L’INFORME, QUALCOSA
In un fondamentale saggio di fine anni venti, Georges Bataille introduceva nell’arte il
concetto dell’informe, “termine che serve a declassificare, posto che generalmente si esige
che ogni cosa abbia la sua forma”. In contrapposizione alle più rassicuranti, polite
determinazioni allora predilette da scienza e filosofia, l’informe irrompeva a denotare
un’alterazione, la presenza di una trasgressione o, per usare le parole di Rosalind Krauss che
molto ha studiato la questione, “lo sfumare dei limiti intorno al termine”. Pur attivato in un
contesto storico e critico assai lontano ormai dall’originario campo di Bataille, il dispositivo
dell’informe non cessa di mostrarsi significativo, assumendo anzi un’ulteriore valenza nella
sua vivente contrapposizione (non tanto a diverse categorie concettuali, quanto) a quel
disagio, da ultimo contrabbandato per unmonumental, della precarietà confusa che domina
le principali esposizioni, quando non più direttamente le esperienze artistiche
contemporanee.
Per quanto nel nostro appartato piccolo ci riguarda, il discorso in svolgimento ben si presta
alla personale di Siri Kollandsrud all’Atelier, poiché è propriamente il sentimento
dell’informe a imporsi in ogni sua piega, mosso da istanze che non si deve temere di
riconoscere nordiche e femminili. Depongono a favor critico e spirituale di simile
affermazione la liberalità struggente tanto di materiali che accostamenti, risolutamente al di
fuori della portata di qualsiasi artista dalla costituzione mediterranea: vedi i colori acidi degli
acquerelli, la leggerezza al contempo frivola e torbida delle linocut in cui corpi generosi di
donne impacciate o con una bara sulle spalle si alternano ora a mescolanze anfibie di
membra umane, ora a sontuose celebrazioni del potere visivo del drappo e della macchia.
Considera, più in generale, il perturbante immaginario di tutta l’opera dell’artista, sempre
sospeso tra pulsioni ctonie e minime trasfigurazioni.
Si parlava dell’informe, appunto, che, se non va confuso con il precario, neppure
compartecipa delle forme accademiche dell’informale: di fatto, quel che si afferma è qui
piuttosto un’esuberante organicità, la proliferazione cellulare di più cose insieme e
all’apparenza incongruenti, al modo di una stanza sovraccarica dove matasse arrotolate e
fiori slabbrati di lana si accumulano a stampe e disegni, ma che appunto nell’insieme trovano
e affermano un senso, all’insegna di un’accogliente straniazione. Qui, insomma, c’è niente
ma qualcosa, la celebrazione – secondo le parole carpite all’artista – di quei momenti nella
vita di ognuno quando si verifica un indistinto, l’informe appunto che sfugge al controllo del
quotidiano: ed è un dono di colori, una festa oscura, non più definizioni ma tensioni
dell’immaginazione, aperte sulla meraviglia.
Luca Arnaudo
NOTE
La teorizzazione originaria di Georges Bataille a cui si fa riferimento nel testo è stata svolta nel saggio Informe (dalla rivista
Documents, n. 7, 1929. La rete abbonda di rimandi alla stessa: tra i saggi più interessanti di immediato reperimento, v.
quello di Alessandra Violi, L’immagine informe: Bataille, Warburg, Benjamin e i fantasmi della tradizione, www.farum.it).
Quanto a Rosalind Krauss, tra i diversi scritti in cui si occupa del tema v. da ultimo in italiano L’originalità dell’avanguardia e
altri miti modernisti, Fazi 2007).