La mente liberata. Dialoghi sulla pratica del buddhismo nell’era della crisi e della
globalizzazione
Libro intervista a cura di Leonardo Libenzi. Su Amazon, in formato cartaceo e digitale.
Intervista al Ven. Ghesce Thubten Dargye
Estratto da:
La mente liberata.
Dialoghi sulla pratica del buddhismo
nell’era della crisi e della globalizzazione
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globalizzazione
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La mente liberata
Dialoghi sulla pratica del buddhismo
nell’era della crisi e della globalizzazione
Libro intervista a cura di Leonardo Libenzi
Introduzione di Maria Immacolata Macioti
(Sapienza - Università di Roma)
Illustrazioni fotografiche di Gabriella Parra
La mente liberata. Dialoghi sulla pratica del buddhismo nell’era della crisi e della
globalizzazione
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Sommario
Leonardo Libenzi
Nota del curatore
Maria Immacolata Macioti
(Sapienza - Università di Roma)
Introduzione
Parte prima
Maestri di Dharma
Scuola tibetana Gelug
Intervista al Ven. Ghesce Thubten Dargye
Istituto Samantabhadra, Roma
Intervista al Ven. Ghesce Tenzin Tenphel
Istituto Lama Tzong Khapa, Pomaia
Intervista alla Ven. Cristiana Ciampa Tsomo
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LCL, Tārā House, Madonie
Dzogchen
Intervista al maestro Khyentse Yeshe
International Dzogchen Community
Scuola Theravāda
Intervista al Ven. Ajahn Chandapalo
Monastero Santacittārāma, Poggio Nativo
Scuola Tendai
Intervista a Riccardo Chushin Venturini
Istituto di Cultura Buddhista
Buddhayāna
Intervista al maestro Mario Thanavaro
Associazione Amita Luce Infinita
Intervista al Rev. Franz Seiun Zampiero
Tempio Tenryuzanji del Lagorai
Seon (Zen coreano)
Intervista al Rev. Taeri sunim
Tempio Zen Musang Am, Comunità Bodhidharma, Lerici
Parte seconda
Unione Buddhista Italiana e Fondazione Maitreya
Intervista a Giorgio Raspa
Presidente Unione Buddhista Italiana
Intervista a Maria Angela Falà
Presidente Fondazione Maitreya
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Parte terza
Buddhismo e scienze umane
Intervista a Bianca Pescatori e Loredana Vistarini
Centro Italiano Studi Mindfulness
Intervista ad Antonino Raffone
Dipartimento di Psicologia Sapienza - Università di Roma
Intervista a Francesco La Rocca
Associazione Dare Protezione
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Intervista al Ven. Ghesce Thubten Dargye
Istituto Samantabhadra, Roma
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Ghesce Thubten Dargye nasce nel 1949 a Tashigang, in Bhutan. All’età di
quindici anni conosce il suo primo maestro, un Lama Gelug1 dal monastero di
Tawang, in Arunachal Pradesh (India), giunto in Buthan per dare insegnamenti:
studierà sotto la sua guida per i successivi quattro anni.
Nel 1960 è il primo monaco buddhista di tradizione Gelug ad essere ordinato in
India dopo la fallita rivolta tibetana del 1959 e l’esilio indiano di SS. il Dalai Lama2 e
di molti altri grandi maestri. Riceve i voti dal Ven. Serkong Tsenshab Rinpoche,
maestro dello stesso Dalai Lama e riconosciuto all’epoca come il più alto tra i lama
reincarnati presenti al monastero di Gaden3. Studia presso il medesimo monastero
1
La Gelug - termine tibetano che possiamo tradurre come “I virtuosi”, o “Modello di virtù” - è una
scuola buddhista riformata, nota anche come “Scuola dei Cappelli Gialli”, fondata in Tibet da Lama
Tsongkhapa (1357-1419), il quale ripristinò una corretta disciplina monastica e si dedicò alla
diffusione delle dottrine fondamentali del Mahāyāna e del Vajrayāna, proponendo una sintesi tra la
Via dei Sūtra e la Via dei Tantra. Il suo testo Lam-rim Chen-mo (“Il grande sentiero graduale”),
commentario al Lam Rim del monaco buddhista bengalese Atiśa (982-1054), è tutt’oggi il
fondamento della dottrina e della pratica di questa scuola.
Il capo supremo della tradizione Gelug è il Ganden Tripa (in tibetano “Detentore del Trono di
Ganden”), il cui lignaggio risale al 1409 - anno in cui Lama Tsongkhapa fondò vicino a Lhasa il
monastero di Ganden, uno dei più importanti centri di studio e pratica di questa tradizione, trasferito
a Karnataka, nell’India meridionale, dopo l’invasione cinese del Tibet. La Gelug, al pari delle altre
scuole di buddhismo tibetano, riconosce inoltre il Dalai Lama come massima autorità spirituale del
Tibet, in quanto manifestazione di Avalokiteśvara, il Buddha della Compassione.
Figura centrale, nella scuole del buddhismo tibetano Mahāyāna, è il bodhisattva che coltiva la
mente del risveglio (Bodhicitta), l’aspirazione a raggiungere la suprema illuminazione di un buddha
per il beneficio di tutti gli esseri senzienti, senza eccezioni. Tutta la vita del bodhisattva, dal gesto
più eroico fino alla più piccola azione quotidiana, è incentrata su questa assunzione di
responsabilità.
“Al mattino, quando vi alzate,” scrive Lama Zopa Rinpoche, guida spirituale della FPMT Fondazione per la Preservazione della Tradizione Mahāyāna, “pensate al significato della vostra
responsabilità universale: «Sono responsabile di tutti gli esseri. Agirò per pacificare la loro
sofferenza e offrire loro la felicità». Mentre vi vestite, pensate: «Indosso questi abiti perché ho
bisogno di assumermi la responsabilità universale». Quando mangiate, ricordate di nuovo il
significato, lo scopo di questa preziosa vita umana. Pensate al cibo come a una medicina per
mantenervi forti, così da servire meglio tutti gli esseri. Andando a dormire, ancora una volta,
ricordate il significato di questa vita umana. Anche il sonno è una medicina: andate a letto per
riposarvi, in modo che l’indomani possiate di nuovo lavorare con diligenza per assumervi la vostra
responsabilità universale. Svolgete tutte le vostre attività per gli altri. Mangiate per gli altri, dormite
per gli altri, lavorate, vivete per gli altri. E quando sarà giunto il momento di morire, morite per gli
altri.” (Lama Zopa Rinpoche. Il cammino della felicità. Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2011)
2
Tenzin Gyatso (nato nel 1935), attualmente in carica come XIV Dalai Lama del Tibet. Sito
ufficiale: www.dalailama.com
3
Per approfondimenti:
www.samantabhadra.org/kyabje-tsenshab-serkong-tugse-rinpoche; fpmt.org/teachers/lineage-lamas/
serkong
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sotto la guida di vari maestri qualificati, tra cui gli abati Kensur Yeshe Gawa, Kensur
Sonam Gyaltsen4 e Khenpo Atso Sonam Kunga. Nel 1994 consegue il titolo di studio
di Ghesce Lharampa5. Dopo gli esami, viene scelto per dibattere davanti a Sua
Santità il Dalai Lama a Dharamsala, davanti a un’assemblea di Maestri e monaci
proveniente dai più grandi monasteri in India.
Una volta conseguito il titolo, trascorre un anno nel monastero tantrico di
Gyudmed6, dove studia i testi tantrici. Successivamente torna in Bhutan, e nei sei
anni successivi fa numerosi ritiri in alta montagna, accompagnato da un piccolo
gruppo di discepoli.
Nel 2002 viene richiamato dal suo monastero per guidare un tour di monaci
della durata di un anno negli Stati Uniti e in Canada. Nel 2005, sempre su richiesta
del monastero, conduce un tour simile in Italia e in altri paesi europei. Tra il 2006 e il
2007 insegna in un centro buddhista in Taiwan.
Dalla primavera del 2012 è maestro residente e guida spirituale dell’Istituto
Samantabhadra di Roma. Conduce ritiri e dà insegnamenti in vari centri di Dharma
del territorio italiano.
4
Per approfondimenti: www.samantabhadra.org/geshe-sonam-gyaltsen
5
Termine tibetano, letteralmente «dottore in studi buddhisti». Titolo conferito agli studiosi di
filosofia monastica delle principali scuole buddhiste tibetane (Kadampa, Sakyapa, Gelug e Bönpo)
che abbiano seguito un iter completo di studi. Ogni scuola, prevede livelli progressivi di erudizione:
il livello più alto, per i Gelug, è quello di Ghesce Lharampa.
6
Sito ufficiale: gyudmedschool.org
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L’Istituto Samantabhadra, Centro per lo studio e la pratica del buddhismo
Mahāyāna7 di tradizione tibetana Gelug, è stato fondato nel 1981 dal Ven. Maestro
Ghesce Jampel Senghe8 , discepolo diretto del grande Lama Pabongka Rimpoce9, e a
partire dallo stesso anno ha avuto come Tutore spirituale Dagpo Rinpoce10 . Nel 1985,
su espressa indicazione di S.S. Ling Rimpoce, tutore maggiore di S. S. il Dalai Lama,
il Ven. Ghesce Sonam Cianciub11 è divenuto Maestro Residente dell’Istituto.
Membro fondatore dell’UBI - Unione Buddhista Italiana, l’Istituto
Samantabhadra si prefigge inoltre di preservare e tramandare nella loro integrità gli
originali aspetti della millenaria cultura del Tibet, organizzando, in sede o in
7
Mahāyāna, letteralmente “Grande Veicolo”, è un termine utilizzato per indicare tutti gli
insegnamenti buddhisti che mettono al centro della pratica la realizzazione della vacuità e la grande
compassione del bodhisattva che desidera raggiungere la suprema illuminazione al fine di liberare
tutti gli esseri senzienti dalla sofferenza. La dottrina del buddhismo Mahāyāna è stata sviluppata
nell’India settentrionale dalle scuole Mādhyamika e Cittamātra, in particolare presso l’università
buddhista di Nalanda. La figura del bodhisattva Mahāyāna, in questa prospettiva, va ad integrare e
superare, pur senza contrapporvisi, la figura dell’arhat assorto nel proprio stato di emancipazione,
definito “Nirvāṇa statico”, in cui non è in grado di fare nulla per il beneficio degli altri esseri: solo
la benedizione di un buddha gli consentirà di uscire da questa condizione e di intraprendere il
sentiero del bodhisattva. Mahāyāna è comunque un termine tardivo, che appare nelle scritture
buddhiste a partire dal V-VI secolo d.C. “Discordanti,” scrive Luis O. Gòmez. “sono le opinioni
degli studiosi occidentali riguardo all’epoca e alla collocazione geografica delle origini del
Mahāyāna. Alcuni propendono per una origine antica, intorno agli inizi dell’era volgare, tra le
comunità dei Mahāsāṃghikā della regione sud-orientale dell’Andhra. Altri propongono un’origine
nordoccidentale, tra i sarvāstivādin, tra il II e il III secolo d.C. Ma forse è più verosimile pensare,
per la formazione del Mahāyāna, a un processo graduale e complesso, sviluppatosi in varie regioni
dell’India.” (Luis O. Gòmez. Enciclopedia delle Religioni, vol.10. Milano, Jaca Book, 2004) Il
Mahāyāna, alla luce di ciò, non è in alcun modo riconducibile a uno scisma religioso.
8
Per approfondimenti: www.samantabhadra.org/ghesce-jampel-senghe
9
Pabongka Rinpoche, Jampa Tenzin Trinlay Gyatso (1878-1941), uno dei più importanti lama
tibetani del XXI secolo, autore di Liberazione nel palmo della tua mano, uno dei principali testi
contemporanei di Lam Rim adottati della scuola Gelug.
10
Per approfondimenti:
www.gandenling.org/index.php?page=le_venerable_dagpo_rimpotche&language=english
11
Per approfondimenti: www.samantabhadra.org/ven-ghesce-sonam-cianciub
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ubicazioni esterne, corsi di lingua tibetana, arte del maṇḍala12 , astrologia tibetana,
musica, conferenze, mostre, eventi, interventi didattici, in collaborazione con
istituzioni pubbliche ed associazioni culturali.
Contatti:
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12
Maṇḍala, letteralmente “cerchio”, o “essenza”, è un termine sanscrito mutuato dalla tradizione
induista, utilizzato nel buddhismo per indicare la struttura dell’universo esteriore e interiore. I primi
maṇḍala buddhisti fanno la loro prima apparizione nell’ambito della scuola Theravāda, ma hanno
poi la loro massima diffusione nel buddhismo Vajrayāna tibetano. Il maṇḍala è innanzitutto una
rappresentazione mentale dell’universo e della mente; tale struttura può anche essere rappresentata
a livello esteriore, ad esempio per il tramite del mudrā (gesto simbolico) dell’offerta, o di immagini
figurative simboliche che utilizzano forme geometriche e colorate - in primis, i noti dipinti di
sabbia. Ancora, nel Vajrayāna il termine maṇḍala viene utilizzato per designare la dimora, il
palazzo celestiale delle divinità tantriche di meditazione.
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I tempi e i luoghi dell’intervista
Nel marzo del 2011 ho iniziato a seguire con regolarità le lezioni di buddhismo
tibetano condotte da Ghesce Dargye presso l’Istituto Samantabhadra di Roma. Sono
rimasto colpito fin dal primo momento dalla sua saggezza, dalla sua gentilezza e dal
suo spiccato senso dell’umorismo, e ho deciso di diventare suo allievo.
Ho intervistato il maestro nel corso di due incontri, nel luglio del 2012. Ci
siamo ritrovati nella sua stanza di pratica, al secondo piano dell’Istituto
Samantabhadra. Immagini sacre alle pareti, offerte davanti all’altare, candele,
profumo di incensi. Era pomeriggio, fuori dalla finestra, i raggi del sole filtravano
attraverso i rami degli alberi.
Il maestro stava seduto a gambe incrociate su un divano. Il divano era coperto
da una stoffa color zafferano. Al termine dell’intervista, come da tradizione, mi ha
annodato intorno al polso un braccialetto tibetano di fili intrecciati.
Leonardo Libenzi
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Intervista
Com’è avvenuto il suo incontro con il buddhismo?
Mio nonno era un monaco di origini tibetane. Anche mio padre era un
praticante buddhista, e mi ha insegnato i fondamenti del Dharma13 e della lingua
tibetana scritta e parlata. Date queste premesse, il mio incontro con il buddhismo è
stato spontaneo e naturale sin dal primo momento.
13
Il termine sanscrito Dharma, nel corso del tempo, è stato oggetto di molteplici interpretazioni. La
traduzione più generale è “manifestazione”, “realtà”, “fenomeno (sia sacro che non)”. Si
distinguono comunque quattro utilizzi fondamentali del termine: 1) il Dharma, generalmente con
l’iniziale maiuscola, inteso come corpus delle “dottrine del Nirvāṇa”, ossia degli insegnamenti di
Buddha Śākyamuni e di tutti i buddha che nel corso del tempo hanno indicato ai discepoli la via per
conseguire la perfetta illuminazione; in quanto tale, il Dharma è uno dei Tre Gioielli del Rifugio; 2)
i dharma con l’iniziale minuscola, intesi come i vari fenomeni fisici e mentali dell’universo; 3) i
dharma mondani, anch’essi con l’iniziale minuscola, intesi come “dottrine del saṃsāra”, ossia
come qualsiasi teoria e credenza (filosofica, politica, morale, ecc.) che non consenta di trascendere
la dimensione della realtà ordinaria; 4) la Legge Cosmica che regola tutti gli eventi materiali e fisici
del mondo.
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Successivamente ho iniziato a studiare e praticare sotto la guida di un monaco,
che era stato a sua volta in Tibet. A seguito del suo trapasso, mi sono recato in India
per prendere parte ai riti funebri che si sarebbero tenuti in un distretto al confine tra
l’India e il Buthan: lì ho assistito a un grande raduno di monaci tibetani che si erano
trasferiti in India insieme a Sua Santità il Dalai Lama a seguito del suo esilio del
1959. Vedendoli, ho subito provato il desiderio di prendere i voti14 e di unirmi a loro.
Così mi sono trasferito nel sud dell’India, dove via via venivano ricostruiti nuovi
monasteri, e dove ho studiato a lungo per ottenere il titolo di Ghesce.
C’è stato poi un successivo incontro, quello con l’Europa, e in particolare
con l’Italia.
Nel 2005 sono stato incaricato di guidare un tour in Occidente dei monaci del
mio monastero di Gaden Jangtse15. In quell’occasione ho subito creato un legame con
l’Istituto Samantabhadra di Roma, dove sono stato invitato tre anni più tardi per
condurre un ciclo di insegnamenti, e dove infine mi sono trasferito stabilmente.
Fin dalla prima volta, sono rimasto colpito dalla grande quantità di chiese e
monasteri cattolici che si trovano nel vostro paese. Ho intrattenuto solo rapporti
formali con i monaci cattolici, e non intendo in alcun modo esprimere giudizi sulla
loro formazione e sul loro iter di studi; ciò nonostante, trovo che l’organizzazione
della vita monastica in Occidente abbia molti punti di contatto con la vita di un
monaco buddhista - gli spazi comuni, i ritmi della vita quotidiana, il modo in cui
14
Il termine Vinaya, letteralmente “Disciplina”, indica il corpus degli insegnamenti e l’insieme dei
voti e dei precetti, ispirati allo stile di vita di Śākyamuni Buddha, che regolano il comportamento
individuale e la convivenza sociale dei monaci buddhisti: l’essenza di questa disciplina monastica si
riassume nel termine pāli Prātimokṣa, che possiamo tradurre letteralmente come “liberazione
mediante l’eliminazione (di ciò che arreca sofferenza)”. Il Vinaya, nelle principali tradizioni
buddhiste, pone sei principi di armonia basati sul presupposto dell’interdipendenza: 1) armonia
nella condotta etica: tutta la comunità condivide i medesimi principi morali; 2) armonia nelle
visioni: tutta la comunità condivide la comprensione del Dharma - ossia, fondamentalmente, il
percorso per liberarsi dal saṃsāra - e lavora alla sua applicazione; 3) armonia nei requisiti, ovvero
una distribuzione e un utilizzo delle risorse materiali che si basano sui principi dell’equità e del non
attaccamento; 4) armonia nelle azioni del corpo, ovvero la convivenza pacifica all’interno dello
stesso territorio; 5) armonia della parola, ovvero evitare le dispute; 6) armonia della mente, ovvero
apprezzarsi e sostenersi a vicenda.
Nello specifico, esistono due tipologie principali di voti: per i laici e per i monaci (o i novizi); in
entrambe le tipologie sono inclusi alcuni voti specifici destinati agli uomini, e altri destinati alle
donne. Nel corso dei secoli, a seconda della scuola o tradizione di riferimento, nuove regole si sono
aggiunte a quelle originarie, e altre sono cadute in disuso. Nei tre Canoni buddhisti (pāli, cinese e
tibetano), i testi relativi al Vinaya sono contenuti nel canestro denominato Vinayapiṭaka.
15
Sito ufficiale: gadenjangtse.com
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viene preparato il cibo nelle cucine, le attività giornaliere, il voto di castità, e così via.
Questa cosa mi ha fatto un’ottima impressione.
Per quanto riguarda i laici occidentali, di nuovo, non ho avuto modo di
conoscerli uno ad uno, quindi non posso che esprimere un’impressione generale. Ho
visto intorno a me un grande progresso e tanto benessere materiale. Inoltre, sono
rimasto colpito dal grande interesse che occidentali nutrono nei confronti del
buddhismo. Sono molti, insomma, gli aspetti di questa cultura che mi piacciono.
C’è una cosa, però, che mi ha colpito negativamente fin dall’inizio: il rapporto
tra genitori e figli che caratterizza gran parte delle famiglie occidentali. Facendo
visita a molte abitazioni private, ho notato che di rado i figli hanno
quell’atteggiamento di rispetto e di dedizione nei confronti del genitore che invece è
così diffuso nella mia terra d’origine. Ad esempio, quando ci si siede a tavola, le
madri cucinano, apparecchiano, sparecchiano e lavano i piatti; i figli restano a sedere
per tutto il tempo, e si fanno servire e riverire come se fossero degli ospiti. Dalle mie
parti, una cosa del genere sarebbe inconcepibile! [ride]
Ancora, mi ha colpito il modo in cui gli occidentali intendono e vivono il
rapporto di coppia - e non mi riferisco nello specifico al sacramento del matrimonio.
Nella mia terra, i coniugi si prendono realmente l’impegno di affrontare insieme gli
alti e i bassi della vita, come recita il famoso detto “Finché morte non vi separi”:
l’uomo si prende cura della moglie nel bene e nel male, in tutto e per tutto, e non la
abbandona mai; la moglie fa lo stesso con il marito. Qui in Occidente, invece, ci sono
tantissimi casi di divorzio, le coppie si dividono con grande facilità, e questa cosa mi
è parsa molto strana.
Vorrei ora analizzare con Lei alcuni dei principali equivoci e
fraintendimenti che possono sorgere al giorno d’oggi quando si parla di
buddhismo tibetano. Partiamo dal Lam Rim, il Sentiero graduale verso
l’Illuminazione di Lama Tsongkhapa16: un testo fondamentale, a cui molti
occidentali si accostano in modo frettoloso o distratto.
16
Maestro e studioso tibetano (1357-1419), Lama Tsongkhapa viene ordinato con il nome Lobsang
Drakpa. Dopo un lungo di periodo di pratica e studio, nel corso del quale riceve insegnamenti da
grandi maestri di tutte le tradizioni tibetane, all’età di trentasei anni fonda la scuola Gelug. È autore
di diciotto volumi di insegnamenti che approfondiscono molteplici e complesse tematiche relative
ai sūtra, ai tantra e ai Vinaya (la disciplina morale dei laici, dei novizi e dei monaci): tra i suoi
scritti più noti e importanti ricordiamo La Grande Esposizione dei Tantra (Sngags rim chen mo), e
La Grande Esposizione degli Stadi del Sentiero (Lam Rim chen mo), testi centrali della scuola
Gelug.
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Io cerco innanzitutto di far capire alle persone che intraprendere questo
sentiero è molto importante, ma ancora più importante è percorrerlo fino in fondo:
solo in questo modo avremo la possibilità concreta di trasformare alla radice la nostra
mente e la nostra esistenza e di migliorare noi stessi da tutti i punti di vista - la nostra
condotta morale, il nostro carattere, e così via. Solo così diventeremo oggetto di
rispetto e di riverenza per tutti quelli che ci circondano.
Ancora, illustro alle persone le quattro caratteristiche - o qualità eccelse - che
contraddistinguono tutti gli insegnamenti contenuti nel Lam Rim, e i vantaggi che
derivano da tali qualità.
Innanzitutto, grazie a una pratica costante e sincera, saremo in grado di
recepire ogni singola parola del Buddha come un’istruzione preziosa particolare: in
altri termini, tutte le parole del Buddha ci saranno ugualmente utili e indispensabili, e
non ci sarà nessun aspetto da scartare.
In secondo luogo, riusciremo a capire e a recepire in un tempo relativamente
breve tutti gli infiniti insegnamenti del Buddha contenuti in centinaia e centinaia di
volumi: il Lam Rim è infatti la perfetta sintesi dell’intero Canone buddhista tibetano17
- il Kangyur e il Tenjur - e ci aiuta a comprendere facilmente, senza sforzare la mente,
una gamma infinitamente ampia di concetti e di significati.
In terzo luogo, saremo in grado di percepire l’assenza di contraddizioni interne
tra i vari insegnamenti del Buddha: senza questa profonda visione d’insieme, è facile
17
Il Canone tibetano è uno dei tre canoni che vanno a comporre il Canone buddhista, l’insieme dei
testi sacri buddhisti: gli insegnamenti contenuti in questi testi sono direttamente attribuiti alla parola
di Buddha Śākyamuni.
Il Canone pāli, noto anche come “Triplice canestro” (in sanscrito Tripiṭaka, in pāli Tipiṭaka), è la
più antica raccolta di testi canonici buddhisti a noi pervenuta fino ad oggi. È suddiviso in tre
sezioni: 1) il Suttapiṭaka, o “canestro dei discorsi”; 2) il Vinayapiṭaka, o “canestro della disciplina
monastica”; 3) l’Abhidhammapiṭaka, o “canestro della conoscenza superiore dei fenomeni”.
A questo primo Canone, tutt’ora utilizzato dai praticanti Theravāda, si sono in seguito aggiunti il
Canone cinese e il Canone tibetano.
Il Canone cinese è la raccolta sistematica di tutte le traduzioni in cinese di testi buddhisti realizzate
a cavallo tra il I e il XII secolo d.C.. La prima stesura del Canone è attribuita al monaco Dao’an (IV
secolo d.C.); la raccolta, nel corso del tempo, è stata sottoposta a numerosi aggiornamenti e
revisioni, e dalla Cina si è diffusa in Corea in Vietnam e in Giappone.
Il Canone tibetano si è formato gradualmente a cavallo tra l’VIII e il XIII secolo d.C., e ha assunto
la sua forma definitiva grazie al monaco Butön Rinchen Drup (1290-1364). Il Canone è formato da
due grandi raccolte di testi: il Kangyur, “La raccolta delle parole del Buddha”, che comprende una
selezione di scritti attribuiti direttamente a Buddha Śākyamuni, in quanto provenienti, senza
eccezione, dai sūtra e dai tantra dei canoni indiani; e il Tenjur, “La raccolta degli insegnamenti
tradotti”, che comprende inni e lodi al Buddha, commentari a vari sūtra e testi di tantra, più alcuni
trattati di medicina e opere della letteratura indiana.
Ogni Canone, ad oggi, contiene alcuni testi specifici che non appaiono più o non sono mai apparsi
all’interno degli altri due Canoni.
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cadere in errore, come accade ad esempio quando le persone affermano che il tantra18
non è un vero insegnamento del Buddha, o come chi, al contrario, si interessa
18
Termine mutuato dal buddhismo Vajrayāna (letteralmente “Veicolo adamantino”), noto anche
come Tantrayāna (“Veicolo dei Tantra”), o Mantrayāna (“Veicolo dei mantra segreti”), che
comprende le scuole e i lignaggi Mahāyāna che hanno accolto al proprio interno i cosiddetti “mezzi
abili” (upāya), pratiche e dottrine che consentono al praticante di accedere più velocemente
possibile alla conoscenza suprema (Prajñā), anche nell’arco di poche vite, o di una sola esistenza.
Ad oggi, il Vajrayāna è conosciuto e praticato in numerosi stati europei ed americani, grazie
specialmente alle scuole tibetane, il che porta molti occidentali ad identificare erroneamente questa
tradizione unicamente con il buddhismo tibetano: le prime testimonianze storiche del Vajrayāna
risalgono in realtà all’India del VI-VII secolo d.C.; successivamente la tradizione si è diffusa in
tutta l’area culturale del Tibet, e anche in Giappone (scuola Shingon). Le origini del Vajrayāna sono
tutt’oggi avvolte nel mistero: secondo gli storiografi, la tradizione ha avuto origine dall’integrazione
sincretica tra il buddhismo Mahāyāna ed elementi mutuati dalla tradizione induista, dallo
sciamanesimo e dalla magia popolare; secondo il Vajrayāna, le medesime pratiche sono state
insegnate segretamente ai primi maestri dallo stesso Buddha Śākyamuni e da altri buddha e
bodhisattva trascendenti, e sono state divulgate gradualmente, nel corso dei secoli, ogniqualvolta si
sono create le condizioni appropriate - da qui l’imprescindibilità della relazione diretta con il
maestro spirituale, o guru, che non si limita ad insegnare le pratiche al discepolo, ma gli trasmette
benedizioni e iniziazioni in accordo a un lignaggio ininterrotto che risale, di in maestro in maestro,
fino alla rivelazione originaria. Il termine tantra indica da un lato l’insieme dei testi Vajrayāna in
cui i mezzi abili vengono esposti a livello sia teorico che pratico; dall’altro, il contenuto stesso dei
testi. Dal punto di vista metodologico, i tantra comprendono specifiche sequenze di pratiche e
rituali, dette sādhanā (letteralmente, “mezzo di realizzazione”), che variano a seconda delle scuole
di riferimento. Ogni sādhanā è composta di volta in volta da una serie di meditazioni,
visualizzazioni, recitazioni di mantra, tecniche di veicolazione del prāṇa (energia vitale), e così via.
Elemento centrale della sādhanā è il cosiddetto “Yoga della Divinità”, che consente al praticante di
realizzare uno stato di completa unione con uno specifico Yidam (divinità di meditazione),
visualizzato all’interno della propria dimora divina (maṇḍala); l’Yidam e la sua Terra Pura, in
questo contesto, sono espressioni trascendenti di particolari aspetti della mente illuminata del
Buddha, che è a sua volta un tutt’uno con ogni fenomeno ed ogni forma di vita. “La deità prescelta
per la meditazione,” scrive Philippe Cornu, “è, nel Vajrayāna, l’equivalente del Dharma. Non si
tratta di una divinità esterna o personale, ma d’un archetipo dell’Illuminazione, il cui potenziale è in
ogni essere senziente. […] Esistono numerosissime forme di Yidam: forme maschili o femminili,
pacifiche, semi-irate o irate, tutte rappresentazioni dei buddha nel Saṃbhogakāya. […] L’Yidam è
infatti un’espressione formale dell’Illuminazione. Dotato di tutte le qualità della saggezza, può
tuttavia impersonarne uno in modo più pronunciato. Un Yidam simboleggerà in modo particolare la
saggezza (esempio: Mañjuśrī), un altro la compassione (esempio: Avalokiteśvara), ma né all’uno né
all’altro mancheranno la saggezza o la compassione. Si tratterà piuttosto di una «qualità più
visibile», maggiormente manifesta all’interno della natura dell’Yidam in questione. Scegliendo
come deità di meditazione un Yidam particolare, con il quale egli sente un’affinità, lo Yogi prende
dimestichezza gradualmente con la sua mente di saggezza, gli si avvicina e realizza le qualità e i
poteri dell’Yidam, fino a scoprire che l’Yidam non è altro che la sua stessa natura di
buddha.” (Philippe Cornu, a cura di, Dizionario del Buddhismo. 2003, Bruno Mondadori, Milano).
Le pratiche tantriche, secondo i maestri Vajrayāna, hanno una profonda efficacia, ma solo nella
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unicamente al tantra e non si applica nello studio e nella pratica dei sūtra19. Il Lam
Rim, invece, ci mostra come tutti i diversi aspetti dell’insegnamento del Buddha siano
perfettamente integrati tra di loro: non solo non si contraddicono a vicenda, ma sono
indispensabili l’uno all’altro.
Infine, grazie alla pratica del Lam Rim, tutte le nostre negatività si
pacificheranno e svaniranno automaticamente.
19
Il termine sanscrito sūtra (in pāli, sutta), letteralmente “filo” (inteso come “filo del discorso”), si
riferisce in ambito buddhista a qualsiasi testo contenente insegnamenti attribuiti a Buddha
Śākyamuni. Quest’ultimo, nel corso dei suoi quarant’anni di predicazione, diede insegnamenti
esclusivamente orali; secondo la tradizione, tutti i discorsi furono imparati a memoria dai suoi
discepoli, e vennero tramandati oralmente, per poi essere trascritti nei secoli successivi. La stesura
dei primi sūtra è dovuta ad Ānanda, che, oltre ad essere cugino del Buddha e uno dei suoi principali
discepoli, era noto per la sua straordinaria memoria. Sua è la frase “Così ho udito”, utilizzata anche
successivamente come incipit di ogni sūtra. Secondo le cronistorie Theravāda, gli insegnamenti
furono fissati in forma orale nel primo concilio di Rājagaha immediatamente dopo la morte del
Buddha e furono trascritti su foglie di palma in Sri Lanka nel I secolo a.C. La lingua del Canone
Theravada è il pāli, mentre in India le altre scuole utilizzarono contemporaneamente il sanscrito per
redigere i loro testi. I sūtra della tradizione Mahāyāna cominciano ad apparire in forma scritta tra il
I secolo a.C. e il VI secolo d.C.: la lingua di preferenza, in questo caso, è il sanscrito.
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Per quanto riguarda, infine, i tre aspetti principali del sentiero20 - la Nisharana,
20
I tre aspetti principali del sentiero è un breve testo composto dal maestro tibetano Lama
Tsongkhapa, fondatore della scuola Gelug, il quale, secondo la tradizione, ricevette questo
insegnamento direttamente da Mañjuśrī, il Buddha della saggezza (divinità di meditazione del
buddhismo Vajrayāna), che gli trasmise l’essenza dell’intero insegnamento di Buddha Śākyamuni.
Nel testo vengono esposti i tre sentieri graduali che conducono all’illuminazione: 1) la Nisharana, o
“rinuncia”, detta anche “rifiuto del saṃsāra”, ossia il desiderio di affrancarsi definitivamente
dall’esistenza samsarica, che il praticante riconosce come fonte perpetua di insoddisfazione e
dolore; 2) la Bodhicitta, o “mente compassionevole del risveglio”, ossia il desiderio del bodhisattva
di ottenere la suprema illuminazione al fine di beneficiare tutti gli esseri senzienti, senza eccezioni;
3) la Śūnyatā, o “vacuità”, ossia la corretta visione della natura vuota, impermanente e
interdipendente del sé e della realtà fenomenica. I tre aspetti del sentiero sono interdipendenti: solo
la loro perfetta integrazione consente al praticante di affrancarsi dalle sofferenze del saṃsāra e di
raggiungere il supremo risveglio di un buddha.
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o rifiuto del saṃsāra21, la generazione della mente di Bodhicitta
21
Il termine sanscrito saṃsāra viene utilizzato nel buddhismo - e, con differenti interpretazioni, in
tutte le religioni indiane - per designare il ciclo di nascita, morte e rinascita all’interno del mondo
materiale. Questa dimensione è un autentico “oceano di sofferenza”. Come ha predicato Śākyamuni
Buddha nel suo insegnamento relativo alle Quattro Nobili Verità, nessun piacere samsarico è
autentico e duraturo; tutto è insostanziale e pervaso dal dolore, ogni fenomeno è simile a un
miraggio, a un’illusione ottica. È proprio questa condizione di ignoranza intrinseca a tenere gli
esseri senzienti saldamente ancorati al saṃsāra: confondendo la felicità con l’illusione, essi
continuano ad accumulare karma negativo e si auto-condannano a nuove, infinite rinascite.
Maggiore è la sofferenza accumulata, peggiori saranno le condizioni sperimentate nella vita
successiva, e così via, in una spirale senza fine. Lo scopo del Buddha è indicare ai propri discepoli
la via per emanciparsi dall’ignoranza e dalle negatività accumulate, raggiungendo così la suprema
illuminazione. Il saṃsāra è simboleggiato dalla Ruota dell’esistenza, composta da sei raggi, ai quali
corrispondono altrettanti mondi, a loro volta suddivisi in tre reami inferiori e tre superiori. Essendo
determinata dal karma, la permanenza all’interno dei sei mondi non è mai definitiva: dai reami
inferiori è possibile accedere ai reami superiori, e viceversa.
I tre reami inferiori sono: 1) gli inferni, suddivisi in sedici livelli: otto inferni freddi, e a salire, otto
inferni caldi; la permanenza all’interno degli inferni è tanto più lunga e insopportabile quanto più si
scende in profondità; generalmente si rinasce in questo mondo a seguito di esistenze dominate dalla
rabbia e dalla violenza; 2) il mondo dei preta, o “spiriti affamati”, esseri deformi, dalle sembianze
semi-umane, che vivono in preda alla bramosia, a desideri smodati, che non sono mai in grado di
appagare; convivono con gli animali e gli esseri umani, che solo di rado riescono a percepirli con i
sensi; generalmente si rinasce in questo mondo a seguito di esistenze dominate dall’avidità e
dall’avarizia; 3) il regno degli animali, che vivono in preda all’ignoranza e agli istinti primari, e
sono quasi sempre costretti a lottare per la propria sopravvivenza, difendendosi dai pericoli
dell’ambiente e dai predatori, inclusi gli esseri umani; generalmente si rinasce in questo mondo a
seguito di esistenze dominate dagli istinti e dai desideri.
I tre reami superiori sono:
4) il regno umano, l’unico all’interno del quale è concretamente possibile liberarsi dai
condizionamenti dal saṃsāra: anche gli esseri umani, al pari degli abitanti degli altri cinque regni,
sperimentano condizioni molto intense di piacere o di dolore, ma non ne sono mai posseduti del
tutto, e conservano quel margine minimo di libero arbitrio che consente loro di coltivare un sincero
desiderio di liberazione; 5) il mondo degli Asura, semi-dei o demoni che vivono intense passioni e
sono destinati a rinascite inferiori a causa del sentimento di gelosia e di invidia che nutrono nei
confronti degli dei del sesto regno, contro i quali ingaggiano continue lotte; 6) il mondo dei Deva,
divinità mondane che vivono nei loro paradisi, dedicandosi ai piaceri sensoriali, o ritirandosi in uno
stato prolungato di meditazione, ma senza di fatto porre cause per la propria liberazione; a causa di
ciò, sono dominati dall’orgoglio, e sono immancabilmente destinate a rinascere nei reami inferiori.
Alla luce di ciò, quando si parla di “rinascita preziosa”, si fa riferimento essenzialmente a una
rinascita nel regno degli esseri umani, in un luogo in cui il Dharma fiorisce e sono presenti dei
maestri buddhisti, o un buddha.
I reami del saṃsāra, a seconda della scuola buddhista di riferimento, possono essere intesi come
veri e propri mondi, oppure come differenti stati della mente. Lo stesso concetto di illuminazione
assume significati diversi a seconda delle epoche e delle tradizioni.
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22
22
e la Śūnyatā, la saggezza che percepisce la vacuità o mancanza di esistenza
Termine sanscrito, letteralmente “Mente del risveglio” o “Mente dell’Illuminazione”, utilizzato
nell’ambito del buddhismo Mahāyāna e Vajrayāna per indicare la coscienza primaria che è
congiunta al desiderio del bodhisattva di raggiungere la suprema illuminazione per il beneficio di
tutti gli esseri, senza distinzione alcuna. Tutte le pratiche spirituali e tutti i comportamenti del
bodhisattva, dalla più piccola azione quotidiana al gesto più eroico, sono finalizzati all’abbandono
dell’egoismo e al conseguimento di questo scopo supremo. Nello specifico, si distingue tra
Bodhicitta dell’aspirazione e dell’azione.
1) La Bodhicitta dell’aspirazione, o Bodhicitta convenzionale, coincide con il voto di raggiungere
l’illuminazione per il bene di tutti gli esseri. Tale voto è sostenuto da uno specifico addestramento
mentale, che si basa a sua volta sulla meditazione sui Quattro Incommensurabili (gentilezza
illimitata, compassione illimitata, gioia compartecipe illimitata ed equanimità illimitata - con una
particolare enfasi sull’equanimità, che dà coerenza e un senso definitivo alle tre virtù precedenti), e
su due pratiche meditative fondamentali: scambiare se stessi con gli altri (tong-len), e riconoscere
tutti gli esseri senzienti come le proprie gentili madri dall’infinito passato.
2) La Bodhicitta dell’azione coincide con la pratica delle perfezioni, o Pāramitā (generosità,
disciplina, pazienza, impegno entusiastico, concentrazione e saggezza), e con tutte le azioni
compassionevoli concrete che il bodhisattva compie lungo il sentiero che lo conduce alla suprema
illuminazione.
“Nel buddhismo Mahāyāna esistono solo due veicoli,” scrive il Dalai Lama, “il Veicolo dei Sūtra e
il Veicolo dei Tantra. Qualunque scegliate, l’unico accesso è comunque attraverso la mente del
risveglio. […] Dunque, essendo nati in questa vita preziosa sotto forma di esseri umani, e avendo
incontrato gli esaurienti insegnamenti del Buddha, dovremmo fare tesoro della mente del risveglio.
Il fatto di includere tecniche preziose per generarla è ciò che rende il buddhismo tibetano così
importante. […] La mente del risveglio è come un seme per raggiungere la buddhità; è come un
campo in cui si possono coltivare tutte le qualità positive; è come il fondamento su cui poggia ogni
cosa; […] è come la tempesta che disperde tutti gli ostacoli mentali e le loro cause; è come
l’insegnamento concentrato che racchiude tutte le preghiere e le attività dei bodhisattva.” (Dalai
Lama. Il nostro bisogno d’amore. Milano, Mondadori, 2009)
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intrinseca di tutti i fenomeni23 - di nuovo, la cosa più importante è aiutare le persone
a comprendere che nessuno di questi tre aspetti, se separato dagli altri due, sarà
sufficiente per liberarsi dalle sofferenze del saṃsāra e raggiungere l’illuminazione di
un Buddha.
Analizziamo insieme il primo di questi tre punti fondamentali: la
Nisharana, o rifiuto del saṃsāra. Come si fa, in quanto laici, a realizzare un
atteggiamento di autentica rinuncia?
Si può realizzare la Nisharana senza per questo sentirsi in dovere di
abbandonare il proprio lavoro, il proprio coniuge, e così via. Lo stesso stato di
buddha può essere raggiunto senza necessariamente abbandonare la vita laica. Ce lo
insegna, ad esempio, la storia del re indiano Indrabhuti, il quale chiese a Buddha
23
Il termine vacuità, derivante dal sanscrito Śūnyatā, ha assunto varie interpretazioni a seconda
della tradizione buddhista di riferimento. Nel suo senso più ampio, sta ad indicare lo stato ultimo,
naturale e indifferenziato della realtà.
Nelle scuole antiche del cosiddetto buddhismo Hīnayāna si considera principalmente la vacuità
dell’io, ossia l’assenza di un sé individuale che si percepisce in modo separato dai fenomeni esterni,
creando di fatto il dualismo soggetto/oggetto. Non mancano interpretazioni di respiro più ampio,
come ad esempio quella a posteriori del monaco e maestro tibetano Lama Tsongkhapa, secondo cui
il praticante del sentiero di liberazione individuale realizza anche la vacuità dei fenomeni, ma non
in modo esteso e articolato.
Nel Mahāyāna si considera la vacuità di tutti i fenomeni, sia interni che esterni all’io: si parla a tal
proposito di “doppia vacuità” - del percipiente, e del fenomeno percepito. Ogni fenomeno, inclusa
la coscienza, è dunque “vuoto” di esistenza a sé stante.
“Nulla esiste inerentemente, oppure per sua stessa causa,” scrivono Matthieu Ricard e Trinh Xuan
Thuan. “Un oggetto può essere definito solo in termini di un altro oggetto. L’interdipendenza è
essenziale nel manifestarsi dei fenomeni. In sua assenza, il mondo non sarebbe in grado di
funzionare. Così un dato fenomeno può manifestarsi solo se connesso ad altri. La realtà non può
essere localizzata e suddivisa, bensì considerata come olistica e globale. […] La nozione di
interdipendenza ci porta direttamente all’idea di vacuità/spazio, che non significa il nulla, bensì
assenza di esistenza inerente. Poiché ogni cosa è interdipendente, niente può autodefinirsi ed
esistere inerentemente. L’idea di proprietà intrinseche che esistano di per se stesse e da se stesse
deve quindi essere completamente scartata. […] La nozione buddhista di interdipendenza è
sinonimo di vacuità/spazio, che è a sua volta sinonimo di impermanenza. Il mondo è come un vasto
flusso di eventi e di correnti dinamiche, tutte interconnesse e costantemente interagenti. Questo
concetto di mutamento perpetuo, onnipresente, si accorda con la moderna cosmologia. Gli
immutabili paradisi di Aristotele e lo statico universo di Newton non hanno più senso. Ogni cosa si
muove, muta ed è impermanente, dal minuscolo atomo all’intero universo, galassie, stelle e genere
umano inclusi.” (The Quantum and Lotus. A journey to the frontiers where science and Buddhism
meet. New York, Crown Publishers, 2001)
Grazie alla meditazione sulla vacuità, il praticante ha l’opportunità di svincolarsi gradualmente
dall’illusione del sé che si pone al centro dell’universo, cristallizza percezioni, sensazioni e
pregiudizi, e valuta qualsiasi esperienza in termini egoistici di perdita o guadagno.
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Śākyamuni, di cui era discepolo, un insegnamento che gli consentisse di raggiungere
la suprema illuminazione senza per questo abbandonare la propria dimora e senza
dover abdicare al ruolo di guida del proprio reame: il Buddha, per aiutarlo a
realizzare questo scopo, gli trasmise il tantra di Guhyasamāja24 . Anche il venerabile
Marpa25 raggiunse lo stato di Buddha pur avendo moglie e figli. Quindi, dov’è il
problema?
Non solo, al giorno d’oggi chiedere a un laico di abbandonare le proprie
attività quotidiane sarebbe davvero illogico, perché la mancanza di un lavoro gli
impedirebbe di sostentarsi: qui in Occidente tutti, anche i monaci che prendono i voti,
hanno bisogno di una rendita economica, a differenza di quanto accade in Oriente,
dove i monaci possono dedicarsi a tempo pieno alla pratica, ricevendo sostentamento
dai monasteri o dalla società stessa, anche tramite l’elemosina. E una rendita
economica, ancora, non basta: abbiamo tutti bisogno di un corpo sano. Senza cibo,
senza vestiti, senza medicine, come potremmo dedicarci alla pratica?
Qual è, allora, il vero significato della Nisharana? Significa continuare a vivere
la nostra vita di tutti i giorni, senza abbandonare nessuno dei nostri impegni
essenziali, utilizzando al tempo stesso la pratica per giungere a un punto in cui
riusciremo a percepire ogni aspetto di questo mondo, anche il più incredibile e
sublime, alla stregua di un precipizio pieno di lava infuocata. È questa la
realizzazione che possiamo raggiungere grazie alla pratica della meditazione. Se
riusciamo a comprendere che il mondo, così com’è, è un’immensa fonte di
sofferenza, non avremo nemmeno bisogno di abbandonarlo: semplicemente,
smetteremo di anelare ad esso.
Alcune persone si scoraggiano, quando sentono parlare di Bodhicitta: la
mente compassionevole del risveglio è vista come un traguardo irraggiungibile.
24
Guhyasamāja, “Il Re dei Tantra”, è una delle principali divinità tantriche di meditazione del
buddhismo Vajrayāna. Per approfondimenti, vedi Introduction to the Guhyasamaja System of
Anuttarayoga Tantra, di Alexander Berzin (Moscow, october 2012):
www.berzinarchives.com/web/en/archives/advanced/tantra/level_5_specific_tantra_systems/
i n t r o _ g u h y a s a m a j a _ s y s t e m _ a n u t t a r a y o g a _ t a n t r a _ /
introduction_guhyasamaja_system_anuttarayoga_tantra.html
25
Importante maestro della scuola Kagyü, il cosiddetto lignaggio della “Trasmissione Orale”, una
delle quattro principali scuole del buddhismo tibetano, insieme alla Nyingma, alla Sakyapa e alla
Gelug. La scuola nasce nell’XI secolo d.C., in coincidenza con il cosiddetto “Rinascimento
spirituale” del buddhismo tibetano, e si fonda su un lignaggio che da Śākyamuni Buddha è giunto a
importanti maestri indiani come Padmasambhava, Tilopa, Naropa, e da loro al maestro tibetano
Marpa e al suo allievo Milarepa, a sua volta maestro di Gampopa. Per approfondimenti:
www.karma-kagyu.org
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C’è un solo modo per superare questo timore: fare del Lam Rim la nostra
bussola, la nostra guida, e ricordarci ogni giorno che, se continueremo a seguire con
costanza questo insegnamento, i risultati desiderati non mancheranno di manifestarsi.
La prima cosa da fare, per realizzare le qualità del Buddha che adesso ci
sembrano così irraggiungibili, è abbandonare il fattore oscurante del mantenere caro
il proprio sé, e coltivare al tempo stesso il fattore di mantenere cari tutti gli altri esseri
senzienti. Perché dal fattore di mantenere caro il proprio sé hanno origine tutti, ma
proprio tutti i nostri problemi, i nostri dolori, le nostre illusioni, e così via. Viceversa,
dal fattore di mantenere cari gli altri derivano tutte le nostre fortune e tutte le nostre
felicità.
Poi, come viene esposto nella sezione del Lam Rim relativa alla preziosa
rinascita umana26 , è importante meditare sul fatto che le occasioni per incontrare la
pratica buddhista e impegnarsi nella meditazione di equanimità sono davvero molto
rare. Le persone che ci circondano, intanto, continuano a vivere sotto il dominio del
proprio ego: ma noi, anziché scoraggiarci, dovremmo ricordarci in ogni istante che
incontrare questo sentiero è stata per noi un’incredibile fortuna.
La cultura capitalistica incoraggia da sempre l’individualismo e la
competizione: il concetto di vacuità, da questo punto di vista, può essere
interpretato come un’espressione di debolezza o mancanza di amor proprio.
È vero: la vita mondana - non solo in Occidente - è completamente incentrata
sull’individualismo e sull’esaltazione dell’io: ma se ci impegniamo ogni giorno per
coltivare ed enfatizzare un atteggiamento altruistico, riusciremo gradualmente a
sottrarci al predominio dell’ego.
L’importante è ricordare che l’esaltazione della personalità e il desiderio di
ottenere la vittoria a tutti i costi sono i due aspetti fondamentali di quello che nel
buddhismo tibetano viene definito come il fattore di afferrarsi alla natura inerente o
illusoria del sé: l’illusione nasce nel momento in cui ci convinciamo che il nostro sé,
26
Nel buddhismo, quando si parla di “rinascita preziosa”, si fa riferimento essenzialmente a una
rinascita nel regno degli esseri umani, con facoltà psicofisiche intatte, in condizioni ambientali
favorevoli, e in un luogo in cui il Dharma fiorisce e sono presenti dei maestri buddhisti, o un
buddha. Il regno degli esseri umani, nel mondo materiale, coincide con il quarto dei cosiddetti
“regni” del saṃsāra.
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che viene definito sulla base dei cinque aggregati indistruttibili27, esista in modo
indipendente rispetto a tutti gli altri fenomeni. Da questo punto di vista, possiamo
affermare che la vacuità è davvero la perfetta antitesi della competizione e
dell’individualismo.
Credo comunque che la cosa migliore, per le persone, sia esaminare con
attenzione gli effetti del proprio individualismo, ogni volta che esso si manifesta
concretamente nelle loro vite. E chiedersi: “Questo atteggiamento, in ultima analisi, è
per me fonte di felicità o di sofferenza?”
Se non facciamo costantemente questo tipo di esame, non riusciremo mai a
capire che l’essenza dell’io e di tutti i fenomeni differisce in modo sostanziale dal
loro modo illusorio di apparire: io stesso, in questo momento, potrei cedere a questa
apparenza illusoria e affermare di essere qualcosa di concreto e indipendente che
parla seduto su un letto, che a sua volta esiste come oggetto concreto e indipendente.
Se ci basiamo sulla convinzione che l’io esista in modo indipendente, nessuna delle
nostre azioni andrà a buon fine, e tutto, in un modo o nell’altro, sarà per noi fonte di
sofferenza. Dovremmo sempre esaminare con attenzione il vero modo di esistere di
tutte le cose: solo chi riesce ad andare al di là di questa apparenza illusoria può
affrancarsi dalla sofferenza interiore che si innesca ogni volta che osserviamo i
fenomeni come esistenti dalla propria parte.
27
Il termine aggregato deriva dal sanscrito Skandha, che in questo ambito possiamo tradurre come
“gruppo”, o “insieme”. I cinque aggregati, nell’insegnamento del Buddha, costituiscono l’intera
realtà fenomenica dell’universo, inclusa la personalità di ogni individuo, e comprendono: 1) la
forma (in sanscrito rūpa), relativa alla dimensione del corpo e dei fenomeni fisici; 2) la sensazione
(in sanscrito vedanā), che comprende tutti gli effetti piacevoli, o spiacevoli, o neutri che l’individuo
sperimenta ogniqualvolta i suoi sensi entrano in contatto con suoni, immagini, odori, sapori,
temperature, e così via; 3) la percezione (in sanscrito saṃjñā), ossia tutte le discriminazioni, le
concettualizzazioni e i giudizi che la mente elabora sulla base delle sensazioni; 4) la formazione
karmica, o fattore di composizione (in sanscrito saṃskāra), che indica il complesso di attitudini
mentali e comportamentali (riflessi, ricordi, reazioni automatiche, impressioni, ecc.) che si formano
sulla base delle esperienze che l’individuo ha sperimentato in questa vita e in quelle precedenti, di
fatto condizionando il suo destino nel presente e nel futuro; 5) la coscienza (in sanscrito vāsanā),
che registra tutte le informazioni derivanti dai primi quattro aggregati, andando così a costituire una
mente che “conosce” e “testimonia” gli oggetti percepiti dai sensi; tale coscienza si manifesta a sua
volta in sei modi diversi, in base alla natura dell’oggetto percepito - parliamo così di “coscienza
della vista”, “coscienza dell’udito”, “coscienza dell’olfatto”, “coscienza del gusto”, “coscienza del
tatto” e “coscienza mentale”.
Gli esseri del saṃsāra vivono in preda all’ignoranza e percepiscono erroneamente il proprio sé
come un’entità stabile, che esiste in modo indipendente rispetto agli altri fenomeni: in tal caso, si
parla di “aggregati impuri”, o “dell’attaccamento”. Il praticante si libera dal dolore meditando
sull’impermanenza e sulla vacuità, e realizzando l’essenza “vuota” dei cinque aggregati e del
proprio sé.
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Prendiamo in esame, per fare un esempio, la sconfitta della Nazionale di calcio
italiana alle finali del Campionato europeo del 2012: un evento che è stato trasmesso
e amplificato da tutti i giornali e da tutte le televisioni, e al quale ho casualmente
assistito nel corso di un viaggio. Anche un evento apparentemente così banale, se
analizzato nel dettaglio, è un’occasione davvero formidabile per analizzare la vera
natura delle nostre attività samsariche: ci aiuta a comprendere quanta negatività si
celi nell’esaltazione del sé e quanta tristezza e quanto dolore possano sorgere dalla
competitività e dal desiderio di vincere a tutti i costi.
Cosa succede, alla fine di un campionato? Pensate ai tifosi che hanno fatto
sacrifici e hanno speso tutti i soldi che avevano messo da parte nei mesi precedenti
per andare all’estero a seguire le gare allo stadio: il tutto per assistere alla sconfitta
della propria squadra del cuore, e per arricchire al tempo stesso una minoranza di
persone - quelle che gli hanno venduto i biglietti. Quanta fatica per nulla!
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Pensate poi a tutte le persone che, nel frattempo, hanno seguito la partita, allo
stadio o da casa, e hanno accumulato karma negativo28, perché in un modo o
nell’altro hanno confermato e rafforzato il proprio senso illusorio del sé: i tifosi della
squadra vincente si sono esaltati e si sono fatti prendere dall’orgoglio, mentre i tifosi
della squadra sconfitta hanno ceduto alla rabbia o alla depressione. L’orgoglio che
deriva da una vittoria e il senso di scoraggiamento causato da una sconfitta sono
entrambi espressioni complementari di questo sé illusorio che si fortifica e si
autoalimenta sempre di più, fino a diventare causa di rinascite sfortunate.
28
Il termine sanscrito karma, che possiamo tradurre come “azione”, sta ad indicare - nel
buddhismo, e nella tradizione indiana in generale - qualsiasi azione intenzionale che dia luogo ad
uno specifico risultato: secondo la legge di causa effetto, che regola l’intero ciclo dell’esistenza
condizionata all’interno del saṃsāra, tale risultato sarà conforme alla negatività, o alla positività o
alla neutralità della causa corrispondente. Il risultato dell’azione concorrerà a sua volta alla
produzione di nuovi effetti, e così via, all’infinito. È proprio la catena dei nessi causali a tenere
l’individuo ancorato al ciclo delle rinascite samsariche, che saranno più o meno positive o più o
meno negative sulla base del bagaglio karmico accumulato nel corso delle esistenze precedenti e di
quella attuale. La “vita”, da questo punto di vista, può essere intesa come un’unica, infinita
sequenza di esistenze che si succedono l’una all’altra. Il concetto di karma è indissolubilmente
legato a quello di “azione volitiva”, e non va mai confuso con l’idea di “destino”, o di “volere
superiore”, o ancor meno di “casualità”. Ad ogni effetto karmico corrisponde un “seme” che si
deposita nella vita dell’essere senziente: tale effetto può manifestarsi simultaneamente alla causa,
oppure nel corso del tempo, anche dopo innumerevoli rinascite - il che spiega il motivo per cui
esistono persone dal comportamento non virtuoso che non sembrano ricevere alcuna “punizione”
nel corso della loro attuale esistenza, o, viceversa, persone virtuose che vengono colpite da
circostanze sfavorevoli e apparentemente immotivate. Ogni effetto - secondo il pensiero orientale, e
soprattutto indiano - giungerà inevitabilmente a maturazione, ma solo quando si manifesteranno le
condizioni appropriate: parliamo di nessi causali che l’essere non illuminato non è quasi mai in
grado di prevedere, o di ricordare, né tanto meno di comprendere nella loro interezza. Solo il
raggiungimento della perfetta illuminazione di un buddha permette al praticante di liberarsi
completamente da tutti i residui karmici accumulati. A seconda delle scuole buddhiste di
riferimento, il concetto di liberazione dal karma può essere interpretato in diversi modi: secondo la
tradizione antica, o Hīnayāna, significa interrompere definitivamente il ciclo delle rinascite; secondo
la tradizione Mahāyāna e Vajrayāna, significa liberarsi definitivamente dalle sofferenze del
saṃsāra, senza necessariamente cessare di rinascere o di emanarsi al suo interno per il bene di tutti
gli altri esseri, che sono ancora imprigionati dalla sofferenza. Secondo la tradizione Mahāyāna e
Vajrayāna, in particolare, è possibile accelerare il processo di liberazione dai residui karmici
ricorrendo ai cosiddetti Quattro Poteri Opponenti: 1) riconoscere l’errore come errore; 2) generare
la sincera determinazione a non ripetere mai più gli errori del passato; 3) dedicarsi con assiduità alle
pratiche virtuose basate sulla moralità (Vinaya) e sulle altre Perfezioni (Pāramitā), oltre che sulla
compassione, e così via; 4) ricorrere a potenti antidoti specifici, come la confessione al cospetto dei
buddha, la generazione della mente di Bodhicitta, la recitazione del mantra di Vajrasattva e di altre
divinità di purificazione, e così via; l’antidoto cardine che sottostà a tutti gli antidoti specifici è
sempre e comunque la meditazione sulla vacuità. L’avvenuta purificazione viene poi suggellata
dalla dedica dei meriti, il che equivale a coltivare l’attitudine, tipica del bodhisattva o aspirante
bodhisattva, che rinuncia al desiderio di ottenere gratificazioni egoistiche e dedica al bene degli altri
esseri tutte le virtù interiori ed esteriori acquisite per il tramite della propria pratica spirituale.
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Per non parlare di quelli che non amano il calcio, e si arrabbiano perché i
media danno un eccessivo risalto a questo tipo di eventi.
Lo vede? Da una partita di calcio, escono tutti sconfitti,! [ride]
Possiamo applicare questo ragionamento tutte le altre attività che assorbono
abitualmente il nostro tempo e le nostre energie nel saṃsāra.
Il tema della vacuità dell’io, così fortemente enfatizzato dalla tradizione
Mahāyāna, viene percepito da alcuni praticanti occidentali come una sorta di
minaccia, un invito ad annullare se stessi.
Voglio rassicurare queste persone: non c’è assolutamente nulla da temere!
Percepire la vacuità di tutti i fenomeni non equivale in alcun modo alla perdita o
all’annullamento del proprio sé. L’io esiste, questo non dobbiamo metterlo in dubbio!
Prova ne è il fatto che siamo in grado in ogni istante di operare una distinzione tra ciò
che reca beneficio alla nostra persona e ciò che la danneggia: se fossimo sprovvisti di
un io, non saremmo nemmeno in grado di fare un simile distinguo.
Il vero significato della vacuità è questo: l’io esiste, ma in un modo diverso da
come siamo abituati a percepirlo, e da come normalmente ci appare. In altre parole,
esiste come mera imputazione sulla base dei cinque aggregati. Una volta compreso
questo punto, non c’è motivo di avere paura.
Anche la pratica della moralità è fonte di frequenti preoccupazioni: alcune
persone temono di fare il passo più lungo della gamba e di non riuscire a
mantenere nel tempo i voti o gli impegni presi.
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Ricordiamo innanzitutto che è possibile prendere diversi tipi di impegni:
abbiamo i voti da laico e quelli da monaco, i voti del Bodhisattva e i voti tantrici29 .
Ciò premesso, la mia riflessione è questa: nessuno può prevedere con esattezza
quando arriverà il momento della propria morte. Il Lam Rim è molto chiaro a questo
proposito: se osserviamo direttamente la natura impermanente di tutti i fenomeni, ci
renderemo immediatamente conto che la morte è ineluttabile e imprevedibile per
29
Il termine Vinaya, letteralmente “Disciplina”, indica il corpus degli insegnamenti e l’insieme dei
voti e dei precetti, ispirati allo stile di vita di Śākyamuni Buddha, che regolano il comportamento
individuale e la convivenza sociale dei monaci buddhisti: l’essenza di questa disciplina monastica si
riassume nel termine pāli Prātimokṣa, che possiamo tradurre letteralmente come “liberazione
mediante l’eliminazione (di ciò che arreca sofferenza)”. Il Vinaya, nelle principali tradizioni
buddhiste, pone sei principi di armonia basati sul presupposto dell’interdipendenza: 1) armonia
nella condotta etica: tutta la comunità condivide i medesimi principi morali; 2) armonia nelle
visioni: tutta la comunità condivide la comprensione del Dharma - ossia, fondamentalmente, il
percorso per liberarsi dal saṃsāra - e lavora alla sua applicazione; 3) armonia nei requisiti, ovvero
una distribuzione e un utilizzo delle risorse materiali che si basano sui principi dell’equità e del non
attaccamento; 4) armonia nelle azioni del corpo, ovvero la convivenza pacifica all’interno dello
stesso territorio; 5) armonia della parola, ovvero evitare le dispute; 6) armonia della mente, ovvero
apprezzarsi e sostenersi a vicenda.
Nello specifico, esistono due tipologie principali di voti: per i laici e per i monaci (o i novizi); in
entrambe le tipologie sono inclusi alcuni voti specifici destinati agli uomini, e altri destinati alle
donne. Nel corso dei secoli, a seconda della scuola o tradizione di riferimento, nuove regole si sono
aggiunte a quelle originarie, e altre sono cadute in disuso. Nei tre Canoni buddhisti (pāli, cinese e
tibetano), i testi relativi al Vinaya sono contenuti nel canestro denominato Vinayapiṭaka.
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globalizzazione
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tutti30 . Per questo motivo, è bene praticare subito il Dharma, senza rimandare a
domani. Morire senza aver avuto occasione di praticare la moralità sarebbe davvero
increscioso: ciò equivarrebbe a garantirsi una rinascita in un reame inferiore di
sofferenza. Potremmo rinascere, ad esempio, in forma animale, e a quel punto non
avremmo più la consapevolezza e la conoscenza che consentono di accumulare
karma positivo; peggio ancora, potremmo rinascere negli inferni o nel reame dei
preta, o spiriti famelici, e la nostra permanenza in quei regni si protrarrebbe per un
tempo davvero interminabile.
Il glorioso maestro indiano Chandrakīrti31 spiegò che la moralità è la causa non
comune e indispensabile di rinascita nei reami superiori di felicità, in forma umana o
30
Il termine, derivante dal sanscrito anitya (in pāli, anicca), indica il carattere mutevole e
transitorio di tutti i fenomeni dell’universo - inclusa la coscienza umana che li percepisce come
falsamente stabili. Ogni fenomeno si manifesta come effetto di specifiche cause e condizioni, e in
quanto tale è destinato a finire. L’incapacità di percepire e/o di accettare l’impermanenza - che nella
sua forma più estrema si manifesta come desiderio di immortalità per se stessi e per gli oggetti del
proprio attaccamento - è una delle cause fondamentali della sofferenza degli esseri samsarici. La
meditazione sull’impermanenza diventa così elemento centrale dell’insegnamento sulle Quattro
Nobili Verità impartito dal Buddha.
“La percezione dell’impermanenza, o bhikkhu,” si legge nel Saṃyutta Nikāya (22.102), “sviluppata
e assiduamente praticata, porta all’abbandono delle passioni sensuali, all’abbandono della passione
per l’esistenza materiale, all’abbandono della passione per il divenire, all’abbandono
dell’ignoranza, all’abbandono e all’annullamento di ogni presunzione circa l’«Io sono».”
L’impermanenza si manifesta in una forma più grossolana, percepibile anche ai sensi, e in una
forma più sottile. Gli esseri ordinari possono realizzare questa forma sottile solo tramite inferenza
concettuale valida, ossia una realizzazione non diretta, ma inferita, eppure non erronea - come
quando si vede del fumo che sale nel cielo da dietro una collina, e si realizza in modo
incontrovertibile che in quel punto è stato acceso un fuoco, anche se non si possono vedere
fisicamente le fiamme. I praticanti con realizzazioni, da parte loro, realizzano la vacuità sottile
tramite “percezione diretta Yogica”: quest’ultima è uno dei risultati dell’aver realizzato shiné, o
“calmo dimorare”, in cui il praticante è in grado di rimanere assorto in meditazione concentrativa
per ore senza la minima distrazione. Questa realizzazione produce uno stato di profonda pace
psicofisica che provoca, tra gli altri effetti, un potenziamento delle facoltà psicosensoriali.
31
Maestro e monaco indiano della scuola Mādhyamika, grande erudito e abate del monastero di
Nālandā. La sua biografia, riportata esclusivamente nei testi tibetani, è avvolta nella leggenda: si
ritiene comunque che sia vissuto a cavallo tra il VI e il VII secolo d.C.
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divina: lo stesso vale, a maggior ragione, per chi desideri raggiungere lo stato di
śrāvaka, di pratyekabuddha32 e di bodhisattva33.
Di più: come affermano le scritture, il mantenimento di una buona moralità è
indispensabile anche per chi, pur non aspirando al sentiero dell’illuminazione,
desidera semplicemente condurre un’esistenza serena nel saṃsāra. Le dieci azioni
32
Śrāvaka e Pratyekabuddha, termini mutuati dal buddhismo Hīnayāna. Il termine Hīnayāna,
letteralmente “Piccolo Veicolo”, è stato inizialmente coniato in senso polemico dai praticanti
Mahāyāna per indicare i praticanti delle scuole buddhiste più antiche - di cui ad oggi la scuola
Theravāda è unica rappresentante - che, basandosi unicamente sugli insegnamenti contenuti nelle
loro scritture, si rifiutavano di riconoscere la validità degli insegnamenti Mahāyāna, che sono andati
poi a costituire il Canone cinese e il Canone tibetano. L’Hīnayāna è strettamente legato, fin dalle sue
origini, alla figura del monaco che si applica nella pratica della liberazione individuale mediante la
disciplina e la meditazione contemplativa, allo scopo di raggiungere più rapidamente possibile la
condizione del realizzato perfetto, o Arhat. Gli Śrāvaka, o “uditori”, sono i praticanti che, per
illuminarsi, hanno bisogno di ascoltare e mettere in pratica gli insegnamenti di Śākyamuni Buddha,
in primis le Quattro Nobili Verità; i Pratyekabuddha, detti anche “Buddha da sé” o “realizzatori
solitari”, sono coloro i quali riescono a raggiungere lo stato di Arhat da soli, senza aver incontrato
un buddha o un maestro spirituale. Entrambi i praticanti, Śrāvaka e Pratyekabuddha, una volta
raggiunto lo stato di Arhat, non sono però in grado di insegnare a loro volta ad altri esseri. Il
bodhisattva è infine il praticante che, giunto in prossimità del Parinirvāṇa (cessazione definitiva
dell’esistenza fisica), vi rinuncia momentaneamente e sceglie di rinascere in forma umana per
beneficiare gli altri esseri. Nel corso del tempo, e soprattutto in epoca moderna, la parola Hīnayāna
ha progressivamente perso la propria connotazione negativa. Alcuni studiosi contemporanei
sostengono, al di là di qualsiasi graduatoria di merito, che questa parola sia semplicemente
indispensabile al fine di indicare l’insieme delle scuole buddhiste indiane più antiche, sorte tra il I e
il IV secolo dopo il Parinirvāṇa di Śākyamuni Buddha. Altri, per ovviare al problema, hanno
coniato il termine alternativo “Buddhismo dei Nikāya”. Queste classificazioni non sono tuttavia
esaustive, specie se riferite alla tradizione Theravāda che, pur basandosi esclusivamente sui testi del
Canone pāli, nel corso dei secoli ha accolto al proprio interno elementi cultuali e credenze del
Mahāyāna, rendendo più sfumati i confini tra i due orientamenti.
33
Letteralmente, “essere dell’Illuminazione”, il termine sanscrito bodhisattva (pāli: bodhisatta;
cinese: púsà; coreano: bosal; vietnamita: bồ tát; giapponese: bosatsu; tibetano: changchub sempa)
indica il praticante che si trova sulla via della liberazione, ma fa voto di restare nella dimensione
umana per aiutare tutti gli esseri a raggiungere la liberazione. Tutti i buddha sono stati bodhisattva
prima di diventare esseri illuminati. Nel Mahāyāna, che sottolinea la compassione per gli esseri
immersi nella sofferenza del saṃsāra, l’ideale del bodhisattva diventa centrale, sostituendosi a
quello dell’arhat. Il termine viene usato per indicare due tipi di esseri: 1) gli ordinari esseri umani
che intraprendono il Sentiero Mahāyāna del bodhisattva, facendo voti e impegnandosi a osservare i
precetti morali omonimi; 2) gli esseri non ordinari - detti Arya, o “nobili” - che hanno raggiunto la
realizzazione diretta della vacuità nel sentiero della Visione e oltre, cioè nel sentiero della
Meditazione, e poi nel sentiero del Non-Più-Apprendimento, che è equivalente allo stato di
illuminazione; alcuni di essi hanno una connessione speciale con il nostro mondo, in cui possono
intervenire per beneficiare gli esseri che li invocano attraverso le pratiche meditative e le puje
(cerimonie). Nella letteratura Mahāyāna vengono descritti numerosi Bodhisattva-Mahāsattva, come
ad esempio Avalokiteśvara, Mañjuśrī, Kshitigarbha, Samantabhadra, e altri ancora.
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non virtuose34 sono sempre e comunque dannose; la pratica della moralità, viceversa,
è benefica e indispensabile per tutti gli esseri viventi, anche per quelli che non sono
interessati a prendere alcun voto.
Un’altra caratteristica che accomuna molti praticanti buddhisti, oggi come
ieri, è la tendenza ad esaltare il primato della propria scuola o della propria
tradizione, a discapito di tutte le altre.
Il Lam Rim sottolinea in più punti l’importanza di non parlare male delle altre
forme di spiritualità: questo vale per il buddhista che parla male delle altre scuole
buddhiste e/o delle religioni non buddhiste, per il non buddhista che parla male del
buddhismo, e per qualsiasi altro caso del genere. Chi agisce in tal modo accumula
una grande quantità di karma negativo.
Quali sono, oltre a quelle che abbiamo appena citato, le principali
difficoltà con cui deve confrontarsi un moderno praticante buddhista europeo o
americano?
Nel corso degli anni, come dicevo, ho avuto modo di osservare da vicino molti
praticanti occidentali: il loro problema principale, devo dirlo, è la facilità con cui si
scoraggiano al sopravvenire delle difficoltà. Mi riferisco in particolare agli ostacoli di
origine interiore, mentale, che sono più frequenti in Occidente - a differenza di
quanto accade nella mia terra d’origine, dove la gente è costretta a fare i conti
soprattutto con problemi economici, o comunque di natura materiale.
Molti occidentali, sentendo parlare di buddhismo, pensano: “Forse è proprio
questo il sentiero che mi consentirà di liberarmi per sempre dalle sofferenze mentali!”
Partendo da questa premessa, iniziano a seguire le lezioni dei maestri, si mettono a
studiare e a praticare il Dharma, e così facendo si illudono di raggiungere in breve
tempo grandi realizzazioni e di lasciare alle spalle tutti i problemi che li avevano
afflitti fino a quel momento. Passa un po’ di tempo, e queste persone si accorgono che
le cose non vanno nella direzione desiderata: le sofferenze ci sono ancora, e le
realizzazioni ottenute non sono così eclatanti. Molti, a quel punto, si scoraggiano,
perdono la fede e smettono di praticare: alcuni, addirittura buttano via i libri di
Dharma e le immagini sacre. Questa cosa, a un tibetano, accade molto di rado.
34
L’etica buddhista si fonda innanzitutto sull’abbandono delle dieci azioni non virtuose, che
vengono suddivise in: 1) tre azioni relative al corpo: uccidere, rubare e avere una condotta sessuale
scorretta; 2) quattro azioni relative alla parola: dire il falso, calunniare, usare un linguaggio
offensivo e volgare, e parlare futilmente; 3) tre azioni relative alla mente: bramosia, malevolenza e
visioni errate.
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E sotto quali aspetti, a suo avviso, possiamo ritenerci avvantaggiati
rispetto ai praticanti del passato?
Devo dire che gli occidentali si distinguono per il loro entusiasmo e per il loro
grande impegno nella pratica e nello studio. L’importante, ripeto, è ricordare che
nessuno può ottenere grandi realizzazioni spirituali in breve tempo: non basta fare
qualche sessione giornaliera di meditazione o recitare qualche mantra35, per
raggiungere traguardi così elevati. Non funzionava così in passato, e non funziona
così nemmeno oggi.
In conclusione, vorrei chiederle di suggerire ai nostri lettori - in
particolare a quelli che si avvicinano per la prima volta alla scuola tibetana
Gelug - una meditazione o una semplice pratica che consenta loro di
sperimentare nella vita di tutti i giorni i possibili benefici di questo percorso.
A questi lettori consiglierei di sperimentare tutti i giorni la cosiddetta pratica
dei cinque poteri.
Il primo potere è quello della proiezione, che ci consente di decidere e
pianificare le pratiche che faremo oggi, domani, tra una settimana, tra un mese, tra un
anno, e così via.
Il secondo potere è quello del seme bianco, che include tutte le pratiche
virtuose che possiamo sperimentare: in particolare le cinque pratiche preliminari che
vengono descritte nel Lam Rim36, e in generale ogni azione volta al conseguimento
della nostra illuminazione per il beneficio di tutti gli esseri.
35
Il termine sanscrito mantra (letteralmente, “protezione della mente”) sta ad indicare una formula
sacra, di lunghezza variabile (le più lunghe e articolate vengono chiamate dhāraṇī), che il
praticante, a seconda della tradizione di riferimento, può recitare verbalmente e/o mentalmente, in
associazione a meditazioni, recitazioni di testi, invocazioni, visualizzazioni, e così via. I mantra
vengono utilizzati sia nel tantra, sia in numerosi sūtra Mahāyāna, e hanno di volta in volta lo scopo
di purificare la mente del praticante, accrescere le sue realizzazioni interiori, e così via.
36
Il termine tibetano ngöndro, letteralmente “pratiche preliminari”, viene utilizzato per indicare la
fase preliminare o di preparazione, mutuata sia dai sūtra che dai tantra, che precede
tradizionalmente le pratiche del buddhismo tibetano Mahāyāna, Vajrayāna e Dzogchen. La scuola
Gelug, in particolare, prevede “cinque pratiche straordinarie (o speciali)”: 1) la presa di rifugio nei
Tre Gioielli; 2) la generazione della Bodhicitta, o mente dell’illuminazione; 3) la pratica di
purificazione mediante il mantra in cento sillabe di Vajrasattva; 4) l’offerta del maṇḍala; 5) la
recitazione del Guru Yoga.
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Il Maestro Śāntideva37, riferendosi al terzo potere, quello dell’abitudine, o
familiarizzazione, insegnò che non c’è niente che non possa diventare facile grazie
all’abitudine e all’esercizio quotidiano e ripetuto nel tempo. E con questo mi
ricollego a una delle domande precedenti, quella relativa alla difficoltà di sviluppare
una mente compassionevole ed equanime. Prendiamo il caso di una persona che
desideri familiarizzarsi con la pratica della generosità38: questa persona magari
adesso non se ne rende conto, ma se continua ad allenarsi con costanza, un giorno
sarà in grado di donare agli altri il proprio stesso corpo e la propria stessa vita; e lo
farà con la stessa facilità con cui oggi potrebbe donare un frutto o un po’ di verdura.
Lo stesso principio vale ovviamente per tutte le altre pratiche virtuose.
Il quarto potere è quello del rifiuto: se ci rendiamo conto che tutti i nostri
problemi e le nostre sofferenze hanno origine dal fattore di avere caro il proprio sé,
da quel momento in poi il nostro principale obiettivo diventerà quello di liberarci con
ogni mezzo possibile da questa oscurazione, che è poi il nostro unico, vero nemico.
Il quinto potere, infine, è quello della preghiera: giunti a sera, possiamo fare il
punto di tutto ciò che abbiamo fatto di positivo nel corso della giornata, e dedicare
37
Monaco buddhista indiano, di scuola Mahāyāna Mādhyamika, vissuto a cavallo tra il VII e l’VIII
secolo d.C. La sua biografia è avvolta nella leggenda: in particolare, gli vengono attribuite varie
azioni miracolose. Dei tre testi a lui attribuiti, il più noto è il Bodhisattvacaryāvatāra (“L’ingresso
nella via dei Bodhisattva”). Il testo - trascritto a memoria in due versioni, una lunga e una più breve,
dai discepoli che avevano ascoltato i suoi insegnamenti - è essenzialmente incentrato sullo sviluppo
della mente di Bodhicitta e sui benefici derivanti da questa pratica.
38
La pratica della generosità è una delle cosiddette Pāramitā. Il termine sanscrito Pāramitā,
letteralmente “raggiungimento della riva opposta”, in ambito buddhista viene essenzialmente
tradotto come “perfezione”, e sta ad indicare le virtù trascendenti che vengono praticate dal
bodhisattva, esistenza dopo esistenza, fino al conseguimento della suprema illuminazione per il
beneficio di tutti gli esseri. Sono dette “perfezioni” solo nella misura in cui sono congiunte alla
pratica per la realizzazione della vacuità; altrimenti sarebbero azioni virtuose ordinarie che non
portano all’illuminazione ma alla generazione di karma positivo, il cui effetto andrebbe
sperimentato sempre e comunque entro i limiti del saṃsāra.
Nei testi della tradizione pāli e nei trattati Mahāyāna come l’Abhisamayalamkara, il
Madhyamikavatara, e così via, vengono esposte dieci perfezioni; ma l’elenco più noto, che è già
presente in alcune scuole antiche, è composto da sei Pāramitā: 1) la generosità (Dāna), sia
materiale che spirituale; 2) la disciplina (Śīla), ossia i precetti morali della condotta appropriata che
si fonda sui due principi fondamentali di praticare il bene ed evitare di fare del male; 3) la pazienza
(Kṣanti), ossa la tolleranza che il praticante coltiva nei confronti delle offese altrui, degli eventi
dolorosi in genere, e verso se stesso; questa tolleranza scaturisce da una mente indisturbata, che
coglie l’illusorietà di tutto ciò che a livello ordinario viene percepito come offensivo o dannoso; 4)
l’impegno entusiastico (Vīrya), ossia l’atteggiamento energico del praticante che persevera lungo il
sentiero, senza cedere alla pigrizia, all’apatia, alla paura, e così via; 5) la concentrazione (Dhyāna),
intesa come chiarezza mentale, capacità di discernimento, contemplazione, e così via; 6) la
saggezza (Prajñā), ossia la conoscenza della vacuità; quest’ultima Pāramitā è considerata a tutti gli
effetti la perfezione suprema che dà valore a tutte le altre.
La mente liberata. Dialoghi sulla pratica del buddhismo nell’era della crisi e della
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agli altri tutti gli sforzi compiuti, rinnovando il desiderio di raggiungere la suprema
illuminazione per il beneficio di tutti gli esseri.
Questa è la pratica che vi suggerisco di fare ogni giorno.
Si ringrazia la signora Heda Klein per la preziosa attività di traduzione
simultanea dal tibetano all’italiano svolta nel corso dell’intervista.