SOMMARIO Premessa . 5 I. Il cervello, la mente 9 II. “Anima” e riduzionismo 19 III. Pensiero, scienza, volontà di potenza.. 31 IL CERVELLO, LA MENTE Sono esistiti ed esistono scienziati con interessi, competenze e attitudini filosofiche rilevanti. D’altra parte non pochi scienziati dicono che in genere i filosofi non conoscono la scienza e che questa loro ignoranza rende inconsistente e superfluo il loro lavoro. E questi scienziati hanno spesso ragione. Ma che significato ha l’espressione “conoscere la scienza”? Vi sono soprattutto due modi di rispondere. Fermo restando che ormai nemmeno gli scienziati possono riconoscere l’intero contenuto delle proprie discipline, conoscere la scienza significa conoscere per lo meno i metodi secondo i quali essa procede, i principali risultati ai quali è pervenuta, la sua genesi, i suoi rapporti con le altre forme di sapere e con la società, i problemi che sorgono dai rapporti tra le singole discipline scientifiche e all’interno della stessa disciplina. Se è in questo modo che i filosofi non conoscono la scienza, allora è come se essi non conoscessero l’esistenza del cielo, delle stelle, degli animali, delle piante. Ma si può rispondere anche (ed è la risposta che molto spesso gli scienziati si danno) dicendo che oramai la filosofia deve porre alla propria base il sapere scientifico. Questa volta sono gli scienziati a mostrarsi ingenui. Perché questa loro risposta non esprime una prospettiva scientifica, ma filosofica, e ingenuamente filosofica. Quale disciplina scientifica, infatti, contiene la strumentazione concettuale che le consenta di affermare che la filosofia deve porre alla propria base la scienza? Nessuna. Anzi, accade qui che sia proprio la scienza a porre alla propria base una cattiva filosofia. Sin dal suo inizio, invece, la filosofia intende essere la forma assolutamente radicale del sapere. E per mostrare in che cosa consista il sapere radicalmente incontrovertibile si porta alle spalle di ogni altro sapere (mitico, artistico, economico, politico, tecnico, scientifico) e quindi esclude di porlo alla propria base. Inconsistente e superflua, dunque, è la filosofia che si fonda sulla scienza — giacché se, così fondandosi, è inconsistente e superflua, allora non è filosofia, ma scienza. Uno degli aspetti più importanti di quel «portarsi alle spalle» di ogni altro sapere riguarda l’esperienza umana del mondo. Non esisterebbe infatti alcun sapere, quindi nemmeno quello scientifico, se il mondo non fosse manifesto, cioè non si mostrasse, non apparisse: non se ne facesse, appunto, esperienza. Certo, la scienza è una continua critica dell’esperienza. Afferma ad esempio che il sole non si muove, come sembra. Ma è necessario che questo sembrare appaia, perché la scienza possa affermareche è illusorio. La scienza però non si interessa di quel fondo che è appunto l’esperienza da cui la scienza pur parte. Su di esso la scienza fa luce con le proprie lampade, tendendo però a dimenticare che sono sempre costruite con materiali che da quel fondo sono tratti. A quel fondo la filosofia si è invece sempre rivolta: per stabilire se, al di là delle apparenze che esso contiene, esso non custodisca in sè anche un nucleo innegabile, incontrovertibile, che stia al fondamento di ogni sapere e di ogni agire. La filosofia «si porta alle spalle» di ogni sapere e agire dell’uomo anche in uno dei campi oggi più frequentati nel campo della neurofisiologia e dell’intelligenza artificiale: quello del rapporto tra mente e cervello. Carl Sagan, uno dei maggiori astrofisici e astrobiologi del XX secolo, scriveva nel suo libro I draghi dell ‘Eden: «La mia premessa fondamentale riguardo al cervello è che le sue attività — ciò che talora chiamiamo “mente” — sono una conseguenza della sua anatomia e della sua fisiologia e nulla più». Tesi sottoscritta da una nutrita schiera di scienziati à la Francis Crick o à la Richard Dawkins, ma antichissima (risale alla filosofia greca). Nell’Ottocento era già sostenuta da Emil Du BoisReymond, e Giacomo Leopardi aveva scritto: «Che la materia pensi è un fatto», chiarendo il significato di questo asserto in modo da far invidia a scienziati e filosofi. Ma la «premessa fondamentale riguardo al cervello» di Sagan può essere avanzata dopo aver fatto molta strada. Infatti, come si fa a sapere che esistono cervelli e quelle «attività» «che talora chiamiamo “mente”»? E che quindi esistono corpi in cui i cervelli si trovano e lo spazio dove tali corpi vivono e stanno in rapporto con altre cose? Non si può rispondere che così: si sa che tutto questo esiste, perché appartiene al mondo che si mostra, si manifesta, appare, al mondo che sperimentiamo: all’esperienza. A questo punto va detto che, per un insieme di motivi che qui non possono esser richiamati, si è prodotto, non solo negli scienziati, una sorta di obnubilamento, per il quale non ci si rende conto che l’esperienza è la forma originaria della mente ed è soltanto sulla base di questa forma che ci si può mettere in cammino per conoscere e agire e dunque per cercare e trovare l’origine della «mente». Chi pensa come Sagan è come se, in pieno giorno, alla luce del sole, tenesse in mano una lampada accesa e, convinto che l’unica luce sia il chiarore diffuso dalla lampada, sostenesse che 1 esso è «conseguenza» dell’«anatomia» e della «fisiologia» della mano che regge la lampada, «e nulla più». La «mente» di cui si occupa la scienza non è cioè l’esperienza, che include tutto ciò a cui il sapere e l’agire umano possono rivolgersi, ma è soltanto una parte dell’esperienza, ossia della mente originaria che sta alle spalle di ogni ricerca scientifica. E parlando della «scienza» mi riferisco sia agli scienziati «riduzionisti», per i quali la mente non è altro che l’attività del cervello (così come la digestione non è altro che l’attività dello stomaco), sia agli scienziati che invece intendono difendere l’autonomia (o addirittura la «spiritualità») della mente rispetto al cervello e alla materia. Non solo: mi riferisco, oltre che a molte posizioni filosofiche del passato, anche a quella filosofia che ormai si è lasciata convincere della necessità di avere alla propria base il sapere scientifico. Certo, la parola «esperienza» può essere intesa in modi del tutto inadeguati rispetto a quanto stiamo dicendo. Qui importa ribadire che al fondo della conoscenza e dell’agire non sta semplicemente il mondo, ma la manifestazione del mondo, il suo esser noto; ed è innanzitutto a questa manifestazione e notizia che spetta di esser qualificata come «mente». La quale, peraltro, in qualche modo contiene tutti gli spazi e tutti i tempi, altrimenti come potrebbe la scienza parlare dell’infinitamente piccolo e dell’infinitamente grande e degli infiniti universi e del big bang e degli stati che avrebbero potuto precederlo? Questa mente è la luce che illumina uno spettacolo immenso, ma alla quale gli uomini non volgono quasi mai lo sguardo, e quando si rivolgono alla propria mente considerano soltanto la dimensione «psichica», che è soltanto una parte dello spettacolo che in quella luce si mostra. Considerando tale limitata dimensione, lo scienziato «riduzionista» si serve del «principio di causalità»: il cervello è la «causa» e la «mente» è l’«effetto». Il neodarwinismo, che intende la «mente» come effetto di una evoluzione estremamente complessa, ha ridato vigore all’uso di quel principio. Ma la meccanica quantistica — si pensi al «principio di indeterminazione» di Heisenberg, in qualche modo anticipato dalla critica dì Hume al preteso valore assoluto del «principio di causalità» — mostra che nessuna legge scientifica, quindi nemmeno il «principio di causalità», può avere un valore assoluto: ha un carattere statisticoprobabilistico, ossia è una regolarità empirica che si ha avuto modo di constatare, ma che è sempre smentibile. Che a certe funzioni cerebrali corrispondano certi eventi psichici è pertanto una regolarità empirica che non autorizza ad affermare che il cervello sia la causa della mente. Per di più, in questo suo conferire valore assoluto al «principio di causalità», lo scienziato riduzionista smentisce la propria vocazione (o filosofia) di fondo, che consiste nella volontà di eliminare ogni illusione di sopravvivenza dell’uomo: il corpo umano e il cervello — sostiene — sono destinati alla corruzione e alla morte, e quindi anche alla mente, che non è altro che l’attività del cervello. Tuttavia per lo scienziato riduzionista il «principio di causalità» presenta un valore assoluto, è cioè una verità eterna e non qualcosa di corruttibile e di mortale. Ma allora come può accadere che il corruttibile e mortale cervello dell’uomo sia legato alla mente da un vincolo incorruttibile e immortale? Le considerazioni qui sopra svolte non intendono sostenere che la ragione stia dalla parte degli antiriduzionisti. Qui non si tratta di stabilire chi abbia «ragione», ma chi ha maggiore capacità di trasformare la mente e il comportamento dell’uomo conformemente a certi progetti. «L’anima è in certo modo gli enti»: He psyché ta ònta pòs estin. Questo afferma Aristotele nel De anima, 231 b, 21. «Gli enti» (ta ònta) non significa «una certa parte degli enti, ma non le altre parti». Significa: «tutti gli enti»: panta ta ònta. L’anima è «in certo modo» (pòs) la totalità degli enti. L’espressione «In certo modo» dalla tradizione aristotelico-scolastica a Brentano e alla fenomenologia è intesa come già Aristotele sostanzialmente la intende: l’anima «è» gli enti, ma non nel senso che essa sia simpliciter («fisicamente» dicono gli scolastici) gli animali, le piante, le case, la terra, il cielo e la totalità degli enti, bensì nel senso che essa è la loro rappresentazione, ossia il loro presentarsi, manifestarsi, apparire. Si interpreta: l’anima è «intenzionalmente» tutti gli enti; è il riferirsi a essi. Ma riferimento e intenzionalità sono innanzitutto l’apparire, il manifestarsi degli enti. 2 “ANIMA” E RIDUZIONISMO Il pensiero greco chiama phàinesthai tale apparire. D’altra parte, la totalità degli enti non appare tutta insieme, compiutamente, e quindi Aristotele non intende affermare che l’anima sia onnisciente, ma che essa è tutti gli enti che vanno via via manifestandosi, cioè di cui essa è la manifestazione; e insieme: che essa è sì la manifestazione della totalità degli enti, ma che la totalità si manifesta come processo, sviluppo, «generazione» degli enti del mondo. E tuttavia, in quanto apparire della totalità degli enti (via via manifestantisi) l’anima non è un ente particolare appartenente a tale totalità. Ciò non significa che l’anima non possa apparire. In Aristotele questo aspetto del discorso sull’anima rimane implicito; ma la stessa affermazione che l’anima è in certo modo gli enti è proprio l’apparire di questa forma di identità dell’anima e della totalità degli enti, sì che tale affermazione è insieme l’apparire in cui l’anima ha come contenuto se stessa. Ma, si sta dicendo, ha come contenuto se stessa non come uno tra gli enti particolari che appaiono, ma come l’apparire della loro totalità. L’apparire degli enti è il fondamento di ogni ricerca, problema, conoscenza, scienza, opinione, fede, e di ogni progetto, deliberazione, decisione, azione: è il fondamento di ogni aspetto della vita dell’uomo: anche di quelle convinzioni e indagini che si rivolgono all’«anima» («coscienza», «mente», «spirito»), intesa questa volta come parte della totalità degli enti. Filosofia (e lo stesso pensiero aristotelico), religione, scienza, arte hanno imboccato questa strada, dove l’anima è uno degli enti particolari che appaiono. Per esempio, per millenni — e, dopo la parentesi idealistica, tuttora — quelle forme culturali (guidate da un sapere filosofico, che a sua volta si fa guidare dal senso comune) credono che, al di là del loro apparire, gli enti esistano in se stessi, cioè indipendentemente dal loro apparire e dunque dall’anima in quanto sia intesa come il loro apparire. Solo sul fondamento di questa credenza possono farsi innanzi teorie come quella evoluzionistica, che concepisce i fatti mentali come risultato di un lunghissimo sviluppo delle specie viventi; o come quella in cui consiste la «psichiatria», dove la psiche, intesa come oggetto di una iatréia, è circondata dalla «cura» come ogni altro ente particolare curabile, e dove la cura è a sua volta inscritta in un contesto sociale rinviante al mondo intero. In questo modo, si perde però di vista che queste e ogni altra teoria che considerano l’anima come parte — e innanzitutto quella credenza dell’indipendenza degli enti dal loro apparire, sulla quale esse si fondano — debbono peraltro da ultimo fondare ogni loro pretesa di verità proprio sull’apparire degli enti, cioè su quell’«anima» che lungo la storia del pensiero occidentale è sopravvissuta ed è stata pensata come pheinestai, cogito, «Io penso», «Spirito come atto puro», «esperienza» (in quanto esperienza della totalità degli enti che vanno via via mostrandosi). Per quanto riguarda il concetto di esperienza, si osservi che il «metodo sperimentale» è, per la scienza stessa, l’indagine che pone a proprio fondamento l’esperienza; sennonché dell’esperienza in quanto tale la scienza non si interessa: volta le spalle al senso fondamentale dell’ «anima» per dedicare ogni sua attenzione all’«anima» come ente particolare. E se oggi si rivendica il carattere linguistico dell’esperienza, va detto che anche con questo carattere l’esperienza è il fondamento di ogni attività teorica e pratica dell’uomo. Ma anche Aristotele, oltre a intendere l’anima come apparire della totalità degli enti, la intende come parte della totalità. Tale apparire è infatti per Aristotele l’identità del conoscente in atto e del conosciuto in atto, ma questa identità è un risultato. Il cominciamento del processo che conduce a questo risultato è, da un lato, la «capacità» dell’anima di conoscere (ossia il suo esser conoscente «in potenza»), dall’altro lato è la «capacità» degli enti di essere conosciuti (ossia il loro esser conosciuti «in potenza»). Queste due capacità non sono lo stesso, non sono identiche. L’identità di conoscente e conosciuto si produce quando i due sono in atto ed essa è appunto il risultato del processo che conduce dalla potenza all’atto. Ma quando l’anima è conoscente in potenza (Aristotele parla in proposito di «intelletto passivo») e differisce dal conosciuto in potenza — ossia dagli enti che hanno la capacità di apparire —, l’anima è una parte della totalità degli enti. L’anima diventa parte anche quando l’apparire della totalità degli enti è inteso come atto di un «io» («persona», «soggetto»), e si afferma, appunto, che «io penso» dove il «pensare» è innanzitutto quell’apparire. Anche qui, e nonostante tutti i dubbi che si nutrono in proposito, è la filosofia greca, e dunque lo stesso Aristotele, ad aprire questa prospettiva. Si ritiene che esista un produttore del pensare e che tale produttore sia un «io», una «persona», un «soggetto». (Variante di questa convinzione è la tesi, oggi centrale soprattutto in campo biologico, che a pensare sia il corpo, il cervello, la materia.) 3 «è manifesto che è quest’uomo singolo a pensare» — manifestum est quod hic homo singularis intelligit, si afferma nel De unitate intellectus contra averroistas di san Tommaso. Quest’uomo singolo è l’io. Che quest’uomo singolo sia il pensante (Tommaso) e che il cogitare sia il cogitare di un ego (Cartesio) appartengono alla stessa prospettiva. Alla quale appartiene gran parte della cultura non solo filosofica — peraltro con notevoli eccezioni (ad esempio Nietzsche, Lichtenberg, Russeli, Wittgenstein, Mach, Avenarius). In tale prospettiva, l’io, la persona, il soggetto (ma anche il corpo, la materia, il cervello) sono parti della totalità che appare. L’intelligere di «quest’uomo singolo» è il campo di ciò che è manfestum e «quest’uomo singolo» è una parte di questo campo — ossia dell’apparire della totalità degli enti. A questo punto, si tratterebbe di mettere in luce la contraddizione di questa prospettiva. Ci si limiterà qui a un’indicazione sommaria. Se in quella prospettiva «io penso» significa «io sono produttore del pensiero», il pensiero non è d’altra parte inteso come qualcosa che sia ignoto all’io. L’io ha notizia del pensiero da lui prodotto. Ma l’aver notizia è l’apparire. E a sua volta il «pensiero» è innanzitutto l’apparire degli enti. L’«io penso» viene infatti quasi sempre unito (in modo più o meno esplicito) a «gli enti appaiono a me»: io, che penso, sono appunto l’io a cui appaiono gli enti. L’«a cui» è la notizia che l’io ha di essi. Dire quindi che gli enti appaiono a me significa dire che l’apparire degli enti appare a me — appunto perché «a me» non può non significare, in questa prospettiva, «apparire a me»; sì che dire che l’apparire degli enti appare a me significa dire che l’apparire degli enti appare all’apparire a me... et sic in indefinitum. Nella variante riduzionistica di tale prospettiva, «il cervello pensa» (o «il corpo pensa»). Ma in questa variante non si intende sostenere che il pensiero — cioè gli enti che appaiono — è il loro apparire «al cervello», e quindi in tale variante non è presente la contraddizione che invece compete alla prospettiva di cui il riduzionismo è, appunto, una variante. Al riduzionismo compete un’altra contraddizione, che ho considerato in altre occasioni e che è cioè I’analogon del riduzionismo teologico. La riduzione della mente al cervello è cioè l’anàlogon mondano della riduzione teologica del mondo a Dio. Infatti, se il mondo è totalmente riducibile a Dio, non c’è mondo; e se la mente è totalmente riducibile al cervello, non c’è mente. In entrambi i casi, se la riduzione non è totale c’è un residuo irriducibile. Ma se la riduzione è totale, essa nega ciò che essa stessa afferma: nega quella mente e quel mondo che essa riconosce esistenti proprio per la sua volontà di ridurli, rispettivamente, al cervello e a Dio. In altri termini, che gli enti appaiano «a me» non significa, in quella prospettiva, che essi appaiono a un sasso o a un albero, ma che appaiono a una coscienza, cioè a un apparire; e se si intende tener fermo che l’apparire è sempre un apparire «a un io», «a una coscienza», allora l’apparire «a me» è l’apparire all’apparire a me, dove l’«a me» determina un progressus in indefinitum. Con la conseguenza che, se ciò a cui appaiono gli enti viene indefinitamente spostato e allontanato, gli enti non appaiono più a qualcuno, e chi crede che l’apparire possa essere solo un apparire a qualcuno è costretto a concludere che non appare alcun ente. E questa è la contraddizione della prospettiva per la quale «io penso» e «gli enti appaiono a me». 4 PENSIERO, SCIENZA, VOLONTÀ DI POTENZA In una lettera inviata a Max Born alla fine del 1926, Albert Einstein scrive: «Nessuna quantità di esperimenti potrà dimostrare che ho ragione; un unico esperimento potrà dimostrare che ho sbagliato». Da dieci anni aveva incominciato a render nota la teoria della relatività generale, in cui viene dedotta l’esistenza delle «onde gravitazionali», ora finalmente osservate da un laser di altissima tecnologia. L’«osservazione» è un «esperimento». In esso viene constatato un «fatto», ossia una certo evento — ad esempio un punto luminoso (interpretato come «stella») che in un telescopio opportunamente predisposto coincide con una lineetta nera del reticolato. Ma, dice Einstein, «nessuna quantità di esperimenti potrà dimostrare che ho ragione» — e che quindi egli aveva ragione nel prevedere, ad esempio, l’esistenza delle «onde gravitazionali». Si può dire che in sostanza l’affermazione di Einstein si muova nell’ambito del concetto aristotelico di «induzione» (epagoghé): si può osservare per un numero di volte alto quanto si vuole che le cose di una certa specie hanno una certa proprietà ma da queste osservazioni non si può concludere che tutte le cose di quella specie abbiano questa proprietà e che quindi mostreranno, nelle osservazioni successive, di avere tale proprietà. Non si può infatti escludere che, dopo un gran numero di conferme, il laser che ha consentito di sperimentare le «onde gravitazionali» non abbia più a mostrarne l’esistenza. È improbabile quanto si vuole ma non impossibile. Queste considerazioni non scalfiscono minimamente l’enorme importanza della sperimentazione di quelle onde. Anche perché la seconda parte dell’affermazione di Einstein — «un unico esperimento potrà dimostrare che ho sbagliato» — non è così fuori discussione come può sembrare (soprattutto dopo gli sviluppi che essa ha avuto nell’epistemologia di Karl Popper). Infatti, se è possibile che il laser di cui si sta parlando, abbia a mostrare l’opposto di quel che ha mostrato, è anche possibile che in seguito torni a mostrare quel che in primo tempo ha mostrato. Se per «aver ragione» intorno a una tesi si intende che nessun esperimento potrà far osservare qualcosa di opposto a essa, allora, certamente, un unico esperimento può mostrare che questa tesi è sbagliata. Ma che dire di un laser che nella maggior parte dei casi abbia a mostrare l’esistenza delle onde gravitazionali e solo in uno o in pochi altri casi non abbia a mostrarla? Che dire di un motore che una volta o poche volte non ha funzionato ma che per lo più funziona bene? Lo si butterà via? La scienza ha imparato a non buttar via le conoscenze che funzionano come questo motore. Anzi, quando riesce a guardare se stessa, si rende conto che nessuno dei suoi principi «ha ragione» nel senso qui sopra indicato: nessuno è universalmente valido e definitivamente vero. L’estrema potenza che la scienza e la tecnica sanno oggi produrre è proprio dovuta al rifiuto di conoscenze che abbiano la pretesa di essere universali e definitive. La potenza si è tolta la maschera della verità ed è diventata il valore supremo. Il valere non è forse l’avere potenza? E i supremi principi della tradizione filosoficoscientifica? Ad esempio il «principio di non contraddizione»? Per essa non può venire smentito dai «fatti». Tale principio afferma: è impossibile che, nel medesimo tempo, una cosa abbia e non abbia una certa proprietà. La tradizione ha creduto che come non può essere smentito dai «fatti», così non è affermato in base alla loro osservazione. Che un segmento di retta — crede la tradizione — non possa essere nel medesimo tempo maggiore e minore di un altro segmento non lo si afferma perché finora non abbiamo osservato segmenti di retta che nello stesso tempo siano maggiori e minori di altri; ed è impossibile che lo si osservi in futuro. Certo, queste sono le intenzioni della tradizione. Negli ultimi due secoli è emersa la tendenza a ritenere che quel principio non è una verità assoluta e definitiva ma ha un valore pratico (si pensi a Nietzsche o a Lukasiewicz). Se si vuol esser potenti, bisogna che, quando lo si è, non si sia contemporaneamente impotenti. E d’altra parte, se la contraddizione (per esempio il mentire) rende potenti, perché non contraddirsi? Ma la questione è estremamente complessa, e non può essere qui districata. Limitiamoci ad alcune osservazioni. I due contributi fondamentali della fisica contemporanea — teoria della relatività e fisica quantistica — mostrano, almeno sinora, di essere tra loro in contraddizione. Ma nessun fisico rinuncerebbe per questo a servirsi di entrambi. E se Kurt Gòdel ha dimostrato la possibilità che lo sviluppo del sapere matematico abbia a implicare delle contraddizioni, qualora ciò avvenisse i matematici non volterebbero le spalle alla matematica esistente. 5 L’esperimento che ha fatto osservare l’esistenza delle onde gravitazionali è stato salutato con legittima soddisfazione perché non smentisce la teoria della relatività. Ma che cosa significa non smentirla? Significa che non l’ha contraddetta. Se l’avesse contraddetta, i fisici avrebbero incominciato a dubitare della sua validità ma non smetterebbero di praticarla. In questo modo la fisica mostra la volontà di non contraddirsi. La quale è insieme volontà che la realtà non sia contraddittoria: volontà, pertanto, che i «fatti» che smentiscono il contenuto di una teoria e questo contenuto non abbiano a coesistere. Si mette da parte, si pensa, il mito della verità assoluta e definitiva del «principio di non contraddizione»; ma è «meglio» — «opportuno», «conveniente», «utile», «fortificante» — evitare la contraddizione. Che nelle opere e nelle conoscenze sia «meglio», in molti casi, non contraddirsi è un precetto ampiamente seguito. D’altra parte i grandi principi della cultura occidentale, come appunto il «principio di non contraddizione», si presentano come dogmi, miti che non riescono a mostrare la loro innegabilità. Ho inteso mostrare alcuni aspetti del farsi largo, nel nostro tempo, della volontà di potenza. Poi, la gran questione è il senso di tale volontà. Essa è presente sin dall’inizio della storia dell’uomo. E continua ad esserlo anche quando il popolo greco, dando inizio alla storia dell’ Occidente, incomincia a pensare il senso della verità innegabile, cioè a credere nella differenza tra volontà e verità. Oggi la volontà di potenza si sta liberando della verità. Sta diventando estremamente coerente. Ma siamo sicuri che non si tratti della coerenza della Follia? C’è oggi una certa propensione ai «fatti», all’«esperienza», piuttosto che ai «principi»; perfino in campo matematico. Tra la previsione teorica delle onde gravitazionali, operata dalla logica e dalla matematica della teoria della relatività, e l’esperimento che ha fatto osservare la loro esistenza, è questo secondo, tendenzialmente, ad avere l’ultima parola. Una tendenza diffusa, ovunque si tratti di confrontare le teorie ai «fatti» — e, questo, anche se è a sua volta diffusa la convinzione che i «fatti» non siano puri fatti ma «carichi di teoria» (come si sostiene, sia pure in modi diversi, in un certo settore della filosofia del nostro tempo e nella fisica quantistica). Presente, questa tendenza, anche negli ambiti apparentemente più distanti dalle questioni qui considerate. Ad esempio in ambito giuridico. In sede giudiziaria, la deduzione logica dell’esistenza di un «fatto» (la deduzione che propone una «teoria») non ha la stessa forza di convinzione di una testimonianza affidabile. Il testimone è infatti colui che sperimenta un fatto. Se i giudici decidono che la sua testimonianza sia affidabile, essa è da loro ritenuta più affidabile della teoria consistente nella deduzione logica che conduce all’ affermazione o alla negazione dell’esistenza di quel fatto. Questo, anche se il decidere che una testimonianza sia affidabile è un enorme «carico» che viene messo sulle spalle del fatto testimoniato. 6