Studio Legale FARNESINA
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Avv. Fabio D’AMATO
Avv. Mascia CERINO
Avv. Fabio CORI
Avv. Stefano MARAZZITI
Avv. Alessandra MIRARCHI
Avv. Giuseppe Pompeo PINTO
Avv. Barbara CAPPELLI
Dott. Antonello ANTONELLI
1) COMMENTO ALLA SENTENZA DELLA CASS CIV. SEZ. LAV. 11 settembre
2008 n. 22858).
“Escludendo gli episodi isolati, sono sufficienti anche pochi mesi di tempo per
configurare una continuità delle azioni lesive a danno del lavoratore, identificando tale
comportamento come vero e proprio mobbing. (nella specie, la Corte ha cassato con rinvio
la decisione di secondo grado, che aveva rigettato la richiesta di risarcimento danni a titolo
di mobbing avanzata da una lavoratrice quale conseguenza di ripetuti comportamenti
persecutori protrattisi per sei mesi. Il giudice di appello aveva ritenuto che il susseguirsi di
tali comportamenti per un periodo così limitato di tempo non fosse sufficiente a
concretizzare mobbing”.
(Cass Civ. sez. lav. 11 settembre 2008 n. 22858).
Il caso.
Con la sentenza in epigrafe la giurisprudenza di legittimità torna ad occuparsi del
mobbing,
offrendo
ulteriori
spunti
di
riflessione
sull'argomento.
La decisione muove dal ricorso promosso da E.F. per sentir accertare l'illegittimità del
comportamento posto in essere dal datore di lavoro, qualificabile come mobbing e costituito
da avances sessuali, minacce, ingiurie, boicottaggio di progetti, demansionamento,
trasferimento illecito. La ricorrente chiese anche che si accertasse che la sua malattia,
determinata dal comportamento aziendale, non era idonea a costituire periodo di comporto.
Il Tribunale di Torino rigettò il ricorso, non ravvisando la sussistenza del mobbing.
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Anche la Corte di Appello di Torino respinse il gravame, constatando , tra
l’altro, che il dedotto periodo di mobbing ( circa 6 mesi) era non idoneo per la
concretizzazione di una condotta mobizzante.
La ricorrente ha infine proposto ricorso per Cassazione, che si è pronunciata con la
decisione in commento.
La decisione.
La sentenza della Suprema Corte n. 22858 del 11.9.2008
importante, in quanto, oltre a ridefinire
è particolarmente
il concetto di mobbing , delinea gli elementi
essenziali per la sussistenza di una condotta mobizzante.
Il mobbing è costituito da una condotta protratta nel tempo diretta a ledere il
lavoratore.
Il comportamento mobizzante è caratterizzato dai seguenti elementi:
1) la sua protrazione nel tempo attraverso una pluralità di atti ( giuridici o materiali,
anche scarsamente legittimi);
2) la volontà che lo sorregge (diretta alla persecuzione od all’emarginazione del
dipendente);
3) la conseguente lesione, attuata sul piano professionale o sessuale o morale o
psicologico o fisico.
A distinguere il mobbing dai singoli atti illegittimi ( come la mera dequaliifcazione
professionale ex art. 2103 cc) sono lo specifico intento che lo sorregge e la sua protrazione
nel tempo.
La Corte di Cassazione, quindi, evidenzia che a fronte
dell’illegittimità del
comportamento mobizzante, vi è l’obbligo datorile di adottare le misure necessarie a tutelare
l’integrità fisica e la personalità morale del prestatore. Da ciò, la responsabilità del datore (
ex art. 2087 cc)
anche ove (pur in assenza d’un suo specifico intento lesivo) il
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comportamento materiale sia posto in essere da altro dipendente. Anche se il diretto
comportamento in esame è caratterizzato da uno specifico intento lesivo, la responsabilità
del datore (ove il comportamento sia direttamente riferibile ad altri dipendenti aziendali) può
discendere da colpevole inerzia nella rimozione del fatto lesivo, ai sensi dell’art. 2049 cc.
Quindi, il datore di lavoro è responsabile sia in caso di comportamento commissivo
(ad esempio in caso di condotta mobizzante attuata direttamente dal datore di lavoro), sia
per comportamento omissivo, per non aver rimosso il fatto lesivo (condotta attuata da propri
dipendenti).
Secondo la sentenza, per la protrazione del comportamento nel tempo nonché per
l’unitarietà dell’intento lesivo, è necessario che da un canto si dia rilievo ad ogni singolo
elemento in cui il comportamento si manifesta (assumendo rilievo anche la soggettiva
angolazione del comportamento, come costruito e destinato ad essere percepito dal
lavoratore) e, d’altro canto, è necessario che i singoli elementi siano poi oggetto d’una
valutazione non limitata al piano atomistico, bensì elevata al fatto nella sua articolata
complessità e nella sua strutturale unitarietà.
Quindi, secondo la Cassazione, sei mesi di protrazione della condotta mobbizzante
è un termine idoneo a giustificare la pretesa risarcitoria del dipendente.
2) COMMENTO ALLA SENTENZA TRIBUNALE MILANO SEZIONE LAVORO n.
925 del 29 febbraio 2008
“L’elemento caratterizzante il mobbing non è la legittimità o illegittimità di per sé
considerata dei singoli atto di gestione del rapporto di lavoro, bensì una sorta di disegno
complessivo di vessazione psicologica, sistematica e ripetuta per un apprezzabile periodi di
tempo, tale da esplicitare una valenza persecutoria del comportamento del datore di lavoro,
che in altri termini, da un lato, non ogni provvedimento illegittimo del datore di lavoro è
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idoneo, per il solo fatto di essere stato adottato in violazione di una o più disposizioni di
legge, a configurare il cd mobbing, in assenza di una vera e propria sistematicità e
ripetitività degli atti vessatori, in quanto occorre un elemento strutturale, individuato appunto
nella sistematicità e ripetitività dei singoli episodi, che li colleghi. Dall’altro lato ben possono
individuarsi ipotesi di mobbing realizzate attraverso provvedimenti datoriali legittimi, ma
accompagnati dalla finalità illecita del motivo vessatorio, da valutarsi in termini di idoneità
lesiva dei beni della persona e da verificasi attraverso la monodirezionalità della condotta ,
la pretestuosità della stessa e, ancora una volta, il permanere nel tempo del comportamento
vessatorio, così da essere ricostruibili quali forme di abuso del diritto”. (Tribunale Milano
sezione lavoro n. 925 del 29 febbraio 2008).
Il caso.
Il Sig. I. ha adito il Tribunale di Milano, sezione lavoro, al fine di far accertare la
condotta mobizzante attuata dal Suo datore di lavoro , che si sarebbe concretizzata nelle
seguenti attività:
-
trasferimento illegittimo di sede;
-
inattività lavorativa protratta nel tempo;
-
dequalificazione professionale; quindi il ricorrente chiedeva la condanna del datore al
risarcimento dei danni subiti e subendi.
Si costituiva in giudizio la società, la quale contestava le avverse pretese,
sostenendo in particolare, che tutti gli atti emanati nei confronti del ricorrente fossero
legittimi ed in armonia con il contratto collettivo.
La decisione.
La decisione in commento ha rigettato il ricorso, in quanto il ricorrente non è riuscito
a provare, in corso di causa, gli atti mobizzanti sostenuti.
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Tuttavia, con la sentenza indicata, il Tribunale ha riconosciuto che, astrattamente, i
comportamenti datoriali denunciati quali vessatori, potevano integrare il fenomeno del
mobbing, anche, se di fatto, non sono stati provati.
In particolare, secondo il Giudice, la società ha posto in essere atti legittimi, quali il
trasferimento e l’assegnazione ad altre mansioni: tuttavia la legittimità accertata di tali
provvedimenti tipici del datore di lavoro non è sufficiente ad escludere la sussistenza del
fenomeno mobbing, in quanto è ben possibile che atti leciti, siano usati strumentalmente ai
fini vessatori dal datore di lavoro e possano realizzare una ipotesi di mobbing.
Occorre quindi stabilire se i provvedimenti del datore di lavoro, in apparenza legittimi,
siano in realtà inseriti in una strategia persecutoria, nell’ambito della quale le condotte ed i
provvedimenti censurati siano finalizzati alla realizzazione di uno scopo ingiusto.
Dunque, il Giudice ribadisce un importante principio, consistente nel
divieto di
abusare di un proprio diritto. Tale principio è il limite interno di ogni situazione giuridica
soggettiva sottesa al rapporto contrattuale: in altre parole, poiché il rapporto di lavoro è
basato su un contratto, il datore di lavoro deve sempre agire nel rispetto del principio di
buona fede e correttezza nella esecuzione della prestazione, e gli è precluso di abusare
della propria posizione.
Nel merito, il ricorso è stato rigettato, in quanto l’onere della prova del danno da
mobbing è autonomo e presuppone la prova del disegno persecutorio sotteso alle condotte,
in qualunque forma esse vengano attuate. Nel caso in esame, trattandosi di
demansionamento, il ricorrente avrebbe dovuto provare le mansioni inferiori svolte,
rapportate a quelle precedentemente espletate, quindi, anche il danno alla salute.
A disposizione per ogni ulteriore chiarimento e/o delucidazione.
Avv. Fabio D'AMATO
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