LA FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO DI VICO: INTERPRETAZIONI

JÓZSEF NAGY
LA FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO DI VICO:
INTERPRETAZIONI ANALITICHE ED ERMENEUTICHE
Le analisi rilevanti sulla filosofia del linguaggio di Giambattista Vico per
lungo tempo erano quelle effettuate da alcuni autori appartenenti alla
corrente neoidealista e a quella ermeneutica. Negli ultimi dieci anni le
concezioni linguistiche di Vico hanno ispirato pure alcuni rappresentanti
della corrente analitica a formulare le proprie intepretazioni – accentuando
il carattere sorprendentemente (post)moderno della teoria linguistica
vichiana. Nel presente studio, in seguito alla rievocazione di alcune tesi
linguistiche dello stesso Vico, cercherò di presentare in chiave critica alcuni
elementi essenziali dei due approcci interpretativi (quello analitico e quello
ermeneutico) con riferimento alla teoria linguistica di Vico.
Come è noto, le presupposizioni di Vico sulla filosofia del linguaggio
possono essere identificate innanzitutto nella De Ratione (1708), nella De
Antiquissima (1710), inoltre nella seconda e nella terza edizione della Scienza
Nuova (1730, 1744). Nel presente studio prenderò in considerazione alcuni
elementi della concezione linguistica di Vico in base alla Scienza Nuova (e –
nel corso della ricostruzione dell’interpretazione di Apel – in base alla De
Ratione).
1. La Scienza Nuova
Secondo la formulazione più sintetica, relazionata alla filosofia del linguaggio,
e analogamente alle tre età storiche concepite dallo stesso Vico, c’erano
tre spezie di lingue. Delle quali la prima fu una lingua divina mentale per atti
muti religiosi, o sieno divine cerimonie; onde restaron in ragion civile a’ romani
gli «atti legittimi», co’ quali celebravano tutte le faccende delle loro civili utilità.
Qual lingua si conviene alle religioni per tal proprietà: che più importa loro
essere riverite che ragionate; e fu necessaria ne’ primi tempi, che gli uomini
gentili non sapevano ancora articolar la favella. La seconda fu per imprese
eroiche, con le quali parlano l’armi; la qual favella […] restò alla militar
disciplina. La terza è per parlari, che per tutte le nazioni oggi s’usano, articolati.
(Vico 1977: 596)
182
In stretto rapporto con i sopraddetti Vico parla delle tre specie di caratteri, cioè
della funzione storica dei „caratteri divini” (ossia dei geroglifici), dei „caratteri
eroici” ed infine dei „caratteri volgari” (cfr. Vico 1977:596-597). In tali
concezioni Vico evidentemente non riflette esclusivamente sulla formazione
della scrittura, ma – anticipando alcune presupposizioni di Schleiermacher –
sull’effetto mutuo tra la lingua scritta e quella orale.
Nei „corollari d’intorno all’origini delle lingue e delle lettere” della parte
della Scienza Nuova sulla „sapienza poetica” possiamo leggere tra l’altro di „tre
incontrastate verità”; secondo la prima, dato che „le prime nazioni gentili
[dovettero] tutte essere state mutole ne’ loro incominciamenti, dovettero
spiegarsi per atti o corpi che avessero naturali rapporti alle loro idee” (Vico
1977:304). In accordo con una delle riflessioni che introducono tale „verità”, i
primi tropi sono dei corollari della „logica poetica” concepita da Vico; tra i tropi
la più luminosa e, perché luminosa, più necessaria e più spessa è la
metafora, ch’allora è vieppiù lodata quando alle cose insensate ella dà
senso e passione […]: i primi poeti dieder a’ corpi l’essere di sostanze
animate1, sol di tanto capaci di quanto essi potevano, cioè di senso e di
passione, e sì ne fecero le favole; talché ogni metafora sì fatta vien ad
essere una picciola favoletta.
(Vico 1977: 283-284)
Da tutto ciò secondo Vico consegue la regola secondo la quale „tutte
le metafore portate con simiglianze prese da’ corpi a significare lavori di
menti astratte debbon essere de’ tempi ne’ quali s’eran incominciate a
dirozzar le filosofie”(ibidem).2 Vico aggiunge a tutto questo pure che „in
tutte le lingue la maggior parte delle espressioni d’intorno a cose
inanimate sono fatte con trasporti del corpo umano e delle sue parti e
degli umani sensi e dell’umane passioni” (Vico 1977: 284).
Alcuni „princìpi” rilevanti relazionati alle riflessioni di Vico sulla
genesi del linguaggio devono essere presentati più dettagliatamente.
Secondo la spiegazione di Vico
1
rileva Vico (in modo analogo a, ma allo stesso tempo in modo radicalmente diverso
da Hobbes) l’importanza delle strutture concettuali riferite ai corpi
2 Cfr. in seguito con l’analisi di D’Alfonso.
183
i mutoli si spiegano per atti o corpi c’hanno naturali rapporti all’idee ch’essi
vogliono significare. Questa degnità è ’l principio del parlar naturale, che
congetturò Platone nel Cratilo, e, dopo lui, Giamblico, [nel] De mysteriis
aegyptiorum, essersi una volta parlato nel mondo.
(Vico 1977: 201)
Secondo un ulteriore „principio” vichiano „le lingue debbon aver
incominciato da voci monosillabe” (Vico 1977: 202). Infine cito un’altra
„degnità” che pone al centro un determinato concetto di „corporeità” (e che
per questo potrebbe pure essere considerata „hobbesiana”): secondo
dunque „l’universal principio d’etimologia in tutte le lingue […] i vocaboli
sono trasportati da’ corpi e dalle proprietà de’ corpi a significare le cose
della mente e dell’animo” (Vico 1977: 203).
2. Interpretazioni neoidealiste ed ermeneutiche della filosofia del
linguaggio di Vico
A livello preliminare si può affermare che sia gli interpreti della corrente
neoidealista e di quella ermeneutica da una parte, sia coloro che – dall’altra
parte – hanno effettuato le proprie interpretazioni da un approccio analitico,
hanno attribuito grande importanza alla concezione linguistica di Vico, e si
sono impegnati nell’interpretazione adeguata di tale concezione coi propri
apparati concettuali con quasi la stessa efficacia. Nell’interpretazione
neoidealista di Benedetto Croce si può facilmente identificare l’impegno di
applicare i princìpi fondamentali (specificamente la teoria dell’intuizione e
tutto ciò che deriva da essa) dell’estetica crociana nel corso
dell’interpretazione delle tesi linguistiche di Vico, innanzitutto allo scopo di
dimostrare l’efficienza di tale teoria estetica. Nell’interpretazione di
fondamento ermeneutico con riferimento all’opera di Vico si vede
chiaramente un paradosso: l’approccio ermeneutico implicitamente e in
numerosi aspetti non è altro che il ripensamento dell’interpretazione
crociana (inoltre di quella gentiliana e desanctisiana) della filosofia di Vico;
ciònonostante i rappresentanti della corrente ermeneutica si distinguono
esplicitamente e accentuatamente dall’intepretazione neoidealista del
pensiero di Vico. Da quest’attitudine consegue direttamente un’altra
peculiarità dell’approccio ermeneutico di Vico: quella di attribuire grande
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importanza alla distinzione – nella storia della filosofia – di due tradizioni,
quella umanistica e quella razionalista, e quella di effettuare l’evaluazione
della filosofia di Vico in base a tale distinzione (estremamente arbitraria).
Vediamo dunque alcuni elementi dell’interpretazione neoidealista di Croce,
poi di quella ermeneutica di Grassi e di Apel.
Croce si è occupato dettagliatamente di Vico in un capitolo dell’Estetica
del 1902, oltre che ne La filosofia di G.B. Vico del 1911. Nel capitolo su Vico
dell’Estetica l’elemento chiave dell’analisi di Croce è la tesi
sull’indipendenza e sulla primordialità della poesia: il fantastico è
assolutamente indipendente ed autonomo rispetto al razionale; il razionale
non solo è incapace di aggiungere qualcosa al fantastico o renderlo più
perfetto, ma è semplicemente distruttivo dal punto di vista del fantastico
(cfr. Croce 1973:243). Secondo Croce Vico con questa sua tesi si è opposto a
Platone, che (analogamente a Descartes nella modernità) ha posto la poesia
nelle parti inferiori dello spirito, tra gli spiriti animali (cfr. Croce 1973:243). È
da considerare un’osservazione rilevante di Croce quella secondo la quale
Vico da un lato separa l’arte/poesia dalla scienza/ragione, inoltre separa la
poesia dalla storia per poi identificare queste ultime due. Secondo la
spiegazione di Croce Vico confuta la concezione errata in base alla quale la
storia osserva il particolare mentre la poesia osserva l’universale, in più Vico
identifica la scienza con la poesia nel senso che ambedue osservano dei concetti
e sono ideali (cfr. Croce 1973:246).
La conclusione dell’analisi di Croce con rispetto a questo problema è che
la poesia è la rappresentazione del probabile o verosimile, di modo che la
poesia necessariamente anticipa la rappresentazione del verum; ciò si spiega
col fatto che secondo Vico la poesia e la storia originalmente sono identiche
(cfr. Croce 1973:247), giacchè mentre la poesia dà delle immagini
dell’immaginazione, la scienza dà la verità razionalmente concepibile (il
verum), e infine la storia dà la coscienza del certo (il certum) (cfr. Croce
1973:247). Secondo dunque l’interpretazione crociana nella teoria poetica e
linguistica di Vico la poesia e il linguaggio sono essenzialmente identici: il
discorso poetico è primario rispetto a quello prosaico, inoltre –
diversamente dalle concezioni convenzionaliste del linguaggio – le parole e
le lingue devono avere dei significati in base alla loro origine naturale (cfr.
Croce 1973:247-248).
185
Per quanto riguarda il problema della genesi del linguaggio, in base alla
concezione crociana-vichiana – e anticartesiana – formulata nella
monografia „la poesia non è nata per capriccio di piacere, ma per necessità di
natura. La poesia […] è la prima operazione della mente umana” (Croce
1933:49, corsivi miei, J.N.). Secondo Croce Vico è giunto alla dichiarazione
di tale posizione perchè considerava che Platone con l’opposizione physisnomoi nel Cratilo, inoltre tra gli autori moderni Scaligero, Sanchez e Schopp,
che hanno cercato di ricondurre l’origine del linguaggio ai princìpi della
logica (e ciò si può affermare anche su Leibniz e su Descartes), non erano in
grado di dare una spiegazione adeguata sull’origine del linguaggio (cfr.
Croce 1933:47). In relazione all’origine del linguaggio Vico rigetta sia le
posizioni che fanno appello all’origine divina, sia quelle innatisterazionaliste, e sia quelle convenzionaliste (allo stesso tempo però accettando
alcuni elementi di queste), e – come già è stato accennato – condivide la tesi
sull’origine naturale del linguaggio. Vico dunque riconduce l’origine di tutte
le lingue possibili all’atto poetico, che include l’impegno di annullare la
supposta dualità tra poesia e linguaggio (cfr. Croce 1933:50-51). A tali
principi poetici Vico riconduce non solo l’origine del linguaggio, ma anche
quella delle scritture, quando in queste ultime „il Vico viene a distinguere
[…] quella parte che è propriamente scrittura e perciò convenzione,
dall’altra che è invece diretta espressione, e perciò linguaggio, favola,
poesia, pittura” (Croce 1933:51).
Vico si distingue dalle concezioni linguistiche formulate previamente a
lui in modo che riprende e ripensa diversi elementi di esse. La novità della
teoria linguistica vichiana secondo Croce è identificabile in due presupposti
di questa: da una parte l’esistenza di una „logica poetica” che è il
fondamento dell’origine del linguaggio (cfr. Croce 1933: 48), dall’altra parte
la tesi secondo la quale „la poesia è la prima forma della mente, anteriore
all’intelletto e libera da riflessione e raziocini” (Croce 1933: 55). L’intento
della definizione del concetto vichiano di „mito” (mostrando – in senso
critico – dei tratti saussuriani) è effettuato da Croce come segue: „i miti o
favole non contengono sapienza riposta, cioè concetti ragionati, avvolti
consapevolmente nel velo della favola; e perciò non sono allegorie.
L’allegoria importa che si abbia, da una parte, il concetto o significato,
dall’altra la favola o involucro, e tra le due cose l’artifizio che le fa stare
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insieme. Ma i miti non si possono scindere in questi tre momenti, e neppure
in un significato e un significante: i loro significati sono univoci” (Croce
1933: 65).
Ernesto Grassi nell’interpretazione della concezione linguistica di Vico
(secondo la propria intenzione contrapponendosi all’interpretazione
crociana, ma in realtà mantenendo delle forti affinità con quella) applica la
terminologia della filosofia di Heidegger, formulata nell’Essere e tempo (del
1927), nel corso della chiarificazione delle tesi vichiane sulla genesi del
linguaggio, inoltre sulla separazione (o différance) della razionalità
dall’irrazionalità (cfr. Grassi 1979). In questa interpretazione le tre fasi –
concepite da Vico – della formazione del linguaggio sono spiegate in base
all’analogia di queste con le tre „esistenziali” – formulate da Heidegger –
dell’esistenza umana e del linguaggio: l’essere-nel-mondo [Befindlichkeit o
Stimmung], la comprensione [Entwurf o Verstehen], infine il linguaggio (che –
mediante dei termini linguistici con significato – rende possibile la
comprensione dell’esserci [Dasein]).
Nel capitolo intitolato „La filologia trascendentale di Giambattista Vico”
dell’opera di Karl Otto Apel sulla storia delle teorie linguistiche, l’autore,
che condivide pienamente l’approccio all’opera vichiana di certi storici delle
idee appartenenti alla corrente ermeneutica (per esempio quello del
sopraccennato Grassi e anche quello di Gadamer), sostiene ed accentua che
nel corso dell’analisi della formazione delle concezioni linguistiche
moderne (in relazione alla quale Apel attribuisce un ruolo centrale a Vico) è
essenziale vedere chiaramente che „la metafisica cristiano-platonica ovvero
cristiano-pitagorica della scienza come mathesis universalis, metafisica che
procede da Cusano e che sul piano della filosofia del linguaggio si presenta
come razionalizzazione della mistica cristiana del Logos, secondo cui nel suo
linguaggio l’uomo «conrisponde» all’esprimersi divino (incarnazionale) del
mondo nel Logos (verbum) […], deve esser posta come base di partenza e
sfondo comparativo anche della gnoseologia e della filosofia del linguaggio
di Giambattista Vico” (Apel 1975: 414).
Per quanto riguarda la gnoseologia di Vico, Apel accentua tra l’altro che
il principio del verum et factum convertuntur (spiegata dettagliatamente da
Vico nella De Antiquissima, poi nelle due Risposte, date a due critiche, nel
1711-1712) praticamente corrisponde all’„idea della matematica come d’una
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(dell’unica) imitazione (fatto corrispondente) che della arte creativa divina
sia possibile all’uomo” (Apel 1975: 409). Apel cita la sintesi della prima
epistemologia di Vico, ritrovabile nella De Ratione (e analoga all’idea-base
della De Corpore di Hobbes), in cui si accentua la necessità della separazione
del verum matematico da quello fisico,3 inoltre cita anche la tesi vichiana
espressa nella De Antiquissima sul carattere non-scientifico (che si presenta
cioè solo al livello della coscienza) del principio del cogito di Descartes (cfr.
Apel 1975: 410).
In seguito Apel interpreta l’idea vichiana della topica per mezzo del
commento di luoghi testuali nei quali si può identificare il tratto
relativistico-culturale, analizzato pure da Isaiah Berlin, immanente nel
pensiero di Vico. „I francesi abbondano di sostantivi, ma la sostanza è per sé
bruta e immobile e non ammette comparazioni. Perciò essi non sono capaci
di dar calore al discorso, perché sono privi di una fortissima commozione,
né possono ampliare o ingrandire nulla. Da ciò, l’impossibilità d’invertire le
parole, perché la sostanza, essendo il maggiore tra i generi delle cose, non
comprende alcunché di medio, nel quale convengano e si unifichino gli
estremi delle similitudini. Perciò con termini di tal genere non si possono
formare metafore con un solo vocabolo” (Vico 1971: 815, in: Apel 1975: 432433). Secondo il commento di Apel, in base al luogo testuale citato nella
concezione di Vico il francese „corrisponderebbe […] in larga misura alla
concezione leibniziana della lingua di calcolo, per la quale le parole
dovrebbero essere non medium metaforico della conoscenza intuitiva, ma
segni assolutamente fissi e «sordi», cioè senza «intrinseca forma linguistica
figurabile» […], segni univocamente coordinati, al servizio d’un «pensiero
cieco» proprio delle sostanze nei loro rapporti” (Apel 1975: 433). Secondo
l’ulteriore caratterizzazione del francese, data da Vico, „la medesima lingua,
come è impotente allo stile oratorio, sublime e ornato, è molto adatta a uno
stile piano. Ricca di sostantivi e di quei vocaboli che gli scolastici
definiscono sostanze astratte, essa esprime i princìpi generali delle cose. Per
questo è adattissima al genere didascalico” (Vico 1971: 815, in Apel 1975:
433). Il ruolo centrale dei francesi nella formazione delle teorie linguistiche è
3
„Geometrica demonstramus, quia facimus; si physica demonstrare possemus,
faceremus. In uno enim Deo Opt. Max. sunt verae formae, quibus earumdem est
conformata natura.” (Vico 1971: 803, in: Apel 1975: 409-410)
188
formulato da Vico pure nella Scienza Nuova, allo stesso tempo caratterizza
l’italiano comparandolo al francese come segue: „noi italiani […] siamo
dotati di una lingua sempre suscitatrice d’immagini, […] che […] per il
fascino delle similitudini trasporta gli animi degli uditori alla comprensione
di cose diverse e lontane fra loro” (Vico 1971: 815, in Apel 1975: 434).
Secondo Apel le tesi vichiane sul linguaggio, identificabili nella De
Ratione e nella De Antiquissima rivelano che Vico „ricade entro i limiti della
filosofia segreta dell’umanesimo, […] che furono tracciati dal principio
ellenistico delle logos-technai” e „solo nella Scienza Nuova gli riuscirà di
formulare un’intuizione, rivoluzionaria sul piano della filosofia del
linguaggio, della gnoseologia e della storia dello spirito, quella
dell’originaria necessità d’una fondazione poetica della realtà mondana”
(Apel 1975: 435). Apel rileva anche l’universalismo linguistico, di radice
cartesiana (che bilancia il relativismo), immanente nel pensiero di Vico,
ossia l’„idea d’un dizionario mentale da dare le significazioni a tutte le lingue
articolate diverse, riducendole tutte a certe unità d’idee in sostanza, che, con
varie modificazioni guardate da’ popoli, hanno da quelli avuto vari diversi
vocaboli”.4 In relazione a quest’idea vichiana dell’universalismo linguistico
giustamente accentua Richard J. Lane, in un suo saggio su Derrida, che tale
idea (che secondo lo stesso Lane costituisce un’autentica rivoluzione o svolta
linguistica [linguistic turn]) „è in piena armonia con uno dei sogni metafisici –
secondo il quale l’unità pre-babelica dell’espressione [linguistica] può essere
ricuperata – , ossia con un impegno di fondamento particolarmente
nostalgico che non è condiviso dal decostruttivismo. Si può vedere
chiaramente che gli assiomi filologico-filosofici di Vico, per esempio le sue
affermazioni sulla poesia concepita come imitazione, sono di carattere
metafisico, mentre allo stesso tempo sostengono pure il primato del
linguaggio sulla filosofia” (Lane 2003: 84).
4
Vico 1977:316, in Apel 1975:473. Tale idea dell’universalismo linguistico è
riformulata in un altro luogo testuale come segue: „è necessario che vi sia nella
natura delle cose [delle istituzioni] umane una lingua mentale comune a tutte le
nazioni, la quale uniformemente intenda la sostanza delle cose agibili nell’umana
vita socievole, e la spieghi con tante diverse modificazioni per quanti diversi aspetti
possan aver esse cose” (Vico 1977:185).
189
3. Interpretazioni analitiche della filosofia del linguaggio di Vico
In questa parte della mia relazione cercherò di rilevare alcuni filoni di
pensiero del volume Vico and Anglo-American Science, contenente studi che –
secondo la propria intenzione – chiariscono i fondamenti concettuali
storico-filosofici, linguistico-filosofici e antropologici della teoria vichiana
(oltre la rilevanza del ruolo che essa ha svolto nel programma linguistico
del Settecento) basicamente coi mezzi dell’approccio analitico. Nello studio
di Aldo D’Alfonso si analizza la concezione di „metafora” formulata da
Vico: in base alla teoria linguistica dello stesso Vico (secondo la
formulazione di D’Alfonso) „la metafora è il nucleo dell’apprendimento del
linguaggio. […] Forma una disposizione psicologica, una struttura della
mente [a frame of mind], forma il modo intuitivo ed empatico del
relazionarsi alla realtà, un mezzo simbolico della comunicazione che è più
fondamentale delle forme convenzionali del linguaggio denotativo. Vico ha
teorizzato proprio in questo modo la metafora nella sua opera dal titolo La
Scienza Nuova, nella quale considerava la metafora come il modo di
esprimersi spontaneamente degli uomini primitivi, e non come una
strategia degli scrittori e degli oratori colti che sono capaci di manipolare la
metafora secondo i cànoni della retorica tradizionale” (D’Alfonso 1995: 52).
La prima definizione della metafora è data da Vico nella De Ratione, da una
parte in stretta connessione con lo spirito della retorica tradizionale
(secondo la quale la metafora è l’elemento ornamentale principale del
discorso retorico); dall’altra parte invece „la considera una capacità sintetica
e creativa tale, che allo scopo di perfezionare le conoscenze umane – invece
di indagare cose simili tra di esse – ritrova e ricompone cose e idee nuove”
(D’Alfonso 1995: 53). Si può dunque affermare che nella teoria di Vico
„l’attività dell’intelletto è costituita dalla percezione delle similitudini per
mezzo della connessione di cose diverse e separate, e dall’unificazione di
esse in una conoscenza concreta di vigore universale («universali fantastici»
[«imaginative universals»]). La metafora ha un ruolo centrale in tale
concezione – accentua D’Alfonso – , giacchè è proprio lo strumento col
quale l’intelletto realizza le connessioni in questione” (D’Alfonso 1995: 54),
ed esclusivamente basandoci sul funzionamento di questo genere della
metafora viene resa accessibile la conoscenza logica-razionale. Come lo
190
studioso ci indica, lo stesso Vico rileva nella Scienza Nuova che le quattro
categorie dei tropi [tropes], „i quali si sono finora creduti ingegnosi
ritruovati degli scrittori, sono stati necessari modi di spiegarsi [di] tutte le
nazioni poetiche” (Vico 1977: 287, in D’Alfonso 1995: 54).
Concludo la trattazione degli studi di approccio analitico della
concezione vichiana del linguaggio con il lavoro di Jana Vizmuller-Zocco
(focalizzato sulla teoria di Vico del cambiamento del linguaggio). L’autore –
secondo me in modo coerente – mette in stretta connessione le tre fasi
storiche di Vico con le tre fasi dello sviluppo del linguaggio, formulate dallo
stesso Vico: ossia l’età degli dèi, degli eròi e degli uomini in realtà costituiscono
esclusivamente le tre fasi del funzionamento del linguaggio. Vizmuller-Zocco cita
un pensiero di Verene, secondo il quale „nell’evoluzione della cultura
umana l’esperienza umana che si forma nei termini degli universali
fantastici [imaginative universals], rende possibile la formazione
dell’universale intelligibile [intelligible universal]. Per Vico tale processo
non si effettua semplicemente con una modificazione interna
dell’universale fantastico, per mezzo della quale a livello concettuale
formiamo l’universale intelligibile. Invece tale processo comporta la
modificazione delle forme sociali della vita. […] Le relazioni tra le situazioni
sociali e le forme del pensare sono piuttosto di carattere strutturale che
causale” (Verene 1981: 72-73, in Vizmuller–Zocco 1995: 238).
La caratteristica principale delle tre età è costituita dunque dai tre tipi di
linguaggio che si relazionano ad esse, e che sono la lingua sacra, la lingua
simbolica e la lingua volgare. Ogni epoca – in funzione degli orientamenti e
delle esigenze umane – si evolve dal periodo storico ad essa precedente. A
questo punto Vizmuller-Zocco cita una riflessione di Berlin, secondo la
quale „nella visione storica di Vico gli uomini non sono portati
necessariamente con dei metodi razionali o da motivazioni razionali a
soddisfare le proprie esigenze derivanti da istinti basici [basic drives] – ossia
dalla paura, dal desiderio per il potere, […] dal desiderio per la
comprensione, per l’espressione, per la comunicazione – ; e le attività
creative che in questo modo si formano servono per generare delle tensioni
sociali tali che – stabilendo nuove forme della vita sociale – modificano la
loro vita, le loro idee e la loro personalità” (Berlin 1976: 254, in Vizmuller–
Zocco 1995: 238).
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Secondo Vizmuller-Zocco „Vico ci indica che per noi le prime
enunciazioni [utterances] degli uomini sono praticamente
inimmaginabili, giacchè la nostra mente è diventata estremamente
concettuale. Nella Scienza Nuova uno degli scopi di Vico è quello di
fornire un’introspezione nei primi atti della riflessione
fantastica/immaginativa, che per noi sono talmente difficili da
comprendere. Per effettuare ciò, stabilisce le etimologie delle parole
in modo che i primi concetti siano ritrovabili in esse” (Vizmuller–
Zocco 1995: 238). Giustamente osserva lo studioso che il metodo
etimologico di Vico non dispone del necessario rigore metodologico –
ma dal punto di vista dell’analisi della formazione delle idee
l’impegno di Vico è da considerare rilevante.
Vizmuller-Zocco distingue sette aspetti della concezione
linguistica di Vico, che elencherò a mo’ di conclusione:
- il linguaggio si forma nella rappresentazione concreta dei domini
referenziali;
- l’intelletto razionale comprende con grande difficoltà le fasi
anteriori della riflessione verbale;
- il linguaggio delle prime due età (quella degli dèi e quella degli
eroi) è simile al linguaggio dei bambini: ossia per Vico la filogenesi si
riconnetta all’ontogenesi; tale linguaggio è per eccellenza composto
da immagini ed è metaforico;
- il mutamento linguistico comporta necessariamente un
mutamento mentale;
- il mutamento nel comportamento istituzionale rispecchia un
mutamento nel linguaggio e nella mente;
- la cronologia del cambiamento e il periodo temporale che separa
gli stadi consecutivi è mutevole, non è costante;
- il cambiamento in questione non è teleologico: ossia tale
cambiamento non ha uno scopo specifico (Cfr. Vizmuller–Zocco
1995:239).
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