A11 470 L’immagine di Anton Roca (negativo originale a colori) a p. 45 è tratta da: Serie Italia (2006), lavoro svolto durante un incontro didattico con la classe IIF della Scuola Media 2, San Domenico di Cesena. Immagine di copertina: Angelo Ricciardi Copyright per le immagini © singoli autori La plurivocità del male a cura di Aldo Meccariello con un saggio introduttivo di Emilio Baccarini Copyright © MMIX ARACNE editrice S.r.l. www.aracneeditrice.it [email protected] via Raffaele Garofalo, 133/A–B 00173 Roma (06) 93781065 isbn 978–88–548–2941–1 I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore. I edizione: dicembre 2009 Indice 7 Prefazione 11 Emilio Baccarini Introduzione (De)scrivere il male 25 Angelo Ricciardi Hommage à Roland Topor 29 Felice Ciro Papparo «C’è ancora una macchia qui» Il tempo del male. Bataille, Camus e la felicità 47 Anton Roca IL letto dei folli 51 Vincenzo Cuomo Il detective e la singolarità del crimine Note su Kracauer 63 Luc Fierens DOPPIA 67 Eleonora de Conciliis Baudrillard e l’intelligenza del Male 93 Nello Teodori SENZA TITOLO Indice 97 Leonardo V. Distaso Una grammatica del male Wittgenstein e la finitezza del senso 107 Robin Kahn I AM EVIL 111 Aldo Meccariello I luoghi del male Note su Hannah Arendt 129 Vincenzo Rusciano è nella mente 133 Note bio–bibliografiche Prefazione Jean Nabert, il grande filosofo francese, in un suo celebre saggio del 1955 scriveva: «Dobbiamo rinunciare al tentativo di dare al problema del male una risposta speculativa: tale problema, infatti, dipende da un atto e sarebbe per ciò contraddittorio prospettare una soluzione che non sia implicata in quest’atto. […] Il male inizia a diventare un problema solo nel momento in cui, non essendo più sentito come una ferita che l’io ha inflitto a se stesso, viene considerato come un qualcosa di esterno, come se fosse un fatto, un dato che il pensiero cerca di comprendere a partire dalle proprie esigenze o dai suoi postulati». Per Nabert, il male non è una semplice inadempienza a delle norme, ma scaturisce dalla nostra coscienza e pertanto ogni tentativo di comprenderlo per il tramite del pensiero speculativo è vano. Il male è l’ingiustificabile e tutti i tentativi di spiegazione per attenuarne lo scandalo sono stati fallimentari. Come scrive Emilio Baccarini nel suo saggio introduttivo, la domanda «che cos’è il male» rimane aporetica e impossibile a meno che non si voglia compiere un passaggio laterale che leghi la soggettività umana in maniera diretta alla questione del male, quello della scrittura e della narrazione. Si pensi al grande contributo che il pensiero ebraico del Novecento ha dato al motivo della testimonianza come un dovere a non dimenticare. (De)scrivere il male, pertanto, si può e . J. Nabert, Saggio sul male, a cura di C. Canullo, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2001, p. 63. Aldo Meccariello si deve perché «la ripetizione della scrittura del male vuole togliere al male la possibilità di ripetersi». Il presente volume che nasce da un seminario tenutosi a Napoli nella primavera del 2008 organizzato dalla rivista «Kainos» all’interno di una ricerca pluriennale sul lessico novecentesco non intende, quindi, proporre una riflessione metafisica o morale sul tema del male ma piuttosto vuole dare conto dei molteplici luoghi in cui esso tende a manifestarsi. I saggi che seguono — scritti a partire da quegli incontri seminariali — compiono, per così dire, una traversata del male sugli schermi della crisi novecentesca. Se c’è «un male più potente, più inesorabile del male storicamente determinato, quello del dominio della borghesia su quelli che essa opprime, un male che è la radice di ogni male storico: la storia in quanto tale», allora questo male è la storia stessa; il saggio di Felice Ciro Papparo ne vede il segnale, il sintomo leggibile nella controversia tra Bataille e Camus. In realtà, ad un attento sopralluogo, il male cambia di segno, può farsi attivo, produttivo, diventare immagine, evento. Anche la scrittura, nella fattispecie quella del romanzo poliziesco, mette metaforicamente in scena il male «nella sua espressione oggettivamente sensibile: nel crimine». A partire dall’analisi del celebre libro di Kracauer, il saggio di Vincenzo Cuomo ricostruisce inquietanti frammenti di coabitazione tra il bene e il male che agitano tra accumulo e dispendio la rappresentazione novecentesca. Dentro questa, altri blocchi tipologici di un pensiero del male si incuneano e si espandono. Per Eleonora De Conciliis, la riflessione baudrillardiana è appunto quello dell’intelligenza: la reversibilità fatale del Bene in Male che può incarnarsi nel nostro presente iper–reale ed iper–tecnologico: «oggi, grazie alla globalizzazione della cultura occidentale e al virtuale, il Bene, con cui l’Occidente si identifica senza riserve, tende a saturare tutto, ma con ciò non si percepisce più come tale, diventa trasparente. In questa trasparenza, che Baudrillard definisce «apocalisse del Bene», si dischiuderebbe una inquietante, nonché ironica anamorfosi del Male». Tutto lascia intendere che la prospettiva di Baudrillard sul tema del male sia la cartella diagnostica più veritiera del nostro Occidente malato. Il saggio di Leonardo Distaso esplora i concetti di bene e di male a partire da un corso che Ludwig Wittgenstein tenne nel 1939 all’Univer- Prefazione sità di Cambridge all’interno del quale vi era un breve ciclo di lezioni dedicate alla libertà del volere. Per il grande pensatore austriaco nella lettura di Distaso «i concetti di “bene” e “male” sono possibili solo se la separazione essenziale è già avvenuta, solo se l’uomo è già caduto nella vita — nell’esistenza — e sono pensabili e interpretabili solo nell’orizzonte compiuto della caduta che separa l’uomo dall’unitotalità e dalla compresenza immediata col divino. “Prima” della caduta la differenza tra bene e male non si pone, non è data, anzi: è vietata». Eppure, se è difficile un’interrogazione radicale sulla questione del male e sulla sua comprensibilità, è possibile disegnare mappe, individuare luoghi. Di questo si occupa il saggio di Aldo Meccariello dedicato al pensiero di Hannah Arendt. I luoghi del male si materializzano per la grande pensatrice ebreo–tedesca nel terrificante universo concentrazionario nazista. Pertanto la doppia locuzione arendtiana “banalità e radicalità del male” può riassumersi in una locuzione unica: quella della “banalità del male radicale” al fine di cogliere la progressiva penetrazione del fenomeno totalitario da Le origini del totalitarismo del 1951 al resoconto del processo Eichmann del 1963: Eichmann a Gerusalemme. Rapporto sulla banalità del male. I testi teorici sono affiancati dagli interventi visivi di cinque artisti contemporanei (Luc Fierens, Robin Kahn, Angelo Ricciardi, Anton Roca, Vincenzo Rusciano, Nello Teodori), selezionati da Codice EAN, associazione per l’arte contemporanea. Introduzione (De)scrivere il male Emilio Baccarini Premessa Il secolo XX con il suo bagaglio di violenza e di male ci ha costretto e ci costringe ancora a un ripensamento radicale delle possibilità insite nell’esercizio della libertà umana e sulla sua capacità di produzione di male che sembra superare di gran lunga quella del bene. Probabilmente in nessun’altro periodo storico la filosofia e la teologia, ma anche la letteratura, il teatro, la poesia, l’arte, nelle sue espressioni plastiche o visive, si sono poste con la stessa insistenza e soprattutto urgenza, la domanda sul male. Da versanti diversi ci si è interrogati sulla legittimità della teodicea. Naturalmente ciò significa che ci troviamo di fronte a un tema che ha una sua urgenza di ripresa e di rielaborazione. La sconvolgente molteplicità di forme messe in atto nella produzione del male non ha reso l’uomo più edotto sulla natura del male che rimane situato su un piano di misteriosità e quasi di ineffabilità ingiustificabile. Continueremo a porre la questione ontologica sul male, ma non saremo in grado di pervenire a una positività ontologica che dia senso, e quindi una giustificazione, al male. Tuttavia, la negatività in questione non appartiene semplicemente al non essere. Nel male, nell’esperienza del male, viene a manifestarsi il negativo che abita nelle stesse strutture dell’essere senza però divenire mai un positivo. Il male nelle sue molte espressioni, radicate comunque nel non essere che abita l’essere, dice e si dice esclusivamente a partire dall’umano. Nell’umano, nel limite, essere e non essere si coappartengono nel conflitto tra affermazione e negazione, senza una possibilità di pacificazione neppure dialettica, come vorrebbe Hegel. La libertà umana è strutturata Emilio Baccarini secondo questa oscillazione proprio a partire dalla determinatezza che la costituisce e che, come tale, dice l’essere che non è e il non essere che è. La libertà finita è l’origine della possibilità del male, almeno nella sua espressione morale o, più in generale, antropologica. Come ha mostrato Luigi Pareyson, la libertà che struttura un’ontologia della libertà, al di là della logica del fondamento che immediatamente rimanda alla questione della ratio essendi, o al principio di ragione, è la possibilità di accedere a un livello di senso della questione del male, pur permanendo nell’ingiustificabile. Il male, come l’essere, si dice in molti modi; la riflessione filosofica, almeno, ha cercato di dirlo in molti modi: il male metafisico, che in quanto negazione dell’essere si presenta come il nulla; il male ontologico, che ricorda la dimensione della finitezza, del limite, della privazione che costituiscono ogni ente in quanto ente e che quindi a rigore non si potrebbe neppure definire male; il male fisico, strutturalmente legato a quello ontologico, è l’aspetto di cui facciamo esperienza nella sofferenza e nel dolore che ci colpisce nella dimensione corporea; infine il male morale che si collega alla questione della libertà e della possibilità della colpa legata all’esercizio della libertà. Strettamente legato al male morale, il secolo XX è stato attore anche di un’altra peculiare forma di male, il male politico. Di questo male il XX secolo ha fatto un’esperienza tragica, la più tragica, forse, dell’intera storia dell’umanità. Su questo male molto si è scritto, soprattutto negli ultimi tempi, anche se sembra quasi che abbiamo avuto una riprova empirica della natura di male radicale che abita l’uomo, o almeno della sua radicale fragilità che lo tiene sospeso tra l’essere e il nulla. Rimando per un primo approfondimento, tra i molti, agli scritti di Primo Levi, T. Todorov, H. Arendt, H. Jonas, E. Fackenheim e L. Pareyson. . Cfr. L. Pareyson, Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, Einaudi, Torino 1995 e 2002. . Per un primo orientamento si veda M. Nicoletti, La politica e il male, Morcelliana, Brescia 2000; R. Gatti, A. Ales Bello (a cura di), Il male politico, Roma 2000. L’opera di riferimento fondamentale in questo ambito è H. Arendt, Le origini del totalitarismo, trad. it. di A. Guadagnin, Edizioni di Comunità, Milano 1996. La bibliografia specifica sui Lager o sui Gulag, espressioni ultime e tragiche delle lacerazioni dell’umano prodotte dal male politico è ormai sterminata. Mi limito a segnalare due testi particolarmente interessanti: T. Todorov, Di fronte all’estremo, Garzanti, Milano 1992; G. Agamben, Homo sacer, Einaudi, Torino 1995. Significativamente Agamben considera «il campo come paradigma biopolitico del moderno», pp. 129 ss. «C’è ancora una macchia qui» Il tempo del male. Bataille, Camus e la felicità Felice Ciro Papparo a Gabriella Mora Life […] is a tale told by an / Idiot, full of sound and / Fury, signifying nothing. Shakespeare, Macbeth 1952: su «Critique», la rivista da lui fondata e diretta fino alla morte, esce un articolo di Ge­orges Ba­taille inti­tolato: L’affaire de “L’Homme revolté”. Al libro di Ca­mus, Bataille aveva già dedicato nel 1951 un altro arti­colo; in questo del ’52 Bataille prende posizione in me­rito alla controver­sia «Les Temps Modernes»–Sartre–Camus, controver­ sia nata dal fatto che il libro di Camus era stato accolto con favore dalla destra francese. Da questo dato parte, con un articolo di Francis Jeanson, la pole­mica di «Les Temps Modernes» contro Camus; Camus stesso interviene nella controversia con una Lettera al diret­tore, seguita poi da un lungo articolo di Sartre e da un nuovo inter­vento finale del direttore Jean­son. L’inserimento di Bataille nella controversia parte da una costatazione che è insieme anche un ri­fiuto dello stile polemico usato da «Les Temps Modernes». Riducendo all’insignifi­canza le lodi della de­stra, con la motivazione che l’accoglienza favorevole fatta al libro di Camus non ha alcuna inci. G. Bataille, L’affaire de “L’Homme revolté”, in Id., Oeuvres complètes, XII, Articles 2, 1950-1961, Gallimard, Paris 1988, pp. 230–236. . Id., Le temps de la révolte in Id., Oeuvres complètes, cit., pp. 149–169. Felice Ciro Papparo denza sul «senso di un libro» e tutt’al più sta ad indicare «un mu­tamento globale della mentalità», Ba­taille sottolinea che l’espressione delle idee, o meglio «la battaglia delle idee», avvenendo in un mondo dove il gioco delle forze è stabilizzato, riflette questo gioco di forze, cosicché la manifestazione delle idee diventa entro la prospettiva ideologica dei campi contrapposti assolutamente ininfluente e priva di effica­cia. «Gli uomini — scrive Bataille — hanno il permesso di pensare soltanto ciò che conviene a vasti moti di forze che li trascurano (che trascurano […] l’angoscia, la speranza o la ri­volta profonde). Di­ver­ samente, si agitano nel vuoto». L’effetto stabilizzante prodotto dal gioco delle forze antagoniste appare a Bataille come un cam­bia­mento radi­cale della forma del mondo; c’è qualcosa, dice Bataille, che questo mondo (il mondo del 1952) ha perso: la pla­sticità. In questo presente mondo, dove i campi di forze an­tagoniste neutralizzano «la battaglia delle idee», «il pen­siero […] è, per principio, solo un esercizio gratuito, senza conse­guenze»: nel campo orientale, il mondo sovietico, le idee che vengono espresse e per cui si lotta sono solo un pallido riflesso dell’ideologia por­tante di quel mondo, idee dunque assolutamente non di­scutibili, solo all’apparenza segni di un dibattito; nell’altro campo, quello occidentale (europeo e non), «ogni gioco possibile di idee» non suscita, invece, asso­luta­mente nulla perché in esso «regna la più vaga indiffe­renza». Come a dire, avvenga nell’uno o nell’altro campo la battaglia delle idee, il risultato è uno solo: il pensiero non solo non ha più presa sul mondo re­ale ma è soltanto un pensiero conveniente alla stabilizzazione del mondo dato, l’espressione di una mi­neralizzazione delle idee. Quale senso ha allora — scrive Bataille — «rimproverare Camus», come fanno «i prota­gonisti di “Les Temps Modernes” che scrivono per agire, che liberamente hanno deciso di avere un ruolo nella sto­ria che accade, che credono che il grande problema in questo mondo è determinare il de­stino dell’uomo»? Che senso ha prendersela con Camus perché risponde in maniera diversa, male secondo i mar­xisti, al problema «di determinare il destino dell’uomo»? Non è che i marxisti . Id., L’affaire…, cit., p. 230. . Ivi, p. 231. «C’è ancora una macchia qui». Il tempo del male. Bataille, Camus e la felicità di «Les Temps Modernes» abbiano torto, aggiunge Bataille, a chiedere questo, «credo anzi abbiano ragione»; resta insoluto però un pro­ blema, questo sì ve­ramente grande e corposo: «nel mondo presente il pen­siero che si im­pegna viene in anticipo appiattito». Da cosa? Dal fatto che «gli uomini d’azione chiedono oggi ai “pensatori” di comprenderli». Ovvero, vista la poca ef­ficacia sugli assetti reali delle idee che ven­gono manife­state in entrambi i campi stabilizzati, il pensiero, che si sforza di im­pegnarsi a ca­pire il presente che lo circonda e in cui si muove, chiamato a rispondere a quel tipo di “comprensione” (giustificare, cioè, l’azione degli uomini d’azione), finisce per ri­dursi solo alla pura certificazione del dato, a una semplice routine se non addirittura a una falsa coscienza; dal che, chiosa Bataille, si capisce che «oggi il pensiero può sopravvi­vere [solo se si pre­senta] discreto e lucidamente disperato». Se questo è il quadro di partenza, diciamo così meto­dologico, entro cui Bataille posi­ziona il pro­prio inter­vento nella controversia Sartre/ Camus — e cioè che oggi (1952) per pensare o meglio per poter continuare ad esercitare il pensiero al di là delle ideologie e renderlo così in qualche ma­niera influente sul dato, occorre rico­minciare a esercitarlo in modo discreto e lucidamente disperato — la que­stione di fondo, di merito, che Bataille solleva, legata in sostanza a questa concezione del pen­sare, è relativa al come bisogna pensare e praticare la rivolta tematizzata da Camus nel suo libro e presa di mira dalla polemica sartriana. È su questo che Bataille prende posizione, sia verso Sartre e la sua ri­vista, sia verso Ca­mus (cui lo lega però un’assonanza tematica e culturale molto più forte rispetto a quella con Sartre). Per quanto riguarda i primi, cioè Sartre e «Les Temps Modernes», è sufficiente riportare la secca affer­mazione di Bataille (espressa nella nota riassuntiva alla recensione): «Settanta pagine — scrive Ba­taille — per rifiutare di vedere l’interesse di una ri­cerca concernente il sentimento di rivolta negli uomini più importanti dei tempi moderni, il che è tanto più increscioso perché Sartre si è sforzato, con una retorica piena di supre­mazia, e appena appena al livello di lealtà della pole­ mica media, di fare di Camus una sorta di “uomo finito”». . Ibidem. . Ivi, pp. 235–236. Felice Ciro Papparo Per quanto riguarda Camus, invece, e la difesa che Bataille ne fa contro i «marxisti di “Les Temps Modernes”», giova ripetere quel che scrive Bataille stesso alla fine della sua recensione: «Camus si ri­volta contro la storia: lo ripeto, questa posizione è insostenibile. Si con­ danna alla lode di quelli che non lo capiscono, all’odio di quelli che vorrebbe convincere. Non può trovare né as­sise né rispo­sta. L’inevitabile vuoto in cui si dibatterà lo vota al di­sprezzo di se stesso. Ciononostante, dovrà ostinarsi perché non vi è nulla oggi di più ri­voltante della dismi­sura della storia». Detto questo resta fermo però che il punto di scarto, di distanza tra Bataille e Camus è esatta­mente sul senso e il fondamento della rivolta. Se è vero, diceva Bataille nella recen­sione a La peste, che Camus ha ragione ad affermare che «il valore con­tenuto nell’affermazione rivol­ tosa non è mai dato una volta per tutte […] che bisogna soste­nerlo incessantemente»; quest’af­ferma­zione ha un senso vero, e la rivolta si distingue perciò stesso da qualunque rivo­luzione (e a maggior ragione dalla controri­voluzione) solo e perché «la rivolta è passione [e solo perché] esprime un’irri­ducibilità dell’uomo alle leggi, ai li­miti [perché in definitiva, se non addirittura per es­senza] il va­lore affermato dalla ri­volta è sempre insubordinazione, passione insubordinata, scate­nata». Ciò non toglie, ed è qui la prossimità di Bataille a Camus, che la posizione camusiana sia importante non solo perché «fonda la morale sulla rivolta», ma, più in generale, perché rappresenta, agli occhi di Bataille, pro­prio per la «precisione con cui ordina nella loro necessità i moti che percorrono o costituiscono la società», quella posizione che «consente di porre in maniera corretta il problema della felicità e della morale». È su questo punto, sul modo cioè di porre corretta­mente il problema della felicità e della morale, che la prossimità e insieme la distanza dal discorso di Camus si fanno evidenti, di un’evidenza cui contri­ buisce lo stesso Camus quando, in occasione di un’intervista con­cessa a Claudine Chonez per la rivista «Monde Nouveau-Paru», rispondendo ad una domanda sulla differenza tra lui e Ba­taille, dichiara: . Ivi, p. 235. . G. Bataille, La morale du malheur: «La Peste», in Id., Oeuvres com­plètes, XI, Gallimard, Paris 1988, p. 245. . Id., Le bonheur, le malheur et la morale d’Albert Camus, in Id., Oeuvres com­plètes, XI, cit., p. 413. «C’è ancora una macchia qui». Il tempo del male. Bataille, Camus e la felicità «Io parlo in favore della felicità e non dell’estasi — ecco la mia diversità. Queste sfu­mature non sono però più attuali in Europa: il segreto dell’Europa è che essa non ama la vita, per questo ha scelto di amare ciò che è al di là della vita immediata. La felicità a più tardi o la felicità giammai: ecco i due credo dell’Europa. Come stu­pirsi allora che il prin­cipale rito di una simile religione sia la messa a morte, filosofica o fisica? Io ho un’altra idea di vitalità». Chiari sono dunque i termini camusiani della diversità tra lui e Bataille, una diversità che, vale la pena ricor­darlo, si sviluppa e si precisa intorno al nome di Nietzsche e al modo, “disincantato” o “nichilista”, di declinare la ri­flessione nietzscheana. Secondo Camus, l’opposizione starebbe innanzitutto nell’idea di vita e di vitalità (cui non guasta la pre­senza di una certa dose di aggressività) e nel grado di felicità che questa vita può rag­giungere. Per Camus, che prende le distanze da una ritualità vi­talistica tutta articolata all’in­segna della morte (che Ca­mus attribuisce a Bataille, ma non solo a lui, inse­rendo però così di fatto Bataille in quella corrente di pensiero europeo che «ha scelto di amare ciò che è al di là della vita imme­diata», con la conseguenza o di non interessarsi af­fatto della felicità o di rinviarla a più tardi) la que­stione della rivolta non può allora darsi se non al di là dell’orizzonte in cui la articola Bataille e al di là dei «due credo dell’Europa»: «la felicità a più tardi o giammai». Il nucleo della rivolta, secondo Camus, o meglio come scrive Camus stesso ne L’Homme revolté, «la logica della rivolta sta nel voler servire la giustizia per non ac­crescere l’ingiustizia della condi­zione [umana], nello sforzarsi al un linguaggio chiaro per non infittire la men­zo­gna universale e nel puntare, di fronte al dolore dell’uomo, sulla felicità». Dalla contrapposizione disegnata da Camus, per cui Bataille sarebbe il cultore di una religione della morte e di un’idea di vitalità tutta giocata sulla “forza” e sull’estasi, con esclusione quindi del problema della feli­cità, se ne dovrebbe dedurre che per Bataille il problema della rivolta si riduce in fondo a una «pratica della gioia davanti alla morte» (per usare termini di Bataille stesso) e a un disin­teresse totale . Id., Oeuvres complètes, VII, Gallimard, Paris 1973, p. 614. . A. Camus, L’uomo in rivolta, Bompiani, Milano 20054, p. 311. Felice Ciro Papparo per la questione del bon­heur. In effetti, il problema di Bataille non è quello «di parlare in favore della felicità», se questo “parlare in favore di” si ri­solve in un discorso sulla felicità e soprat­tutto in una pratica, in una condotta di vita che, per acqui­sire il pro­prio bonheur, liquidano come osta­colo as­soluto qualun­que declinazione del malheur nell’e­sistenza. Lo si vedrà più in là, la questione, diciamo così, di una “dialettica di bonheur e mal­heur” — come ci­fre entrambe essenziali in una visione dell’esistente non declinato o ver­sato nel risenti­mento per il mondo–dato, ma spalan­cato tra questi due lati dell’esistere e aperto al cogli­mento del flusso del mondo nella propria esistenza — la “tensione” dialettica di felicità e infelicità consente di porre il problema e il tema della rivolta in termini di “ri­fiuto di ogni tra­scendenza” (sia essa politica o religiosa) che vincoli l’esistere, svuotandolo di senso, a un presup­posto esplicativo dell’esistenza in quanto tale. Detto di­ versamente, si tratta di porre il pro­blema della fe­licità e della morale nell’unica “maniera corretta”, «indivi­duando — come scrive Bataille nel saggio su Proust intitolato La letteratura e il male — il legame dei contrari [bene e male, malheur e bonheur], che non possono fare a meno l’uno dell’altro», riconoscendo quindi che «un gioco di opposi­ zioni rimbal­zanti si trova alla base di un moto alternato di fedeltà e di rivolta che costituisce l’essenza dell’uomo [e che] fuori di questo gioco, noi soffo­chiamo nella lo­gica delle leggi». Allora, più che “parlare in favore di”, Bataille vuole in­vece capire, con un pensiero di­screto e luci­damente di­sperato, fattosi perciò di nuovo plastico, quale po­sizione l’uomo debba occupare (o ri­tornare ad occupare) nel mondo, affinché la felicità, il bon­heur, a seconda che se ne accentui il lato durativo o momentaneo, sia espe­ri­bile più che dicibile dall’essere umano, senza che questa ricerca del bonheur venga contrapposta al malheur dell’esistere, in nome di un maledettismo o di un lamento soli­dalmente speculari e alla fin fine rispettosamente de­voti a un aldilà (sia esso il niente o la morte, o l’assurdo) che semplicemente cancellano il dato del nostro presente mondo, per collocare il sistere dell’u­mano essere in un ex sempre traumatizzante e perciò stesso da rimuovere. . G. Bataille, La letteratura e il male, SE, Milano 2006, pp. 130–131 e 126–127. «C’è ancora una macchia qui». Il tempo del male. Bataille, Camus e la felicità Da come ci si posiziona nel mondo e da come viene posizionato il mondo dal soggetto parlante, dipende, si potrebbe dire, anche il tipo di felicità che possiamo espe­rire. Ma il problema più radicale non è solo questo delle posizioni. L’abbiamo visto, Bataille ritiene che «il nostro mondo presente» (il suo presente sicuramente, il 1952, ma non forse anche il nostro pre­sente mondo che ha di nuovo rispolverato, in tutta l’am­piezza nichilistica e op­positiva, i vessilli del bene e del male?) abbia perso un tratto deci­ sivo: la plasticità, per far posto, o meglio per erigere sempre di più, con le muraglie del Bene e del Male, principi e momenti “durativi” e “fissi­sti” che, bloc­cando le forze che compongono il mondo, costringono in questo modo le vite che nel mondo conti­nuano a scor­rere, a scorrere solo nel verso di una ripetizione “asinina”, in un dire sì al mondo dato senza alcuna dissonanza. Forse allora la questione posta da Camus: «Il segreto dell’Europa è che essa non ama la vita, per­ciò ha scelto di amare ciò che è al di là della vita immediata», tradotta nella prospettiva con cui Ba­taille legge nel 1952 i rap­porti di forze esistenti tra i campi con­trapposti — blocchi storici, appunto e non forme del tempo, fissazione vs pla­sticità — ri­ versandosi sulla questione morale per eccel­lenza, quella del bonheur, si trova ad essere declinata se­condo i due sensi possibili del termine: lo stato du­raturo e l’istante. Riferita allo stato duraturo, la felicità si presenta (e si rappresenta) come un blocco unico e com­patto di stati tutti coesi e continui, durativi appunto, tessuti secondo il filo della storia e dunque pro­ gressivamente cumulabile ed esperibile solo nel tessuto della storia; riferita all’istante presente, la felicità si mostra (e si rappresenta) come una forma del divenire, una nuvola ad esempio, soggetta perciò stesso alle mutazioni del tempo che cam­bia, coglibile quindi solo nei pas­ saggi da una forma all’altra, nella presenza istantanea che assume e in cui si rapprende per un attimo e nel cui accadere il sog­getto si trova più che ad afferrarla a lasciarsi af­ferrare dalla feli­cità. Michel Surya nella sua biografia di Bataille ha sottoli­neato che la ricerca morale di Bataille si esprime, in quanto ipermorale, come «rivolta contro il tempo op­pressivo e malefico della storia», unico modo, secondo Surya, perché il soggetto della ricerca possa trovarsi nell’«istante sovrano della non-storia», al punto, ag­giunge l’autore, come fosse quasi la cifra dell’intera rifles­sione batailleana sulla mo­ Felice Ciro Papparo rale, che «è con la storia stessa nella sua radice che la morale (tutte le morali) ci spin­gono a farla fi­nita». Certo, se si isola quel passaggio dell’articolo di Ba­taille, L’affaire de “L’Homme re­volté”, nel quale Bataille si chiede se, più che l’oppressione, non sia la storia ad essere “il male per eccellenza”, come ad esempio la storia presente che spinge l’umanità «al suici­dio» di se stessa in quanto umanità — quella del ’52, ma anche, e ancor di più, la nostra con le sue pulizie etniche che inducono a pensare che il fondo morale della storia umana, e forse la morale umana tout court, non siano e altro non pos­sano essere che un instanca­bile macbethiano lavorìo intorno alla macchia! —; se si assolutizza quel passaggio, proba­bilmente ha ragione Surya a si­glare la ricerca ipermorale di Bataillle come «un farla finita con la storia» e a porre, di conseguenza, la questione della felicità e la sua esperibi­lità in un «al di là della storia stessa». Del resto, anch’io ho suddiviso la felicità e la sua esperibilità in e su due lati: quello storico e quello temporale. Ma vorrei aggiungere, e precisare, che questa sud­ divisione — che vale quel che vale, certo, e che per me è valida, però, perché consente di collocare, o meglio di “porre correttamente” «il pro­ blema della felicità e della mo­rale» se­condo l’autore de La sovranità — la suddivisione tra una felicità secondo la storia e una felicità secondo il tempo è debitrice in effetti all’impostazione nietzscheana quando prende ad oggetto la storia, a quella posizione inattuale, nel senso preciso in cui la pensava e la affermava Nietzsche, nella “Seconda inattu­ale”, quando scriveva che «ope­rare [nel proprio tempo] in guisa inattuale [significa] operare contro il tempo, e in que­sto modo sul tempo e, speriamolo, a fa­vore di un tempo a venire». Il che altro non vuol dire se non operare con una carica, certo, prima facies, non dialettica, forse intensiva, ma sicuramente non al di là, non pregiudizialmente o superbamente estranea cioè al corso dell’epoca storica su cui si vuole intervenire in modo inattuale, anche e proprio perché l’“inattuale ope­ratività” verso la storia ad altro non mira che all’umano e storico problema della felicità e della sua esperi­bilità (come è noto è su questa questione del bonheur che si apre la riflessione inattuale di Nie­tzsche). Per esemplificare meglio la mia tesi, chiamo allora in causa lo stesso Bataille: «In un certo senso — scrive Bataille ne L’affaire de “L’Homme . M. Surya, Georges Bataille, la mort à l’oeuvre, Gallimard, Pa­ris 1992, p. 530. «C’è ancora una macchia qui». Il tempo del male. Bataille, Camus e la felicità revolté” — è logico dire: la rivolta con­tro la storia? Non è forse la cosa più nota al mondo? La contro­rivoluzione! […] In verità — prosegue Ba­taille — la rivolta di cui parlo rifiuta questa rivoluzione smisurata la cui dismisura dà la sua ra­gion d’essere all’avversario, ed è estranea, ostile […] all’avara inintelligenza della con­tro­rivoluzione. […] L’essenza della situa­zione presente è la seguente: i giochi sono fatti e le af­ferma­zioni di principio all’interno di un campo non possono fletterne la politica. Il rifiuto della storia non può sicuramente designare un tentativo; situandosi sul piano della storia, il tentativo ri­sulte­rebbe solo un tentativo precario. [Il rifiuto della sto­ria] è un atteggiamento più modesto e insieme più au­dace. Nell’accezione comune, esso non può suscitare azione, non vuole cambiare il mondo, ma risponde a un cambiamento già sopravvenuto nel mondo». Ecco, il punto è proprio qui: il rifiuto della storia si pone certamente al di là dell’azione che tra­sforma il mondo, è espressione, rifiuto di una volontà che si ri­tira dall’azione, non perché que­sta volontà si ponga “con­tro” (ad esempio contro la rivoluzione, fattasi Stato, che ha già cambiato il mondo o contro quella che continua, lì dove non è ancora Stato, a voler cambiare il mondo), ma più sempli­cemente perché a rendere inattiva la volontà di trasformare sta, proprio come un blocco che inter­dice l’azione della volontà, «un cam­biamento già sopravve­nuto nel mondo». Come a dire: la mia vo­lontà, che è vo­lontà che si rivolta contro la storia, che la rifiuta, assume quest’attitudine — il rifiuto e non la nega­zione — perché sa, avverte — se ha beninteso la lucidità disperata di un pen­siero fuori dal comune — di star facendo esperienza che «la storia del mondo» ha già prodotto nel mondo un’azione che rende “nulla” ogni volontà di trasforma­zione, che questo già sopravvenuto cambiamento è così epo­cale da rendere ininfluente la posizione che si mette ancora dalla parte della storia che trasforma e compren­sibile (e forse accettabile) la posizione contraria che si ri­volta contro la storia che procede ininterrottamente e ine­ sorabilmente. Perché? Perché la scelta della rivolta — visto che essa può di fatto apparire, ad occhi rivoluzio­nari, solo controri­voluzionaria — anche se, e non solo di diritto, non solo in termini puramente nominali­stici, . G. Bataille, L’affaire…, cit., p. 232. Felice Ciro Papparo a distanziare in maniera netta la rivolta dalla controrivoluzione è proprio ciò che manca a quest’ultima che, come scrive Bataille, è «avaramente inintelligente», perché il suo rifiuto della sto­ria si articola su un non voler capire, su un’ostinazione a chiudere gli occhi di fronte ai cambia­menti, in una parola su un’insistenza a tenere fermo il corso della storia stessa. Il motivo della scelta rivoltosa si pone proprio perché, nel gioco dei campi ideologici contrap­posti, si è immesso un pensiero discreto e lucidamente disperato che vede non se stesso nello spec­chio della propria ideologia (sia essa rivoluzionaria o no), ma piuttosto quel che già nel mondo ha mutato il senso del mondo stesso, svuotando di senso non solo la piatta e ripetitiva comprensione “ideo­logica” del mondo, ma determinando anche la sospen­sione se non addirittura la messa in questione della scelta di stare dalla parte dei diseredati: «Non sono, scrive in­fatti Bataille, così certo, come Sartre e Jeanson, di un principio secondo cui la sofferenza dei diseredati conte­rebbe più di qualunque altra cosa al mondo». Di nuovo, perché? Perché questo principio: la soffe­renza dei diseredati, che è stato ed è il mo­tivo conduttore e motore di una concezione della storia come trasforma­zione ine­sorabile (princi­pio che Bataille sottoscrive, af­fermando e ripetendo che «la storia è in ultima istanza […] storia di una lotta di classi che esprime la soffe­renza degli oppressi e conferisce alla tensione che ne scatu­risce il suo significato»), perché questo principio, agli occhi di un pensiero discreto e lucidamente dispe­rato, non si presenta più come determi­nante in ultima istanza? Perché la sofferenza, “privilegio”, per dir così, dei di­seredati, si è diffusa, in una pecu­liare forma, nel e sul mondo nella sua totalità e ha “diseredato” i diseredati del loro privilegio: «la minaccia di una guerra», ecco la sof­ferenza più radicale, quel «cambiamento già sopravve­nuto nel mondo», che nullifica la vo­lontà di trasformare il mondo, o quantomeno mette in questione, sposta la volontà dal piano dell’azione orientata dalla determina­zione in ultima istanza al piano del rifiuto tout court: «la minaccia di una guerra ha posto l’uma­nità nella sua glo­balità in una situazione disperata» e da que­sta situazio- . Ivi, p. 233. . Ibidem. «C’è ancora una macchia qui». Il tempo del male. Bataille, Camus e la felicità ne disperata non si salva nessuno! E dunque, insiste Ba­taille, «non sono gli inte­ressi dei privilegiati» ad oppri­merci, oggi; certo, precisa Bataille, se questi abbando­nassero i loro privilegi «nes­suna guerra sarebbe possi­bile»; e tuttavia l’oppressione più grave, più opprimente dell’oppres­sione derivante dal dominio degli interessi dei privilegiati, è oggi quella della sto­ria: «come non ve­dere […] nella storia stessa un male più grande dell’oppressione» se ap­punto «la storia ine­sora­ bilmente costringe [con la minaccia di una guerra] la specie umana al suicidio»? C’è dunque un male più potente, più inesorabile del “male storicamente determinato”, un male che è la radice di ogni male storico: la storia in quanto tale! Ma se così è, se il male è la storia stessa, come rivoltarsi contro que­sto male? Oc­corre, come suggerisce Surya, sradicare questo male che è la storia facendo ricorso alla morale? Farla fi­nita cioè con la storia in quanto male più grande, facendo appello, di contro all’insensatezza che regge la storia, al senso della morale? La morale sarebbe allora — per utilizzare i termini usati da Bataille per esprimere il significato della rivolta per Camus — «la linfa» op­posta al «tifone della sto­ria», la «misura di una umanità meno tesa» opposta alla «di­smi­sura dell’attività moderna»? (Tornerò più in là su questo passaggio dell’articolo di Bataille, soprattutto su un ter­mine dé­tente, che si trova immediatamente dopo il passo citato, giacché, pur co­niandolo, diciamo così, a partire da Camus, Bataille ne fa un uso radicalmente diverso e proprio in relazione alle questioni della mo­rale e della felicità.) Quel che mi interessa discutere adesso è se, come vuole Surya, la posizione di Bataille contro la storia sia riconducibile a una posizione, o meglio a una contra–po­sizione “mo­rale”, o della morale tout court, al «tempo oppressivo e malefico della storia». Ho qualche dubbio che si possa ri­solvere l’intensità categorica dell’interrogativo batailleano («come non vedere nella storia stessa un male più grande dell’oppres­sione?») nella rivendicazione della morale come “tratto non storico” o addirittura come “ciò che pone fine alla sto­ria stessa”. Mi sembra invece che ciò che dice Surya sia più . Ibidem. . Ivi, p. 234. Felice Ciro Papparo appropriato alla concezione rivoltosa di Camus, se è vero, come scrive Camus ne L’homme revolté, quando affronta il rapporto della rivolta con la storia, che «l’uomo della rivolta, lungi dal fare della storia un assoluto, la ri­cusa e la sottopone a contestazione in nome di un’idea della propria natura. Rifiuta la propria condizione, condi­zione che è, in gran parte, storica. L’ingiustizia, la fuga­cità, la morte si manifestano nella storia. Respingendole, si respinge la storia stessa. Certo — aggiunge Camus — l’uomo in rivolta non nega la storia che lo cir­conda, ap­punto in essa egli cerca di affermarsi. Ma si trova di fronte alla storia come l’artista di fronte al reale, la respinge senza sfuggirla». Non così è per Bataille (anche se la posizione da arti­sta che suggerisce Camus all’uomo revolté di fronte alla storia ha una qualche eco nella concezione batailleana). Non è così per Bataille, soprattutto perché per Bataille non vale l’assunto camusiano che «l’in­giustizia, la fuga­cità, la morte si manifestano nella storia [e] respingen­dole si re­spinge la storia stessa». Non è così per Bataille, perché se questi tratti: ingiustizia, fuga­cità e morte (e so­ prattutto gli ultimi due), manifestandosi per Camus nella storia, danno ragione all’uomo della rivolta di rivoltarsi contro la storia, ma solo e pour cause in nome di un prometeismo, forse meno teso, meno attivistico, e pur tuttavia ancora e sempre prome­teico, per Bataille, descri­vendo a quel modo la condizione umana, si finisce per attribuire ad essa solo il tratto di un malheur assoluto, seppure storico, (l’assurdo camusiano), da cui occorre, o meglio si deve solo fuggire, e di prospettare quindi una mo­rale du malheur tutta tesa alla dissoluzione di quei di­svalori (ingiustizia, fugacità, morte) che svalo­rizzano «l’idea della propria natura». Come si è già detto, per Bataille, a costituire «l’essenza dell’uomo» è «un moto alternato di fe­deltà e rivolta»; «fuori di questo gioco […] di opposizioni rimbal­zanti», c’è per Bataille solo il soffo­ca­mento «nella logica delle leggi», quelle leggi ad esempio che, in nome della rivoluzione o della controrivoluzione (e delle passioni che le supportano e le agitano entrambe), portano un soggetto che ha individuato “nell’altro da sé” la causa del malheur, da un lato a legittimare il proprio crimine, «per­ché nell[a] vittim[a] [vede] la causa delle sventure pub­bliche», dall’altro a legittimare le pro­prie passioni nega­tive: «ucci- . A. Camus, op. cit., p. 316. «C’è ancora una macchia qui». Il tempo del male. Bataille, Camus e la felicità dere e umiliare altri», producendo in questo modo solo una riduzione assoluta della passione alla ratio di una Legge! Qual è allora il senso e il posto della morale nella ri­flessione di Bataille? Sulla scia di Nietzsche, Bataille sottolineava che «da un lato, i moti di disapprova­zione e appro­va­zione hanno per noi un’importanza intima eccezionale, che domina la nostra esistenza in quanto umana» e che «dall’altro, [questi moti] hanno grandissime conseguenze sull’insieme delle nostre istituzioni», e riteneva perciò compito urgente per il pen­siero «la chiarificazione radi­cale di tali moti e delle verità che li fondano», proprio in virtù del fatto che quei moti, che sono il nucleo vero di ogni morale, non solo dominano «la nostra esistenza in quanto umana» ma producono con­se­guenze enormi sull’in­sieme delle nostre istituzioni (termine questo che, senza scomodare Vico, dice da solo e innanzitutto «il ca­rattere storico» dell’umanità e non consente affatto di pen­sare la mo­rale come un aldiqua della storia). E in effetti, se la carica di quei moti fondativi della nostra umanità si riversa sulla no­stra uma­nità istituzio­nale, anzi, di più e meglio, la “innerva” contribuendo dun­que a connotare la nostra uma­nità, il nostro tratto di ani­mali storici anche, per dirla alla Nietzsche, come “animali veneranti”, che approvano e disapprovano, forse risulta un po’ difficile immaginare una morale tutta posta aldi­qua della storia. Ammesso che si possa dare una qualche morale aldiqua della nostra capacità di istitu­ire «nozze, tribu­nali ed are», che irrobustiscono il nostro “naturale” approvare o disapprovare, ri­sulta difficile, dicevo, pensare una morale posta aldiqua della storia che riesca, in virtù di questa sua collocazione, a scalzare «il tempo oppressivo e malefico della storia» in quanto bisogne­rebbe pen­sare questa morale come qualcosa che si con­serva intatta e altra da ciò che essa diventa quando di­venta “reggitrice” del nostro mondo culturale. D’altro canto, se come diceva Foscolo, «dal dì che nozze, tribu­nali ed are diero alle umane belve esser pietose di se stesse e altrui», come a dire che i nostri istituti e costumi umani innescano un moto morale, forse allora non c’è “morale naturale umana” che si possa trovare, dentro la storia della specie umana, come altro e radicalmente al­tro dalla morale che costituiamo in quanto esseri simbo­lici e dunque anche la più umana della passioni, o il più umano dei sentimenti, si declinano pur sempre lungo il corso della nostra storia umana. Felice Ciro Papparo Vale a dire che a rigore, aldiqua della storia (ma que­sto lo si dice senza nessuna venerazione sto­ricistica per que­sto tratto che ci fa umani), non c’è morale che tenga o possa essere esercitata contro, giac­ché solo “in noi” i «moti di approvazione e disapprova­zione» sono diventati sistema morale e solo “su di noi” questi moti hanno as­sunto il tratto del costume che ci regola nella nostra esi­stenza: così come è “umana” la storia, al­trettanto e forse più lo è la nostra morale, umana, troppo umana (basta appunto come dicevo guardare con attenzione al nostro presente mondo per sentirvi l’ossessivo ritornello: «c’è ancora una macchia qui», che si ripete, al di là di ogni pro­gresso storico, come una “nenia funebre” nella nostra storia presente, per farla finita con la possibilità di immaginare una morale anteposta e con­trapposta alla storia!) C’è tuttavia un altro motivo, per me ancora più im­portante, che mi spinge a non con­dividere la categoricità insita nell’affermazione di Surya. E consiste nel fatto, come ho già detto riportando il passo camusiano dell’uomo in rivolta contro la storia che, se fosse come lo legge Surya, il discorso di Bataille sulla morale rica­drebbe di peso nella ten­denza, aspramente criticata in­vece da Bataille (tra l’altro proprio contro Camus — si veda la lettura che Bataille fa de La Peste), di una morale che si in­gegnerebbe «a fuggire il malheur», un gesto questo nel quale Bataille vede non un motivo di o una scelta per la libertà, ma una più forte subordinazione dell’uomo, giacché, precisa Bataille (e non solo contro Camus), «se non abbiamo altro interesse che quello, ne­gativo, di fuggire l’infelicità, non resterà in noi nulla che non sia subordinato poiché il nostro scopo sarà negativo (il desiderio pru­dente di esser felice non è esso stesso al­tro che il desiderio di non essere infelice)». Come a dire che l’espressione del proprio essere liberi si ridurrebbe all’es­serlo solo perché neghiamo ciò che ce lo impedisce, come se l’esser liberi consistesse nell’azzera­mento di tutto quanto impedisce il no­stro movimento e dunque non nello scio­glimento dei vincoli che inceppano il no­stro moto di li­bertà ma nella soppressione pura e sem­plice dei legami col mondo e con chi lo abita, acché si dia solo la nostra sacrosanta unica liberta! Se mettiamo a confronto l’affermazione di Bataille or ora riportata con l’assunto di fondo di Surya: «Bataille perviene a fare della rivolta . G. Bataille, La morale du malheur…, cit., p. 249. «C’è ancora una macchia qui». Il tempo del male. Bataille, Camus e la felicità contro il tempo oppressivo e male­fico della storia, l’eco del suo passaggio all’istante sovrano della non-storia», Bataille, che ha di fatto ne­gato la possibilità di esercitare una posizione morale come assoluta fuga da ogni malheur, si ritroverebbe in­vece ad occu­pare esattamente questa posizione, giacché il senso della rivolta, il senso diciamo così primario sa­rebbe quello di fuggire il tempo malefico della Storia! Credo invece che l’intento “antistorico” di Bataille sia, per ripren­ dere una sua espressione, «più modesto e al tempo stesso più audace». Non solo perché il gesto di ri­fiutare la storia non arriva, ecco il tratto di modestia, alla stu­pida negazione della storia (ed è così anche per Camus, ma va aggiunto che sotto il ter­mine onnicompren­sivo di Storia sono incluse da Bataille tutte le declina­zioni possibili della storia stessa: quella rivoluzionaria, quella controrivoluzionaria e quella meramente progres­siva), ma perché il “modesto rifiuto” (che io esprimerei alla maniera di Bar­tleby lo scrivano: preferirei non!) artico­landosi à la Nietzsche e non à la Camus (per il quale vale questo principio cardinale: «Non c’è vita valida senza proiezione nell’avve­nire!») diventa un operare au­dace e inattualmente audace. Inattuale, perché fondato su quel modo del tempo che tutte e tre le dimensioni succi­tate della Storia negano, sul presente cioè, più che sull’istante isolato, atomico; e au­dace perché il presente che la rivolta prende a fonda­mento si rappresenta come «l’occasione» per rallentare il corso rovinoso della storia (rivoluziona­ria, controri­voluzionaria, pro­gressiva) nella distensione della propria esistenza sto­rica, comprensiva, quest’ultima, e del mal­heur e del bon­heur da cui può essere affetta ogni esi­stenza. Articolandosi in una détente in cui soltanto e at­ traverso cui soltanto la rivolta trova il suo senso vero, essa non finisce per essere lo “scatto inconcludente” di un risentimento generalizzato verso la condi­zione umana, ma qualcosa che per l’appunto allenta questa stessa con­dizione e la rallenta in un “tempo dentro la storia” che le è più proprio. Se in fondo la rivolta è per Bataille “sovranità”, «e la sovranità è innanzitutto il fatto di esser là senz’altro scopo che quello di esistere», allora il problema che si porrà sarà quello di come rendere possibi- . M. Surya, op. cit., p. 530. . G. Bataille, Le temps de la révolte, cit., p. 163. Felice Ciro Papparo le che questo fatto di “esser là” non si dia e non si rappresenti più solo e uni­camente nel verso dell’azione utile e sensata ma si dia e si rappresenti piuttosto come un approfon­dimento del proprio tempo passionale, unico scarto vero, unico tratto di non ridu­cibilità, e forse unico segno, in un mondo che ha perso la plasticità, di una ritrovata vitalità. Una vita­lità che, contraria­mente a quel che pensava Camus, non ha, però, per esprimersi come tale, come una vita cioè che vuole la propria mortale vita, il senso, e il valore soprattutto, della «reattività vitale», un’energica e «maschia potenza», ma soltanto la propria passiva di­stensione nella dimensione temporale del mondo, contro­ battendo così all’urlo assordante della storia che vuole e richiede un agire inces­sante, sensato e utile, un delicato, pas­sivo, inutile, leggerissimo ma decisivo: preferirei non! Per poter proferire, con pacata decisione, il motto di Bartleby: preferirei non, per affermare, di con­tro alla coppia: “sto­ria-azione”, il proprio “passivo ritrarsi”, il pro­prio soffermarsi sul “tempo inutile”, senza che questa inu­tilità del proprio tempo sia sentita come inutilità del pro­prio esistere, occorre trovare dei modi per far ruotare la rivolta intorno a dei punti di décalage (in tutti i sensi del termine: sposta­mento, divario, scalamento, sfalsamento, scorrimento) dove l’azione — sensata, utile, va­lida — veda, in una parola, rallentata la propria corsa. Come accade ad esempio nella re­cherche proustiana dove «l’evento [ripassato, per dir così, attraverso la memoria] non ha più il senso dell’azione, poiché, nella memoria, il riposo ri­stabilisce la prospettiva osta­colata dalla preoccupazione attuale», cosic­ché mediante la memoria «noi sappiamo pas­sare dal primato dei significati (della pura intelligibi­lità) a quello di una sensibilità sre­golata, che non ha altro interesse che la subitanea rivelazione di un dato irriduci­bile all’intelligenza (la quale agisce)». Per Bataille in effetti è esattamente questo dato emo­tivo, appassionato e passionale, che nella ri­volta e me­diante essa bisogna ritrovare, quell’«elemento di pas­sione che non conta più nulla […] un moto di generosità che butta all’aria i pesanti vincoli dell’astuzia», sa­pendo, . Id., Oeuvres complètes, VIII, Gallimard, Paris 1976, p. 662. . Id., Oeuvres complètes, XII cit., p. 634. «C’è ancora una macchia qui». Il tempo del male. Bataille, Camus e la felicità come Bataille ben sapeva, che «non si tratta di voler stupidamente sfuggire all’utile, e ancor meno di negare la fatalità che dà ad esso l’ultima parola, ma di fare spazio alla possibilità di veder apparire quel che se­duce, ciò che sfugge nell’istante dell’apparire alla neces­sità di rispondere all’u­tile». Questo tratto seducente, avvertibile sensibilmente più che con l’intelligenza, Bataille, dal canto suo, lo vede, diversamente dalla prospettiva proustiana, manifestabile cioè nel presente e attra­verso il presente, e coglibile sen­sibilmente, fermandosi ad esempio, se si tratta di un evento sto­rico o di una rappresentazione che ha al centro un personaggio storico, sull’emotività che si può spri­gio­nare dall’evento storico o dalla rappresentazione spetta­colare (si pensi per intenderci all’entu­siasmo suscitato dall’evento della rivoluzione francese), soffermandosi, sostando su questo lato emozionale suscitato dall’evento, senza pensare immediatamente di saltar fuori dall’immediato emo­ tivo per an­dare a vedere gli effetti dell’evento, le sue conseguenze, centralizzando quindi il proprio interesse non sulle conseguenze che esso può comportare ma piuttosto sul dato appariscente e sedut­tivo dell’emozio­nale, sul presente che mi sta emozio­nando. Se questo tratto di “ap­parizione seducente”, che ha il colore e il sapore della tragedia, perché al pari della «tragedia arresta il tempo» e rappresenta «l’istante so­speso in cui manca l’aria», se questo tratto di appari­scenza da cui ci si lascia afferrare e sorprendere può, agli occhi dell’uomo utile e dell’uomo d’azione, apparire come segno del male, indice di un intoppo o di un arre­sto introdotto nel mondo del benessere, ebbene, all’uomo dell’utile e dell’azione, occorre saper dire e mostrare che, come «non c’è morale possibile a voler ignorare le virtù del male», così non può esserci un’esistenza che pretenda alla sua giusta felicità, esclu­dendo, astrattamente, dalla propria esistenza «le prove dell’infelicità, o del Male» che risvegliano il proprio «avido desiderio» di felicità! . Id., La religione preistorica, in Id., Sulla religione. Tre conferenze e altri scritti, a cura di F.C. Papparo, Cronopio, Napoli 2007, pp. 168–169. . Id., Oeuvres complètes, VIII, cit., pp. 662–663. . Id., D’un caractère sacré des criminels, in Id., Oeuvres complètes, XI, cit., p. 471. . Id., La letteratura e il male, cit., p. 131. Note bio–bibliografiche degli autori Emilio Baccarini è professore di Antropologia filosofica presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma Tor Vergata. È direttore della rivista di filosofia online «Dialeghestai». Studioso di Husserl (La fenomenologia. Filosofia come vocazione, Studium, Roma 1981) e del pensiero ebraico contemporaneo (Levinas. Soggettività e infinito, Studium, Roma 1985), a cui ha dedicato molteplici saggi, negli ultimi tempi si sta occupando di un’antropologia della differenza e dell’alterità (Il pensiero nomade. Per un’antropologia planetaria, Cittadella, Assisi 1994; La persona e i suoi volti. Etica e antropologia, Anicia, Roma 2003; La soggettività dialogica, Aracne, Roma 2003). Vincenzo Cuomo (Torre Annunziata, 1955), docente di Filosofia e Storia nei Licei statali, svolge da vari anni attività di ricerca presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Salerno, occupandosi prevalentemente di “estetica dei media”. Dalle sue ricerche in tale ambito sono nati il volume Del corpo impersonale. Saggi di estetica dei media e di filosofia della tecnica (Liguori, Napoli 2004) e il volume Al di là della casa dell’essere. Una cartografia della vita estetica a venire (Aracne, Roma 2007). Si è occupato anche del pensiero di Adorno, con saggi e curatele (Th.W. Adorno, La musica i media e la critica, a cura di V. Cuomo, Tempo Lungo, Napoli 2002), e della definizione di una filosofia della phoné (Le parole della voce. Lineamenti di una filosofia della phoné, Edisud, Salerno 1998). L’ultimo suo libro è: Figure della singolarità. Adorno, Kracauer, Lacan, Artaud, Bene, Mimesis, Milano 2009. Dalla sua fondazione co–dirige la rivista online di critica filosofica «Kainos» (www.kainos.it). Eleonora de Conciliis (Napoli, 1969) insegna Filosofia nei Licei, collabora con l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici ed è caporedattrice della rivista di filosofia online «Kainos». Oltre a saggi su Arendt, Levinas, Canetti, Foucault e Baudrillard, ha pubblicato i volumi: L’aristocratico metropolitano. Simmel e il problema dell’individualismo moderno (La Città del Sole, Napoli 1998); Favole per dialettici. Per una lettura dei racconti di Kafka (Loffredo, Napoli 1998); La redenzione ineffettuale. Walter Benjamin e il messianismo moderno (La Città del Sole, Napoli 2001); Il lusso della differenza. Ipotesi sul processo di sog Note bio–bibliografiche degli autori gettivazione (Filema, Napoli 2006); Pensami, stupido! La filosofia come terapia dell’idiozia (Mimesis, Milano 2008); ha curato, insieme ad H. Retzlaff, la traduzione italiana della Clavis fichtiana seu leibgeberiana di Jean Paul (Cronopio, Napoli 2003), e i volumi: Dopo Foucault. Genealogie del postmoderno (Mimesis, Milano 2007); La provincia filosofica. Saggi su Elias Canetti (Mimesis, Milano 2008); Jean Baudrillard, o la dissimulazione del reale (Mimesis, Milano 2009). Leonardo Distaso, docente di Estetica musicale presso la Facoltà di Filosofia dell’Università di Roma “La Sapienza”, ha studiato a Roma, Bologna, Ginevra e Parigi, insegnando anche all’Università di California, Irvine. Ha pubblicato testi sull’estetica di Wittgenstein (Estetica e differenza, 1999, e Lo sguardo dell’essere, 2002) e di Schelling (The Paradox of Existence, 2004). Ha tradotto testi di Basch, Schelling, Hanslick. Autore di numerosi articoli sulla filosofia della musica, sta preparando un saggio sull’argomento previsto per l’inizio del prossimo anno. Luc Fierens, nato nel 1961, vive a Weerde in Belgio. Dal 1984 è parte attiva in una vasta rete di artisti postali europei che si estende fino agli USA, comprendendo anche artisti Fluxus contemporanei, neo–dadaisti, performer, poeti sonori e poeti visuali che operano nell’area del collage e della nuova scrittura. Sue opere ed edizioni (Postfluxpost) sono conservate in importanti archivi (come il Ruth & Marvin Sackner Archive di Miami Beach), biblioteche (MoMa Library, collezione di libri rari della Università di Buffalo, MaRT di Trento e Rovereto, ecc.) e in numerose collezioni private. Robin Kahn, artista visivo, vive a NYC, USA. La sua produzione artistica si concretizza soprattutto in mostre, libri d’artista, mail art e progetti sonori. In qualità di curatrice, le sue mostre ed i progetti di arte pubblica esplorano le strategie capaci di mettere in crisi i tradizionali parametri del fare, vedere, condividere, possedere l’arte. Di recente ha registrato “Horses” di Patti Smith cantata a cappella in www. wfmu.org, ed è stata co–curatrice del progetto, durato un mese, Pirate Island (Siviglia, Spagna), dove 300 artisti hanno partecipato condividendo copyright–free immagini, musica, film ed arte (www.copilandia. Note bio–bibliografiche degli autori org). Il suo ultimo libro d’artista, The Intelligent Woman’s Guide to Art, è distribuito da www.dapbooksinc.org. Aldo Meccariello, docente di Filosofia e Storia presso il Liceo classico “M.T. Cicerone” di Frascati, svolge attività di assistenza presso la cattedra di Filosofia dell’educazione dell’Università di Tor Vergata e di tutorato presso la scuola IAD; ha conseguito il titolo di dottore di ricerca in Scienze filosofiche con una tesi sul pensiero di Hannah Arendt. Co–dirige la rivista telematica di critica filosofica «Kainos». Felice Ciro Papparo (Napoli, 1954) è professore associato di Filosofia morale nell’Università Federico II di Napoli. Tra le sue pubblicazioni, si segnalano, gli studi su Paul Valéry (L’inquieto senso del possibile. Saggio sui Cahiers di P. Valéry, con una presentazione di Aldo Masullo, Liguori, Napoli 1990; L’arte dell’esitazione. Quattro esercizi su Paul Valéry, Luca Sossella editore, Roma 2001); su Georges Bataille (Incanto e misura. Per una lettura di Georges Bataille, con una presentazione di Aldo Masullo, ESI, Napoli 1997; Per più farvi amici. Di alcuni motivi in Georges Bataille, prefazione di B. Moroncini, Quodlibet, Macerata 2005). Di Valéry e Bataille ha curato le seguenti opere: Paul Valéry, Sguardi sul mondo attuale, Adelphi, Milano 1994; Paul Valéry, Cattivi pensieri e altro, Adelphi, Milano 2006; Paul Valery, Il suono della voce umana. Variazioni su Cartesio, Filema, Napoli 2008; Georges Bataille, L’aldilà del serio, in collaborazione, per la traduzione, con C. Colletta, Guida, Napoli 2000; Georges Bataille, Il limite dell’utile, Adelphi, Milano 2000; Georges Bataille, Sulla religione (tre conferenze e altri scritti), Cronopio, Napoli 2007. È autore anche dei seguenti saggi: La passione senza nome. Materiali sul tema dell’anima in Nietzsche, con una presentazione di B. Moroncini, Liguori, Napoli 1997; Umbratile dimora. Verso un’etica della rappresentazione, presentazione di S. Finzi, Moretti & Vitali, Bergamo 2002; L’impresentabile. Sulla natura primaria del trauma, in collaborazione con A. Dell’Anna, Filema, Napoli 2003; Soggetti al mondo. Cinque studi filosofici, presentazione di G. Alfano, Filema, Napoli 2005. Recentemente ha curato e introdotto il primo volume di L’essenza della manifestazione di Michel Henry, Filema, Napoli 2009. Note bio–bibliografiche degli autori Angelo Ricciardi è nato a Napoli, dove vive e lavora. La sua ricerca si basa sul rapporto tra scrittura e figurazione nella società contemporanea, con particolare interesse per gli scambi tra comunicazione verbale e comunicazione visuale. Tra i suoi progetti, spesso realizzati in collaborazione con altri artisti e svoltisi contemporaneamente in varie città del mondo, vi sono Leafletting (2002), The New Little Red Book (2003), Art Line Do Not Cross (2004), Happy Birthday, Mister Johns! (2005), Desktops (2006), walkabout (2006), Achtung Bitte Kunst Kann Eine Falle Sein (2009). È autore di numerosi libri d’artista, molti dei quali presenti in importanti collezioni pubbliche e private (MoMA Library, Printed Matter, Collezione Liliana Dematteis in deposito al MaRT di Trento e Rovereto, MU.SP.A.C., Collezione Alessandro Gori, ecc.). È co–fondatore di Codice EAN, laboratorio indipendente intorno al contemporaneo. Ha preso parte a Progetto Oreste. Collabora al progetto editoriale “Le Parole del Novecento”. Anton Roca è artista di formazione autodidatta, il cui lavoro è caratterizzato da una stretta interazione tra le esperienze vitali e quelle artistiche. Il suo agire artistico muove dal pensiero e dall’osservazione e, per veicolare il risultato di questa azione riflessiva, si avvale di un metodo interdisciplinare e trasversale alle risorse espressive dell’arte contemporanea: fotografia, scultura, azioni, che convivono nell’ambito delle installazioni. Ne emerge una poetica che trascende il fatto estetico per approdare all’etica: l’arte come trasmettitore di senso e nella quale il ruolo dell’artista assume un carattere collettivo (www.arteco.org/antonroca). Vincenzo Rusciano è nato a Napoli nel 1973, dove risiede e lavora, si è diplomato nella locale Accademia di Belle Arti. Opera soprattutto nel campo della scultura e dell’installazione usando materiali poveri e superfici laccate che lega spesso a significati, atmosfere, ludiche e autobiografiche. Nello Teodori, artista e architetto, è nato a Gualdo Tadino nel 1952. Si afferma sulla scena artistica italiana all’inizio degli anni ’90. Uno degli aspetti caratterizzanti della sua ricerca è quello di adottare come nucleo produttore delle sue operazioni uno slogan o uno stereotipo linguistico nel quale vengono inserite delle variazioni semantiche de- Note bio–bibliografiche degli autori tournanti; oppure progetta per tali slogan una presentazione visiva (una “messa in forma”) che ne contraddica, nei suoi caratteri visuali, la stereotipia. Questi slittamenti di prospettiva semantica trasformano il luogo comune in un generatore di significati inattesi (un’operazione che trasferisce nella dimensione linguistico–comunicativa i funzionamenti della logica del “pensiero” artistico inaugurata da Marcel Duchamp con il ready–made).