JÓZSEF NAGY LA FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO DI VICO: INTERPRETAZIONI ANALITICHE ED ERMENEUTICHE Le analisi rilevanti sulla filosofia del linguaggio di Giambattista Vico per lungo tempo erano quelle effettuate da alcuni autori appartenenti alla corrente neoidealista e a quella ermeneutica. Negli ultimi dieci anni le concezioni linguistiche di Vico hanno ispirato pure alcuni rappresentanti della corrente analitica a formulare le proprie intepretazioni – accentuando il carattere sorprendentemente (post)moderno della teoria linguistica vichiana. Nel presente studio, in seguito alla rievocazione di alcune tesi linguistiche dello stesso Vico, cercherò di presentare in chiave critica alcuni elementi essenziali dei due approcci interpretativi (quello analitico e quello ermeneutico) con riferimento alla teoria linguistica di Vico. Come è noto, le presupposizioni di Vico sulla filosofia del linguaggio possono essere identificate innanzitutto nella De Ratione (1708), nella De Antiquissima (1710), inoltre nella seconda e nella terza edizione della Scienza Nuova (1730, 1744). Nel presente studio prenderò in considerazione alcuni elementi della concezione linguistica di Vico in base alla Scienza Nuova (e – nel corso della ricostruzione dell’interpretazione di Apel – in base alla De Ratione). 1. La Scienza Nuova Secondo la formulazione più sintetica, relazionata alla filosofia del linguaggio, e analogamente alle tre età storiche concepite dallo stesso Vico, c’erano tre spezie di lingue. Delle quali la prima fu una lingua divina mentale per atti muti religiosi, o sieno divine cerimonie; onde restaron in ragion civile a’ romani gli «atti legittimi», co’ quali celebravano tutte le faccende delle loro civili utilità. Qual lingua si conviene alle religioni per tal proprietà: che più importa loro essere riverite che ragionate; e fu necessaria ne’ primi tempi, che gli uomini gentili non sapevano ancora articolar la favella. La seconda fu per imprese eroiche, con le quali parlano l’armi; la qual favella […] restò alla militar disciplina. La terza è per parlari, che per tutte le nazioni oggi s’usano, articolati. (Vico 1977: 596) 182 In stretto rapporto con i sopraddetti Vico parla delle tre specie di caratteri, cioè della funzione storica dei „caratteri divini” (ossia dei geroglifici), dei „caratteri eroici” ed infine dei „caratteri volgari” (cfr. Vico 1977:596-597). In tali concezioni Vico evidentemente non riflette esclusivamente sulla formazione della scrittura, ma – anticipando alcune presupposizioni di Schleiermacher – sull’effetto mutuo tra la lingua scritta e quella orale. Nei „corollari d’intorno all’origini delle lingue e delle lettere” della parte della Scienza Nuova sulla „sapienza poetica” possiamo leggere tra l’altro di „tre incontrastate verità”; secondo la prima, dato che „le prime nazioni gentili [dovettero] tutte essere state mutole ne’ loro incominciamenti, dovettero spiegarsi per atti o corpi che avessero naturali rapporti alle loro idee” (Vico 1977:304). In accordo con una delle riflessioni che introducono tale „verità”, i primi tropi sono dei corollari della „logica poetica” concepita da Vico; tra i tropi la più luminosa e, perché luminosa, più necessaria e più spessa è la metafora, ch’allora è vieppiù lodata quando alle cose insensate ella dà senso e passione […]: i primi poeti dieder a’ corpi l’essere di sostanze animate1, sol di tanto capaci di quanto essi potevano, cioè di senso e di passione, e sì ne fecero le favole; talché ogni metafora sì fatta vien ad essere una picciola favoletta. (Vico 1977: 283-284) Da tutto ciò secondo Vico consegue la regola secondo la quale „tutte le metafore portate con simiglianze prese da’ corpi a significare lavori di menti astratte debbon essere de’ tempi ne’ quali s’eran incominciate a dirozzar le filosofie”(ibidem).2 Vico aggiunge a tutto questo pure che „in tutte le lingue la maggior parte delle espressioni d’intorno a cose inanimate sono fatte con trasporti del corpo umano e delle sue parti e degli umani sensi e dell’umane passioni” (Vico 1977: 284). Alcuni „princìpi” rilevanti relazionati alle riflessioni di Vico sulla genesi del linguaggio devono essere presentati più dettagliatamente. Secondo la spiegazione di Vico 1 rileva Vico (in modo analogo a, ma allo stesso tempo in modo radicalmente diverso da Hobbes) l’importanza delle strutture concettuali riferite ai corpi 2 Cfr. in seguito con l’analisi di D’Alfonso. 183 i mutoli si spiegano per atti o corpi c’hanno naturali rapporti all’idee ch’essi vogliono significare. Questa degnità è ’l principio del parlar naturale, che congetturò Platone nel Cratilo, e, dopo lui, Giamblico, [nel] De mysteriis aegyptiorum, essersi una volta parlato nel mondo. (Vico 1977: 201) Secondo un ulteriore „principio” vichiano „le lingue debbon aver incominciato da voci monosillabe” (Vico 1977: 202). Infine cito un’altra „degnità” che pone al centro un determinato concetto di „corporeità” (e che per questo potrebbe pure essere considerata „hobbesiana”): secondo dunque „l’universal principio d’etimologia in tutte le lingue […] i vocaboli sono trasportati da’ corpi e dalle proprietà de’ corpi a significare le cose della mente e dell’animo” (Vico 1977: 203). 2. Interpretazioni neoidealiste ed ermeneutiche della filosofia del linguaggio di Vico A livello preliminare si può affermare che sia gli interpreti della corrente neoidealista e di quella ermeneutica da una parte, sia coloro che – dall’altra parte – hanno effettuato le proprie interpretazioni da un approccio analitico, hanno attribuito grande importanza alla concezione linguistica di Vico, e si sono impegnati nell’interpretazione adeguata di tale concezione coi propri apparati concettuali con quasi la stessa efficacia. Nell’interpretazione neoidealista di Benedetto Croce si può facilmente identificare l’impegno di applicare i princìpi fondamentali (specificamente la teoria dell’intuizione e tutto ciò che deriva da essa) dell’estetica crociana nel corso dell’interpretazione delle tesi linguistiche di Vico, innanzitutto allo scopo di dimostrare l’efficienza di tale teoria estetica. Nell’interpretazione di fondamento ermeneutico con riferimento all’opera di Vico si vede chiaramente un paradosso: l’approccio ermeneutico implicitamente e in numerosi aspetti non è altro che il ripensamento dell’interpretazione crociana (inoltre di quella gentiliana e desanctisiana) della filosofia di Vico; ciònonostante i rappresentanti della corrente ermeneutica si distinguono esplicitamente e accentuatamente dall’intepretazione neoidealista del pensiero di Vico. Da quest’attitudine consegue direttamente un’altra peculiarità dell’approccio ermeneutico di Vico: quella di attribuire grande 184 importanza alla distinzione – nella storia della filosofia – di due tradizioni, quella umanistica e quella razionalista, e quella di effettuare l’evaluazione della filosofia di Vico in base a tale distinzione (estremamente arbitraria). Vediamo dunque alcuni elementi dell’interpretazione neoidealista di Croce, poi di quella ermeneutica di Grassi e di Apel. Croce si è occupato dettagliatamente di Vico in un capitolo dell’Estetica del 1902, oltre che ne La filosofia di G.B. Vico del 1911. Nel capitolo su Vico dell’Estetica l’elemento chiave dell’analisi di Croce è la tesi sull’indipendenza e sulla primordialità della poesia: il fantastico è assolutamente indipendente ed autonomo rispetto al razionale; il razionale non solo è incapace di aggiungere qualcosa al fantastico o renderlo più perfetto, ma è semplicemente distruttivo dal punto di vista del fantastico (cfr. Croce 1973:243). Secondo Croce Vico con questa sua tesi si è opposto a Platone, che (analogamente a Descartes nella modernità) ha posto la poesia nelle parti inferiori dello spirito, tra gli spiriti animali (cfr. Croce 1973:243). È da considerare un’osservazione rilevante di Croce quella secondo la quale Vico da un lato separa l’arte/poesia dalla scienza/ragione, inoltre separa la poesia dalla storia per poi identificare queste ultime due. Secondo la spiegazione di Croce Vico confuta la concezione errata in base alla quale la storia osserva il particolare mentre la poesia osserva l’universale, in più Vico identifica la scienza con la poesia nel senso che ambedue osservano dei concetti e sono ideali (cfr. Croce 1973:246). La conclusione dell’analisi di Croce con rispetto a questo problema è che la poesia è la rappresentazione del probabile o verosimile, di modo che la poesia necessariamente anticipa la rappresentazione del verum; ciò si spiega col fatto che secondo Vico la poesia e la storia originalmente sono identiche (cfr. Croce 1973:247), giacchè mentre la poesia dà delle immagini dell’immaginazione, la scienza dà la verità razionalmente concepibile (il verum), e infine la storia dà la coscienza del certo (il certum) (cfr. Croce 1973:247). Secondo dunque l’interpretazione crociana nella teoria poetica e linguistica di Vico la poesia e il linguaggio sono essenzialmente identici: il discorso poetico è primario rispetto a quello prosaico, inoltre – diversamente dalle concezioni convenzionaliste del linguaggio – le parole e le lingue devono avere dei significati in base alla loro origine naturale (cfr. Croce 1973:247-248). 185 Per quanto riguarda il problema della genesi del linguaggio, in base alla concezione crociana-vichiana – e anticartesiana – formulata nella monografia „la poesia non è nata per capriccio di piacere, ma per necessità di natura. La poesia […] è la prima operazione della mente umana” (Croce 1933:49, corsivi miei, J.N.). Secondo Croce Vico è giunto alla dichiarazione di tale posizione perchè considerava che Platone con l’opposizione physisnomoi nel Cratilo, inoltre tra gli autori moderni Scaligero, Sanchez e Schopp, che hanno cercato di ricondurre l’origine del linguaggio ai princìpi della logica (e ciò si può affermare anche su Leibniz e su Descartes), non erano in grado di dare una spiegazione adeguata sull’origine del linguaggio (cfr. Croce 1933:47). In relazione all’origine del linguaggio Vico rigetta sia le posizioni che fanno appello all’origine divina, sia quelle innatisterazionaliste, e sia quelle convenzionaliste (allo stesso tempo però accettando alcuni elementi di queste), e – come già è stato accennato – condivide la tesi sull’origine naturale del linguaggio. Vico dunque riconduce l’origine di tutte le lingue possibili all’atto poetico, che include l’impegno di annullare la supposta dualità tra poesia e linguaggio (cfr. Croce 1933:50-51). A tali principi poetici Vico riconduce non solo l’origine del linguaggio, ma anche quella delle scritture, quando in queste ultime „il Vico viene a distinguere […] quella parte che è propriamente scrittura e perciò convenzione, dall’altra che è invece diretta espressione, e perciò linguaggio, favola, poesia, pittura” (Croce 1933:51). Vico si distingue dalle concezioni linguistiche formulate previamente a lui in modo che riprende e ripensa diversi elementi di esse. La novità della teoria linguistica vichiana secondo Croce è identificabile in due presupposti di questa: da una parte l’esistenza di una „logica poetica” che è il fondamento dell’origine del linguaggio (cfr. Croce 1933: 48), dall’altra parte la tesi secondo la quale „la poesia è la prima forma della mente, anteriore all’intelletto e libera da riflessione e raziocini” (Croce 1933: 55). L’intento della definizione del concetto vichiano di „mito” (mostrando – in senso critico – dei tratti saussuriani) è effettuato da Croce come segue: „i miti o favole non contengono sapienza riposta, cioè concetti ragionati, avvolti consapevolmente nel velo della favola; e perciò non sono allegorie. L’allegoria importa che si abbia, da una parte, il concetto o significato, dall’altra la favola o involucro, e tra le due cose l’artifizio che le fa stare 186 insieme. Ma i miti non si possono scindere in questi tre momenti, e neppure in un significato e un significante: i loro significati sono univoci” (Croce 1933: 65). Ernesto Grassi nell’interpretazione della concezione linguistica di Vico (secondo la propria intenzione contrapponendosi all’interpretazione crociana, ma in realtà mantenendo delle forti affinità con quella) applica la terminologia della filosofia di Heidegger, formulata nell’Essere e tempo (del 1927), nel corso della chiarificazione delle tesi vichiane sulla genesi del linguaggio, inoltre sulla separazione (o différance) della razionalità dall’irrazionalità (cfr. Grassi 1979). In questa interpretazione le tre fasi – concepite da Vico – della formazione del linguaggio sono spiegate in base all’analogia di queste con le tre „esistenziali” – formulate da Heidegger – dell’esistenza umana e del linguaggio: l’essere-nel-mondo [Befindlichkeit o Stimmung], la comprensione [Entwurf o Verstehen], infine il linguaggio (che – mediante dei termini linguistici con significato – rende possibile la comprensione dell’esserci [Dasein]). Nel capitolo intitolato „La filologia trascendentale di Giambattista Vico” dell’opera di Karl Otto Apel sulla storia delle teorie linguistiche, l’autore, che condivide pienamente l’approccio all’opera vichiana di certi storici delle idee appartenenti alla corrente ermeneutica (per esempio quello del sopraccennato Grassi e anche quello di Gadamer), sostiene ed accentua che nel corso dell’analisi della formazione delle concezioni linguistiche moderne (in relazione alla quale Apel attribuisce un ruolo centrale a Vico) è essenziale vedere chiaramente che „la metafisica cristiano-platonica ovvero cristiano-pitagorica della scienza come mathesis universalis, metafisica che procede da Cusano e che sul piano della filosofia del linguaggio si presenta come razionalizzazione della mistica cristiana del Logos, secondo cui nel suo linguaggio l’uomo «conrisponde» all’esprimersi divino (incarnazionale) del mondo nel Logos (verbum) […], deve esser posta come base di partenza e sfondo comparativo anche della gnoseologia e della filosofia del linguaggio di Giambattista Vico” (Apel 1975: 414). Per quanto riguarda la gnoseologia di Vico, Apel accentua tra l’altro che il principio del verum et factum convertuntur (spiegata dettagliatamente da Vico nella De Antiquissima, poi nelle due Risposte, date a due critiche, nel 1711-1712) praticamente corrisponde all’„idea della matematica come d’una 187 (dell’unica) imitazione (fatto corrispondente) che della arte creativa divina sia possibile all’uomo” (Apel 1975: 409). Apel cita la sintesi della prima epistemologia di Vico, ritrovabile nella De Ratione (e analoga all’idea-base della De Corpore di Hobbes), in cui si accentua la necessità della separazione del verum matematico da quello fisico,3 inoltre cita anche la tesi vichiana espressa nella De Antiquissima sul carattere non-scientifico (che si presenta cioè solo al livello della coscienza) del principio del cogito di Descartes (cfr. Apel 1975: 410). In seguito Apel interpreta l’idea vichiana della topica per mezzo del commento di luoghi testuali nei quali si può identificare il tratto relativistico-culturale, analizzato pure da Isaiah Berlin, immanente nel pensiero di Vico. „I francesi abbondano di sostantivi, ma la sostanza è per sé bruta e immobile e non ammette comparazioni. Perciò essi non sono capaci di dar calore al discorso, perché sono privi di una fortissima commozione, né possono ampliare o ingrandire nulla. Da ciò, l’impossibilità d’invertire le parole, perché la sostanza, essendo il maggiore tra i generi delle cose, non comprende alcunché di medio, nel quale convengano e si unifichino gli estremi delle similitudini. Perciò con termini di tal genere non si possono formare metafore con un solo vocabolo” (Vico 1971: 815, in: Apel 1975: 432433). Secondo il commento di Apel, in base al luogo testuale citato nella concezione di Vico il francese „corrisponderebbe […] in larga misura alla concezione leibniziana della lingua di calcolo, per la quale le parole dovrebbero essere non medium metaforico della conoscenza intuitiva, ma segni assolutamente fissi e «sordi», cioè senza «intrinseca forma linguistica figurabile» […], segni univocamente coordinati, al servizio d’un «pensiero cieco» proprio delle sostanze nei loro rapporti” (Apel 1975: 433). Secondo l’ulteriore caratterizzazione del francese, data da Vico, „la medesima lingua, come è impotente allo stile oratorio, sublime e ornato, è molto adatta a uno stile piano. Ricca di sostantivi e di quei vocaboli che gli scolastici definiscono sostanze astratte, essa esprime i princìpi generali delle cose. Per questo è adattissima al genere didascalico” (Vico 1971: 815, in Apel 1975: 433). Il ruolo centrale dei francesi nella formazione delle teorie linguistiche è 3 „Geometrica demonstramus, quia facimus; si physica demonstrare possemus, faceremus. In uno enim Deo Opt. Max. sunt verae formae, quibus earumdem est conformata natura.” (Vico 1971: 803, in: Apel 1975: 409-410) 188 formulato da Vico pure nella Scienza Nuova, allo stesso tempo caratterizza l’italiano comparandolo al francese come segue: „noi italiani […] siamo dotati di una lingua sempre suscitatrice d’immagini, […] che […] per il fascino delle similitudini trasporta gli animi degli uditori alla comprensione di cose diverse e lontane fra loro” (Vico 1971: 815, in Apel 1975: 434). Secondo Apel le tesi vichiane sul linguaggio, identificabili nella De Ratione e nella De Antiquissima rivelano che Vico „ricade entro i limiti della filosofia segreta dell’umanesimo, […] che furono tracciati dal principio ellenistico delle logos-technai” e „solo nella Scienza Nuova gli riuscirà di formulare un’intuizione, rivoluzionaria sul piano della filosofia del linguaggio, della gnoseologia e della storia dello spirito, quella dell’originaria necessità d’una fondazione poetica della realtà mondana” (Apel 1975: 435). Apel rileva anche l’universalismo linguistico, di radice cartesiana (che bilancia il relativismo), immanente nel pensiero di Vico, ossia l’„idea d’un dizionario mentale da dare le significazioni a tutte le lingue articolate diverse, riducendole tutte a certe unità d’idee in sostanza, che, con varie modificazioni guardate da’ popoli, hanno da quelli avuto vari diversi vocaboli”.4 In relazione a quest’idea vichiana dell’universalismo linguistico giustamente accentua Richard J. Lane, in un suo saggio su Derrida, che tale idea (che secondo lo stesso Lane costituisce un’autentica rivoluzione o svolta linguistica [linguistic turn]) „è in piena armonia con uno dei sogni metafisici – secondo il quale l’unità pre-babelica dell’espressione [linguistica] può essere ricuperata – , ossia con un impegno di fondamento particolarmente nostalgico che non è condiviso dal decostruttivismo. Si può vedere chiaramente che gli assiomi filologico-filosofici di Vico, per esempio le sue affermazioni sulla poesia concepita come imitazione, sono di carattere metafisico, mentre allo stesso tempo sostengono pure il primato del linguaggio sulla filosofia” (Lane 2003: 84). 4 Vico 1977:316, in Apel 1975:473. Tale idea dell’universalismo linguistico è riformulata in un altro luogo testuale come segue: „è necessario che vi sia nella natura delle cose [delle istituzioni] umane una lingua mentale comune a tutte le nazioni, la quale uniformemente intenda la sostanza delle cose agibili nell’umana vita socievole, e la spieghi con tante diverse modificazioni per quanti diversi aspetti possan aver esse cose” (Vico 1977:185). 189 3. Interpretazioni analitiche della filosofia del linguaggio di Vico In questa parte della mia relazione cercherò di rilevare alcuni filoni di pensiero del volume Vico and Anglo-American Science, contenente studi che – secondo la propria intenzione – chiariscono i fondamenti concettuali storico-filosofici, linguistico-filosofici e antropologici della teoria vichiana (oltre la rilevanza del ruolo che essa ha svolto nel programma linguistico del Settecento) basicamente coi mezzi dell’approccio analitico. Nello studio di Aldo D’Alfonso si analizza la concezione di „metafora” formulata da Vico: in base alla teoria linguistica dello stesso Vico (secondo la formulazione di D’Alfonso) „la metafora è il nucleo dell’apprendimento del linguaggio. […] Forma una disposizione psicologica, una struttura della mente [a frame of mind], forma il modo intuitivo ed empatico del relazionarsi alla realtà, un mezzo simbolico della comunicazione che è più fondamentale delle forme convenzionali del linguaggio denotativo. Vico ha teorizzato proprio in questo modo la metafora nella sua opera dal titolo La Scienza Nuova, nella quale considerava la metafora come il modo di esprimersi spontaneamente degli uomini primitivi, e non come una strategia degli scrittori e degli oratori colti che sono capaci di manipolare la metafora secondo i cànoni della retorica tradizionale” (D’Alfonso 1995: 52). La prima definizione della metafora è data da Vico nella De Ratione, da una parte in stretta connessione con lo spirito della retorica tradizionale (secondo la quale la metafora è l’elemento ornamentale principale del discorso retorico); dall’altra parte invece „la considera una capacità sintetica e creativa tale, che allo scopo di perfezionare le conoscenze umane – invece di indagare cose simili tra di esse – ritrova e ricompone cose e idee nuove” (D’Alfonso 1995: 53). Si può dunque affermare che nella teoria di Vico „l’attività dell’intelletto è costituita dalla percezione delle similitudini per mezzo della connessione di cose diverse e separate, e dall’unificazione di esse in una conoscenza concreta di vigore universale («universali fantastici» [«imaginative universals»]). La metafora ha un ruolo centrale in tale concezione – accentua D’Alfonso – , giacchè è proprio lo strumento col quale l’intelletto realizza le connessioni in questione” (D’Alfonso 1995: 54), ed esclusivamente basandoci sul funzionamento di questo genere della metafora viene resa accessibile la conoscenza logica-razionale. Come lo 190 studioso ci indica, lo stesso Vico rileva nella Scienza Nuova che le quattro categorie dei tropi [tropes], „i quali si sono finora creduti ingegnosi ritruovati degli scrittori, sono stati necessari modi di spiegarsi [di] tutte le nazioni poetiche” (Vico 1977: 287, in D’Alfonso 1995: 54). Concludo la trattazione degli studi di approccio analitico della concezione vichiana del linguaggio con il lavoro di Jana Vizmuller-Zocco (focalizzato sulla teoria di Vico del cambiamento del linguaggio). L’autore – secondo me in modo coerente – mette in stretta connessione le tre fasi storiche di Vico con le tre fasi dello sviluppo del linguaggio, formulate dallo stesso Vico: ossia l’età degli dèi, degli eròi e degli uomini in realtà costituiscono esclusivamente le tre fasi del funzionamento del linguaggio. Vizmuller-Zocco cita un pensiero di Verene, secondo il quale „nell’evoluzione della cultura umana l’esperienza umana che si forma nei termini degli universali fantastici [imaginative universals], rende possibile la formazione dell’universale intelligibile [intelligible universal]. Per Vico tale processo non si effettua semplicemente con una modificazione interna dell’universale fantastico, per mezzo della quale a livello concettuale formiamo l’universale intelligibile. Invece tale processo comporta la modificazione delle forme sociali della vita. […] Le relazioni tra le situazioni sociali e le forme del pensare sono piuttosto di carattere strutturale che causale” (Verene 1981: 72-73, in Vizmuller–Zocco 1995: 238). La caratteristica principale delle tre età è costituita dunque dai tre tipi di linguaggio che si relazionano ad esse, e che sono la lingua sacra, la lingua simbolica e la lingua volgare. Ogni epoca – in funzione degli orientamenti e delle esigenze umane – si evolve dal periodo storico ad essa precedente. A questo punto Vizmuller-Zocco cita una riflessione di Berlin, secondo la quale „nella visione storica di Vico gli uomini non sono portati necessariamente con dei metodi razionali o da motivazioni razionali a soddisfare le proprie esigenze derivanti da istinti basici [basic drives] – ossia dalla paura, dal desiderio per il potere, […] dal desiderio per la comprensione, per l’espressione, per la comunicazione – ; e le attività creative che in questo modo si formano servono per generare delle tensioni sociali tali che – stabilendo nuove forme della vita sociale – modificano la loro vita, le loro idee e la loro personalità” (Berlin 1976: 254, in Vizmuller– Zocco 1995: 238). 191 Secondo Vizmuller-Zocco „Vico ci indica che per noi le prime enunciazioni [utterances] degli uomini sono praticamente inimmaginabili, giacchè la nostra mente è diventata estremamente concettuale. Nella Scienza Nuova uno degli scopi di Vico è quello di fornire un’introspezione nei primi atti della riflessione fantastica/immaginativa, che per noi sono talmente difficili da comprendere. Per effettuare ciò, stabilisce le etimologie delle parole in modo che i primi concetti siano ritrovabili in esse” (Vizmuller– Zocco 1995: 238). Giustamente osserva lo studioso che il metodo etimologico di Vico non dispone del necessario rigore metodologico – ma dal punto di vista dell’analisi della formazione delle idee l’impegno di Vico è da considerare rilevante. Vizmuller-Zocco distingue sette aspetti della concezione linguistica di Vico, che elencherò a mo’ di conclusione: - il linguaggio si forma nella rappresentazione concreta dei domini referenziali; - l’intelletto razionale comprende con grande difficoltà le fasi anteriori della riflessione verbale; - il linguaggio delle prime due età (quella degli dèi e quella degli eroi) è simile al linguaggio dei bambini: ossia per Vico la filogenesi si riconnetta all’ontogenesi; tale linguaggio è per eccellenza composto da immagini ed è metaforico; - il mutamento linguistico comporta necessariamente un mutamento mentale; - il mutamento nel comportamento istituzionale rispecchia un mutamento nel linguaggio e nella mente; - la cronologia del cambiamento e il periodo temporale che separa gli stadi consecutivi è mutevole, non è costante; - il cambiamento in questione non è teleologico: ossia tale cambiamento non ha uno scopo specifico (Cfr. Vizmuller–Zocco 1995:239). 192 Bibliografia Apel 1975 K.O. 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