Studio Legale FARNESINA Via della Farnesina, 5 – 00194 Roma Tel. 06.3336267 – Tel. / Fax 06.33218782 Avv. Fabio D’AMATO Avv. Mascia CERINO Avv. Fabio CORI Avv. Stefano MARAZZITI Avv. Alessandra MIRARCHI Avv. Giuseppe Pompeo PINTO Avv. Barbara CAPPELLI Dott. Antonello ANTONELLI 1) COMMENTO ALLA SENTENZA DELLA CASS CIV. SEZ. LAV. 11 settembre 2008 n. 22858). “Escludendo gli episodi isolati, sono sufficienti anche pochi mesi di tempo per configurare una continuità delle azioni lesive a danno del lavoratore, identificando tale comportamento come vero e proprio mobbing. (nella specie, la Corte ha cassato con rinvio la decisione di secondo grado, che aveva rigettato la richiesta di risarcimento danni a titolo di mobbing avanzata da una lavoratrice quale conseguenza di ripetuti comportamenti persecutori protrattisi per sei mesi. Il giudice di appello aveva ritenuto che il susseguirsi di tali comportamenti per un periodo così limitato di tempo non fosse sufficiente a concretizzare mobbing”. (Cass Civ. sez. lav. 11 settembre 2008 n. 22858). Il caso. Con la sentenza in epigrafe la giurisprudenza di legittimità torna ad occuparsi del mobbing, offrendo ulteriori spunti di riflessione sull'argomento. La decisione muove dal ricorso promosso da E.F. per sentir accertare l'illegittimità del comportamento posto in essere dal datore di lavoro, qualificabile come mobbing e costituito da avances sessuali, minacce, ingiurie, boicottaggio di progetti, demansionamento, trasferimento illecito. La ricorrente chiese anche che si accertasse che la sua malattia, determinata dal comportamento aziendale, non era idonea a costituire periodo di comporto. Il Tribunale di Torino rigettò il ricorso, non ravvisando la sussistenza del mobbing. 2 Anche la Corte di Appello di Torino respinse il gravame, constatando , tra l’altro, che il dedotto periodo di mobbing ( circa 6 mesi) era non idoneo per la concretizzazione di una condotta mobizzante. La ricorrente ha infine proposto ricorso per Cassazione, che si è pronunciata con la decisione in commento. La decisione. La sentenza della Suprema Corte n. 22858 del 11.9.2008 importante, in quanto, oltre a ridefinire è particolarmente il concetto di mobbing , delinea gli elementi essenziali per la sussistenza di una condotta mobizzante. Il mobbing è costituito da una condotta protratta nel tempo diretta a ledere il lavoratore. Il comportamento mobizzante è caratterizzato dai seguenti elementi: 1) la sua protrazione nel tempo attraverso una pluralità di atti ( giuridici o materiali, anche scarsamente legittimi); 2) la volontà che lo sorregge (diretta alla persecuzione od all’emarginazione del dipendente); 3) la conseguente lesione, attuata sul piano professionale o sessuale o morale o psicologico o fisico. A distinguere il mobbing dai singoli atti illegittimi ( come la mera dequaliifcazione professionale ex art. 2103 cc) sono lo specifico intento che lo sorregge e la sua protrazione nel tempo. La Corte di Cassazione, quindi, evidenzia che a fronte dell’illegittimità del comportamento mobizzante, vi è l’obbligo datorile di adottare le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del prestatore. Da ciò, la responsabilità del datore ( ex art. 2087 cc) anche ove (pur in assenza d’un suo specifico intento lesivo) il 2 3 comportamento materiale sia posto in essere da altro dipendente. Anche se il diretto comportamento in esame è caratterizzato da uno specifico intento lesivo, la responsabilità del datore (ove il comportamento sia direttamente riferibile ad altri dipendenti aziendali) può discendere da colpevole inerzia nella rimozione del fatto lesivo, ai sensi dell’art. 2049 cc. Quindi, il datore di lavoro è responsabile sia in caso di comportamento commissivo (ad esempio in caso di condotta mobizzante attuata direttamente dal datore di lavoro), sia per comportamento omissivo, per non aver rimosso il fatto lesivo (condotta attuata da propri dipendenti). Secondo la sentenza, per la protrazione del comportamento nel tempo nonché per l’unitarietà dell’intento lesivo, è necessario che da un canto si dia rilievo ad ogni singolo elemento in cui il comportamento si manifesta (assumendo rilievo anche la soggettiva angolazione del comportamento, come costruito e destinato ad essere percepito dal lavoratore) e, d’altro canto, è necessario che i singoli elementi siano poi oggetto d’una valutazione non limitata al piano atomistico, bensì elevata al fatto nella sua articolata complessità e nella sua strutturale unitarietà. Quindi, secondo la Cassazione, sei mesi di protrazione della condotta mobbizzante è un termine idoneo a giustificare la pretesa risarcitoria del dipendente. 2) COMMENTO ALLA SENTENZA TRIBUNALE MILANO SEZIONE LAVORO n. 925 del 29 febbraio 2008 “L’elemento caratterizzante il mobbing non è la legittimità o illegittimità di per sé considerata dei singoli atto di gestione del rapporto di lavoro, bensì una sorta di disegno complessivo di vessazione psicologica, sistematica e ripetuta per un apprezzabile periodi di tempo, tale da esplicitare una valenza persecutoria del comportamento del datore di lavoro, che in altri termini, da un lato, non ogni provvedimento illegittimo del datore di lavoro è 3 4 idoneo, per il solo fatto di essere stato adottato in violazione di una o più disposizioni di legge, a configurare il cd mobbing, in assenza di una vera e propria sistematicità e ripetitività degli atti vessatori, in quanto occorre un elemento strutturale, individuato appunto nella sistematicità e ripetitività dei singoli episodi, che li colleghi. Dall’altro lato ben possono individuarsi ipotesi di mobbing realizzate attraverso provvedimenti datoriali legittimi, ma accompagnati dalla finalità illecita del motivo vessatorio, da valutarsi in termini di idoneità lesiva dei beni della persona e da verificasi attraverso la monodirezionalità della condotta , la pretestuosità della stessa e, ancora una volta, il permanere nel tempo del comportamento vessatorio, così da essere ricostruibili quali forme di abuso del diritto”. (Tribunale Milano sezione lavoro n. 925 del 29 febbraio 2008). Il caso. Il Sig. I. ha adito il Tribunale di Milano, sezione lavoro, al fine di far accertare la condotta mobizzante attuata dal Suo datore di lavoro , che si sarebbe concretizzata nelle seguenti attività: - trasferimento illegittimo di sede; - inattività lavorativa protratta nel tempo; - dequalificazione professionale; quindi il ricorrente chiedeva la condanna del datore al risarcimento dei danni subiti e subendi. Si costituiva in giudizio la società, la quale contestava le avverse pretese, sostenendo in particolare, che tutti gli atti emanati nei confronti del ricorrente fossero legittimi ed in armonia con il contratto collettivo. La decisione. La decisione in commento ha rigettato il ricorso, in quanto il ricorrente non è riuscito a provare, in corso di causa, gli atti mobizzanti sostenuti. 4 5 Tuttavia, con la sentenza indicata, il Tribunale ha riconosciuto che, astrattamente, i comportamenti datoriali denunciati quali vessatori, potevano integrare il fenomeno del mobbing, anche, se di fatto, non sono stati provati. In particolare, secondo il Giudice, la società ha posto in essere atti legittimi, quali il trasferimento e l’assegnazione ad altre mansioni: tuttavia la legittimità accertata di tali provvedimenti tipici del datore di lavoro non è sufficiente ad escludere la sussistenza del fenomeno mobbing, in quanto è ben possibile che atti leciti, siano usati strumentalmente ai fini vessatori dal datore di lavoro e possano realizzare una ipotesi di mobbing. Occorre quindi stabilire se i provvedimenti del datore di lavoro, in apparenza legittimi, siano in realtà inseriti in una strategia persecutoria, nell’ambito della quale le condotte ed i provvedimenti censurati siano finalizzati alla realizzazione di uno scopo ingiusto. Dunque, il Giudice ribadisce un importante principio, consistente nel divieto di abusare di un proprio diritto. Tale principio è il limite interno di ogni situazione giuridica soggettiva sottesa al rapporto contrattuale: in altre parole, poiché il rapporto di lavoro è basato su un contratto, il datore di lavoro deve sempre agire nel rispetto del principio di buona fede e correttezza nella esecuzione della prestazione, e gli è precluso di abusare della propria posizione. Nel merito, il ricorso è stato rigettato, in quanto l’onere della prova del danno da mobbing è autonomo e presuppone la prova del disegno persecutorio sotteso alle condotte, in qualunque forma esse vengano attuate. Nel caso in esame, trattandosi di demansionamento, il ricorrente avrebbe dovuto provare le mansioni inferiori svolte, rapportate a quelle precedentemente espletate, quindi, anche il danno alla salute. A disposizione per ogni ulteriore chiarimento e/o delucidazione. Avv. Fabio D'AMATO 5