui stesso”). La correlazione consiste nel
fatto che la domanda sorge spontaneamente dall’uomo, ma non trova risposta né
nell’uomo né nella realtà che lo circonda, ma soltanto in Dio.
Il principio di correlazione e lo schema domanda-risposta rappresentano il perno di
tutta la costruzione filosofico-teologica di Tillich. Per esempio, il rapporto tra ragione e
Rivelazione vede il logos (umano) incapace di risolvere i conflitti e le incertezze in cui
rimane inevitabilmente intrappolato se non si appoggia al Logos (divino) che, solo, può
conferirgli profondità e certezza: “la ragione è il presupposto della fede e la fede è il
compimento della ragione” (Dinamics of Faith).
Così pure la correlazione filosofia-teologia: le domande, inevitabilmente irrisolte, della
filosofia rinviano alle risposte (rivelate, e perciò davvero tali) della teologia, le quali
vengono incontro alle domande, configurandosi come risposte adeguate ai problemi e
al linguaggio stesso della filosofia.
Tillich dichiara apertamente il suo debito nei confronti di Kierkegaard, Schelling
(periodo cosiddetto “positivo”), Nietzsche e Heiddeger; ma nello stesso tempo fa una
netta professione della sua autentica vocazione teologica: “Come teologo ho cercato di
rimanere filosofo e viceversa” (Interpretazione della storia).
Da filosofo si schiera a favore dell’ontologia, perché il problema inevitabile di chi
ricerca è quello dell’essere (anche chi lo nega, come per esempio il Neopositivismo, è
costretto a presupporre una realtà, un tutto esistente). Ma poiché questo essere si
manifesta comunque finito, mescolato inestricabilmente con il non-essere, solo la
risposta teologica (Dio come l’Essere stesso, come Fondamento) appare realmente
adeguata alla domanda filosofica.
Va sottolineato però che il passaggio dalla finitezza dell’essere alla Pienezza
dell’Essere (Dio) non avviene – per Tillich – con la linearità e l’ottimismo propri del
teismo tradizionale e della metafisica classica. Infatti la situazione dell’uomo
contemporaneo – soprattutto dopo Auschwitz e Hiroshima – è una situazione di
angoscia e di disperazione esistenziale, perciò il passaggio alla fede e alla speranza
deve passare attraverso il “coraggio di esistere” (1952) che si presenta come
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“autoaffermazione dell’essere nonostante il non essere”. Questa autoaffermazione è “il
potere dell’essere” e la fede si manifesta appunto come l’ “esperienza di questo potere”
(ib). L’essenza della fede consiste nel credere che nonostante tutto la vita abbia un
significato ed una luce di speranza. Questo è anche il senso del paradosso di Soeren
Kierkegaard, a cui Tillich si richiama.
Cenni sul pensiero di Dietrich Bonhoeffer: l’idea di Dio in un mondo “adulto”
Dietrich Bonhoeffer (1906-1945), teologo protestante giustiziato a Flossenburg dai
nazisti a soli 39 anni di età, è stato giudicato da alcuni studiosi come una sorta di
“Nietzsche cristiano” (Perone) per il suo tentativo di dare un fondamento teologico,
anziché ateo ed anticristiano, all’antico motivo della fedeltà alla terra.
Nel suo scritto Fedeltà al mondo, Bonhoeffer dichiara la sua fedeltà e gratitudine alla
terra: l’uomo non è “venuto dall’alto nel mondo terreno, sbalestrato ed asservito da un
destino crudele”, ma è esso stesso terra e parte del mondo. La sua esistenza è “esistenza
sulla terra”. Non esiste un cristianesimo ascetico e disincarnato; o meglio, se esiste è la
caricatura del vero cristianesimo. “I cristiani che stanno sulla terra con un solo piede,
staranno con un solo piede anche in paradiso”. Naturalmente non c’è alcun sospetto di
vitalismo o di immanentismo, perché il mondo – per B. – poggia su Cristo, il Dio
fattosi uomo per redimere appunto il mondo.
In Cristo ci è stata offerta simultaneamente la possibilità di partecipare sia alla realtà di
Dio sia alla vita del mondo: non si può avere Cristo senza il mondo o viceversa. Nel
primo caso si ha un soprannaturalismo senza carne e vita, nel secondo un naturalismo
senza autenticità e fondamento.
Questo legame indissolubile tra Cristo e il mondo caratterizza la sua tesi etica più
originale: la dottrina delle cose ultime e penultime. Le realtà “penultime” sono tutte
quelle che riguardano la vita dell’uomo prima della giustificazione per grazia di Dio; e
che, naturalmente, ci appaiono tali (penultime) solo alla luce della scoperta delle verità
della fede, le cose “ultime”. Nel mondo cristiano a questo rapporto sono state date due
soluzioni estreme: quella radicale del Luteranesimo e quella compromissoria del
Cattolicesimo. Entrambe sono soluzioni solo parzialmente vere ed unilaterali.
B. rifiuta sia il verticalismo della prima, sia l’orizzontalismo della seconda: solo in
Gesù Cristo si risolve il rapporto tra realtà ultime e penultime, perché in Lui queste
sono date insieme. Cristo come “struttura” e “forma” della realtà, prendendo a sua volta
posto nella realtà con la sua incarnazione, la riconduce a Dio e la fa consistere in Lui.
In Resistenza e resa – opera postuma che raccoglie la produzione abbozzata dal Nostro
in carcere – si presenta il problema di come parlare di Dio in un mondo diventato
“adulto”, dove questo aggettivo (adulto) sta a significare il riconoscimento
dell’avvenuta secolarizzazione della civiltà occidentale. Infatti, “esattamente come nel
campo scientifico, anche nell’ambito generalmente umano Dio viene sempre più
respinto fuori della vita e perde terreno”.
Per combattere il dilagare della secolarizzazione, l’apologetica cristiana ha preso la via
di un inquietante “salto all’indietro nel Medioevo”, oppure quella di difendersi con la
prospettiva religiosa, sostenendo che l’uomo da solo, senza Dio, non può farcela, e
perciò deve affidarsi totalmente al sostegno e alla pratica della religione.
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N.B. Il termine “religione” in B. è di ascendenza barthiana. Ricordiamo che per Barth
la religione è una forma di idolatria, perché rappresenta il tentativo dell’uomo di
cercare Dio per sua propria iniziativa e di pronunciarsi su di Lui in modo autonomo (è
“l’affare dell’uomo senza Dio”). La strada giusta è quella che parte da Dio, ed in modo
imprevedibile e gratuito porta all’uomo: è la via della fede. E’ stato Dio a rivelarsi per
primo e a chiedere l’obbedienza dell’uomo alla sua Parola.
Bene: proprio questa religione è in crisi nel mondo secolarizzato. B. ironizza con
“voluta irriverenza” (Mancini) sull’idea di un “Dio Tappabuchi” (Luckenbusser), il
Dio consolatore nelle situazioni-limite della vita, il prodotto dell’intimismo e del
sentimentalismo oppure dell’impotenza del pensiero di fronte agli insolubili misteri
dell’ universo.
A parte il fatto che anche queste situazioni-limite potrebbero trovare un giorno una
“risposta senza Dio”, magari per i buoni uffici della filosofia e della psicoterapia (“gli
epigoni secolarizzati della teologia cristiana”), Bonhoeffer insiste sul fatto che Dio
incontra l’uomo al centro e non ai limiti delle sue possibilità esistenziali: “Io vorrei
parlare di Dio non ai limiti ma al centro, non nelle debolezze, ma nella forza, non
dunque in relazione alla morte e alla colpa, ma nella vita e nel bene dell’uomo”. “La
Chiesa non sta lì dove vengono meno le capacità umane, ai limiti, ma sta al centro del
villaggio”…
Insomma: per B. dobbiamo vivere senza l’aggancio al “Dio Tappabuchi” (il falso Dio
della religione) in presenza del Dio vero della fede, quello che non ci considera minori
da tutelare e da proteggere, ma partners adulti da associare alla sua vita divina. Anche
se questa sua vita divina si manifesta nella forma dell’ “impotenza” e della
“sofferenza”: ma è proprio questo che differenzia i cristiani dai pagani (“I cristiani
stanno vicini a Dio nella sua sofferenza”).
E’ in questo senso che B. ritiene che Cristo possa diventare davvero il Signore di tutti,
anche di coloro che rifiutano la fede, perché Cristo chiama non ad una religione ma ad
una vita: una vita che si caratterizza come il “com-patire” con Cristo per i dolori del
mondo, un “essere-per-gli-altri” partecipando all’Essere di Gesù.
N.B : Per un giudizio critico su B. partirei da questa affermazione di Fornero:”Il
tentativo bonhoefferiano di salvare, insieme a Dio, l’autonoma umanità dell’uomo e
l’autonoma mondanità del mondo.. cela in sé un vespaio di problemi teologici e
filosofici, che mettono in luce la difficoltà strutturale del suo progetto di mettere
d’accordo due tradizioni di pensiero (quella teologico-cristiana e quella illuministico –
laica) storicamente e concettualmente distinte e , per certi versi, opposte”.
Infatti: se da un lato la sua radicale difesa dell’autonomia di tutto ciò che è secolare
(positivo comunque, etsi Deus non daretur) sembra portare verso una teologia secolare,
dall’altro la sua lettura di Cristo come l’unico essere in grado di dare spessore e verità,
struttura e forma della realtà e sorgente di ogni senso o valore, porta invece verso una
teologia cristologica in cui le cose “ultime” danno significato alle “penultime”.
Cenni sul pensiero di Karl Rahner: la svolta antropologica della teologia cattolica
Karl Rahner (1904-1984) è la figura di maggior spicco della teologia cattolica a cavallo
del Concilio Vaticano II. Insegnante in varie prestigiose università (Monaco/Munster),
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perito conciliare nominato da Giovanni XXIII, membro della Commissione
internazionale dei teologi cattolici sotto Paolo VI, cofondatore (con E. Schillebeecks)
della autorevole rivista Concilium, è autore di un’imponente mole di pubblicazioni
(oltre 4000 titoli) di filosofia, teologia e pastorale.
La teologia di R. è caratterizzata dalla cosiddetta “svolta antropologica”. Infatti R. non
si preoccupa soltanto dell’aspetto oggettivo della verità teologica, ma soprattutto del
soggetto che fa teologia (quindi del problema della sua recettività del messaggio
salvifico e del significato e valore che quella ricerca ha per la sua salvezza). R. parla
dunque di un’antropologia teologica trascendentale, una dimensione che dovrebbe
essere a fondamento di ogni trattazione teologica.
Per quanto riguarda poi il problema del linguaggio teologico, R. sostiene che la
credibilità del Cristianesimo è in crisi perché lo si annuncia con uno schema mentale
superato e con un impianto logico-culturale di altri tempi. Bisogna perciò superare
l’autocomprensione di stampo cosmocentrico propria della teologia tradizionale per
passare ad una visione antropocentrica, che è il modo in cui l’uomo d’oggi guarda alla
realtà (teologia antropocentrica). In varie occasioni R. ha mostrato la possibilità di
tradurre tutto il messaggio cristiano in linguaggio antropologico, dichiarandosi
convinto che la “svolta antropologica” non è una condizione dettata solo da necessità
contingenti e da motivi esterni (la secolarizzazione, ecc.), ma un’esigenza stessa della
Rivelazione, che nel suo momento culminante è appunto incarnazione.
Fedele a tale assunto R. ha mostrato come i tre grandi misteri fondamentali del
Cristianesimo – Trinità, Incarnazione, Grazia – sono comprensibili partendo dall’uomo,
senza che per questo essi perdano il loro carattere di mistero.
Da queste premesse risulta evidente quale sia l’ importanza che il Nostro annette alla
filosofia per un corretto esercizio della teologia: “Non esiste teologia che non includa
inevitabilmente in sé filosofia, che possa riflettere e rifletta di fatto sulla fede cristiana
senza l’ausilio di una filosofia” (Nuovi Saggi). La filosofia infatti – per R. – tende a
dimostrare in modo razionale ed indipendentemente da ogni presupposto teologico che
l’uomo è caratterizzato da una “costitutiva” apertura verso Dio e il trascendente, per cui
una teologia che ne ignorasse l’apporto rischierebbe di fare della fede qualcosa di non
fondato, di “campato per aria”, di incomprensibile per l’uomo.
Una filosofia della religione che possa essere di aiuto alla teologia deve configurarsi
come un’antropologia metafisica o una antropologia teologica fondamentale. Vale a
dire una filosofia che metta in luce la costitutiva disposizione dell’uomo ad accogliere
l’autorivelazione di Dio, ponendosi come preambolo razionale della teologia: “una
metafisica della potentia oboedientalis rispetto alla rivelazione del Dio trascendente”
(Uditori della parola).
Naturalmente questa costitutiva disposizione dell’uomo all’accoglimento della
Rivelazione non significa affatto che i contenuti di quest’ultima diventino una sorta di
“correlato oggettivo, determinabile solo alla luce di tale apertura” (Ib.). Significa
invece che la filosofia ha un carattere “avveniristico”, è “praeparatio Evangelii”, in
quanto definisce e costituisce l’uomo come un “possibile uditore della Parola”.
La svolta antropologica di R. consiste nel fare dell’antropologia il “luogo che include
tutta la teologia”. Una volta effettuata la ricerca delle strutture antropologiche a priori
che rendono possibile l’accoglimento a posteriori del messaggio di salvezza della
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Rivelazione ci si può addentrare nell’ interpretazione teologica di esso, avendo però
sempre l’avvertenza di tener presente l’indeducibilità del “fatto storico” della
Rivelazione dalla aspettativa e dalla recettività dell’uomo. Così R. cerca di difendersi
dall’accusa di voler ridurre il mistero dell’iniziativa divina alle misure umane. Le verità
di fede non provengono e non dipendono dall’uomo, ma sono pur tuttavia a lui
indirizzate, e quindi hanno un orientamento ed un significato antropologico.
L’opera di R. più importante dal punto di vista filosofico è Uditori della parola (1941),
di impianto tomistico e con forti suggestioni heiddegeriane.
Partendo dall’assunto che l’uomo, essendo un ente caratterizzato dalla sua apertura
all’essere, manifesta in ciò la sua costitutiva capacità di conoscere e il suo
atteggiamento di pre-comprensione o di “afferramento anticipante” (Vorgriff) di ciò che
lo supera e lo trascende, Rahner perviene a delineare due caratteristiche posizioni della
condizione umana: 1) l’inevitabilità dell’interrogazione metafisica; 2) il necessario
orientamento verso Dio.
L’uomo, prima di farsi un’idea esplicita di Dio (cosa che avviene, tomisticamente, solo
e sempre a posteriori nell’incontro con il mondo) e di cominciare a teologare, è già in
possesso di una comprensione originaria ed irriflessa dell’Assoluto (non di una
conoscenza aprioristica di Dio come per gli ontologisti) in una sorta di primordiale
rapporto con l’Infinito: “La conoscenza di Dio è già sempre data in maniera atematica e
priva di nome, e non esiste solo dal momento in cui cominciamo a parlarne. Ogni
discorso al riguardo, pur necessario, rimanda solo e sempre a questa esperienza
trascendentale come a quella nella quale colui che chiamiamo “Dio” si dice sempre
silenziosamente all’uomo” (Uditori della parola).
Tuttavia, questa originaria apertura verso l’Essere e questa implicita conoscenza di Dio
non avrebbero potuto trovare soddisfazione ed esplicitezza se Dio non avesse deciso imperscrutabilmente, liberamente, misteriosamente e gratuitamente – di rivelarsi nel
luogo della storia umana. Ma, poiché Dio è un essere extramondano, questa rivelazione
avrà la forma della Parola, segno rappresentativo che l’uomo può decifrare ed
interpretare.
A questo punto l’antropologia teologica fondamentale di R. si ferma, per lasciare
spazio alla teologia, che si occupa del factum della Rivelazione e non della sua
semplice attesa o possibilità.
Cenni sul pensiero di Romano Guardini: un teologo fuori da ogni scuola
La figura di Romano Guardini (1885-1968) si presenta con caratteri di grande
originalità nel panorama della teologia europea del Novecento. Teologo, filosofo (L’
opposizione polare, Mondo e persona), fine interprete letterario (Dante, Dostojewskij,
Holderlin, Rilke, Morike), liturgista (Lo spirito della liturgia, I santi segni),
pedagogista (Le età della vita) , educatore (fu animatore e assistente spirituale del
movimento giovanile Quickborn – Fonte viva – al quale dedicò tutto il suo tempo al di
fuori dell’insegnamento e dell’attività pubblicistica), oratore affascinante (le sue omelie
domenicali presso la parrocchia universitaria di Monaco sono raccolte nel volume Il
Signore) ed infine prestigioso docente universitario (per lui nel 1923 fu creata “ad
personam” la cattedra di Katholische Weltanschauung presso l’Università di Berlino),
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Romano Guardini appare dominato da una duplice preoccupazione: A) comprendere il
fenomeno dell’esistenza cristiana nel quadro della più vasta cornice dell’esperienza
religiosa in genere; B) restituire a tale esistenza quella profonda unità che la cultura
moderna pare avere irrimediabilmente compromessa.
Scrive infatti nell’introduzione a Libertà, grazia, destino (1948): “In fondo tutta la mia
opera tenta di raggiungere uno sguardo d’insieme che abbracci l’esistenza cristiana
nella sua complessità. Il primitivo pensiero cristiano possedeva un tale sguardo… Fin
oltre il culmine del Medioevo tale situazione rimane essenzialmente eguale. Poi ha
inizio una scissura: la filosofia viene separata dalla teologia, la scienza empirica dalla
filosofia, la direttiva pratica dalla conoscenza dell’essere… L’unità della coscienza e
della vita, anche nei cristiani fedeli, è ampiamente decaduta. Il credente non sta più con
la sua fede nell’unità del mondo, né ritrova la realtà del mondo nella sua fede… Perciò
è tempo di prendere nuovamente posizione, pensando e vivendo, in quella totalità
dell’esistenza cristiana di cui vale la parola: “Tutto è vostro; voi siete di Cristo” (I, Cor.
3,23). E’ tempo di vedere che ogni distinzione ha un semplice valore metodico, e ciò
che in verità esiste è il mondo e l’uomo in esso, chiamato e giudicato e redento da Dio.
Tempo di pensare al tutto, partendo dal tutto” (tr.it. Brescia, 1957, pp. 7-9 passim).
Questa ricostruzione dell’unità della vita cristiana – per G. – è possibile e non è
semplicemente un’utopia perché quei valori (filosofia, arte scienza, politica ecc.) che il
pensiero moderno e contemporaneo presenta come antitetici e conflittuali rispetto al
Cristianesimo in realtà non lo sono affatto: sono invece valori che affondano le loro
radici nel cristianesimo, di cui il mondo moderno stesso si è nutrito e alimentato, anche
se poi se ne è appropriato in maniera illegittima, li ha distorti, li ha fatti “impazzire”
(come dice Chesterton ne L’ortodossia).
La riappropriazione cristiana dei valori spirituali dell’uomo non può essere però
compito di una sola disciplina (apologetica/filosofia/teologia/psicologia/sociologia), e
neppure soltanto di tutte queste insieme, perché l’esistenza cristiana non si fonda
esclusivamente sull’uomo, ma ne travalica le possibilità. Occorre aderire ad un’Istanza
che renda possibile il riconoscimento obiettivo della vera verità e del vero bene: questa
istanza è per Guardini la Chiesa cattolica. Accettare questa istanza è il frutto di una
crisi: “Cattolici non si nasce, ma si diventa – amava ripetere G. – e lo si diventa
passando attraverso una crisi”. Così commenta questo passaggio il biografo di
Guardini, p. Guido Sommavilla, S.J.: “Prima o poi ogni crisi del genere deve venire al
punto cruciale: alla decisione circa l’autorità della Chiesa cattolica, essendo questa
Chiesa l’unica Istanza al mondo che si rivolge ad ogni uomo con la pretesa di essere la
misura autorevole e vincolante in coscienza di Dio e di Cristo, della verità e del
bene…Questa fu dunque un giorno anche la “crisi” del Guardini. Ed ecco come la
risolse. Egli vide che posta in dubbio la Chiesa quale misura della verità e del bene, di
Dio e di Cristo, tutto diventava dubbio, e dubbio senza uscita. Tutto, ossia la verità e il
bene, Dio e Cristo. Qualsiasi altra misura o istanza a cui ricorrere si rivelava ben più
discutibile…La realtà e l’autorità della Chiesa è dunque il criterio ultimo su cui
dev’essere regolata ogni decisione umana circa la verità. S’intende circa quella verità
che è anche bene, dovere e ideale esistenziale dell’uomo, e in ultima istanza circa la
suprema Verità che è insieme Bene supremo: Dio” (Introduzione agli Scritti filosofici
di Romano Guardini, vol. I, Milano, Fabbri, 1964, pp. 60 e segg.).
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Dal punto di vista strettamente filosofico il nome di G. è legato alla teoria
dell’opposizione polare (Der Gegensatz), pensata, per sua stessa ammissione (cfr. la
premessa all’opera), fin dal 1905 e pubblicata nella sua forma definitiva nel 1925. Il
sottotitolo – Saggio per una filosofia del concreto vivente – sta ad indicare la
preoccupazione non accademica ma vitale dell’Autore. “Il Guardini – scrive
Sommavilla – è uno che vive lui stesso le verità che pensa, che aiuta altri a pensarle e a
viverle, che le vive e le pensa con gli altri. Di qui la nota, forse, più marcata, e
appassionata: una gelosa esigenza di concretezza, l’orrore dell’astratto” (Ib., p.11).
Basandosi sulla realtà umano-vivente, così come essa appare all’attenta investigazione
del filosofo, G. delinea le componenti ultime del reale, che assumono la forma di otto
polarità: atto/struttura; informale/formale; singolarità/totalità; produzione/disposizione
originalità/regola; immanenza/trascendenza; affinità/distinzione; unità/pluralità. Queste
otto polarità, oltreché descrivere la struttura del cosmo (sono “un’apertura d’occhi e un’
interna direzione nell’essere vivo” e fanno sì che “l’essere ci diventi spazio e ricchezza
di forme, in cui immergerci senza perderci”) hanno anche il compito di spingere
l’uomo verso la trascendenza, facendogli scoprire che Dio abita nello stesso suo cuore,
da cui diffonde la sua Grazia, compiendo una vera e propria opera di “nuova
creazione”.
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