Gioele Capoferri
Chimica
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LAM, Liceo Mendrisio
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Indice
1. Premessa..................................................................................................................................... - 3 1.1. Motivazione della scelta ................................................................................................... - 3 1.2. Obiettivi del lavoro............................................................................................................ - 3 1.3. Oggetto di studio .............................................................................................................. - 4 2. Storia........................................................................................................................................... - 5 Parte teorica
3. Componenti delle bevande energetiche ................................................................................... - 6 3.1. Introduzione ...................................................................................................................... - 6 3.2. Gli zuccheri (o glucidi) ....................................................................................................... - 7 3.2.1. Introduzione ............................................................................................................. - 7 3.2.2. Ruolo nei viventi....................................................................................................... - 8 3.2.3. Suddivisione e classificazione .................................................................................. - 8 3.2.4. Assimilazione.......................................................................................................... - 10 3.2.5. Uso industriale ....................................................................................................... - 10 3.2.6. Il glucosio (o destrosio) .......................................................................................... - 11 3.2.7. Metabolismo del glucosio ...................................................................................... - 12 3.3. Gli additivi alimentari ...................................................................................................... - 14 3.3.1. Breve storia ............................................................................................................ - 14 3.3.2. Tossicità.................................................................................................................. - 15 3.3.3. Additivi che aiutano a mantenere la freschezza dei cibi e che ne impediscono il
deterioramento.................................................................................................................. - 15 3.3.4. Additivi che migliorano, esaltandole ed accentuandole, le caratteristiche sensoriali
degli alimenti...................................................................................................................... - 16 3.3.5. Additivi che contribuiscono ai processi di produzione di cibi e bevande senza avere
una specifica funzione nel prodotto finale ........................................................................ - 20 3.4. Caffeina ........................................................................................................................... - 20 3.4.1. Introduzione ........................................................................................................... - 20 3.4.2. Storia del caffé ....................................................................................................... - 21 3.4.3. La chimica della caffeina ........................................................................................ - 22 3.4.4. Farmacocinetica e metabolismo ............................................................................ - 23 3.4.5. Meccanismo d’azione (farmacodinamica) ............................................................. - 24 3.4.6. Caffeina e salute - effetti sull’organismo ............................................................... - 28 3.4.7. Caffeina e bevande ................................................................................................ - 31 3.5. Taurina ............................................................................................................................ - 32 3.6. Glucuronolattone ............................................................................................................ - 35 -
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Parte pratica
4. Le tecniche di laboratorio ........................................................................................................ - 36 4.1. Ricerca dei coloranti artificiali......................................................................................... - 41 4.2. Ricerca qualitativa degli zuccheri.................................................................................... - 46 4.3. Test di Tollens per gli zuccheri riducenti......................................................................... - 49 4.4. Determinazione quantitativa degli zuccheri ................................................................... - 51 4.5. Estrazione di caffeina da bevande, analisi qualitativa e determinazione quantitativa della
sua concentrazione .................................................................................................................. - 54 4.6. Estrazione dell’acido citrico ............................................................................................ - 59 4.7. Sintesi di un estere (n-ottilacetato) ................................................................................ - 61 5. Conclusioni generali ................................................................................................................. - 66 6. Bibliografia e webgrafia ........................................................................................................... - 66 -
1.
Premessa
1.1. Motivazione della scelta
Ho scelto di affrontare questo tema nel campo della chimica perché innanzitutto sono sempre
stato attratto da questa materia, soprattutto per il fatto che, oltre agli aspetti teorici, è ricca di
aspetti pratici. La proposta di poter affiancare a una parte essenzialmente concettuale anche una
più pragmatica, empirica, mi ha subito indirizzato verso questa scelta. Le esperienze in laboratorio
mi sembravano una bella possibilità per arricchire il mio, allora solo ideale, lavoro di maturità;
inoltre, quando ho scelto, mi si presentava come una bella occasione per capire più
approfonditamente se si è portati per compiti sperimentali come quelli in laboratorio.
Determinante è stato anche il fatto che mi sentivo coinvolto nel tema degli energy drinks. Questo
perché, fino a qualche anno fa (ovvero durante la mia “carriera” da calciatore), prima, durante e
dopo le prestazioni sportive mi dissetavo spesso con questo genere di bevande, senza mai sapere
se veramente avevano un’utilità. Ultimamente le bevo meno frequentemente, ma non per questo
è calato il mio interesse verso questo nuovo e attuale settore di bevande. Un altro motivo è stato,
“secondo il parere dei miei gusti”, la mancanza di alternative valide, e ciò non significa che è stata
una scelta presa per esclusione, ma semplicemente che nessun altra proposta mi ha messo in
difficoltà nel momento della decisione.
Ecco perché quando ho letto nell’elenco delle proposte dei LAM “energia in bottiglia: la chimica
delle bevande energetiche” sono stato quasi subito persuaso nella scelta e ad oggi sono ancora più
convinto di averla azzeccata.
1.2. Obiettivi del lavoro
Lo scopo che mi prefiggo affrontando questo lavoro è di trattare, in maniera abbastanza completa,
le bevande energetiche, come agiscono e i loro effetti. Il sostantivo “bevande” prevede il
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trattamento da un punto di vista chimico (ma anche biologico) dei principali ingredienti presenti in
esse, una supposizione tutt’altro che ovvia, visto i molteplici, svariati e complessi ingredienti
contenuti al giorno d’oggi in una bevanda, soprattutto se si tratta di un energy drink. L’aggettivo
“energetiche” mi spinge inoltre, sulla base della “panoramica” riguardante le componenti di
queste bevande e degli esperimenti svolti in laboratorio, nell’intento di dare una risposta a quanto
segue: gli energy drinks forniscono veramente l’apporto energetico che promettono? Migliorano
realmente le prestazioni sportive? Risultano essere quindi utili all’organismo? Oppure sono
bevande pressoché “normali”, come Coca Cola o aranciata? Infine, ipotesi estrema ma non per
questo meno probabile, le bevande energetiche sono addirittura dannose per l’organismo umano?
Sono domande che da molti anni mi pongo, oggi non così soventemente, ma che fino a qualche
anno fa (come già accennato nel capitolo precedente, durante la mia “carriera” da calciatore) mi
ponevo assiduamente. Dare una risposta a tali quesiti non è semplice, anche perché bisognerebbe
avere conoscenze più approfondite e mezzi più specializzati, ma l’intenzione è di definirne e
chiarirne alcuni aspetti.
1.3. Oggetto di studio
Gli energy drinks. Si tratta di bevande di relativa recente introduzione nel mercato globale dei soft
drinks, che si propongono come una nuova “frontiera energetica”. Un mix ricercato di ingredienti,
alla cui base si trovano essenzialmente caffeina e carboidrati (glucosio o saccarosio), ma altre
svariate sostanze fanno da cornice, come la taurina, il glucuronolattone e le vitamine di tipo B, o
quelli dai nomi esotici, come guaranà e ginseng. Se ne trovano di tutte le marche e di tutti i prezzi,
i nomi sono dei più fantasiosi e accattivanti, le lattine sempre ben visibili e attraenti. La più famosa
è la Red Bull, ma dietro la coda si fa sempre più lunga, in quanto ogni produttore, notando il
successo di questo nuovo settore alimentare, vuole produrre la propria bevanda energizzante.
In generale si possono definire come:
bevande, che solitamente contengono caffeina, taurina,
vitamine e una fonte energetica (carboidrati) e/o altre sostanze,
vendute con la specifica intenzione di fornire effetti sintetizzabili
in un reale o apparente miglioramento delle prestazioni
psicofisiche1.
È importante però distinguere queste bevande da quelle isotoniche, gli “sports drinks” (ad
esempio il gatorade, il powerade,...), questo perché molto spesso si tende a fare di tutta l’erba un
fascio e si considera quest’ultimi come bevande energetiche (energy drinks), anche se nel senso
moderno del termine non lo sono. Anche il caffè e la coca cola sono considerate bevande
energetiche, per il loro contenuto di caffeina, ma non sono dei veri energy drink. Tornando agli
sports drinks, essi si differenziano principalmente per due motivi: non contengono l’ingrediente
base degli energy drinks, la caffeina (ma non contengono nemmeno la taurina e il
1
Spunto della definizione tratto da http://www.safefoodonline.com/safefood/Uploads/health_effects.pdf (pag. 19)
ma, grazie ai mesi trascorsi in questo ambito, la definizione si può dire che sia nata anche da me.
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glucuronolattone), e mirano a funzioni leggermente diverse (ad esempio il mantenimento del
bilancio idrico e della concentrazione elettrolitica). Essi quindi non “rispettano” la definizione di cui
sopra di energy drinks. Ciononostante, nelle nostre analisi in laboratorio, abbiamo preso in
considerazione anche gli sports drinks.
Bevande che spopolano dappertutto, ma che trovano senza dubbio il terreno più fertile fra i
giovani, nei locali e in discoteca (dove purtroppo molto spesso si mischiano con l’alcool) e fra gli
sportivi, ma che non mancano a scuola (vuoi essere più brillante, attento e lucido?) e fra gli adulti
(vuoi recuperare in fretta dopo una lunga giornata lavorativa?). Il loro boom è dovuto senz’altro a
un intreccio di fattori: dalla pubblicità che accompagna la vendita di questi prodotti (marketing),
agli ingredienti di queste bevande e gli effetti che ne derivano, fino ad arrivare alla società in cui si
sono felicemente diffusi, società in cui si ricerca sempre la migliore forma fisica possibile e dove
bisogna sentirsi al top. Nel 2007 in Svizzera sono state vendute 91 milioni di lattine di Red Bull, nel
mondo più di due miliardi e mezzo. Ma non è tutto oro quel che luccica. La vendita di questo
genere di bevande è stata vietata in Danimarca e in Norvegia, e fu vietata in Francia, ma poi
autorizzata nell’aprile del 2008.
2.
Storia
La vita degli energy drinks prende avvio probabilmente in Scozia, dove nel 1901 nasce quello che
oggi ha il nome di Irn-Bru, ma che inizialmente era venduto come “iron brew” (preparato di ferro).
Si tratta di una popolare bevanda gassata prodotta per l'appunto dagli scozzesi ma venduta in
quasi tutto il mondo (Regno Unito, Russia, Canada, in alcune zone d’Europa, Australia,
Sudafrica,…), che ancora tutt’oggi nel mercato del Regno Unito è la terza bibita venduta, alle spalle
di bevande del calibro di Pepsi e Coca Cola, ma che in Scozia mantiene ancora il primato di vendite
alla pari di quest’ultima. Nel 1929, sempre nel Regno Unito, un farmacista di Newcastle crea la
Lucozade Energy, una bevanda introdotta originariamente negli ospedali come fonte di energia
per i malati e promossa poi negli anni ottanta come una bibita per il reintegro dell’energia persa.
Nel frattempo, attorno al 1984, negli Stati Uniti si diffonde la Jolt Cola, la prima bevanda la cui
strategia di marketing fu totalmente incentrata sull’alto contenuto di caffeina del prodotto (non a
caso lo slogan commerciale era “tutto zucchero e il doppio di caffeina”). La prima vera bevanda
energetica europea, la pioniera, fu però la Power Horse, lanciata nel 1994 da una società
austriaca. Essa è ancora venduta in molti paesi, ma già alla fine degli anni novanta fu
gradualmente surclassata dalla rivale austriaca, la bevanda energetica per eccellenza: la Red Bull.
Essa nasce prima, nel 1984, creata da Dietrich Mateschitz, un imprenditore austriaco che comprò
la formula da una casa farmaceutica thailandese produttrice della “Krating Daeng” (bevanda
venduta in oriente a scopo ricostituente e rivitalizzante), ma è lanciata con grossi investimenti
pubblicitari, soprattutto in ambito sportivo e rivolti a un pubblico giovanile, solo negli anni
seguenti. Nonostante la presenza sul mercato di una varietà di bevande come quelle sopraccitate,
delle quali non ho mai sentito parlare ma che mi sembrava giusto riportare, è l’affermarsi della
famosa Red Bull (parlando di energy drinks si pensa subito ad essa) che ha indubbiamente creato
un nuovo mercato, quello dei prodotti energetici di uso quotidiano. Essa diventa il primo energy
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drink ad essere introdotto negli Stati Uniti: nel 1997 infatti il vecchio continente esporta la Red Bull
oltreoceano, dove ha conosciuto un boom di vendite straordinario, portandola ad essere il
marchio dominante e più popolare del settore negli USA. In principio furono soprattutto gli atleti
americani a fare uso di bevande energetiche perché spinti da un bisogno di energia extra prima e
durante le competizioni, ma la loro diffusione fra la popolazione fu piuttosto rapida. Fino al 2001,
il mercato americano delle bevande energetiche è cresciuto di quasi 8 milioni di vendite all’anno,
ma negli anni successivi è aumentato addirittura di oltre il 50% l’anno, portando la cifra d’affari nel
2005 a 3 miliardi di dollari. Sono solo alcuni numeri di un mercato in rapida crescita. Sempre più le
case produttrici attive nel settore industriale dei soft drinks 2 creano e immettono sul mercato la
propria bevanda energetica di svariati gusti e effetti per soddisfare la crescente richiesta da parte
dei consumatori. Questo aumento della domanda è anche correlato all’intensificarsi delle attività e
dei programmi giornalieri dell’uomo avvenuto negli ultimi anni, il quale sacrifica parte del tempo
che deve essere concesso a compiti primari come mangiare e dormire. Ed ecco che la risposta per
sopperire a questo problema viene proprio dai prodotti energetici, che promettono di dare una
carica energetica e vitaminica, migliorando la resistenza e le prestazioni fisiche.
Parte teorica
3.
Componenti delle bevande energetiche
3.1. Introduzione
Per cosa si differenziano gli energy drink dalle consuete bibite gassate e zuccherate, come la
gazzosa, la Coca Cola o l’aranciata? All’apparenza per niente, sembrano dei semplici soft drink,
infatti le bollicine sono abbondanti, il gusto dolciastro è simile alla cola, non mancano di certo
invitanti colori e appariscenti bottigliette o lattine in cui sono distribuiti. Nei supermercati e nei bar
vengono venduti in abbondanza, come la “Coca”, sulla cresta dell’onda oltre da decenni. Si tratta
invece di bibite energizzanti il cui contenuto, sia da un punto di vista qualitativo che da uno
quantitativo, è molto variabile da bibita a bibita e ben diverso dalle “bevande tradizionali”. A farla
da padrona è senza dubbio la caffeina, contenuta anche nel caffè, nel thé e nella Coca Cola,
presente in concentrazione più o meno elevata (a dipendenza del prodotto). Altri elementi
fondamentali sono la taurina e il glucuronolattone, un aminoacido e un carboidrato già presenti
nell’organismo umano. Può capitare che sorseggiando uno dei tanti energy drink si ingerisca pure
del guaranà o gingseng, sostanze stimolanti che analogamente alla caffeina dovrebbero fornire
energia. In più ci sono grandi quantità di zuccheri (sia glucosio che saccarosio), di vitamine
(soprattutto di tipo B) e di sali minerali, come grandi varietà di additivi alimentari (coloranti,
edulcoranti, acidificanti e stabilizzanti), quest’ultimi inseriti sempre più nei prodotti alimentari per
svariati motivi. Infine non si può dimenticare il componente predominante: l’acqua (generalmente
2
Soft drink: bibita analcolica gassata contente zucchero
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addizionata di anidride carbonica). Ecco qui di seguito cosa dichiarano di contenere alcune
“etichette” di energy drink, per avere un’idea più precisa sulle sostanze presenti in queste
bevande:
Burn 3
Ingredienti: Acqua, zucchero, acidificante acido citrico, anidride carbonica,
glucoronolattone (0,1%), taurina (0,06%), correttore di acidità citrato trisodico, aromi,
conservanti sorbato di potassio e benzoato di sodio, caffeina (0,03%), inositolo (0,012%),
estratto di guaranà, antiossidante acido ascorbico.
Coloranti: E129
Red Bull4
Ingredienti: Acqua, Saccarosio, Glucosio, Citrati di sodio acidificante, Anidride Carbonica,
Taurina (0,4%), Glucoronolattone (0,24%), Caffeina (0,03%), Inositolo, Vitamine (Niacina,
Acido Pantotenico, B6, B12), Aromi
Coloranti: Caramello, Riboflavina
Tratterò ora separatamente alcune componenti in maniera un po’ più approfondita.
3.2. Gli zuccheri (o glucidi)
3.2.1. Introduzione
Si tratta di un’estesa e importante classe di sostanze organiche ternarie, composte quindi da
carbonio (C) e altri due elementi: l’idrogeno e l’ossigeno. Questi ultimi due, nelle forme di glucidi
più semplici, sono in un rapporto simile a quello dell’acqua, per questo gli zuccheri vengono anche
detti carboidrati o idrati di carbonio. La formula generale della maggior parte di questi composti
può essere espressa come (CH2O)n. In alcuni glucidi possono essere presenti elementi come azoto
e zolfo. Al termine “zucchero” si associa fondamentalmente quello di “dolce”, infatti gli zuccheri
più semplici hanno un sapore dolciastro, per questo sono anche detti glucidi (dal greco “glucos”
che significa per l’appunto dolce). Ecco perché, anche se può sembrare scontato, gli energy drinks,
contenendo generalmente alte quantità di zuccheri, sono così dolci. Si suddividono in tre classi in
base al numero di molecole che li costituiscono: monosaccaridi, oligosaccaridi e polisaccaridi. In
generale, i carboidrati coprono la metà del fabbisogno energetico umano (quindi non devono mai
mancare in una alimentazione equilibrata), fornendo circa 4 kcal (16.72 kJ) con un solo grammo
ingerito (valore energetico). Ecco perché vengono definiti come le sostanze energizzanti per
eccellenza, quelle che, influenzando i processi psicologi, permettono al cervello di mantenere la
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Immagine tratta da:
http://www.globalpa ckagegallery.com/main.php?g2_view=core.DownloadItem&g2_i temId=62570&g2_serialNumber=2
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lucidità per ragionare, quelle che consentono ai muscoli di operare meglio e più a lungo. Sono
contenuti nei cereali, legumi, nella frutta, nei tuberi (soprattutto nella patata) oltre che nel latte,
nel miele, nella carne e nel pesce.
Chimicamente nei carboidrati prevalgono tre gruppi funzionali: l’aldeide (15), il chetone (26)
(1)
(2)
e soprattutto i gruppi ossidrilici (- OH); quando uno zucchero contiene un gruppo funzionale del
primo tipo viene denominato aldoso, se ne possiede uno del secondo tipo si definisce chetoso.
Generalmente, in un glucide, ogni atomo di carbonio che non partecipa in uno dei due primi
gruppi funzionali possiede il gruppo ossidrilico.
3.2.2. Ruolo nei viventi
I carboidrati rappresentano il combustibile dell’essere umano in quanto sono i più importanti e
veloci fornitori di energia immediatamente utilizzabile. Questa energia è ricavata da un complesso
processo metabolico, descritto dalla glicolisi e dalla respirazione cellulare. L’energia ottenuta è
anche necessaria per la completa demolizione dei lipidi, evitando l’accumulo di metaboliti
incompleti derivati appunto dai grassi e potenzialmente dannosi per l’organismo; per questo in
campo biochimico si usa dire che “i lipidi bruciano nel fuoco dei glucidi”. In una dieta equilibrata
l’assunzione di carboidrati raccomandata è del 55-65% del fabbisogno energetico totale, questo
innanzitutto per risparmiare le proteine che altrimenti verrebbero utilizzate per la produzione di
energia, portando a un grave squilibrio nell’organismo. Quando il contenuto di zuccheri nel sangue
raggiunge livelli molto bassi si inizia a sentire la fame e ciò non dovrebbe capitare, perché è errato
aspettare di avere fame per mangiare. Livelli bassi di zucchero nel sangue impediscono di
metabolizzare correttamente i grassi.
La seconda funzione è quella plastica. Infatti i glucidi costituiscono delle componenti strutturali
fondamentali: le cellule delle piante sono formate dal 40% di cellulosa (vedi il prossimo capitolo);
negli invertebrati il polisaccaride chitina è la componente essenziale dell’esoscheletro (il
rivestimento esterno del corpo degli invertebrati) degli artropodi (phylum comprendente, tra le
altre, le classi degli insetti, dei ragni e dei crostacei); le membrane cellulari di gran parte dei viventi
sono costituite da glicoproteine (carboidrati che legandosi a degli aminoacidi si combinano con le
proteine).
3.2.3. Suddivisione e classificazione
Gli zuccheri si possono classificare in diversi modi. Il primo è quello che li suddivide in classi in base
al numero di molecole:
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Immagine tratta da: http://it.wikipedia.org/wiki/Immagine:Aldehyde2.png
Immagine tratta da: http://it.wikipedia.org/wiki/Immagine:Ketone-general.png
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1. I monosaccaridi (anche detti “zuccheri semplici” o “monosi”): rappresentano i glucidi più
semplici e non scindibili in unità più piccole mediante idrolisi, infatti si tratta di zuccheri la
cui unità di base è una singola molecola. A seconda del numero degli atomi di carbonio
della molecola vengono indicati come: triosi (3 atomi di C), tetrosi (4 atomi di C), pentosi (5
atomi di C; alcuni esempi di questa categoria sono l’arabinosio, lo xilosio e il ribosio) o esosi
(atomi di C). Sono questi ultimi, i monosaccaridi a sei atomi di carbonio, i più importanti
per il metabolismo degli esseri viventi e più diffusi in natura (anche i pentosi sono molto
diffusi). Si dividono in aldoesosi e in chetoesosi, a seconda che contengano un gruppo
funzionale aldeidico o chetonico. Esempi di zuccheri aldoesosi sono il glucosio
(rappresentate tipico di questa famiglia, ma che è anche considerato il più importante e
diffuso dei monosaccaridi, a cui ho dedicato un breve capitolo), il galattosio e il mannosio,
mentre per il secondo tipo il più conosciuto è il fruttosio. Inoltre il deossiribosio e il ribosio
sono importanti monosaccaridi (aldopentosi) in quanto fanno parte del patrimonio
genetico (DNA e RNA). Un modo per rappresentare i monosaccaridi è quello delle
proiezioni di Fisher, colui che ideò anche un sistema di nomenclatura di questi zuccheri
basato su questo principio: se il carbonio più lontano dal gruppo funzionale (aldeide o
chetone) ha l’ossidrile a destra, il monosaccaride è della serie D, se ha l’ossidrile a sinistra,
è della serie L. Vediamo un esempio di proiezioni di Fisher con la gliceraldeide (C 3H6O3), il
più semplice monosaccaride che esista(7):
D-gliceraldeide
L-gliceraldeide
Gli zuccheri semplici, come già detto, sono caratterizzati da un gusto dolce e dalla solubilità
in acqua. I monosaccaridi vengono assimilati rapidamente dall’organismo (nel giro di pochi
minuti), giungono rapidamente al sistema nervoso, fornendo energia di immediata
utilizzazione e dando quindi una sensazione di forza e maggior prontezza di riflessi. È ciò
che può capitare bevendo un energy drink.
2. Oligosaccaridi: comprendono gli zuccheri formati
dall’associazione di 2 -10 molecole di monosaccaridi,
e si dividono in disaccaridi, trisaccaridi,
tetrasaccaridi,… La classe più importante è costituita
dai disaccaridi: sono formati da due molecole unite
fra loro mediante un atomo di ossigeno (legame Formula di struttura del saccarosio
glicosidico) ottenuto da una reazione di condensazione
(l’inverso dell’idrolisi). I più comuni sono: il saccarosio (C12H22O11, vedi figura
“formula…saccarosio”8) , realizzato dall’unione di un’unità di glucosio e di una di fruttosio,
è il più comune zucchero da tavola ricavato dalla barbabietola e dalla canna da zucchero; il
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Immagini tratte da: htttp://www.wikipedia.com
Immagine tratta da: http://it.wikipedia.org/wiki/Immagine:Sucrose.png
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maltosio, costituito da due molecole di glucosio, presente in orzo e cereali; infine il lattosio,
derivante dalla condensazione di glucosio e galattosio, è lo zucchero contenuto nel latte.
3. Polisaccaridi: è una vasta famiglia costituita da un gran numero, centinaia e anche migliaia,
di monosaccaridi uniti dal legame glicosidico. I polisaccaridi più importanti per diffusione
sono l’amido, il glicogeno, la cellulosa e la chitina. L’amido si trova soprattutto nelle patate
e nei cereali ed è la riserva energetica del mondo vegetale. Esso costituisce gran parte dei
carboidrati dell’alimentazione umana. Il glicogeno è un polimero (macromolecola) del
glucosio (l’unità di base, il monomero). È presente soprattutto nei muscoli e nel fegato
dove è immagazzinato come riserva energetica per gli organismi animali. La cellulosa è
anch’essa costituita da molte molecole, circa dalle 300 alle 3000, di glucosio (è un polimero
del glucosio) e forma oltre il 50% della parete cellulare delle cellule vegetali (come già
detto costituisce il 40% della cellula vegetale completa). L’uomo non è in grado di sfruttarla
come fonte energetica perché incapace di romperne i legami, ma è molto importante nella
dieta come fibra. La chitina, come già detto nel capitolo precedente, è il principale
costituente dell’esoscheletro degli artropodi. Oligosaccaridi (ad eccezione dei disaccaridi) e
polisaccaridi richiedono un tempo di digestione più lungo (circa trenta minuti) data anche
la complessità della molecola.
Un altro modo di suddivisione degli zuccheri è a seconda di come reagiscono all’idrolisi: osi (non
idrolizzabili) e osidi (idrolizzabili).
3.2.4. Assimilazione
La digestione dei glucidi (soprattutto dell’amido) inizia già nella bocca grazie alla saliva, che
contiene un particolare enzima (ptialina). Prosegue poi nello stomaco e nell’intestino tenue, dove
tutti gli zuccheri sono scissi nelle unità più semplici, i monosaccaridi. Fra questi, quello più
presente è il glucosio, ma vi sono anche fruttosio, galattosio,... È solo a questo stadio che riescono
ad attraversare la parete intestinale entrando nel flusso sanguigno. A questo punto sono
trasportati a tutte le cellule, dove verrà prodotta l’ATP (molecola la cui idrolisi libera energia)
grazie alla glicolisi e alla respirazione cellulare (vedi “metabolismo del glucosio”). Il glucosio che
non è immediatamente utilizzato in questo processo (nel caso in cui, per esempio, ce ne fosse in
quantità superiore al necessario) giunge al fegato o ai muscoli, dove viene immagazzinato sotto
forma di glicogeno. A questo punto i glucidi diventano un’importante riserva energetica (il
glicogeno per gli animali, l’amido per i vegetali).
3.2.5. Uso industriale
I glucidi in campo industriale rientrano nei processi produttivi di molteplici prodotti. La cellulosa,
ad esempio, può essere convertita in tessuto (rayon, viscosa, acetato) o prodotti cartacei; la
nitrocellulosa è sfruttata nella produzione di pellicole fotografiche o cemento; l’amido è impiegato
per produrre alimenti destinati ad animali o all’uomo; la pectina è un agente gelificante; adesivi ed
emulsioni sono derivati da agar e gomma arabica; in campo medico l’eparin solfato ha funzioni
anticoagulanti e il destrano è usato per curare lo shock.
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3.2.6. Il glucosio (o destrosio)
È un monosaccaride aldeidico estremamente abbondante in natura, sia libero sia combinato (sotto
forma di polimero), abbondanza che lo fa essere addirittura il composto organico più diffuso del
mondo animale e vegetale, in cui è presente in tutti gli organismi viventi. È uno zucchero aldeidico
e appartenente quindi alla famiglia degli aldoesosi. Si presenta come un solido bianco cristallino
ma meno dolce dello zucchero da tavola (il saccarosio). La sua formula molecolare è C 6H12O6 (vedi
anche figure seguenti9), ed è vederlo scritto in questo modo che mi ha fatto ricordare che si tratta
del prodotto principale della fotosintesi, sintetizzato dunque dalle piante a partire da H20 e CO2. È
anche prodotto dal fegato per scissione del glucosio o per gluconeogenesi , processo che avviene
anche nei reni.
Alcune rappresenta zioni del glucosio
Da un punto di vista ottico, è presente sotto due forme: il D-glucosio e l’L-glucosio. È il primo tipo
ad essere preferito dal nostro organismo (il secondo tipo non riesce a sfruttarlo per ricavare
energia) ed è anche il più diffuso. Uno zucchero in una cellula è possibile trovarlo sia nella forma
lineare che in quella ciclica (ad anello), infatti le due forme sono interconvertibili tra loro; di
seguito la reazione che porta dal glucosio lineare a quello ciclico (10):
La forma più stabile del glucosio è quella ciclica ed è ottenuta quando il gruppo aldeidico si lega
con il gruppo ossidrilico (R-OH), come mostra l’immagine qui sopra.
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Immagini tratte da: http://www.wikipedia.com
Immagine tratta da: http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/4/40/Glucose-Fisher-to-Haworth.png
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È utilizzato come unità di misura: infatti per conoscere la quantità di zuccheri nel sangue si misura
la concentrazione (in mg/dl o mmol/l) di glucosio nella circolazione sanguigna (la cosiddetta
“glicemia”). Il livello di glucosio nel sangue è regolato da specifici ormoni (insulina e glucagone).
Un valore di glicemia superiore alla norma porta al diabete, patologia sempre più diffusa.
Giunge al sangue attraversando le pareti intestinali, e dal sangue la maggior parte di glucosio è
trasportato al cervello, dove è la fonte primaria di energia. Un giusto apporto di glucosio al
cervello ci permette quindi di rimanere sempre lucidi e reattivi, altrimenti una sua bassa
disponibilità potrebbe alterare i processi psicologici. Altro glucosio, come già detto, è
immagazzinato nei muscoli e nel fegato.
Industrialmente, si ottiene dall’amido (per idrolisi debolmente acida o enzimatica) e viene
utilizzato prevalentemente come dolcificante nell’industria alimentare, ma si usa anche in altri
campi (in medicina, nei bagni di tintura, per trattare la disidratazione,…). Vediamo ora più nei
dettagli il metabolismo del glucosio (l’ossidazione del glucosio).
3.2.7. Metabolismo del glucosio
Il glucosio è la fonte privilegiata dell’organismo per la produzione di energia. Questa energia viene
rilasciata gradualmente grazie a una serie di reazioni enzimatiche (vedi figura 111) e poi
immagazzinata sottoforma di ATP 12. La prima fase della degradazione del glucosio è la glicolisi, un
processo catabolico attraverso il quale una molecola di glucosio viene scissa in due molecole di
piruvato. Può avvenire in quasi tutti gli organismi indipendentemente dal fatto che siano aerobici
o anaerobici. Il guadagno
netto, in questa prima
fase, è di due molecole di
ATP e due di NADH 13 per
ogni molecola di glucosio.
La seconda fase della
scissione del glucosio è la
respirazione cellulare. È
un processo che si svolge
nei mitocondri e che
necessita di ossigeno,
comprendente due stadi:
il ciclo di Krebs e la
fosforilazione ossidativa (divisa in: catena di trasporto di elettroni e chemiosmosi). Il ciclo di Krebs,
detto anche ciclo dell’acido citrico, è un’importante ciclo metabolico. Il piruvato ottenuto dalla
Figura 1
11
Immagine tratta da: HELENA CURTIS, N. SUE BARNES, Invito alla biologia, Zanichelli, quinta edizione, pag. 103
ATP: sigla che sta per adenosintrifosfato. La sua funzione principale è quella di immagazzinare temporaneamente
l’energia prodotta da vari tipi di processi metabolici (nell’uomo prevalentemente dalla degradazione di lipidi e
carboidrati), e di renderla prontamente disponibile per una vasta gamma di reazioni e attività cellulare che richiedono
energia (contrazione muscolare, trasporto attivo di molecole attraverso la membrana cellulare,…)
13
NADH: semplificando si tratta di un composto chimico dal quale, grazie ad un processo che avviene nei mitocondri,
si può ricavare ATP.
12
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glicolisi, prima di entrare nel ciclo, grazie a una reazione di decarbossilazione, viene trasformato in
acetil-coenzima A (abbreviato in acetil-CoA). È sotto forma di questo prodotto che può avvenire il
collegamento fra le due vie metaboliche (glicolisi e ciclo di Krebs), ed è quindi a questo punto che
l’acetil-CoA si inserisce nel ciclo. Durante un ciclo sono prodotte in totale 3 molecole di CO2, con
un bilancio energetico di 3 NADH, un FADH214 e due di GDP (convertibile in ATP, cambia solo la
base azotata). Le prime due molecole portano con sé elettroni ad alta energia in eccesso. Questi
elettroni vengono dunque ceduti a strutture proteiche complesse (inserite nella membrana dei
mitocondri) nella catena di trasporto degli elettroni. Ciò produce l’energia necessaria per
effettuare meccanismi intermedi che portano alla chemiosmosi. Essa è una reazione che consiste
nell’entrata, attraverso l’ATP sintetasi (proteina di membrana) e per gradiente chimico, di H+ nella
cellula, entrata sfruttata per azionare la “turbina” presente nell’ATP sintetasi. Il risultato è la
produzione di energia. Il guadagno energetico di questa ultima fase è di ben 34 molecole di ATP. Al
termine di questi processi che hanno portato all’ossidazione del glucosio sono prodotti anche
acqua e anidride carbonica. In sintesi, l’energia che si ricava dalla completa demolizione di una
molecola di glucosio attraverso questi tre stadi (glicolisi, ciclo di Krebs e fosforilazione ossidativa) è
idealmente di circa 36 molecole di ATP, anche se in realtà la resa massima è 38, due delle quali
sono però consumate durante un trasporto di molecole. Nel caso umano, per non commettere
errori, infatti non si sa ancora precisamente quante siano, diciamo che sono circa una trentina.
In assenza di ossigeno, l’acido piruvico ottenuto dalla glicolisi, grazie al processo di fermentazione,
viene convertito in acido lattico o etanolo (quest’ultimo caso è sfruttato nella produzione del vino
per ricavare l’alcool).
Produce una molecola di
ATP per giro (fa 2 giri)
Questo processo produce la maggior parte di ATP
Nel caso umano, per non
errare, si può dire che sono
circa una trentina
Schema del bilancio energetico totale
14
15
FADH2 : molecola nota per la sua attività di trasportatrice di idrogeno e che interviene nel trasporto finale di
elettroni.
15
Immagine tratta da: dispense prof. Duijts, corso BIC – classe III
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Ecco perché, come detto in apertura di capitolo, gli zuccheri, nell’organismo umano soprattutto
l’onnipresente glucosio, sono le sostanze energizzanti per eccellenza.
3.3. Gli additivi alimentari
La legislazione europea dichiara che “per additivo alimentare” si intende “qualsiasi sostanza
normalmente non consumata come alimento in quanto tale e non utilizzata come ingrediente
tipico degli alimenti, indipendentemente dal fatto di avere un valore nutritivo, che aggiunta
intenzionalmente ai prodotti alimentari per un fine tecnologico, nelle fasi di produzione,
trasformazione, preparazione, trattamento, imballaggio, trasporto o immagazzinamento si possa
presumere che diventi, essa stessa o i suoi derivati, un componente di tali alimenti, direttamente o
indirettamente”16. Queste sostanze, nell’industria alimentare, sono aggiunte ai prodotti alimentari
al fine di migliorarne l’aspetto (e l’attrattiva per il consumatore), l’odore, il sapore, la consistenza o
la conservabilità. Il loro impiego è però regolato da precise direttive che sanciscono le sostanze e
le concentrazioni massime che possono essere utilizzate. Tali direttive, seppur non sempre
omogenee da paese a paese anche se spesso provenienti da avvertenze di istituzioni
internazionali, sono in continua evoluzione. Un’evoluzione derivata dagli studi che le legislazioni
dei differenti paesi impongono per controllare la sicurezza di queste sostanze e che va verso
un’unica direzione: le norme che regolamentano l’uso degli additivi sono sempre più severe e
restrittive. Infatti, grazie a questi studi, si identificano quasi sempre nuovi effetti indesiderati e
nocivi dei vari composti adoperati: un caso è quello di alcuni coloranti che inizialmente erano
ritenuto idonei all’uso alimentare, ma che in seguito sono stati vietati in quanto si sono rivelati
cancerogeni. Una volta che una sostanza è approvata per l’uso viene, normalmente, inserita in un
apposito elenco. La legge, in Europa, contempla che gli additivi contenuti in un prodotto devono
comparire sulle etichette d’accompagnamento con una sigla costituita dalla lettera E seguita da un
numero (ad esempio E110). Questa codificazione indica l’autorizzazione all’uso della sostanza a
livello europeo.
Gli additivi possono avere due origini: naturale e sintetica. Nel secondo caso, ovvero quello degli
additivi prodotti in laboratorio, si possono distinguere quelli simili a sostanze presenti in natura
(detti “natural-identici”) e quelli totalmente artificiali.
È bene precisare che sostanze come le vitamine, i minerali e anche le spezie, il sale, i lieviti o altri
composti aggiunti per arricchire le proprietà nutrizionali di un alimento non sono generalmente
degli additivi.
3.3.1. Breve storia
Gli additivi alimentari, seppur siano di primo piano al giorno d’oggi perché vengono spesso
associati alle più recenti tecnologie e perché sono causa di molte controversie, iniziarono a
diffondersi molti secoli fa. Infatti, non appena l’uomo imparò a conservare i raccolti per la stagione
successiva, cominciò a salare e affumicare la carne e il pesce, semplicemente per mantenerli di
16
Definizione tratta da: http://europa.eu/eur-lex/it/consleg/pdf/1989/it_1989L0107_do_001.pdf, pag. 3
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qualità più a lungo. E con questo metodo ebbe inizio la conservazione dei cibi. Poi, sia Egizi che
Romani impiegavano coloranti e aromi per rendere più appetitosi e più attraenti certi alimenti. I
cuochi usavano solitamente il bicarbonato di sodio per far lievitare i prodotti da forno, oppure gli
addensanti per migliorare la consistenza di salse e sughi. È però solo negli ultimi 50 anni, con il
progresso delle tecnologie e delle scienze in campo alimentare, che nascono nuove sostanze che
noi oggi chiamiamo “additivi”.
3.3.2. Tossicità
Un aspetto degli additivi su cui si è dibattuto più a lungo, sempre al centro di discussioni e che
desta molta perplessità, è se essi possano essere la causa di reazioni allergiche dovute ad
intolleranze alimentari. Studi e indagini dimostrano che non provocano effetti negativi
sull’organismo umano e inoltre vi è un certo consenso sul fatto che queste sostanze, se utilizzate
rispettando le norme vigenti, risultano utili per preservare alcuni alimenti dal deterioramento e
migliorarne alcune caratteristiche. Vi sono però alcuni casi in cui additivi come i coloranti, i solfiti,
il glutammato monosodico e l’aspartame risultano essere la causa di determinati problemi o
allergie nell’individuo. Queste situazioni, unite al fatto che molti studi sulla tossicità di questi
composti sono effettuati solamente su animali, continuano a mantenere relativamente alto il
livello d’allarme su certe componenti degli additivi e sulla loro effettiva utilità.
Ecco gli additivi alimentari utilizzati in Europa, classificati in base alla loro funzione (si possono
distinguere tre grandi categorie, comprendenti diversi tipi di additivi17):
3.3.3. Additivi che aiutano a mantenere la freschezza dei cibi e che ne impediscono il
deterioramento
Questi additivi alimentari garantiscono la sicurezza del prodotto e ne allungano la durata. Più
precisamente intervengono nell’alimento proteggendolo dal deterioramento
all’ossidazione o all’azione di microrganismi. In questa categoria rientrano:
dovuto
Gli antiossidanti e regolatori di acidità (da E300 a E399)
Si usano per proteggere gli alimenti dal fenomeno dell’ossidazione e dai danni che ne derivano,
come la rancidità, la perdita di colore, la degradazione delle vitamine (A, D, E e K). Parlando di
vitamine, è da notare che le vitamine C e E sono antiossidanti naturali e che quindi, se utilizzate
come additivi, aumentano i valori nutritivi dell’alimento. Sono impiegati in diversi tipi di alimenti:
prodotti dolciari, carne in scatola, nei prodotti a base di grassi,… Fa parte di questo gruppo l’acido
citrico, contenuto nel succo di limone (ma in generale in tutta la frutta) e al giorno d’oggi creato
pure sinteticamente. È usato nell’industria alimentare (con la denominazione E330) soprattutto
nel settore delle bevande (ad esempio è presente nel gatorade) con la funzione di conservante e
17
Ogni definizione di additivo alimentare scritta in corsivo è tratta da:
http://www.admin.ch/ch/i/rs/817_022_21/app3.html
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antiossidante, per cui gli abbiamo dedicato pure un’esperienza. Un altro antiossidante è l’acido
fosforico (E338), contenuto nella Coca Cola.
I conservanti (da E200 a E299)
Sono quelli che allungano la durata della “vita” di un alimento, proteggendolo dalle alterazioni
dovute allo sviluppo di microrganismi (per questo sono anche detti conservanti antimicrobici) che
sono presenti o che si introducono nel cibo. Tali microrganismi, che grazie ai conservanti non
riescono a svilupparsi, potrebbero provocare il deterioramento dell’alimento e causare gravi
intossicazioni alimentari nell’individuo che lo consuma. Alcuni conservanti vengono utilizzati nel
trattamento sulla buccia degli agrumi e di altri frutti per limitare l'attacco da parte di batteri e
funghi e la presenza di questi composti, soprattutto su frutta e verdura, suggerisce di lavare
sempre al meglio questi alimenti.
Oltre ai conservanti antimicrobici, che comprendono acido benzoico (impiegato in dolci, bibite a
base di frutta,…), anidride solforosa, acido sorbico (usato in alimenti quali il formaggio, la
margarina,..) e tutti i sali da essi derivati,... esistono anche conservanti secondari, utilizzati
principalmente ad altri scopi ma che esercitano anche un’azione conservante. Esempi di additivi
appartenenti a quest’ultima classe sono nitriti e nitrati (per esempio di sodio e potassio) utilizzati
per ravvivare il colore delle carni e degli insaccati; l’acido acetico e gli acetati di sodio e potassio;...
3.3.4. Additivi che migliorano, esaltandole ed accentuandole, le caratteristiche sensoriali
degli alimenti
Questi additivi vengono impiegati per conferire determinate proprietà alle derrate alimentari,
migliorandone ad esempio l’aspetto, la consistenza o il gusto. Tra questi vi sono:
Coloranti (da E100 a E199)
Un importante ruolo a rendere un alimento ben accetto e gradito dal consumatore lo svolge il
colore, una fra le principali caratteristiche sensoriali. Infatti, le sensazioni visive, prima di quelle
gustative, influenzano l’individuo sulla scelta del prodotto. Molto spesso poi può capitare che a
determinati colori si associano certi sapori, rendendo la sensazione visiva un fattore ancora più
determinante nella percezione dell’alimento. Per questo i coloranti sono fra gli additivi più diffusi
nell’industria alimentare. Per la precisione, anche se sono un additivo molto popolare, vengono
definiti come sostanze che conferiscono il colore a una derrata alimentare oppure ne ripristinano il
colore originario. Il ripristino può essere necessario perché la trasformazione industriale o la
lavorazione di determinati prodotti può determinare la perdita di colore, compensabile perciò con
i coloranti. L’accentuare o modificare il colore di un alimento serve, dunque, a migliorare
l’attrattiva visiva e soddisfare le aspettative del consumatore.
I produttori di bevande energetiche hanno colto questa importanza, per cui “colorano” nei più
svariati modi i loro prodotti. Questo processo è diventato, col passare degli anni, una legge di
mercato: più sono colorati i prodotti, maggiore è l’attrattiva verso il consumatore, più alte sono le
vendite, più sostanzioso è il profitto. Anche se molto spesso il consumatore non si fa ingannare,
perché sa che dietro al colore non sempre può esserci un prodotto di alta qualità e, dunque, ha
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capito che molto volentieri i coloranti sono usati per “mascherare” i difetti di un alimento. In
questo settore industriale, ovvero quello degli energy drinks (ma anche delle bevande in
generale), molto diffusi sono il giallo di chinolina (E104) e il giallo arancio (E110), sovente impiegati
in coppia per ottenere un colore arancione.
Questa categoria di additivi comprende numerosi composti di origine naturale, come alcuni
pigmenti vegetali, tra cui la clorofilla, i carotenoidi e gli antociani, e altri di origine sintetica. I sali
minerali, alcune volte, hanno una duplice funzione: vengono usati come coloranti ma
contemporaneamente aumentano i valori nutrizionali della derrata.
Emulsionanti, addensanti e stabilizzanti (da E400 a E499)
Si tratta di composti utilizzati per stabilizzare o attribuire consistenza alle derrate alimentari. Il loro
scopo è, dunque, quello di mantenere una densità uniforme e impedire la separazione delle
sostanze non miscibili tra loro (come grassi e acqua). Questa è la loro funzione generale, ma si
possono comunque fare delle distinzione fra i tre tipi di additivi.
Gli emulsionanti sono agenti impiegati per stabilizzare in modo omogeneo una emulsione, ovvero
la dispersione di un fluido sotto forma di bollicine in un altro fluido. In pratica vengono usati per
amalgamare, ad esempio, gli oli (o in generale i grassi) con l’acqua, che normalmente non si
amalgamano, è il caso di prodotti come la margarina e la maionese, o per rendere più cremosi gli
alimenti (come gelati, cioccolato,...). Appartengono a questo gruppo la lecitina di soia, i
monogliceridi e i di gliceridi. Le miscele di ingredienti che generalmente non si mescolano
omogeneamente e che quindi tenderebbero a separarsi possono necessitare anche di stabilizzanti.
Si tratta, infatti, di sostanze che consentono di mantenere lo stato fisico e chimico di una derrata
alimentare. Essi contengono sia sostanze che consentono di mantenere in una derrata alimentare
la dispersione omogenea di due o più fasi (essenzialmente lo scopo degli emulsionanti) come pure
sostanze mediante le quali viene stabilizzato, conservato o intensificato il colore esistente di un
prodotto. Questo gruppo mi riguarda più da vicino, perché molti stabilizzanti sono usati nel campo
delle bevande energetiche. Ad esempio la gomma arabica (E414) e la gomma xanthan (E415). La
prima è contenuta nel Gatorade ed è un estratto di origine naturale (è estratta da due specie di
acacia subsahariane, per questo viene anche detta gomma acacia). La sua principale caratteristica
è quella di impedire la cristallizzazione degli zuccheri. La seconda è inserita nella Coca Cola e nella
Red Bull ed il suo nome deriva da un batterio: lo Xanthomonas Campestris. Esso interviene nel
processo di produzione di questa gomma, che sostanzialmente è un polisaccaride ottenuto per
fermentazione di glucosio o saccarosio (per mezzo del batterio stesso). Un’aggiunta minima di
questo additivo permette di aumentare la viscosità di un liquido. Per viscosità si intende l’attrito
tra le diverse molecole dei gas o dei liquidi che ne limita la mobilità e la fluidità. Con questa
definizione mi riallaccio agli addensanti, che sono specifiche sostanze che aumentano la viscosità
di una sostanza. Questi sono aggiunti ad alimenti quali i condimenti per insalate o nel latte
aromatizzato, e come addensanti si adoperano spesso sostanze naturali (la pectina e la gelatina).
In questa grande categoria si può fare questa distinzione fra emulsionanti, stabilizzanti e
addensanti, perché molti composti hanno una funzione specifica, ma gran parte degli additivi che
vanno da E400 all’E499 possono rientrare in tutte e tre le categorie, in quanto un emulsionante
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può essere anche considerato uno stabilizzante e un addensante, o in solo due divisioni, e così via.
Recentemente in questa categoria sono stati introdotti anche i gelificanti.
Edulcoranti (E420-E421 e E950-E967) e esaltatori di sapidità (E620-E699)
Questa categoria comprende composti che producono, rafforzano o ristabiliscono specifici sapori
o profumi negli alimenti. Nel primo caso si tratta di conferire determinati gusti o odori a derrate
che ne sono prive, nel secondo di esaltare aromi che normalmente sono già presenti, nel terzo di
ripristinare quelli parzialmente perduti nel corso della lavorazione del prodotto. In generale,
edulcoranti e saltatori di sapidità, possono essere naturali, quindi di origine vegetale o animale
(distillati, estratti, oli essenziali,...), e artificiali. Bisogna sapere che vengono definiti naturali anche
i composti di sintesi che sono chimicamente analoghi a quelli che realmente lo sono. Vediamo ora
più nel dettaglio i due tipi di additivi.
Gli edulcoranti (anche detti dolcificanti) sono generalmente definiti come additivi utilizzati per
conferire un sapore dolce alle derrate alimentari. Gli edulcoranti non calorici sono composti chimici
non appartenenti al gruppo dei carboidrati, che posseggono un potere dolcificante notevolmente
superiore a quello del saccarosio ma che, in rapporto al loro potere dolcificante, non hanno alcun
valore nutritivo, oppure ne hanno uno molto esiguo. Gli edulcoranti che forniscono calorie o
succedanei dello zucchero sono sostanze (polioli) che in virtù del loro potere dolcificante,
paragonabile a quello dello zucchero, e della loro massa sono utilizzate quali sostituti dello
zucchero e di altre sorte di zuccheri. Si distinguono principalmente due tipi di dolcificanti, a
seconda del loro potere dolcificante: quelli “di massa”, vengono aggiunti in grandi quantità perché
contengono meno calorie dello zucchero, e quelli intensivi, che al contrario, vengono impiegati in
piccolissime quantità. Gli additivi più comuni del primo tipo sono il sorbitolo (E420), l’isomalto
(E953) e il maltitolo (E965) che rendono più gustosi i dolcificanti da tavoli o gli alimenti a basso
contenuto energetico. Questi edulcoranti hanno un potere calorico ridotto, ciò significa che
forniscono meno calorie rispetto agli zuccheri (2,4 kcal/grammo rispetto alle 4 kcal/grammo degli
altri carboidrati). Del secondo caso, quello dei dolcificanti intensivi, fanno parte, ad esempio,
l’acesulfame K (E950), l’aspartame (E951) e la saccarina (E954), che sono circa, a dipendenza del
composto, dalle 130 alle 550 volte più dolci del comune zucchero (l’aspartame ha le stesse calorie
dello zucchero, ma avendo un potere dolcificante 200 volte maggiore a quello dello zucchero, va
utilizzato in piccolissime quantità). Grazie a queste proprietà, gli edulcoranti sono molto impiegati,
oltre che utili, nella preparazione di prodotti ipocalorici e prodotti diabetici. Per quanto riguarda
specificamente la mia ricerca, li possiamo trovare (soprattutto l’acesulfame K e l’aspartame) nelle
bibite light, per sostituire il tipico sapore dolciastro di bevande tradizionali. Siccome è contenuto
nelle bevande senza zucchero, volevo spendere due parole per l’aspartame. Esso è forse
l’edulcorante protagonista di più controversie: in molti articoli si legge che alcuni studi (condotti su
animali) hanno evidenziato come questo additivo possa essere la causa di tumori, ma l’autorità
europea per la sicurezza alimentare nega tali effetti, sottolineandone la sicurezza per il consumo
umano. Alcuni edulcoranti, che in generale vengono metabolizzati dall’organismo come gli
zuccheri, possono fornire un po’ d’energia, altri, quelli utilizzati dai diabetici, invece non ne
forniscono.
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Gli esaltatori di sapidità sono sostanze che potenziano il sapore o l’odore di una derrata
alimentare. Se sono dunque usati con lo scopo di migliorare il gusto o la fragranza di un cibo, si
presume che quest’ultimo non sia di ottima qualità o che abbia una “mancanza”, ed è a proposito
di questo problema che gli esaltatori di sapidità sono ancora tutt’oggi oggetto di molte discussioni.
Molti di essi hanno come base il glutammato, come il più noto, utilizzato, ma anche criticato della
categoria: il glutammato monosodico (E621), che viene impiegato soprattutto nei cibi saporiti
(formaggio, pomodoro, ma particolarmente nel dado da cucina) e in vari piatti orientali. Questo
additivo, come molti altri, aggiunge sodio alla dieta, che, invece, dovrebbe esserne povera.
Aromatizzanti
Vengono definiti come sostanze di origine naturale o chimica che determinano una gradevole
sensazione gustativa e olfattiva. Alla base degli aromi tipici di alimenti (soprattutto frutti), spezie,
piante aromatiche, fiori vi sono specifiche sostanze chimiche naturalmente presenti in essi.
L’attore più importante di tali sostanze, nonché responsabile dei piacevoli odori e sapori emanati,
è quasi esclusivamente una classe di composti largamente diffusi in natura: gli esteri, la cui
formula generale è 18:
In alcuni casi è un singolo estere a determinare l’aroma o il sapore di fiori e frutti, ma più
frequentemente le qualità organolettiche sono dovute a una complessa miscela, in cui prevale un
singolo estere.
I produttori di cibi e bevande hanno studiato a fondo le proprietà di questi composti e li utilizzano
spesso come additivi al fine di riprodurre, standardizzare o rafforzare certi aromi o sapori. Tali
sostanze aggiunte ai prodotti alimentari non hanno sempre un’origine naturale, ma generalmente
sono prodotte per sintesi chimica in laboratorio, e vengono spesso denominate, oltre che con il
termine di aroma, con quello più preciso di aromatizzanti. Un budino può avere l’aroma di rum
senza mai aver visto il corrispondente distillato alcoolico: grazie a una miscela di formiato d’etile e
di propinato d’isobutile, oltre che ad alcuni composti minori, è possibile imitarne l’aroma.
L’imitazione, in generale, non riproduce esattamente il gusto o il profumo naturale, ma molti
consumatori non si accorgono di nulla. Solo gli esperti in materia, quali assaggiatori professionisti,
riescono a percepire la differenza.
Per chiarire il modus operandi nell’industria alimentare, gli aromatizzanti sono stati inseriti nella
lista degli additivi alimentari (a livello svizzero) e vengono definiti come sostanze che sono o
dovrebbero essere utilizzate nelle o sulle derrate alimentari per conferire loro un odore o un sapore
particolare. Inoltre sono stati suddivise in alcune categorie secondo la loro origine: aromi naturali,
estratti da prodotti naturali; aromi natural-identici, ottenuti per sintesi chimica, ma uguali a
prodotti presenti in natura; aromi artificiali ottenuti per sintesi chimica e non presenti in natura.
Per imitare nel modo migliore un sapore, raramente l’aromatizzante è costituito da un solo e
18
Immagine tratta da: http://en.wikipedia.org/wiki/Image:Ester-general.png
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semplice composto, bensì, come già accennato in precedenza, da una combinazione di numerosi
esteri e acidi carbossilici facilmente sintetizzabili in laboratorio, oltre che, in certi casi, a una buona
dose di oli essenziali19. Sull’etichetta del prodotto è previsto principalmente che vengano indicati
con la voce generica di “aromi”.
Gli aromatizzanti sono spesso usati per arricchire le bevande, siano esse tradizionali o energetiche,
con note particolari di fruttato, per questo motivo abbiamo provato a sintetizzarne uno: l’acetato
di ottile (C 10H20O2), responsabile dell’odore di arancio (vedi “sintesi di un estere, n-ottilacetato).
Questo gruppo comprende, in aggiunta ai precedenti, anche altri additivi: ad esempio acidi
(sostanze che aumentano il grado di acidità di una derrata alimentare o le conferiscono un sapore
acido) e regolatori d’acidità (sostanze che modificano o regolano il grado di acidità o di alcalinità di
una derrata alimentare).
3.3.5. Additivi che contribuiscono ai processi di produzione di cibi e bevande senza avere
una specifica funzione nel prodotto finale
Sono composti impiegati con un unico scopo tecnologico (per questo sono anche detti “additivi
tecnologici”): mirano solo a facilitare, perciò si parla di “adiuvanti” (dal latino "adjuvare" = aiutare)
il processo industriale di lavorazione degli alimenti, ma non hanno nessun ruolo concreto nella
derrata alimentare ottenuta. Di questa categoria fanno parte agenti anti-schiuma, antiagglomeranti, gas di imballaggio,...
In queste tre grandi categorie ho cercati di introdurre gli additivi più utilizzati e più noti, ma
soprattutto quelli che interessavano più da vicino le bevande energetiche. Bisogna comunque
sapere che la lista degli additivi è molto più lunga e ne comprende in totale circa 24 tipi.
3.4. Caffeina
3.4.1. Introduzione
Dopo l’acqua, il tè, il caffè e la Coca Cola sono le bevande più popolari al mondo. Bevande con
sapori diversi, ma con un comune denominatore: tutte contengono significative dosi di caffeina.
Sommando i consumatori di queste bibite, in unione a quelli di cioccolato e di energy drinks, si può
facilmente intuire che si tratta della sostanza più diffusa nell’uso quotidiano. Volendo trovare un
motivo che spieghi questa sua diffusione, si possono semplicemente prendere in considerazione
gli straordinari poteri gustativi e aromatici di tali prodotti. Un’altra motivazione potrebbe risiedere
negli effetti che la caffeina, assunta tramite una tazzina di caffè o un bicchiere di Coca Cola, può
generare: sensazioni di rilassamento e contemporaneamente un aumento del nostro stato di
allerta. Forse è proprio per la sua diffusione che la caffeina nel corso degli ultimi vent’anni è stato
19
Gli oli essenziali, detti anche essenze, sono sostanze naturali complesse di origine vegetale o animale, volatili e
dotate di intenso profumo.
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il soggetto di numerose ricerche scientifiche, scanditesi ad un ritmo di 1500-2000 l’anno. Fra le
droghe vanta alcuni record: è l’unica sostanza psicoattiva al mondo che ha abbattuto ogni sorta di
barriera e si è imposta al punto di essere legalmente accessibile quasi ovunque, dai prodotti
farmacologici alle bevande; e, a livello di popolarità, supera di gran lunga l’alcool e qualsiasi altra
droga.
Prima di addentrarmi in aspetti più strettamente scientifici, mi sembrava giusto fare una breve
retrospezione storica che riguarda il caffè, e quindi, indirettamente, la caffeina. Questo perché,
nonostante la caffeina come sostanza sia stata isolata solo agli inizi dell’Ottocento, il caffè ha
sempre suscitato numerosi discussioni e dibattiti, soprattutto per quello che sono i suoi effetti
fisici e mentali.
3.4.2. Storia del caffé
Come premessa a questo excursus storico, bisogna sapere che l’uomo, quando ha iniziato a
consumare alcune parti della pianta del caffè, lo faceva inconsapevolmente. Infatti, attorno al 750
d.C. alcune popolazioni dell’Abissinia (regione etiopica) incominciarono a raccogliere i frutti di tale
pianta (infatti la pianta è originaria dell’Etiopia, dove è sempre cresciuta spontaneamente). Con
tali frutti producevano dei pani, di cui si nutrivano guerrieri e carovane, perché i pani davano forza
e coraggio per combattere, rispettivamente per attraversare il deserto. Secondo alcuni studiosi,
con le invasioni etiopiche del XIII e del XIV secolo la pianta del caffè si diffuse anche in Arabia e
nello Yemen. Ed è proprio in questi paesi che sono ambientate le storie più popolare sull’origine
del caffè, storie sempre avvolte da un alone di fantasia (l’origine vera del caffè pare sia quella delle
degli abitanti dell’Abissinia). La più conosciuta è quella del pastore dello Yemen: si racconta che
questo pastore lasciò pascolare le sue capre nei pressi di alcune, allora sconosciute, piante da caffè
e notò che il gregge si manteneva agitato e vivace nutrendosi delle bacche di tale pianta. Allora il
pastore diffuse la notizia in un monastero della zona, dove presto i monaci notarono che bevendo
un infuso ricavato dall’ebollizione in acqua di quei frutti, rimanevano attivi e svegli più a lungo. La
bevanda venne in seguito migliorata e si diffuse rapidamente in tutta l’Arabia come “la bevanda
dell’intelligenza”, perché faceva parlare di politica, di società, e di qualsiasi altro tema per un lungo
lasso di tempo. Quindi in Arabia divenne la bevanda nazionale (per questo motivo ancora oggi
erroneamente si ritiene il caffè originario dell’Arabia e non dell’Etiopia), poiché si era tutti
d’accordo che si trattasse di una bevanda eccitante, non sapendo da dove provenisse questa
eccitazione. Nel XVI e nel XVII secolo d.C., grazie agli scambi di merce dovuti allo sviluppo del
colonialismo, i semi della pianta del caffè giungono in Europa. In unione ai semi giunse anche la
“ricetta” della bevanda ottenuta da tali chicchi. Questa nuova bibita fece crollare il mercato
europeo delle altre bevande, generando le prime critiche da parte di denigratori, i quali
affermavano che il prodotto fosse nocivo. Il 1820 è l’anno fondamentale: dei medici francesi
scoprono che la sostanza eccitante contenuta nelle piante del caffè è quella che noi oggi
chiamiamo caffeina. Da allora fino ai nostri giorni numerosi scienziati hanno studiato la sostanza
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Gioele Capoferri
Chimica
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scoperta, studi che hanno conosciuto un boom, come anticipato nell’introduzione, negli ultimi
vent’anni.
3.4.3. La chimica della caffeina
La formula molecolare della caffeina è C8H10N4O2, si tratta perciò di un composto formato da
quattro degli elementi chimici più presenti sulla terra: il carbonio, l’idrogeno, l’azoto e l’ossigeno.
La caffeina ha però altre definizioni chimiche: tra esse la più comune è 1,3,7-trimetilxantina, quella
che però meglio riferisce la sua struttura è 3,7-diidro-1,3,7-trimetil-1H-purina-2,6-dione, ma è
anche conosciuta come metilteobromina o metilteofillina. Per comprendere meglio questi nomi è
utile considerarli in un’ottica strutturale e isomerica della caffeina. Essa è un alcaloide derivato
dalla purina20, per questo fa parte del gruppo degli alcaloidi purinici, detti talvolta xantine (oppure
anche xantine metilate e metilxantine). Oltre alla caffeina, altre xantine metilate sono la teofillina
(1,3-dimetilxantina), la teobromina (3,7-dimetilxantina) e la paraxantina (1,7-dimetilxantina),
diverse per la posizione dei gruppi metilici sulla catena principale (donde il nome di xantine
metilate). Tutte e tre sono delle varianti chimiche della caffeina e sono i prodotti primari del
metabolismo di tale sostanze nell’organismo umano, per questo potrebbero essere responsabili
degli effetti sulla salute dell’uomo.
La caffeina è presente nelle foglie, nei frutti e, principalmente, nei semi delle piante del caffè (la
più famosa è la “coffea arabica”), oltre che nelle foglie del tè ed in quelle del maté, nei semi di
cacao e di guaranà; la teobromina è contenuta nei semi di "teobroma cacao" con i quali si ottiene
il cacao ed il cioccolato; la teofillina nelle foglie di "camelliaa sinensis" da cui si ricava il tè.
Semplificando molto si può affermare che la caffeina nel tè si chiama teofillina (o teina, definizione
con il quale viene indicata erroneamente anche la caffeina) e quella nella cioccolata teobromina.
In generale, sono tre alcaloidi molto diffusi nel mondo vegetale.
Immagine d ella struttura chimica della caffeina, dei suoi “derivanti” e “d erivati”
La caffeina, a temperatura ambiente, si presenta come una polvere cristallina bianca di leggero
gusto amaro e inodore. Essa è limitatamente solubile in acqua a temperatura corporea, in alcool,
20
Le basi puriniche, come la caffeina, sono molecole organiche composte prevalentemente da azoto e idrogeno,
assemblati in due anelli formati da cinque o sei elementi, ciascuno con due atomi di azoto. Le xantine appartengono al
gruppo chimico delle basi puriniche.
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Gioele Capoferri
Chimica
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in etere e acetone, ma ampiamente solubile in acqua calda, in cloroformio e in acetato di etile. In
ogni caso la caffeina è una sostanza idrosolubile (o idrofila).
Negli essere umani, la caffeina è uno stimolante del sistema nervoso centrale che ha numerosi e
variabili effetti, fra i quali, principalmente, il ripristino dello stato di allerta e un allontanamento
temporaneo della sonnolenza. Di questi effetti parlerò in seguito, innanzitutto vediamo come
viene assorbita dall’organismo e come agisce.
3.4.4. Farmacocinetica e metabolismo
Poiché la caffeina è idrosolubile ma è anche in grado di attraversare facilmente le membrane
cellulari, essa viene assorbita velocemente (può essere presente nel plasma già 5 minuti dopo
l’ingestione) e completamente (l’assorbimento dopo somministrazione orale di caffeina è del 90100%) dal tratto gastrointestinale; il suo completo assorbimento si ha entro circa 90 minuti dalla
sua assunzione. Attraverso la circolazione sanguigna viene uniformemente trasferita e distribuita
verso ogni parte dell’organismo, raggiungendo con facilità tutti i tessuti, fino ad arrivare al
cervello. L’emivita plasmatica21 può variare notevolmente da individuo a individuo, perché può
dipendere da fattori quali l’età, la gravidanza, alcuni farmaci concomitanti, il livello degli enzimi nel
fegato necessari per il metabolismo della caffeina,... Generalmente (negli adulti sani) l’emivita
plasmatica è pari a 3-7.5 ore, ma, come anticipato, può aumentare nei bambini e negli anziani e
può addirittura quasi raddoppiare nelle donne gravide. Nella tabella22 seguente viene esposto
quanto appena detto:
21
Il tempo necessario al corpo per ridurre del 50% la quantità di una sostanza (di solito di un farmaco) nel plasma.
Tabelle tratte da: Bennet A. Weinberg, Bennet A. Weinb erg Bonnie K. Bealer, Bonnie K. Bealer tradotto da G.
Tarantin. Caffeina. Storia, cultura e scienza della sostanza più famosa del mondo. Donzelli edito re. Pag. 254 e 257
22
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La caffeina è metabolizzata principalmente dal fegato, tramite il sistema del citocromo P-450 23,
con il risultato che i principali metaboliti della caffeina riscontrati nel sangue sono le
dimetilxantine, ognuna con effetti diversi: paraxantina (circa l’84% della caffeina è convertita in
questa xantina), teobromina (12%) e teofillina (4%). Bisogna poi sapere che vi sono vie alternative
per metabolizzare la caffeina, anche se questa è la predominante. La caffeina viene eliminata
essenzialmente per via urinaria e l’escrezione completa delle metilxantine avviene in circa 9-12
ore. Siccome attraversa agevolmente i tessuti corporei e non è liposolubile, essa non si accumula
né in nessun organo, né nei grassi corporei.
3.4.5. Meccanismo d’azione (farmacodinamica)
Con l’intento di scoprire come e in qual misura la caffeina produce i suoi effetti, ovvero per
comprenderne il meccanismo d’azione sull’organismo umano, gli scienziati l’hanno studiata più di
ogni altra droga. Il motivo di tanta attenzione nasce soprattutto dagli annosi dibattiti sui rischi per
la salute che la sostanza, assunta attraverso il caffè o il tè, potesse provocare. Nell’affrontare
questo problema gli studiosi devono confrontarsi con la complessità di un effetto, e talvolta, come
nel caso della caffeina, di più di uno (sul sistema respiratorio, cardiovascolare, renale, nervoso
centrale e periferico). Per questo e altri motivi il meccanismo d’azione di questo stimolante risulta
ancora in gran parte sconosciuto e incerto, nonostante le tecniche di laboratorio sempre più
precise e sofisticate e gli sforzi profusi dagli scienziati per sbrogliare la matassa. Le teorie più
convincenti e più recentemente formulate per spiegare l’azione della caffeina e di altre
metilxantine sul corpo umano sono:
•
teoria della mobilità del calcio;
• teoria dell’aumento di AMP ciclico;
• teoria dell’antagonismo dei recettori dell’adenosina.
Sebbene si tratta delle tre ipotesi più papabili e sicuramente dimostrate a livello sperimentale, le
prime due sono un po’ meno accreditate rispetto alla terza, perché i livelli ematici di caffeina per
produrre tali effetti sono superiori a quelli normalmente riscontrati a seguito di un’assunzione
anche rilevante di caffè. Vediamo ora più nel dettaglio le tre teorie.
La caffeina è un tipo di agente inotropo, ovvero un agente che accresce la forza di contrazione del
muscolo cardiaco. Mediante un’azione sulla produzione di neuromediatori che controllano
l’afflusso di ioni calcio nelle cellule, gli agenti inotropi aumentano l’entrata del calcio nello spazio
intracellulare. In quanto gli ioni calcio sono responsabili della regolazione della contrazione
muscolare – più specificamente interagiscono con due molecole (troponina e tropomiosina) che
permettono l’accorciamento della cellula muscolare – un tale afflusso di ioni calcio comporta un
aumento della forza di contrazione muscolare che, nel caso della caffeina (agente inotropo) si
traduce con un aumento della contrazione del miocardio. Come già anticipato, la caffeina produce
questi effetti solo a un livello dosaggio elevato, da 10 a 100 volte superiore di quelli normalmente
23
Enzima epatico che ha detossifica l’organismo poiché catalizza il metabolismo di molti composti endogeni o di
origine farmaceutica.
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Chimica
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contenuti nelle bevande (caffè, tè, energy drinks,…), ed è quindi poco probabile che tale processo
serva a spiegare precisamente gli effetti della caffeina assunta per via alimentare.
Prima di spiegare la seconda teoria, è utile fare una premessa sull’AMP ciclico. Una possibilità che
hanno gli ormoni idrosolubili (ovvero ormoni proteici, ad esempio il glucagone, e catecolamine, ad
esempio l’adrenalina e la noradrenalina), per agire sulle cellule bersaglio è quella di legarsi ai
recettori proteici sulla membrana cellulare, visto che avrebbero difficoltà ad attraversarla. Il
legame ormone-recettore attiva la produzione all’interno della cellula di sostanze dette “secondo
messaggeri”, responsabili della trasmissione del messaggio ormonale tramite una serie di
successive reazioni a cascata. Uno di questi secondo messaggeri è il cicloadeninmonofosfato (più
semplicemente detto AMP ciclico o cAMP), che deriva sostanzialmente da: ATP AMP + P. Tale
reazione di sintesi è catalizzata dall’adenilato ciclasi, una proteina enzimatica localizzata sulla
membrana. Invece, al termine dell’azione del cAMP, gli enzimi coinvolti nella sua degradazione
sono le fosfodiesterasi, che lo trasformano nella sua forma aciclica, disattivandolo. Negli schemi
seguenti24 sono rappresentati il meccanismo d’azione di un ormone idrosolubile e la conseguente
formazione del secondo messaggero:
24
Immagini tratte da: dispense prof. Duijts, corso BIC – classe III
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La caffeina aumenta la permanenza di questo secondo messaggero all’interno della cellula
prolungando e potenziando l’effetto dell’adrenalina (o di sostanze analoghe come l’anfetamina e
le metanfetamina), del glucagone,... Questo è possibile poiché questa xantina interviene in due
modi in questi processi: inibisce la fosfodiesterasi, rallentando la degradazione del cAMP, e
secondariamente blocca l’inibitore dell’adenilato ciclasi, provocando un aumento della sintesi del
cAMP. Tutto questo, come detto, causa un aumento della concentrazione dell’AMP ciclico nello
spazio intracellulare. Sia adrenalina, rilasciata nel sangue dalla midollare surrenale, che glucagone,
prodotto dal pancreas, mediante l’AMP ciclico, inducono le cellule del fegato a rilasciare glicogeno
e a idrolizzarlo. Il risultato finale è, considerando il prolungamento dell’effetto di questi due
ormoni dovuto alla maggiore permanenza nello spazio intracellulare dell’AMP ciclico, un
sostanziale aumento del glucosio ematico.
Il terzo e principale meccanismo d’azione della caffeina è il blocco
competitivo dei recettori adenosinici (vedi formula di struttura
dell’adenosina qui a fianco25). La caffeina è in grado di legarsi ai recettori
dell’adenosina (un nucleoside), poiché le due molecole sono strutturalmente
analoghe (l’affinità è riscontrata soprattutto fra caffeina e adenina, la base
azotata dell’adenosina). In tal caso viene a determinarsi una situazione di
antagonismo, o meglio, di inibizione competitiva, in quanto si limita l’azione
del nucleoside. Per capire cosa avviene quando si verifica questo
Formula di struttura
dell’adenosina
antagonismo, bisogna però conoscere le funzioni dell’adenosina. Essa è
presente in ogni parte del corpo umano e oltre ad agire nel metabolismo energetico dell’ATP, ha
delle specifiche attività a livello cerebrale. Qui assolve un rilevante ruolo di neuromodulatore 26, il
che significa che modula l’attività sinaptica cerebrale modificando la risposta delle cellule
neuronali ad un dato neurotrasmettitore. A differenza dei neurotrasmettitori, non è
immagazzinata nelle vescicole in prossimità della terminazione sinaptica del neurone, bensì si
accumula nel liquido extracellulare. Quando l’adenosina si lega ai recettori adenosinici inibisce il
rilascio di neurotrasmettitori. Tali recettori possono essere classificati in A1, A2A, A2B e A3, anche se
sono particolarmente interessanti i primi due, poiché molto diffusi nel cervello. Un alta attività
adenosinica sul recettore A1, il più abbondante nelle aree cerebrali (è concentrato nella corteccia
cerebrale, nell’ippocampo e nel cervelletto), blocca il rilascio di un gran numero di
neurotrasmettitori cerebrali, tra cui la serotonina, l’acetilcolina, la noradrenalina, il GABA e, la più
potente azione inibitrice, la svolge verso il glutammato. Più precisamente, il recettore A1 inibisce
l’attività neuronale nella terminazione del neurone presinaptica, bloccando i canali calcio di tipo N.
Questo impedisce, all’arrivo del potenziale nervoso, l’afflusso di ioni Ca2+ nella terminazione
presinaptica del neurone, ostacolando quindi l’attivazione delle vescicole contenenti
neurotrasmettitori che avrebbero rilasciato per esocitosi tali sostanze nello spazio sinaptico.
25
Immagine tratta da: http://it.wikipedia.org/wiki/Adenosina
Un neuromodulatore è una sostanza naturalmente secreta dal cervello, che agisce come neurotrasmettitore, tranne
per il fatto che la sua azione non è limitata allo spazio sinaptico ma si diffonde in tutto il fluido extracellulare
circostante (http://it.wikipedia.org/wiki/Neuromodulatore).
26
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Neurotrasmettitore
Sinapsi (cerchiato in rosso è il canale calcio di cui l’adenosina impedisce l’apertura, con consegu ente blo cco di tu tto il
meccanismo)
27
Considerando, quindi, che un effetto generale a livello cerebrale dell’adenosina è quello di limitare
l’attività neuronale, un effetto generale della caffeina (antagonista dei recettori adenosinici) sarà,
invece, quello di stimolare l’attività neuronale tramite l’aumento del rilascio di neurotrasmettitori
(diminuendo il tempo di riposo che necessiterebbero i neuroni per un’attività efficace).
Importanti, come detto, sono anche i recettori A2A. Innanzitutto, questi recettori sono molto
presenti nelle cellule endoteliali (le cellule che costituiscono i vasi sanguigni), e, un’interazione con
l’adenosina, provoca una vasodilatazione. La caffeina, legandosi a questi recettori, ha un effetto
opposto a quello adenosinico, ovvero quello di vasocostrizione. Inoltre, a livello encefalico, i
recettori A2A sono molto diffusi nei gangli basali, dove avviene (in unione alla corteccia motoria) il
controllo del movimento del corpo e dove vi si trovano alte concentrazioni di dopamina. Pertanto,
l’attività dell’adenosina su tali recettori induce un’inibizione dell’attività motoria, in parte
diminuendo l’azione della dopamina, che, infatti, tra i tanti ruoli che riveste, è molto importante
nella regolazione della locomozione. La caffeina, dunque, può provocare un aumento delle
funzioni motorie, aumentando anche la liberazione di dopamina, ma, a differenza di altre droghe
come la cocaina, la morfina, la nicotina, l’alcool, tale aumento non si verifica nei “centri del
piacere” (in cui la dopamina è forse il principale neurotrasmettitore). L’organismo, sottoposto a un
elevata assunzione di caffeina, risponde con la formazione di ulteriori recettori adenosinici che,
quando il tasso di caffeina diminuisce, si combinano con gli originali. Il risultato di questa
compensazione accentua gli effetti dell’adenosina, come sonnolenza e depressione, e questo può
spiegare i sintomi d’astinenza dalla caffeina.
27
Immagine tratta da: dispense prof. Duijts, corso BIC – classe III
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In generale, concludendo, l’adenosina è un depressivo, in quanto ha un effetto soprattutto
inibitorio, del sistema nervoso centrale e si crede che promuova il sonno e diminuisca
l’eccitazione. Il blocco dei recettori adenosinici causata dalla caffeina aumenta il rilascio, in
particolare, di adrenalina (nel sistema cardiovascolare) e di dopamina (nel cervello), in questo
secondo caso stimolando il SNC. Questa capacità disinibitoria si traduce con maggior lucidità
mentale, aumento dello stato di allerta e maggiore eccitazione.
3.4.6. Caffeina e salute - effetti sull’organismo
Volendo approfondire gli effetti sulla salute dell’uomo prodotti dalla caffeina mi sono accorto che,
a grandi linee, la complessità delle conseguenze è da ricercare nella complessità delle cause.
Infatti, comprendere precisamente gli effetti di questo stimolante sul nostro organismo è molto
difficile, vuoi perché essi dipendano dai differenti modi di assunzione, vuoi perché essi derivano da
specifiche azioni della caffeina in quasi tutti gli organi del corpo, o semplicemente, vuoi perché
possono variare da individuo a individuo. L’elenco potrebbe continuare con altri fattori d’influenza
sugli effetti della caffeina, come la quantità della xantina assunta (dose), la situazione fisica e
psicologica (malessere, benessere) dell’individuo mentre assume questa “droga”, le interazioni
farmacologiche con altre sostanze (alcool, farmaci, altre droghe), e altri ancora. Per questi motivi,
nel corso dei secoli, della caffeina si è parlato molto, ma mai in modo “omogeneo”. Arreca,
favorisce o cura molteplici malattie? Apporta realmente benefici fisici e mentali, quest’ultimi
intesi come un aumento delle capacità intellettuali? A queste domande si tenta di rispondere con
molte teorie tradizionali o moderne, scientifiche o meno, ma in genere contraddittorie.
Nonostante una dispendiosa indagine scientifica, resta il fatto che molte delle questioni centrali
riguardo ai suoi effetti restano tuttora irrisolte. In questo paragrafo cercherò di esporre alcuni
aspetti chiave della problematica.
Fin’ora non esistono prove che un consumo moderato di caffeina (circa 300 mg al giorno) durante
la gravidanza abbia influssi sullo sviluppo del feto (i maggiori problemi derivano da nicotina e
alcool), nemmeno che ci sia un legame fra l’assunzione di caffeina e l’aborto, e infine, non
pregiudica né l’allattamento al seno, né la capacità riproduttiva della donna.
Nonostante l’assunzione di caffeina provochi una leggera variazione della calcemia28,
riequilibrabile rapidamente con una dieta adeguata, non è stato dimostrato che influisca sulla
salute delle ossa.
Da quasi cent’anni a questa parte è provato che la sostanza in questione, grazie a una sua lieve
azione broncodilatatrice, migliori le capacità respiratorie e per questo attenua le crisi d’asma.
Molto delicato è il rapporto tra caffeina e tumore. Per molti anni si è sospettato l’esistenza di un
certo legame fra questi due elementi che però oggi, da studi scientifici, non risulta. Infatti non vi è
alcuna prova che il consumo di caffeina aumenti il rischio di cancro a praticamente qualsiasi
organo (al seno, a ovaie, prostata e vescica, al pancreas, al colon, alle cavità orali e all’esofago, al
fegato e ai reni). Ma oltre ad escludere qualsiasi legame tra tumori e consumo di caffeina, è ormai
certo che un consumo moderato e regolare di caffè (e quindi di caffeina) diminuisca del 24% la
28
La calcemia è la concentrazione ematica di calcio.
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possibilità dell’insorgenza di tumori al colon, del 50% di tumori alle ghiandole mammarie, e del
90% dei tumori alle cavità orali.
È stato dimostrato che non esistono legami tra un consumo moderato di caffeina e malattie
cardiovascolari (come l’infarto miocardiaco), questo perché non vi è un aumento delle aritmie
cardiache. Solo a dosi elevate e nelle persone sensibili possono verificarsi disturbi al cuore e
aumenti sensibili della pressione sanguigna. Al contrario, la caffeina esercita una leggera azione
cardiotonica, ovvero un aumento delle contrazioni cardiache.
La caffeina è un leggero diuretico ma studi scientifici provano che questo effetto si riduce in
persone che bevono l’equivalente di due tazze da caffè al giorno. Inoltre sembra che protegga
contro la formazione di calcoli renali.
Questo stimolante può aumentare la secrezione di acido gastrico e pepsina migliorando la
digestione oppure contribuendo al bruciore di stomaco. Persone affette da ulcera peptidica
dovrebbero evitare il consumo di bevande contenenti caffeina. Inoltre aumenta la secrezione di
bile, contribuendo positivamente alla digestione del metabolismo dei grassi, e contrastando anche
in questo caso lo sviluppo di calcoli biliari.
La sostanza in questione diminuisce il flusso sanguigno cerebrale del 20-30%, e in unione a
un’azione vaso costrittiva, riduce l’emicrania, per questo motivo è inserita nei farmaci contro il mal
di testa.
Studi recenti hanno dimostrato che la caffeina, prevenendo la perdita dei segnali chimici che
vengono a meno nel morbo di Parkinson, protegge parzialmente dal morbo stesso, e, a quanto
pare, anche dal morbo di Alzheimer. Infatti, bloccando gli effetti del colesterolo che rendono la
barriera emato-encefalica permeabile (BEE), la caffeina risulta preventiva anche nei confronti del
morbo di Alzheimer, che è causato da una penetrazione di sangue nel sistema nervoso centrale
dovuta alla permeabilità della BEE. Gli studi sulla relazione caffeina – morbo di Alzheimer sono
finora comunque stati condotti su animali.
Essa aumenta i livelli plasmatici di acidi grassi, cortisolo e adrenalina, influendo positivamente
sulle prestazioni atletiche. Questo è dovuto soprattutto a un aumento della lipolisi, ovvero un
aumento dell’utilizzazione dei grassi a scopo energetico, possibile grazie all’incremento di acidi
grassi plasmatici. Tale processo ritarda l’esaurimento delle forze perché diminuisce la velocità di
utilizzazione del glicogeno, conservando i suoi depositi del fegato e dei muscoli scheletrici. Per
essere considerato dopato bisogna avere 12 mg di caffeina per litro di urina, e questo corrisponde
all’assunzione contemporanea di 12 tazze di caffè espresso. Inoltre la caffeina, provocando un
aumento della frequenza cardiaca, favorisce la circolazione ematica e la conseguente
ossigenazione dei muscoli ed è soprattutto per questi effetti che viene usata come dopante.
Come già detto, la caffeina promuove la veglia poiché si oppone e blocca le azioni dell’adenosina
che favorirebbero il sonno. Per di più aumenta l’attenzione mentale e la vigilanza e riduce anche il
senso di affaticamento, il tutto dovuto alla stimolazione della corteccia e di altre aree cerebrali.
Sembra anche che essa aumenti le capacità mnemoniche e di apprendimento.
Solo con un’assunzione maggiore a 1.5 g di caffeina (12-15 tazze di caffè) si riscontrano tremori e
ansia, mentre il midollo spinale ne è sensibile solo a dosi molto alte (2-5 g).
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Chimica
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Nelle tabelle seguenti ho raggruppato gli aspetti principali e più importanti degli effeti di questo
stimolante:
Dosi e effetti sulla salute
Quantità (mg di caffeina/giorno)
300-350 (consumo moderato)
500
650 -1000
1000<
Nessun pericolo per la salute
(degli adulti) e nessuna
controindicazione particolare,
anche se gli effetti variano da
individuo a individuo
Comparsa dei
primi effetti
collaterali
Leggero aumento degli effetti
dannosi e nocivi per la salute
dell'organismo
Effetti pericolosi, anche letali (la
dose letale è di circa 10 g, ovvero
100 tazze da caffè)
Sensazioni piacevoli, aumento
dello stato di veglia e di allerta,
maggior capacità di
concentrazione, in generale un
miglioramento dell'efficienza
fisico-mentale
Legger e
palpitazioni, stati
d'ansia, insonnia.
Agitazione ed eccitazione
La tossicità della caffeina, oltre a
passeggere. Un consumo di
un aumento degli effetti avversi
alcune settimane di questa
che si riscontrano con dosi minori,
dose: disturbi temporanei sulla
si traduce con convulsioni e
motricità periferica (tremori
vomito. Inoltre una dose come
alle mani), nausea, ansietà,
quella letale induce aritmie
irrequietezza, aumento della
cardiache.
diuresi.
Effetti sull’organismo di un consumo moderato di caffeina
Effetti antidolorifici (è presente
in circa 50 farmaci antidolorifici),
stimola le facoltà intellettive,
risveglia l'attenzione e la
In generale e sul
vigilanza, aumenta le capacità
sistema nervoso
della memoria e
centrale
dell'apprendimento, stimola la
concentrazione e l'attenzione,
alla guida facilita la percezione
degli stimoli sensoriali; è un
antidepressivo naturale
Sul cuore
Un consumo moderato non fa
male al cuore. Accelera il ritmo
cardiaco, ma si tratta di
variazioni molto lievi, che
possono crescere se le dosi di
caffeina aumentano. In
farmacologia è usato come
cardiotonico, poiché potenzia il
tono arterioso e migliora la
circolazione nelle arterie
coronarie
- 30 -
Sui muscoli
Aumenta la resistenza agli
sforzi fisici e alla fatica grazie a
un potenziamento delle
capacità di contrazione e del
tono muscolare, migliorando in
generale il coordinamento dei
movimenti e riducendo la
stanchezza e la fatica (meno
acido lattico)
Sulla
respirazione
Agisce sulla muscolatura liscia
dei bronchi provocando
broncodilatazione, ovvero la
dilatazione, in particolare, degli
alveoli polmonari (per questo
motivo è inserita nei farmaci
antiasmatici). Il risultato è un
miglioramento e una
facilitazione della respirazione
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Chimica
Stimola la produzione di succhi
gastrici (nello stomaco), la
secrezione della bile (nella
Sulla digestione
cistifellea) e favorisce la peristalsi
intestinale, con il risultato di
migliorare la digestione.
LAM, Liceo Mendrisio
Sui reni
Con un meccanismo ancora
poco chiaro la caffeina stimola
la diuresi, il che significa
favorire l'eliminazione degli
scarti del nostro organismo
attraverso le urine.
3.4.7. Caffeina e bevande
In tutto il mondo le bevande contenenti caffeina godono di una straordinaria popolarità e è
sufficiente solamente un dato per dimostrarlo: si stima che l’80% della popolazione mondiale ogni
giorno consuma bevande contenenti caffeina. La caffeina nelle bevande è presente in quantità
variabile, infatti nei caffè varia, ad esempio, da modo a modo in cui si prepara il caffè, nei soft ed
energy drinks si differenzia da prodotto a prodotto o da tipo a tipo (con o senza zuccheri).
Vediamo nella tabella seguente il contenuto teorico di caffeina in alcuni prodotti 29:
Bevanda
Contenuto di caffeina
mg/100 mL
mg in una tipica porzione
Caffè
Caffè espresso
100-170
tazza da 30 mL
30-50
Caffè filtro
40
tazza da 190 mL
85
Caffè istantaneo
43
tazza da 150 mL
65
Decaffeinato
1.5
tazza da 150 mL
3
Tè classico
30
tazza da 150 mL
40-50
Tè fr eddo
16
240 mL
45
Coca Cola
10
330 mL
33
Coca Cola Light
13
330 mL
42
Coca Cola Zero
10
330 mL
33
Pepsi Cola
10.5
330
35
Jolt Cola
32
695 mL
220
Red Bull
32
250 mL
80
Burn
32
250 mL
80
M-budget Energy Drink
32
250 mL
80
Shark Energy Drink
30
250 mL
75
Bevande classiche
Energy drinks
Cioccolata
29
Dati tratti da: http://www.caffesalute.it/cont/1960sap/0412/1000/;
http://www.safefoodonline.com/safefood/Uploads/health_effects.pdf
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Gioele Capoferri
Chimica
LAM, Liceo Mendrisio
Cioccolato al latte
183
30 g
5.5
Cioccolato fondente
340
30 g
10.2
3.5. Taurina
La taurina (o acido 2-amminoetanosulfonico), il cui nome deriva dal latino “taurus” (toro), in
quanto fu isolata per la prima volta nel 1827 dalla bile del toro, dove è presente in elevate
concentrazioni, è un amminoacido di origine non proteica. La sua formula bruta è C 2H6NO3S e
quella di struttura 30:
Un amminoacido è un composto organico avente nella stessa molecola un gruppo acido,
generalmente il gruppo carbossile (-COOH), e un gruppo basico amminico (-NH2). In effetti la
taurina si differenzia dai più comuni amminoacidi poiché possiede, invece del tradizionale gruppo
carbossile, l’acido sulfonico (-SOOOH). Potrebbe essere dunque chiamata un “amminoacidosulfonico” o un “amminoacido-solforato”. Questa caratteristica, in unione al fatto che, ad
eccezione di qualche piccolo polipeptide formato da questo acido organico, non si è ancora
scoperto un RNA messaggero codificante la produzione di una proteina a partire da residui di
taurina, lo rendono un amminoacido “singolare”. Singolare inteso sia come particolare (acido
sulfonico al posto del gruppo carbossilico), sia come solo (non facendo parte di complesse catene
proteiche è un aminoacido libero o un semplice peptide). È una sostanza chimica molto diffusa: è
abbondante in molti tessuti animali (è quindi presente in carni e pesci), la si trova in alcune specie
batteriche, oltre che nelle uova e nel latte, ma non nelle piante. Nell’organismo umano, in
aggiunta a piccole quantità presenti nell’urina e nel latte materno (si parla di 4.2 mg di taurina per
100 mL di latte), è molto concentrata nei globuli bianchi, nei muscoli scheletrici, nel cuore, nel
tessuto retinale, nel sistema nervoso centrale, nel cervello ed è anche un’importante componente
della bile. In generale, essendo la taurina nell’uomo un amminoacido libero, la si trova soprattutto
disciolta nel citosol31 o legata alle membrane cellulari. Essa è, dunque, naturalmente presente
nella dieta (carne e pesce) ed allo stesso tempo un normale metabolita32 prodotto dal nostro
organismo. Nel corpo umano, l’amminoacido in questione viene principalmente sintetizzato nel
fegato a partire dal suo precursore, la cisteina (amminoacido), secondo questa reazione:
30
Immagine tratta da: http://fr.wikipedia.org/wiki/Image:Taurine.svg
Il citosol è la parte del citoplasma che non comprende gli organuli.
32
Il metabolita (o metabolito) è un prodotto inter medio o finale delle reazioni chimiche del metabolismo
(http://ok.corriere.it/dizionario/enc4699.shtml)
31
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Gioele Capoferri
Chimica
Formazione d ella taurina
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33
Questa sua reazione di sintesi è, forse, la via catabolica principale della cisteina. Infatti, come si
vede nello schema, la reazione più importante del gruppo sulfidrile (-SH) è probabilmente
l’ossidazione della cisteina a cisteinsolfinato. In una tappa successiva, questo prodotto intermedio
è decarbossilato ad ipotaurina, il che significa la perdita di una molecola di anidride carbonica
(CO2). Da ultimo si assiste a un’altra ossidazione che dall’ipotaurina porta alla taurina. Un
contributo alle reazioni di questa via di sintesi è dato da alcuni enzimi, come la cisteina
deossigenasi (primo passaggio) e la cisteinsolfinato decarbossilasi (secondo passaggio).
Nell’organismo umano l’essenzialità di questo aminoacido risulta molto discutibile, vediamo quindi
di capire quali ruoli ricopre. Innanzitutto si può dire che la taurina è coinvolta nella digestione dei
lipidi, favorendone l’assorbimento a livello intestinale. Infatti la sua reazione con gli acidi biliari
produce dei coniugati, i sali biliari, secreti con la bile. In particolare questo amminoacido migliora e
potenzia le proprietà tensioattive34 dei coniugati, agevolandone l’azione. L’ azione dei Sali biliari
consiste nell’emulsionare i grassi (fra cui il più noto è forse il colesterolo), ovvero la loro
scomposizione in minuscole goccioline, permettendo il loro assorbimento nell’intestino. Tutti i
lipidi che derivano dall’alimentazione devono essere emulsionati dai sali biliari per poter essere
assorbiti dall’intestino. Quindi, riassumendo, si può dire che la taurina, partecipando all’azione
degli acidi biliari, facilita la digestione dei grassi (agevolando l’eliminazione del colesterolo). Inoltre
i sali biliari, la cui formazione, come detto, è sostenuta dalla taurina, costituiscono una via di
escrezione dello zolfo dal nostro corpo. La taurina è un osmolita35 intracellulare (la sua
concentrazione intracellulare è 500-2000 volte superiore a quella extracellulare) che controllando
gli scambi osmotici, risultando quindi un importante regolatore delle variazioni del volume
cellulare. Strutturalmente simile al GABA, il principale neurotrasmettitore inibitorio del sistema
nervoso centrale, sembrerebbe anch’essa implicata nell’inibizione del sistema nervoso,
rilassandolo. In situazione di forte stress e sforzo fisico, essa agisce da detossificante, riducendo
l’effetto delle tossine prodotte dal metabolismo delle risorse energetiche (zuccheri e grassi) e
accumulate durante gli sforzi intensi. Il regolare le funzioni cardiache e muscolari, in particolare
aumentando la contrazione cardiaca (apportando più sangue al miocardio) e migliorando la
contrattilità muscolare, è la principale capacità di questo aminoacido che può spiegare
l’attenuazione del senso di fatica che la sostanza “promuove”. Inoltre può intervenire in altri
fenomeni: stabilizza elettricamente le membrane cellulari; partecipa all’omeostasi del calcio;
possiede ottime proprietà antiossidanti; potenzia a lungo termine l’ippocampo; controlla la
33
Immagine tratta da: GIUSEPPE ARIENTI, Le basi molecola ri della nutrizione, Piccin, pag. 350.
Il tensioattivi sono sostanze che aumentano le proprietà emulsionanti delle soluzioni in cui sono disciolte.
35
Un osmolita è un composto organico che incide sull’osmosi, svolgendo un ruolo importante nel mantenimento del
volume della cellula e dell’equilibrio dei fluidi (http://en.wikipedia.org/wiki/Osmolyte)
34
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Gioele Capoferri
Chimica
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produzione di adrenalina; e altri ancora. Si tratta però di effetti, quest’ultimi, ancora in fase di
studio e di poca rilevanza se confrontati con la partecipazione nella sintesi dei sali biliari o nel
controllo del volume cellulare, effetti, questi, molto ben dimostrati. Effetti negativi sulla salute del
uomo possono essere, a seguito di un’assunzione elevata di taurina, ipertensione e problemi
gastrointestinali. Sono comunque effetti, positivi e negativi, da prendere con le pinze, perché sugli
uomini non sono ancora tutti pienamente documentati. Inoltre ci sono ancora pochi studi
sull’interazione della taurina con gli altri ingredienti contenuti negli energy drinks, quali caffeina e
glucuronolattone, o altre sostanze come droghe e alcool.
La taurina, negli adulti, è considerata un amminoacido condizionatamente essenziale, che tradotto
si significa che in determinate circostanze, come per esempio di forte stress fisico e mentale o di
attacchi cardiaci (agisce da cardiotonico, cioè sostiene l’attività del cuore), può non venire
sintetizzata a velocità sufficiente per soddisfare le richieste metaboliche dell’organismo. Al
contrario, nel neonato e in età infantile, la taurina risulta un amminoacido essenziale poiché
svolge un’importante funzione per il corretto sviluppo del sistema nervoso centrale. A normali
condizioni psicofisiche, in un corpo adulto la taurina è conservata ad alte concentrazioni ed è
presente in grandi quantità. Si stima che un corpo umano di 70 kg contenga fino a 70 g di questa
sostanza e che se ne dovrebbe assumere circa 400 mg ogni giorno mediante l’alimentazione
(carne, pesce e uova ne sono le fonti più ricche). Con altre cifre, circa il 40% del “fabbisogno” di
taurina è prodotta dal nostro corpo e il restante 60% è assimilato con l’alimentazione.
Negli ultimi anni, l’utilizzo di taurina in campo alimentare ha conosciuto un forte aumento,
soprattutto perché è diventata un ingrediente essenziale delle bevande energetiche. Addirittura la
Red Bull, la bevanda energizzante per eccellenza e ai vertici del settore, prende il suo nome da
questa sostanza: “bull” significa infatti “toro” (da taurina). Attorno a questo aminoacido e il suo
inserimento negli energy drinks si è levato un alone leggendario: si crede che la taurina immessa in
queste bevande provenga dall’urina e dallo sperma di toro. È si vero che essa è presenta in
entrambe le fonti, ma non è vero che esse siano le reali fonti di taurina per il settore alimentare. In
quest’ultimo caso la taurina ha origine sintetica e non naturale, in quanto viene sintetizzata in
laboratorio attraverso una combinazione di metionina, cisteina e vitamina E. In Francia, la vendita
di Red Bull (e delle bevande analoghe) era stata vietata proprio a causa, in parte, dell’aggiunta di
taurina, ritenuta causa di effetti neuro-comportamentali indesiderati. Il 2 aprile del 2008 è la
vendita della bevanda che “ti mette le ali” è stata reintrodotta, poiché la taurina è stata
rimpiazzata dall’arginina (altro amminoacido).
Con un solo energy drinks si assumono circa 1000 mg di questa sostanza, quantità ben al di sopra
dei 400 mg che se ne dovrebbero assumere con l’alimentazione, e il doppio del limite di consumo
giornaliero consigliato dal Ministero della Salute (Italia). Nella tabella seguente vediamo il
contenuto di taurina in alcune bevande energetiche:
Bevanda
AMP
Contenuto di taurina
Concentrazione
mg/100 mL
148 mg (lattina da 240 mL)
63
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Burn
1000 (lattina da 250 mL)
400
Jolt Cola
2800 mg (lattina da circa 695 mL)
403
Monster
1000 mg (lattina da 240 mL)
423
NOS
1000 mg (lattina da 240 mL)
423
Red Bull
1000 mg (lattina da 250 mL)
400
Relentless
2000 mg (lattina da circa 480 mL)
423
Rockstar
2000 mg (lattina da circa 480 mL)
423
3.6. Glucuronolattone
L’affrontare questo componente dei drink energizzanti nasce da un esperimento svolto in
laboratorio. Infatti, prima di quel test ero ignaro dell’esistenza di questa sostanza e la sua presenza
nelle bevande energetiche mi era sconosciuta. In quell’esperienza si trattava di effettuare una
ricerca sulla presenza di zuccheri in alcune bevande. Oltre a un comune energy drink, affrontai il
test anche su un energy drink “sugarfree”, la Red Bull light, nei confronti del quale il test sarebbe
dovuto risultare negativo (se infatti realmente si tratta in un sugarfree, dovrebbe essere priva di
zuccheri). A sorpresa di tutti, visto che altri del mio gruppo di lavoro di maturità scelsero di
effettuare questa analisi su una bevanda senza zuccheri, il test segnalava la presenza di zuccheri.
Com’era possibile, dal momento che la sostanza doveva essere effettivamente priva di zuccheri? Si
scoprì che la sostanza “incriminata” era proprio il glucuronolattone. È un carboidrato di tipo
aldoso, quindi con un gruppo funzionale aldeidico, gruppo che interferiva con l’esperienza e che
quindi produceva il risultato inatteso. Il glucuronolattone (anche detto glucoronolattone o acido
lattone glucuronico) si trova naturalmente nell’organismo umano, in
quanto è prodotto nel fegato, a partire dal glucosio, e prende parte alla
formazione del glicogeno. Questo derivato del metabolismo del glucosio è
anche una componente strutturale di praticamente tutti i tessuti
connettivi. Chimicamente è un lattone (una sorta di estere ciclico), l’acido
glucuronico ne è il precursore immediato e la sua formula molecolare è
Formula di struttura del
C 6H8O6 (vedi la sua formula di struttura qui a fianco36). Fisicamente è un
glucuronolattone
solido incolore e inodore, solubile in acqua. I suoi effetti non sono ancora
bene conosciuti, ma si tratterebbe, così viene anche definito sul sito internet della Red Bull, di un
carboidrato coinvolto nei processi di disintossicazione, aiutando il corpo ad eliminare le sostanze di
scarto 37. Infatti sembrerebbe che il glucuronolattone intervenga nella disintossicazione del fegato
tramite la glucuronizzazione, un meccanismo detossificante che avviene nell’organismo umano.
Organismo umano che dovrebbe ricevere benefici da questi processi in situazione di particolare
stress o affaticamento. Inoltre che questo carboidrato risulti avere effetti positivi su memoria,
apprendimento e umore è un fatto dimostrato. Ma in ogni caso, l’assenza di studi approfonditi su
questa sostanza impedisce di avere garanzie assolute sulla sua innocuità per l’uomo. A rendere più
36
37
Immagine tratta da: http://it.wikipedia.org/wiki/Glucuronolattone
http://www.redbull.it/#page=ProductPage.Ingredients
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Chimica
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incerta la sicurezza di questo lattone è una “leggenda metropolitana” che l’ha portato agli albori
della cronaca: si presumeva che il governo americano lo distribuisse come droga fra i soldati
impegnati nella guerra in Vietnam, ma poi fu bandito poiché si credeva il responsabile di alcune
morti causate da un cancro al cervello. Ma fu poi tutto smentito e fu dimostrata la falsità di queste
voci, tant’è che la Food and Drug Administration, l'autorità che si occupa di regolamentare ogni
sostanza presente negli alimenti e nei farmaci negli USA, non prevede avvertenze riguardo alla
possibilità di causare tumori o altre malattie. A livello commerciale il glucuronolattone ha
riscontrato molto successo soprattutto grazie al suo inserimento negli energy drinks, bevande che
a loro volta riscuotono sempre più consenso fra la gente e che di conseguenze si diffondono
sempre più. Lo si inserisce per contrastare la fatica e per apportare un senso di benessere
generale. Il contenuto di glucuronolattone nella bevanda simbolo di questo settore industriale, la
Red Bull, è di circa 600 mg ogni 100 ml di prodotto, una cifra che, nonostante non vi siano ancora
prove sulla sua nocività, dovrebbe destare qualche preoccupazione.
Parte pratica
4.
Le tecniche di laboratorio
Prima di entrare nel vivo della parte sperimentale è utile approfondire alcune tecniche di
laboratorio per capire il loro significato e la loro funzione. Si tratta delle tre tecniche più utilizzate
nella parte sperimentale.
Cromatografia su strato sottile
La cromatografia su strato sottile (TLC, thin layer chromatography) è una tecnica di analisi
qualitativa di piccolissime quantità di sostanza basata sulla ripartizione solido-liquido. È molto
importante e diffusa perché di semplice preparazione e perché permette di separare in modo
rapido una miscela. Il supporto più comune è una lastrina rivestita da un sottile strato assorbente
(costituito da gel di silice, ossido d’alluminio, cellulosa), che prende il nome di lastrina per strato
sottile. In prossimità della base della lastrina si pone, tramite una serie di ripetute applicazioni con
una pipetta, una piccola macchia del campione da analizzare. La lastrina viene poi posta
verticalmente in un recipiente contenente uno strato di solvente opportunamente scelto (il livello
del solvente deve essere inferiore a quello della macchia applicata) e accade che quest’ultimo, per
effetto di capillarità, salga lungo lo strato sottile di assorbente. Siamo nella fase in cui la lastrina
viene sviluppata o, in termine tecnico, viene fatta correre. Durante questo sviluppo, man mano
che il solvente sale, il campione viene ripartito tra la fase mobile liquida e quella stazionaria solida,
e la lastrina diventa visibilmente bagnata. Le diverse componenti della miscela sono così separate
in base, generalmente, a questo principio: la fase stazionaria (lo strato di adsorbente) è molto
polare e lega fortemente le sostanze più polari contenute nel campione, la fase mobile (il
solvente), al contrario, è meno polare dell’adsorbente, sciogliendo più facilmente le sostanze poco
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Chimica
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o, addirittura, non polari. Ad esempio, dunque, un solvente non polare “trascinerà” le sostanze
non polari più velocemente verso l’alto, mentre quelle più polari, le muoverà più lentamente o le
lascerà ferme (principio del “simile scioglie il simile”). La risalita può durare da una decina di
minuti a oltre un’ora.
Sviluppo di una cromatografia
38
La lastrina sviluppata viene tolta dal recipiente di sviluppo (si traccia a matita una riga lungo il
fronte del solvente) e fatta asciugare finché non è più presente il solvente. Se tutto è avvenuto
correttamente, si osserverà che la macchia di miscela applicata inizialmente sulla lastrina è stata
separata in una serie verticale di macchie. Nel caso in cui si tratta di sostanze colorate le varie
macchie saranno chiaramente visibili, nel caso in cui, invece, le sostanze sono incolori le macchie
non si possono vedere ad occhio nudo. In questi casi si ricorre a metodi di visualizzazione che
rendono evidenti le macchie o a reagenti di visualizzazione che sviluppano macchie colorate. Un
esempio del primo caso è quello di porre la lastrina sotto la luce ultravioletta, un esempio del
secondo è lo iodio che, reagendo con parecchi composti organici, genera composti di colore bruno
o giallo.
Alla fine si può procedere con la misurazione del valore di ritenzione, o Rf. Per il suo calcolo basta
misurare la distanza che il composto ha percorso dal punto dove è stato originariamente applicato
e dividerla per la distanza percorsa dal fronte del solvente:
Rf =
dist anza percorsa dalla macchia
dist anza percorsa dal fronte del solvente
Il valore Rf rappresenta un sistema di identificazione e di confronto, ma molto spesso è più utile
per una persona nel suo laboratorio che per molte persone in laboratori diverse. Infatti questi
valori non sono costanti fisiche perché possono variare a dipendenza del solvente scelto e della
lastrina impiegata, oppure perché è molto difficile ricreare esattamente le stesse condizioni di
misura tra una macchia e l’altra o tra un operatore e l’altro. Quando viene impiegato per
identificare un composto sconosciuto deve essere accompagnato da un’altra misura, il
riconoscimento, infatti, non può avvenire sulla base di una sola misurazione, in quanto diversi
composti possono avere lo stesso Rf. In ogni caso, conoscendo esattamente i particolari di lastrine
e solventi impiegati, oppure applicando sulla stessa lastra una macchia di una sostanza conosciuta
e una di una sostanza sconosciuta, il valore di ritenzione risulta essere un’indicazione molto utile
per fare previsioni accurate.
38
Immagine tratta da: http://en.wikipedia.org/wiki/Thin_layer_chromatography
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Chimica
Calcolo dei valori di Rf
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39
Estrazione con solvente
Si tratta di una tecnica basata sul trasferimento di un soluto da un solvente ad un altro e utilizzata
per separare prodotti naturali o per purificare sostanze impure. L’estrazione avviene utilizzando
due solventi con differente miscibilità; essi possono essere distinti tra quelli più densi dell’acqua,
come il diclorometano, il cloroformio e il tetracloruro di carbonio, e quelli meno densi dell’acqua,
come l’etere di petrolio, il benzene, l’acetato di etile e l’etere ciclico. I due liquidi vengono inseriti
in un imbuto separatore, e, dopo un po’ di agitazione a mano e olio di gomito, si suddividono in
due fasi: la fase acquosa e la fase organica.
Imbuto separato re e modo corretto per agita re e la scia re sfogare l’imbuto sepa ratore
39
40
Immagine tratta da: PAVIA DO NALD, LAMPMAN GARY M., KRIZ GEORGE S., Il labora torio di chimica organica,
Sorbosa, pag. 626.
40
Vedi nota 38, pag. 547
- 38 -
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Il processo di estra zione: A) Il solvente 1 contiene una miscela di due molecole diverse (palline biche e n ere), che si
desidera separare. Si aggiunge in secondo solvente (colora to in grigio), immiscibile con il primo, e si agita
energicamen te. B) Dopo la separa zione in due strati, la maggior pa rte (ma non tutte) delle molecole bianche risultano
41
estratte nel nuovo solvente. C) Sepa rando i due strati, le molecole bian che e nere sono state parzialmente sepa rate ( )
La distribuzione ottenuta delle due fasi una volta compiuta la loro suddivisone e l’equilibrio
instauratosi tra la concentrazione del soluto in uno e l’altro solvente, sono regolati dall’equazione:
C
K= 2
C1
dove K è il coefficiente di distribuzione (o di partizione) e C 1 e C2 sono le concentrazioni
all’equilibrio (in grammi per litro) del soluto in questione rispettivamente nel solvente 1 e nel
solvente 2. Tranne che per un K molto elevato, è raro trasferire il soluto dal solvente 1 al 2 con
un’unica estrazione, infatti normalmente sono necessarie più estrazioni.
Per esempio, per estrarre la caffeina (prodotto naturale) da una soluzione acquosa di tè la si può
agitare successivamente con diverse porzioni di cloruro di metilene. Viceversa, le impurezze
contenute in una miscela ottenuta da una reazione organica sono estraibili con l’acqua.
Un ruolo importante nell’attrezzatura dell’estrazione è assolto dall’imbuto separatore, che per
questo motivo deve esse usato al meglio. Una volta riempito e assicuratosi di avere chiuso il
rubinetto, lo si deve agitare tendendo ben fisso il tappo. Il mescolamento dei due solventi
immiscibili provoca nel recipiente un aumento della pressione che può avere conseguenze
negative. La situazione di sovrapressione può essere quindi contrastata aprendo ogni tanto e
lentamente il rubinetto. Questa operazione di sfogo della pressione e di sfiatatura va ripetuta fino
a quando non si sente più uscire gas dall’imbuto. Infatti a questo punto la miscela è equilibrata e si
può procedere con la separazione delle due fasi (ricordandosi di levare il tappo messo
nell’apertura superiore per agitare). Si lascia fuoriuscire lo strato inferiore regolando il deflusso
con il rubinetto fino a che la superficie di separazione dei due strati non si trovi in prossimità del
rubinetto. Lo strato superiore rimasto nell’imbuto lo si toglie attraverso l’apertura superiore.
41
Vedi nota 38, pag. 542
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Spettroscopia UV
In generale, le tecniche spettroscopiche sono basate sullo scambio di energia che avviene tra la
materia e l’energia radiante e si analizza un campione per mezzo della sua interazione con le
radiazioni elettromagnetiche. La più interessante da un punto di vista
chimico è la spettroscopia nell’infrarosso (IR), ma molte sostanze
organiche possono essere studiate con la spettroscopia
nell’ultravioletto (UV), in quanto tali sostanze assorbono luce di queste
lunghezze d’onda. Questa tecnica richiede l’uso di uno spettroscopio,
che dà origine a spettri dai quali è possibile trarre informazioni utili per
Lunghezza d’onda (λ)
l’identificazione della sostanza. Lo spettro, generalmente, riporta
l’energia emessa o assorbita in funzione della lunghezza d’onda (λ), misurata in nanometri (vedi
figura “lunghezza d’onda (λ)”42). Quest’ultimo è uno dei tre fattori che caratterizzano la luce, gli
altri due sono: la frequenza (ν), inversamente proporzionale alla lunghezza d’onda, e l’ampiezza.
La lunghezza d’onda della luce visibile all’uomo va da circa 400 a 700 nm, lunghezze d’onde minori
corrispondono a raggi ultravioletti (da 10 a 400 nm), raggi X e raggi gamma. Lunghezze d’onda
maggiori, invece, appartengono agli infrarossi (da 700 nm a 1 mm), microonde e onde radio.
Tornando alla spettroscopia, sappiamo che è basata sull’interazione molecola - radiazioni (di
diversa lunghezza d’onda), e volendo misurare il cambiamento subito
dal campione in seguito al contatto con la luce, bisogna conoscere
alcune leggi legate all’assorbimento della luce. Una di esse è la legge di
Lambert-Beer: A = ελ l c. La A è l’assorbanza, ovvero la “densità ottica”,
data dal logaritmo del rapporto tra l’intensità della luce che entra nel
campione e quella della luce che esce dal campione, mentre ελ è il
coefficiente d’assorbimento molare, c è la concentrazione molare della
soluzione (mol/litro), e l è la lunghezza in centimetri del campione
attraversato (vedi figura “un fascio di…”43).
La lunghezza l negli spettroscopi corrisponde alla lunghezza della
Un fascio di luce di intensità I0
attraversa un ca mpione di
spessore l di una soluzione a
concen trazione c, e riemerge con
un’intensità I1
cuvetta (normalmente è 1 cm), la cella trasparente che si riempie con il
campione da analizzare. Durante una spettroscopia, la cuvetta (contenente il campione) è
attraversata dalla luce e grazie a un rilevatore viene misurata l’intensità di luce assorbita
(l’assorbanza). Bisogna però sapere che solo le sostanze che contengono elettroni mobili
presentano assorbimento nell’ultravioletto, poiché questo assorbimento è dovuto ai salti degli
elettroni da un livello energetico all’altro (transizioni elettroniche). Tramite una spettroscopia UV
si ricavano dunque grandezze utili per l’analisi del campione.
42
43
Immagine tratta da http://it.wikipedia.org/wiki/Lunghezza_d%27onda
Immagine tratta da: http://it.wikipedia.org/wiki/Legge_di_Lambert-Beer
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4.1. Ricerca dei coloranti artificiali
Obiettivo dell’esperienza
Lo scopo di questa esperienza è quello di estrarre i coloranti dalla bevanda per poi identificarli
tramite una cromatografia su strato sottile e confrontare se corrispondono con quelli indicati
sull’etichetta.
Bevande utilizzate: Burn (colorante dichiarato in etichetta E129) e Powerade orange (colorante
dichiarati in etichetta E104-E110)
Spiegazione dell’esperienza
Gran parte dei coloranti artificiali usati nell’industria alimentare per colorare svariati cibi e
bevande è di natura acida. Tale caratteristica permette di fissarli su fili di lana, in bagno acquoso
acido e a caldo, esattamente ciò che avviene nella tintura dei vestiti (dove la lana e la seta, di
carattere basici, sono tinte con coloranti acidi).
Su questo principio è basato il vecchio metodo d’Arata (nato nel mondo dell’enologia), che
consiste nel concentrare per ebollizione 100 ml di vino fino a ridurre il volume ad 1/3, acidificare
con acido cloridrico, aggiungere alcuni fili di lana sgrassata e far bollire per alcuni minuti. La lana
viene lavata prima con acqua fredda, poi posta in acqua acidificata con HCl che si porta ad
ebollizione, ripetendo l’operazione fino ad ottenere acqua incolore. A questo punto la lana viene
posta in acqua addizionata di ammoniaca che si porta all'ebollizione. La soluzione decantata viene
acidificata con HCl, vi si introduce un filo di lana e si fa bollire nuovamente.
Il metodo si presta bene anche in altri settori, come quello delle aranciate o di altre bevande. Il
modo di operare varia, nella fase iniziale, a seconda della natura dell’alimento o bevanda sui quali
si deve effettuare la ricerca.
Procedimento
1. Nel caso in cui la bevanda impiegata fosse
gasata, è consigliato sgasare la bevanda; il
metodo più rapido è farlo usando un magnete
(centrifugando).
2. Si acidificano con HCl (fino a quando la cartina
tornasole diventa rossa, ovvero acido) 100 mL
circa della bevanda in esame, vi si immerge un
filo di lana pura e sgrassata (lungo circa 10-15
cm) e si fa bollire il tutto per 5 minuti. In queste
condizione il colorante artificiale (acido) si fissa
sulla lana (basica), insieme con varie impurità
che in parte vengono allontanate con ripetuti
- 41 -
Esperienza svolta con burn e powerade
Gioele Capoferri
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lavaggi con acqua.
3. Per completare la purificazione, si pone il filo di lana in un matraccio (o bicchiere) e
aggiungendo 50 mL di H2O alcalinizzata con NH3 (3 o 4 gocce) e facendo bollire
moderatamente per 10 minuti. In queste condizioni di pH basico, il colorante passa in
soluzione, mentre le impurità restano sulla lana.
4. Si diluisce la soluzione alcalina colorata, si continua a far bollire fino a scomparsa dell’odore
ammoniacale.
5. A questo punto si effettua una seconda fissazione: si lascia raffreddare e si aggiungono
poche gocce di HCl fino a reazione nettamente acida, Infine si introduce un nuovo filo di
lana e si fa bollire per 5 minuti.
6. Operando la doppia fissazione su lana si ha la certezza che, se il secondo filo è colorato,
l’alimento o la bevanda esaminati sono stati addizionati di uno o più coloranti artificiali che
a questo punto si trovano fissati su un tessuto allo stato puro.
7. Per identificare i coloranti che sono stati così isolati dall’alimento, si riportano in soluzione
dalla lana (cfr. punto 3), quindi si sottopone la soluzione, opportunamente concentrata, a
cromatografia su strato sottile.
Oss.: per quanto riguarda il punto 2, nel nostro caso la bevanda “burn”, essendo già acida, ha
necessitato l’aggiunta di solo una goccia di HCl, mentre il powerade ha richiesto l’aggiunta di
4 gocce dell’acido.
Ecco il risultato della prima parte dell’esperienza, ovvero le soluzioni di colorante estratte da varie
bevande:
Estratto di: Burn
Powerade orange
Cromatografia dei coloranti su strato sottile
SI semina sulla linea tracciata a matita su una lastra circa 0.5 µL di ogni soluzione standard dei
coloranti che si suppone siano presenti e una quantità di campione tale da ottenere una macchia
ben colorata e diffusa.
Come eluente, è possibile utilizzare le seguenti miscele:
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a. Isopropanolo - ammoniaca (80%v-20%v) vedi osservazione 1 pagina seguente
b. Butanolo / etanolo / metanolo / acqua / acido acetico: 60 / 10 / 15 / 20 / 0.5 in V
c. 10 mL di ammoniaca / 40 mL di acqua / 1g di citrato trisodico
POWERADE
BURN
E133
E131
E104
E110
Schizzo lastra iniziale:
Note 44:
•
•
E104: giallo di chinolina
E110: giallo arancio S (o giallo tramonto FCF)
•
E131: blu patent V
•
E133: blu brillante FCF
Osservazioni:
1. Non abbiamo utilizzato il solvente composto da isopropanolo e ammoniaca perché non
separa bene i coloranti blu.
2. Il laboratorio della sede è sprovvisto dei coloranti standard E129 (contenuto nel Burn),
E101, E150.
Risultati
La seguente figura riporta la lastra ottenuta dalla cromatografia effettuata nel solvente b:
Burn
44
Powerade orange
http://it.wikipedia.org/wiki/Additivi_alimentari
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In base alla distanza delle varie macchie sono stati calcolati i seguenti valori di Rf:
dist anza macchia
Rf =
(da sinistra verso destra)
dist anza solvente
1 .4
= 0.26
5 .3
0 .6
E104: Rf =
= 0.11
5 .3
3 .1
E131: Rf =
= 0.59
5 .3
1 .6
E133: Rf =
= 0.30
5 .3
1 .4
burn: Rf =
= 0.26
5 .3
E110: Rf =
0 .6
= 0.11
5 .3
1 .1
Rf (sopra) =
= 0.21
5 .3
Powerade orange: Rf (sotto) =
Spettro UV dei coloranti
Visto che dall’osservazione della cromatografia non potevamo dedurre quale colorante potesse
contenere il Burn a causa dell’assenza dello standard E129 in laboratorio, abbiamo optato per
l’esecuzione di un’ulteriore analisi: lo spettro UV dei coloranti. Abbiamo colto l’occasione per
effettuare anche uno spettro del Powerade orange, per una maggiore sicurezza.
Per procedere con lo spettro UV, si scioglie una goccia del colorante estratto dalla bevanda in una
soluzione 0.02 M di acetato di ammonio. Si esegue quindi lo spettro. Infine, nel caso del Burn, si
confronta il valore dell’assorbimento con quello teorico di 502 nm. Nel caso del Powerade orange
si fa un raffronto fra gli spettri ottenuti con la miscela di coloranti estratta dalla bevanda e i
coloranti standard.
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Risultati
Spettro UV del Burn
Spettro UV del Powerade orange
Spettro UV dello standard E104
Spettro UV dello standard E110
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Valori teorici di assorbimento 45:
E104:
max 290 nm
max 416 nm
E110:
max 235 nm
max 314 nm
max 482 nm
Commento ai risultati
Per quanto riguarda la cromatografia, per rilevare i risultati è meglio fare riferimento all’immagine
della lastra, piuttosto che ai valori di ritensione (Rf).
Burn: come già anticipato, ci risulta pressoché improbabile fare un riferimento alla cromatografia
per stabilire quali coloranti contenga questa bevanda. Precisamente, consultando gli ingredienti
indicati sull’etichetta della bibita in questione, abbiamo osservato che i coloranti presenti nel Burn
sono l’E129 e l’E150d. sfortunatamente questi coloranti, come già più volte accennato, non sono
presenti in laboratorio. Da questo punto di vista ci risulta, dunque, difficile trarre delle conclusioni.
A questo punto, una valida alternativa, la giocano gli spettri UV. Infatti, nello spettro della
bevanda, si nota l’assorbimento a 502 nm (cerchio rosso), standard docet. Finalmente possiamo
dedurre che un colorante contenuto nel Burn sia l’E129.
Powerade orange: osservando la lastra (vedi indicazioni in blu) constatiamo che la traccia segnata
dalla nostra bevanda combacia, prima, con quella dello standard E104 e più in su, con quella
dell’altro standard, l’E110. I valori di ritensione ottenuti ci permettono di dedurre con più certezza
nel primo caso (sotto), un po’ meno nel secondo (sopra), che i coloranti contenuti in questa
bevanda siano l’E104, rispettivamente l’E110. Infatti il primo risultato coincide esattamente con
quello del giallo di chinolina, il secondo si distanzia solo di 0.05 da quello del giallo tramonto. Pure
confrontando gli spettri UV risulta quanto dedotto finora. L’etichetta del Powerade orange
dichiara di contenere, come coloranti, l’E104 e l’E110, confermando così le nostre analisi.
4.2. Ricerca qualitativa degli zuccheri
Obiettivo dell’esperienza
Lo scopo di questi test è dimostrare qualitativamente la presenza di zuccheri nelle bevande
energetiche.
Introduzione all’esperienza
Molti alimenti contengono zuccheri riducenti 46 (ad esempio glucosio e fruttosio), e la loro
presenza può essere facilmente dimostrata ricorrendo alla reazione di Fehling. A questo fine
45
Tratti da: Schweizerisches Lebensmittelbuch
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occorre innanzitutto preparare il reattivo di Fehling, un reagente specifico per le sostanze con
carattere riducente, suddiviso in Fehling A e Fehling B. Nel nostro caso le due soluzioni sono già
pronte in laboratorio, ma è bene conoscere la loro composizione:
Reattivo di Fehling A: in 100 mL di acqua distillata o deionizzata si sciolgono 7 g di solfato di rame
(CuSO4), un sale di colore blu e facilmente reperibile in quanto molto usato in agricoltura e
giardinaggio.
Reattivo di Fehling B: in 80 mL di acqua distillata calda si sciolgono 34 g di sale di Seignette
(tartrato doppio di sodio e potassio, reperibile in farmacia) e 12 g di idrossido di sodio (NaOH), si
lascia raffreddare la soluzione e poi si aggiunge acqua sino a 100 mL.
Le due soluzioni vanno conservate separatamente; si mescolano in parti uguali solo al momento
dell’uso e nella quantità necessaria per l'esperienza. La miscela delle due soluzioni, che ha un
colore blu intenso, deve essere utilizzata entro non più di 10 minuti dalla preparazione.
Spiegazione dell’esperienza
È opportuno sapere che gli zuccheri possono comprendere due tipi di gruppi funzionali: aldeidico o
chetonico (vedi capitolo zuccheri). Il primo attribuisce un potere riducente maggiore del secondo.
Questo perché i chetoni difficilmente si ossidano, ma si possono ridurre ad alcoli secondari
(addizione di H2), mentre le aldeidi si possono ossidare ad acidi carbossilici (R-COOH), trovandosi a
loro agio nelle vesti di riducente.
La verifica sperimentale di quanto detto sopra si effettua, come anticipato nell’introduzione, con il
reattivo di Fehling. In questo reattivo è presente del Cu2+, ione dal tipico colore blu, che può essere
ridotto a Cu+, precipitando sotto forma di Cu2O (colore mattone), per azione di un agente
riducente.
Bevande utilizzate: Red Bull sugarfree (light) e Migros Budget energy drink
Procedimento
Esecuzione di un test qualitativo per gli zuccheri riducenti (test di Fehling)
1. Si decolora circa 50 mL di bevanda con del carbone attivo.
2. Si filtra la soluzione ottenuta.
46
Se nel corso di una reazione chimica, un atomo c ede elettroni, si dice che la specie chimica si ossida. Con il termine
riducente si intende un elemento o un composto chimico che tende a cedere elettroni.
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3. Si pipetta in un recipiente 10 mL di reattivo di Fehling (5 mL di
soluzione A e 5 mL di soluzione B) e 40 mL di acqua distillata. Si
fa bollire la soluzione e si aggiunge poco a poco la bevanda
decolorata (aggiungerne circa 25 mL al massimo).
4. In presenza di zuccheri riducenti, il liquido acquisterà una
colorazione rosso mattone (Cu2O).
Risultati
Fase di filtraggio (punto 2)
Composto ottenuto dalla reazione tra la
bevanda decolorata Migros Budget energy drink
e il reattivo di Fehling.
Fasi di pipettaggio del Red Bull sugarfree:
Commento ai risultati
L’energy drink della Migros budget, al termine del test qualitativo per gli zuccheri riducenti,
assume una colorazione rosso mattone-arancione. Questo sembrerebbe dimostrare che la
bevanda contenga zuccheri riducenti.
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Di principio, la Red Bull light, che per la sua natura è priva di zuccheri, non dovrebbe contenere
nessuna di queste sostanze. Tuttavia, con nostro stupore, al termine del test sugli zuccheri
riducenti presenta sfumature di rosso mattone. Ciò ci ha portati ad effettuare un secondo
tentativo, ma l’esito non è cambiato. Lo stupore della scoperta, ovvero della presenza di zuccheri
in una bevanda sugarfree, ha avuto vita breve. Infatti dopo una breve ricerca abbiamo scoperto
che la bevanda contiene il glucoronolattone. Si tratta di un carboidrato che nulla ha a che fare con
gli zuccheri riducenti, ma che, possedendo un gruppo aldoso, interagisce con il reattivo di Fehling.
È inserito nelle bibite energetiche con altri scopi (vedi componenti bevande energetiche).
4.3. Test di Tollens per gli zuccheri riducenti
Obiettivo dell’esperienza
Anche in questa analisi si tratta di determinare la presenza di zuccheri riducenti nelle bevande
energetiche.
Introduzione all’esperienza
Con reattivo di Tollens si intende, solitamente, l’idrossiammoniato d'argento, la cui formula
molecolare è Ag(NH3)2+. Tale reagente è utilizzato in chimica per individuare le aldeidi in una
soluzione e distinguerle dai chetoni. Le aldeidi, infatti, reagiscono con il reattivo mediante una
reazione di ossido-riduzione.
Spiegazione dell’esperienza
Gli ioni argento ossidano il gruppo carbonilico delle aldeidi e degli zuccheri riducenti a ione
carbossilato e contemporaneamente si riducono ad argento metallico:
Si osserva precipitazione di un solido nero (argento metallico finemente suddiviso) accompagnata,
se la provetta è sufficientemente pulita e sgrassata e se la reazione è sufficientemente lenta, dalla
formazione di un sottile specchio d'argento, che permette chiaramente di verificare che la
reazione sia avvenuta o meno. Anche se non si forma lo specchio d'argento, qualora si verifichi
formazione di un solido nero o marrone scuro il test si deve comunque considerare positivo.
Bevande utilizzate: Gatorade tropical e Red Bull light
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Procedimento
Dopo aver preparato alcune soluzioni standard di zuccheri (glucosio, fruttosio, saccarosio) alla
concentrazione di circa 1% m/m, si procede alla preparazione del reattivo di Tollens, seguendo la
seguente procedura:
1. In una beuta si mescolano volumi uguali di soluzione al 5% (m/m) di nitrato d'argento e di
soluzione 2 M di idrossido di sodio; gli ioni argento reagiscono con gli ioni ossidrile formando
ossido d'argento, un solido di colore marrone, secondo la reazione (a):
2. Nella sospensione così ottenuta si aggiunge, goccia a goccia ed agitando dopo ogni aggiunta,
una soluzione di ammoniaca al 10%, interrompendo l'operazione non appena il solido si è
disciolto completamente: la soluzione risultante (incolore) è il reattivo di Tollens che, a questo
punto, può essere distribuito tra più provette.
L'aggiunta di soluzione ammoniacale alla sospensione di ossido d'argento determina la
formazione di ioni complessi tra gli ioni argento e l'ammoniaca secondo la reazione (b):
La reazione (b) influisce sulla posizione dell'equilibrio (a) e più precisamente fa spostare
l'equilibrio (a) verso sinistra determinando la dissoluzione dell'ossido d'argento: se la quantità
di soluzione ammoniacale aggiunta è sufficientemente elevata tutto il solido si discioglie e
tutto l'argento si viene a trovare in soluzione, in gran parte come complesso ammoniacale,
Ag(NH3)2+, e in minor percentuale come ione idratato, Ag +(aq).
Avvertenze
•
•
Nel preparare il reattivo bisogna evitare di aggiungere troppa soluzione di ammoniaca
perché un suo eccesso compromette la riuscita del test.
Il reattivo deve essere preparato sul momento. Terminata l’esperienza occorre smaltire
immediatamente il contenuto delle provette e lavarle poiché esso tende, in seguito ad
evaporazione, a formare dei solidi esplosivi come l’argento ammide (AgNH2), il nitruro
d’argento (Ag3N) e il fulminato d’argento (CNOAg).
3. Una volta preparato il reattivo di Tollens, distribuirne due-tre millilitri in ogni provetta (in
totale sono 6). In una provetta si aggiungono alcune gocce della soluzione decolorata della
bibita da testare (diluita 1:4) e, per confronto, nelle altra provette si aggiungono alcune
soluzione all’1% m/m di alcuni standard (glucosio, fruttosio, saccarosio, aldeide formica 0.1%).
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Chimica
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Risultati
Ecco di seguito l’elenco delle provette con i relativi commenti:
Provetta 1: formaldeide
la soluzione si scurisce (precipitazione di Ag finemente suddiviso)
ma non si forma nessuno specchio d’argento;
Provetta 2: glucosio
accenno ad uno specchio d’argento;
Provetta 3: saccarosio
il saccarosio non reagisce, la soluzione rimane quindi invariata;
Provetta 4: Gatorade tropical accenno ad uno specchio d’argento;
Provetta 5: Red Bull light
accenno ad uno specchio d’argento;
Provetta 6: fruttosio
si forma il miglior specchio d’argento del test.
Esempi di alcune provette in cui è avvenuta la formazione dello specchio d’argento
Commento ai risultati
Siccome il test è da considerarsi positivo anche nel caso in cui la soluzione nella provetta assuma
un colore marrone scuro, possiamo affermare che nelle provette 2,4,5 e 6 vi è almeno un accenno
di zuccheri riducenti.
4.4. Determinazione quantitativa degli zuccheri
Obiettivo dell’esperienza
Quantificare gli zuccheri presenti in 100 mL di bevanda e confrontare i risultati ottenuti con il
valore dichiarato sull’etichetta dell’energy drink.
Bevanda utilizzata: Red Devil (zuccheri dichiarati in etichetta: fruttosio e saccarosio)
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Procedimento
1a titolazione - determinazione degli zuccheri riducenti
1. Il liquido da analizzare deve contenere da 0.5 a 5 g/L di zucchero (altre fonti: massimo 1%,
quindi massimo 10 g/L), per cui bevande molto dolci vanno diluite (es.: 1:5).
A tal fine si può eseguire una determinazione orientativa come segue: in un recipiente si
pipettano 10 mL di reattivo di Fehling (5 mL soluzione A e 5 mL soluzione B) e 40 mL di
acqua distillata. Si fa bollire la soluzione e si aggiunge la bevanda goccia a goccia fino a
quando l’intorpidimento dovuto all’ossidulo di rame acquisti un bel colore rosso mattone.
Se il volume della bevanda aggiunto è 5-10 mL, significa che la concentrazione degli
zuccheri riducenti è minore dell’1% e quindi si può lavorare con la bevanda cosi com’è, se il
volume è inferiore a 5 mL bisogna diluire la bevanda.
2. Si preparano circa 50 mL di bibita diluita (1:5).
3. Si riempie una buretta con la bevanda diluita da analizzare.
4. In una beuta si pipettano 10 mL di reattivo di Fehling (5 mL soluzione A e 5 ml di soluzione
B) e si aggiungono 40 mL di acqua distillata.
5. La soluzione azzurra così ottenuta si porta ad ebollizione, dopodiché si comincia ad
aggiungervi lentamente la bevanda dalla buretta; inizia a formarsi l’ossidulo di rame (Cu2O)
di colore rosso.
6. Per poter cogliere il punto finale della titolazione si
aggiungono alcune gocce di una soluzione di blu di
metilene all’1% come indicatore di ossido-riduzione.
Dopo questa aggiunta il liquido contenuto nella beuta,
che viene mantenuto all’ebollizione durante tutta la
titolazione, assume un colore verdastro come
conseguenza del miscuglio di più colori: il blu
dell’indicatore e del rame complessato non ancora
ridotto, ed il rosso del Cu2O che viene via via a formarsi.
7. Quando tutto il rame è stato ridotto, cioè al punto
equivalente, lo zucchero in eccesso contenuto nella
prima goccia di bevanda riduce il blu di metilene a
leucoderivato incolore e quindi il colore vira dal verdastro al rosso vivo.
8. A questo punto, essendo terminata la titolazione, si legge sulla buretta il volume di
bevanda impiegato e si calcola il contenuto di zucchero (ricordandosi del fattore di
diluizione applicato alla bevanda).
In generale: 1 mL soluzione di Fehling corrisponde a 0.00515 g di zuccheri riducenti.
2a titolazione - determinazione del saccarosio
1. A 20 mL di bevanda diluita 1:5 aggiungere 1 mL di HCl concentrato.
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Gioele Capoferri
Chimica
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2. Agitare e porre il pallone/beuta su bagno maria a 70°C per 15 minuti: in queste condizioni
si ha l’inversione del saccarosio.
3. Raffreddare rapidamente.
4. A questo punto procedere alla determinazione degli zuccheri totali con la titolazione
spiegata precedentemente.
5. Per determinare la quantità di saccarosio presente, sottrarre agli zuccheri totali ottenuti
quelli riducenti ricavati dalla prima titolazione.
Osservazione
a) la difficoltà dell’esperienza e la potenziale fonte di errori sta nel capire il momento esatto in cui
il reattivo di Fehling cambia colore, perché tale cambiamento non è netto ma progressivo;
b) gli zuccheri riducenti si esprimono come grammi di zucchero invertito 47 per litro di bevanda.
1 mL di liquido di Fehling corrisponde a 0.00515 g di zucchero invertito (quindi 10 mL
corrispondono a 0.0515 g di zucchero invertito), da cui si può risalire alla percentuale di
zucchero realmente contenuto nella bevanda.
Risultati
Volume titolante aggiunto = 2.4 mL
0.0515 g
x
=
x = 2.1458
2.4 mL
100 mL
· 5 (fattore di diluizione)
10.7 g/100 mL
2a titolazione
Bevanda
zuccheri indicati
in etichetta
(g/100 mL)
Red Devil
12.50
mL bevanda
Zuccheri
per zuccheri totali (g/100
totali
mL)
2.40
10.70
1a titolazione
mL bevanda
per zuccheri
riducenti
zuccheri
riducenti
(g/100mL)
saccarosio
(g/100 mL)
3.00
8.60
2.10*
* Zuccheri totali – zuccheri riducenti = 10.70 g – 8.60 g = 2.10 g
47
Lo zucchero invertito è semplicemente il saccarosio, che per esigenze dell’industria alimentare (pr ecisamente per
ottener e un prodotto più dolce), viene scisso nei due monosaccaridi, fruttosio e glucosio, di cui è composto. Tale
scissione avviene per idrolisi acida, con la quale la molecola di saccarosio si scinde nei due esosi componenti, il
fruttosio e il glucosio, rendono disponibili i siti carbonilici per una reazione ossido riduttiva. Il saccarosio invertito può
quindi ridurre il reattivo di Fehling. Si chiama “invertito” perché alla fine del procedimento le polarità di partenza
risultano invertite. Infatti il saccarosio ha un potere rotatorio positivo mentre la miscela ha un potere rotatorio
negativo.
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Gioele Capoferri
Chimica
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Commento ai risultati
Possiamo affermare di avere ottenuto un risultato attendibile poiché il valore degli zuccheri totali
riscontrato dalla nostra titolazione non si discosta di molto da quello dichiarato dall’etichetta. La
differenza di circa 1.5 g/100 mL è probabilmente legata alla non facile lettura del cambiamento di
colore durante la reazione, come già anticipato nelle osservazioni. Siccome sull’etichetta di questa
bevanda, come sulla maggior parte degli energy drinks, è indicato un valore generico degli
zuccheri contenuti, non possiamo sbilanciarci sulla quantità di saccarosio da noi misurata.
4.5. Estrazione di caffeina da bevande, analisi qualitativa e
determinazione quantitativa della sua concentrazione
Obiettivo dell’esperienza
Lo scopo primario dell’esperimento è l’estrazione di caffeina da una bevanda energetica, per poi
confrontarne la concentrazione risultata con quella teorica tramite analisi spettrofotometrica, e,
infine, procedere con un’analisi qualitativa.
Bevande utilizzate: Coca Cola e Red Devil
Spiegazione dell’esperienza
Innanzitutto è bene sapere che la caffeina, avendo gruppi funzionali basici (vedi gli atomi di azoto)
è presente perlopiù sotto forma protonata, i cui cationi (o basi protonate) sono più solubili in un
solvente polare, come l’acqua, che in uno apolare, come il diclorometano.
Quindi per estrarre la caffeina da bevande molto acide, quali Coca Cola e bevande energetiche,
bisogna aggiungere NH3, ovvero ammoniaca (base debole). L’aggiunta di quest’ultima, comporta
un aumento della concentrazione di ioni OH- e in modo indiretto di quella della caffeina non
protonata (per il principio di Le Châtelier, aggiungere OH- equivale a togliere H3O+, e di
conseguenza significa spostare l’equilibrio dalla parte dove si è tolto qualcosa, in questo caso dalla
parte della caffeina non protonata). Di fatto è sotto questa forma che ci interessa: essendo meno
polare è più facilmente estraibile con il diclorometano.
Caffeina in forma basica
(non protonata)
Caffeina in forma acida
(protonata)
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Gioele Capoferri
Chimica
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Procedimento
1. A 25 mL di bevanda sgasata, ovvero agitata con un agitatore magnetico per almeno 5
minuti, si aggiungono alcune gocce di NH3 concentrata, in modo che il pH sia basico
(controllare con la cartina tornasole).
2. Si estrae in un imbuto separatore con 30 mL di diclorometano, agitando per 3-5 minuti. Si
pone la fase sottostante in un becher e si ripete l’estrazione per altre due volte.
3. Si uniscono nel becher le 3 fasi organiche in cui si trova disciolta la caffeina, le si disidrata
con qualche spatola di Na2SO4 e si filtra con un filtro di carta. Si porta a volume 100 mL con
diclorometano in un matraccio.
4. Arrivati a questo punto si possono eseguire due analisi: una qualitativa della caffeina
(spettro UV, cromatografia e punto di fusione) e un’altra spettrofotometrica per
determinare la concentrazione di caffeina nelle bevande.
Fase di separazione delle due fasi
a) Determinazione per via spettrofotometrica della concentrazione di caffeina
- Si effettua con uno spettro UV della caffeina disciolta in diclorometano e lo si confronta
con lo spettro UV della caffeina standard. La lunghezza d’onda di assorbimento massimo
dovrebbe risultare 276 nm.
- 55 -
Gioele Capoferri
Chimica
LAM, Liceo Mendrisio
Risultati:
Spettro UV del
campione
derivato dalla
Coca Cola
Spettro UV del
campione
derivato dalla
Red Devil
- Si prelevano 10 mL di fase organica e si portano a 25 mL con il solvente (diluizione
necessaria per “rientrare” nei parametri dello spettro UV).
A questo punto è bene fare un calcolo sulla diluizione totale (viste le numerose diluizioni
intermedie):
- 56 -
Gioele Capoferri
Chimica
100mL
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25mL
:4
25mL
: 2,5
10mL
Diluizione totale: 1/4 x 1/2,5 = 1/10
Prima di effettuare l’analisi dell’assorbimento UV della bevanda con la soluzione è necessario
preparare una curva di taratura, misurando l’assorbimento a λ max = 276 nm di alcune soluzioni di
caffeina in diclorometano a concentrazione nota, le preparate in questo modo:
Soluzione madre 1:
Soluzione madre 2:
25 mg di caffeina in 50 mL (concentrazione: 0.5 mg/mL)
prelevo 5 mL e porto a 50 mL
(conc.: 0.05 mg/mL)
Dalla sol. madre 2:
prelevo 2 mL e porto a 20 mL
(conc.: 0.005 mg/mL)
prelevo 4 mL e porto a 20 mL
(conc.: 0.01 mg/mL)
prelevo 8 mL e porto a 20 mL
(conc.: 0.02 mg/mL)
prelevo 16 mL e porto a 20 mL
(conc.: 0.04 mg/mL)
Dalla sol. madre 1: prelevo 10 mL e porto a 20 mL
(conc.: 0.25 mg/mL)
Misurando l’assorbimento di tutte le soluzioni a concentrazione nota si ottiene la seguente curva
di taratura della caffeina:
assorbimento
curva di taratura caffeina (caff3)
2.5
2.4
2.3
2.2
2.1
2
1.9
1.8
1.7
1.6
1.5
1.4
1.3
1.2
1.1
1
0.9
0.8
0.7
0.6
0.5
0.4
0.3
0.2
0.1
0
y = 47.332x
0
0.005
0.01
0.015
0.02
0.025
concentrazione [mg/mL]
0.03
0.035
0.04
0.045
Adesso si misura l’assorbimento della bevanda e poi grazie alla retta costruita e alla legge di
Lambert-Beer si può conoscere il valore della concentrazione di caffeina nella bevanda.
- 57 -
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Chimica
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Risultati:
bibita
Coca
Cola
Red
Devil
assorbimento concentrazione concentrazione effettiva contenuto di caffeina massa caffeina
misurata(mg/mL) nella bibita (mg/100 mL) teorico (mg/100 mL) pesata
0.5017
0.0106
10.6
10
x
1.8221
0.0385
38.5
33.8148
x
x: massa insufficiente, non rilevante.
b) Purificazione della caffeina e analisi:
si concentra la fase organica con il
rotavapor49, dopodiché si può purificare
la caffeina per cristallizzazione ed
effettuare una cromatografia come
descritto più avanti, o eventualmente
misurare la temperatura di fusione (se si
ricava sufficiente caffeina). Il punto di
fusione della caffeina è di 235°C, più il
valore si abbasserà, più la caffeina
estratta sarà impura.
Rotavapor
Cromatografia su strato sottile della caffeina
Questa analisi ci permetterà di determinare se il nostro estratto contiene caffeina.
Procedimento:
- Sulla lastra si deposita in un punto prestabilito qualche goccia di caffeina standard, nel punto
successivo qualche goccia dell’estratto di Coca Cola disciolto in diclorometano e nell’ultima
posizione qualche goccia dell’estratto di Red Devil, anch’esso disciolto nel solvente diclorometano.
- Si effettua una cromatografia su strato sottile utilizzando due diversi solventi di sviluppo:
•
solvente A: acetato di etile 85%, metanolo 10%, ammoniaca 5%;
•
solvente B: diclorometano 97%, etanolo 2%, ammoniaca 1%.
48
Valore estratto da http://www.energyfiend.com/caffeine-content/red-devil
L'evaporatore rotante o Rotavapor, è un apparecchio utilizzato comunemente per allontanare i solventi da una
soluzione di un composto d'interesse, tramite evaporazione a bassa pressione
49
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Chimica
LAM, Liceo Mendrisio
- Dopo una mezzoretta si estraggono le lastre dai solventi A e B per osservarle con la lampada UV.
Commento ai risultati
a) In entrambi gli spettri UV si nota l’assorbimento a 279 nm (vedi il picco cerchiato),
confermando che il composto derivato dalla bevanda contiene caffeina, in quanto
anch’essa assorbe a 279 nm.
Si può affermare con discreta certezza che il valore del contenuto di caffeina indicato
sull’etichetta da Coca Cola corrisponde suppergiù al valore ottenuto dalla nostra analisi,
anche se quest’ultima è condizionata da possibili imprecisioni derivate dalla sperimentalità
e dal lavoro nel laboratorio. A conferma di questo fatto è il valore ottenuto con l’altra
bevanda, la Red Devil: la concentrazione effettiva ottenuta di caffeina si distanzia, anche se
solo di 4.69 mg/100mL, dal valore dichiarato dalla casa produttrice. Rimane comunque il
dubbio se non sia quest’ultima ad indicare un valore inferiore di caffeina a quello
realmente contenuto.
b) Per quanto riguarda la cromatografia, è stato necessario effetturare la cromatografia due
volte, visto che la prima volta la concentrazione di caffeina seminata sulla lastra era troppo
piccola. A livello qualitativo, la cromatografia ci ha consentito di confrontare la nostra
caffeina estratta con la caffeina standard: visto che le distanze percorse dalle due macchie
nel solvente è la stessa, possiamo concludere che il nostro estratto conteneva caffeina.
c) La quantità di caffeina estratta non è stata sufficiente per effettuare il punto di fusione.
4.6. Estrazione dell’acido citrico
Obiettivo dell’esperienza
Lo scopo principale di questo test è l’estrazione dell’acido citrico a partire dal succo di pompelmo.
Introduzione all’esperienza
L’acido citrico è una molecola organica appartenente alla famiglia degli acidi carbossilici. La sua
formula molecolare è C 6H8O7 e quella di struttura50:
Venne isolato la prima volta nel 1784 da Carl Wilhelm Scheele.
50
Immagine tratta da: http://it.wikipedia.org/wiki/Acido_citrico
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Chimica
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Si presenta come una sostanza solida, essenzialmente incolore e solubile in acqua.
È uno degli acidi organici più diffusi nel regno vegetale: lo si trova in quasi tutta la frutta (limone,
pompelmo, ribes, mirtillo, cedro,…), nei legni, nei funghi, nel tabacco (in cui si trova sotto forma di
sale di potassio e calcio). Per avere un’idea sulla sua concentrazione, il succo di limone ne contiene
il 5-7%. Lo si può trovare persino nel vino e nel latte. È presente anche in tutti i tessuti degli esseri
viventi aerobici (incluso l'uomo) ed è qui che ricopre il ruolo di maggiore importanza: infatti è un
prodotto intermedio nel catabolismo dei carboidrati. Per questo motivo il relativo processo
biochimico che prende il nome di ciclo di Krebs è anche chiamato ciclo dell’acido citrico.
Nell’organismo umano, somministrato a basse dosi, promuove la rigenerazione ossea, mentre a
dosaggi elevati può risultare tossico (test di laboratorio eseguiti su dei topi evidenziano una LD5051
di 3 g/kg).
In origine lo si ricavava dal succo di limone mediante un complesso processo chimico. Al giorno
d’oggi, grazie all’evolversi della tecnologia, lo si ottiene da un fungo transgenico (Aspergillus
niger).
Nell'industria alimentare viene impiegato come additivo alimentare (acidulante e/o conservante)
ed identificato con la sigla E 330. L’acido citrico è anche utilizzato in campo farmaceutico
(anticoagulante nella conservazione del sangue estratto, farmaco contro certi tipi di calcoli renali,
antiacido, come conservante in alcuni medicinali,…) e nei detersivi (come agente sequestrante del
calcio, per ridurre gli effetti della durezza dell’acqua).
Procedimento
1. Si parte da 50 mL di succo, si aggiunge ammoniaca fino a reazione alcalina (verificare con la
cartina tornasole, che deve assumere un colore blu). Il colore della soluzione diventa più scuro
per la formazione di citrato di ammonio secondo la reazione:
2. Si elimina, se il caso, la parte insolubile della soluzione mediante filtraggio.
3. Per separare l’acido citrico dalle altre sostanze solubili si deve trasformare il citrato di
ammonio in un sale di calcio, che è difficilmente solubile. A questo scopo si mette il filtrato in
un bicchiere da 600 mL e si aggiunge una soluzione composta da 15 g di CaCl2 e 40 g di H2O.
4. Si porta ad ebollizione, in modo che appaia un precipitato bianco fioccoso costituito da citrato
di calcio.
51
In tossicologia il termine LD 50 (che in inglese sta per "Lethal Dose, 50%") si riferisce alla dose di una sostanza,
somministrata in una volta sola, in grado di uccidere il 50% (cioè la metà) di un determinato numero di cavie
(generalmente ratti).
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Chimica
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5. Si raffredda e si filtra; si lava il residuo sul filtro con acqua e si pone in un bicchiere, a cui si
aggiungono 15 mL di H2O.
6. Per liberare l’acido citrico, occorre fissare il Ca in un sale più difficilmente solubile del
precedente (CaSO4), preparando una soluzione formata da
1.25 mL di H2SO4 concentrata in 3.75 mL di H2O (attenzione, si
tratta di una reazione esotermica) e versandola nel bicchiere
contente il citrato di calcio.
7. Si porta ad ebollizione e poi si filtra il CaSO4.
8. Si scalda il filtrato contente l’acido citrico disciolto, a fiamma
bassa, finché non compaiono dei cristalli. Si lascia raffreddare
in modo che i cristalli si moltiplichino.
9. Si filtra, si essiccano i cristalli e si verifica il punto di fusione
(circa 100°C, anidro 153°C)
10. Si calcola la resa cercando di prevedere in quali punti vi
possono essere state delle perdite. La resa teorica è di circa il
10%.
Soluzione d’acido citrico in ebollizione
Risultati
Massa iniziale: 50 mL 51.4 g
Resa finale teorica: ca. 5 g
Resa finale effettiva: 0.042 g
Commento ai risultati
Riscontrando una resa effettiva molto inferiore alla resa teorica, e quindi al di sotto delle
aspettative, abbiamo provato a ipotizzare delle possibili cause:
- un eccessivo riscaldamento del prodotto intermedio all’ottavo punto del procedimento;
- i numerosi filtraggi operati durante il test (vedi procedimento).
4.7. Sintesi di un estere (n-ottilacetato)
Obiettivo dell’esperienza
Lo scopo è di ottenere l’n-ottilacetato (o acetato di ottile), un estere, mediante una reazione di
esterificazione.
Introduzione all’esperienza
Le proprietà organolettiche di un estere sono sfruttate dall’industria alimentare per potenziare
l’aroma di una bevanda. Per questa sua funzione “integrante” l’estere gioca un ruolo
fondamentale negli aromatizzanti, una delle più vaste e conosciute classi di additivi alimentare.
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Chimica
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Nel nostro caso, l’n-ottilacetato è responsabile dell’odore d’arancio (un aroma tipico delle
bevande energetiche). Formula di struttura dell’acetato di ottile:
gruppo carbonile
catena alifatica (alcani)
L’estere è il prodotto della reazione fra un alcool e un acido carbossilico (esterificazione di Fischer).
Nel presente esperimento prepareremo l’n-ottilacetato per esterificazione diretta dell’acido
acetico con ottanolo, impiegando l’acido solforico come catalizzatore.
+
H
Poiché l’equilibrio è sfavorevole alla formazione dell’estere, esso deve essere spostato verso
destra (a vantaggio del prodotto). Normalmente per avere questo risultato si usa un eccesso di
uno dei due reagenti (secondo il principio di Le Châtelier). Nel nostro caso il reagente in eccedenza
è l’acido acetico, e la reazione è quindi:
+
H
CH3COOH + CH3(CH2)7OH
acido acetico
ottanolo
CH3COO(CH2)7CH3 + H2O
acetato d’ottile
Procedimento
1. Si mettono 13 g di alcool ottilico e 25 g di acido acetico in un
pallone da distillazione da 250 mL.
2. Si aggiungono con cautela circa 20 gocce di H2SO4 (attenzione,
trattasi di una reazione esotermica).
3. Si aggiungono alcune pietrine di ebollizione.
4. Si attacca un condensatore e si scalda per circa un’ora.
5. Si raffredda la miscela, la si diluisce con 20 mL di acqua ed si
estrae due volte con 20 mL di diclorometano.
6. Si versa la miscela ottenuta in un imbuto separatore e si
aggiungono con cautela 55 mL di acqua fredda; si risciacqua
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condensatore
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Chimica
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il pallone vuotato con 10 mL di acqua fredda e si versa il risciacquo nell’imbuto, agitando con
una bacchetta di vetro.
7. Si tappa l’imbuto e si agita rigorosamente per diverse volte
(durante l’agitazione si fa sfiatare l’imbuto separatore a causa
della produzione di CO 2); si lascia infine emulsionare le diverse
fasi della miscela.
8. Si separa lo strato acquoso inferiore dalla fase organica
superiore (D = 0.87 g/mL), dove rimane l’estere, fino a
scartare totalmente lo strato acquoso (accertandosi di aver
conservato la fase organica).
9. L’estere grezzo nello strato organico contiene un po’ di acido
acetico, che si può eliminare per lavaggio con soluzione
acquosa al 5% di bicarbonato sodico (Na2CO3). Si aggiungono
cautamente 25 mL di tale soluzione allo strato organico,
imbuto sepa ratore
agitando poi l’imbuto con movimento rotatorio finché cessa lo
sviluppo di anidride carbonica.
10. Si separa lo strato acquoso e si ripete l’operazione due o tre volte con altre porzioni di 25 mL di
acqua.
11. Dal sommo dell’imbuto si versa l’estere in una beuta e seccarlo con 2 g di solfato di magnesio
anidro.
12. Si tappa la beuta e la si agita dolcemente con movimento rotatorio, si lascia poi riposare il
tutto finché il liquido diventa limpido (circa 15 minuti) e poi si filtra.
13. Arrivati a questo punto si esegue un’analisi qualitativa del composto ottenuto.
Osservazione
- Invece di 13 g di alcool ottilico e 25 g di acido acetico abbiamo impiegato rispettivamente 13.1 g
e 25.4 g.
- Alla fine dell’esperimento abbiamo versato i risultati di ogni gruppo del nostro LAM in un unico
bicchiere di plastica. Il giorno seguente, la nostra professoressa M. Stamm, sistemando il
laboratorio, ha notato che il contenitore di plastica si è sciolto e il nostro estere è fuoriuscito. Ad
oggi non abbiamo ancora precisamente quale fosse la causa. Siamo comunque riusciti a
recuperare una quantità di estere sufficiente per effettuare la successiva analisi.
Identificazione per spettroscopia infrarossa (spettro IR)
È bene accertarsi che il prodotto sintetizzato sia effettivamente acetato di ottile. Un metodo che ci
permette di procedere nell’identificazione è la spettroscopia infrarossa con la tecnica del film
liquido, che consiste nell’interazione tra la radiazione elettromagnetica e la materia. Per fare ciò
occorre inserire un campione della sostanza ottenuta fra due lastrine di NaCl (attenzione, evitarne
il lavaggio con H20, ma usare cloruro di metilene) e effettuare uno spettro IR. Le bande
d’assorbimento con numero d’onda maggiore di 1500 cm-1 danno indicazioni dei gruppi funzionali
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Chimica
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(vedi tabella qui sotto), mentre la zona compresa tra 700 cm-1 e 1500 cm-1 si chiama “fingerprint”
ed è caratteristica per ogni composto, ma non permette di trarre conclusioni sui gruppi funzionali.
Spettroscopio IR del nostro laborato rio
Risultati
Spettro IR standard dell’acetato di ottile e del composto sintetizzato:
banda degli alcani
banda del gruppo carbonile
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zona del fingerprint
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banda degli alcani
banda del gruppo carbonile
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zona del fingerprint
Resa teorica:
Massa molare CH3(CH2)7OH = 130 g/mol
Massa molare CH3COO(CH2)7CH3 = 173 g/mol
Massa (teorica):
13.1 g
xg
=
x = 17.3 g
130 g / mol
173 g / mol
Resa effettiva: 12.449 g
Commento ai risultati
-
Comparando lo spettro IR ottenuto con quello standard, si nota che entrambi presentano i
picchi di assorbimento degli alcani a circa 3000 cm-1 e del gruppo carbonile a circa 1780 cm-1.
Inoltre anche la zona del fingerprint, caratteristica d’ogni sostanza, combacia. Per questo
motivo possiamo affermare che la sostanza sintetizzata sia realmente acetato di ottile. Un
elemento a supporto di questa considerazione è il fatto che l’odore del composto richiamava
l’aroma d’arancio, aroma tipico di questo estere.
-
La resa effettiva, inferiore di circa 5 g a quella teorica, è da considerare abbastanza buona,
essendo una reazione di equilibrio e poiché durante l’esperimento abbiamo eseguito parecchie
separazioni fra le due fasi, acquosa e organica, della miscela intermedia; parte del prodotto
finale può quindi venire eliminato con la fase acquosa.
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5.
Chimica
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Conclusioni generali
Per concludere mi ritengo soddisfatto di aver svolto questo lavoro di maturità, soprattutto perché
sono riuscito a capire cosa si trova dietro ad un apparentemente semplice prodotto da consumare
in ogni occasione. Apparentemente perché difatti, studiandolo, si rileva complesso, composto da
molteplici sostanze con effetti variabili e di cui, talvolta, scientificamente si conosce ancora ben
poco, soprattutto per quello che riguarda l’azione sull’organismo umano. Dico questo perché
molto spesso noi mangiamo e beviamo inconsapevoli di quello che può contenere l’alimento, e
con questo non intendo che bisognerebbe passare ai raggi x ogni cosa che entra nel nostro
stomaco, bensì semplicemente che qualche volta è utile sapere cosa si nasconde dietro a
determinati prodotti, nel mio caso agli energy drinks. Ora, quelle volte che mi capita di sorseggiarli
e di pensare contemporaneamente a tutto quello di cui sono realmente costituiti, mi ritrovo in una
situazione un po’ più singolare, inconsueta.
Mi sono anche accorto, durante l’elaborazione del mio lavoro, di quanto si possa ampliare un
semplice soggetto, come una bevanda: infatti mi è risultato difficile scegliere i temi da
approfondire puntigliosamente e quelli da mettere “in secondo piano”.
Posso anche affermare di avere avuto un coinvolgimento particolare nella parte pratica del lavoro,
dove ho trascorso la maggior parte delle ore scolastiche dedicate al LAM, e dove, grazie anche a
un bel gruppo, lo svolgimento delle esperienze pratiche non è mai stato né un peso né una noia.
Dagli esperimenti di laboratorio ho pure imparato che qualsiasi cosa si fa, dalle operazioni più
banali ai procedimenti e calcoli eseguiti, fino alle spiegazioni ricevute dalla professoressa, bisogna
sempre prendere nota minuziosamente di tutto perché al momento della stesura può capitare di
non ricordarsene più così bene.
Infine voglio rivolgere un ringraziamento particolare alla mia professoressa, Martha Stamm,
sempre disponibile in ogni momento, anche in orari extrascolastici, e che ha condiviso con il
gruppo le sue conoscenze teoriche nel campo, ma che soprattutto, grazie alla sua esperienza, ci ha
condotti pazientemente durante gli esperimenti pratici, mostrandoci il modo più corretto possibile
di lavorare in un laboratorio chimico e insegnandoci accorgimenti sempre utili in questo ambiente,
ma che non trovi scritti da nessuna parte.
6.
Bibliografia e webgrafia
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tradotto da G. Tarantino. 2002. Caffeina. Storia, cultura e scienza della sostanza più famosa del
mondo. Donzelli Editore.
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biologici. Pubblicato da GAIA srl - Edizioni Univ. Romane.
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Gioele Capoferri
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Giuseppe Arienti. 2003. Le basi molecolari della nutrizione. Pubblicato da PICCIN
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