IL CERVELLO, LA MENTE cosa vuol dire che i filosofi devono “conoscere la scienza”? due accezioni: Conoscere la scienza significa conoscere perlomeno i metodi secondo i quali essa procede, i principali risultati ai quali è pervenuta, la sua genesi, i suoi rapporti con le altre forme di sapere e con la società, i problemi che sorgono dai rapporti tra le singole discipline scientifiche e all’interno della stessa disciplina. La filosofia deve porre alla propria base il sapere scientifico. Questa risposta non esprime una prospettiva scientifica, ma ingenuamente filosofica. Quale disciplina scientifica, infatti, contiene la strumentazione concettuale che le consenta di affermare che la filosofia deve porre alla propria base la scienza? Nessuna. La filosofia intende essere la forma assolutamente radicale del sapere. E per fare ciò si porta alle spalle di ogni altro sapere (mitico, artistico, economico, politico, tecnico, scientifico) e quindi esclude di porlo alla propria base. La filosofia che si fonda sulla scienza è inconsistente e superflua, non è filosofia, ma scienza. Uno degli aspetti più importanti di quel «portarsi alle spalle» di ogni altro sapere riguarda l’esperienza umana del mondo. Non esisterebbe infatti alcun sapere, quindi nemmeno quello scientifico, se il mondo non fosse manifesto, cioè non si mostrasse, non apparisse: non se ne facesse, appunto, esperienza. Certo, la scienza è una continua critica dell’esperienza. Afferma ad esempio che il sole non si muove, come sembra. Ma è necessario che questo sembrare appaia, perché la scienza possa affermare che è illusorio. La scienza però non si interessa di quel fondo che è appunto l’esperienza da cui la scienza pur parte. Su di esso la scienza fa luce con le proprie lampade, tendendo però a dimenticare che sono sempre costruite con materiali che da quel fondo sono tratti. A quel fondo la filosofia si è invece sempre rivolta. La filosofia «si porta alle spalle» di ogni sapere e agire dell’uomo anche in uno dei campi oggi più frequentati: quello del rapporto tra mente e cervello. Carl Sagan, uno dei maggiori astrofisici e astrobiologi del XX secolo, scriveva: «La mia premessa fondamentale riguardo al cervello è che le sue attività — ciò che talora chiamiamo “mente” — sono una conseguenza della sua anatomia e della sua fisiologia e nulla più». Tesi già sostenuta dai positivisti. G. Leopardi aveva scritto: «Che la materia pensi è un fatto». Ma come si fa a sapere che esistono cervelli e quelle «attività» «che talora chiamiamo “mente”»? E che quindi esistono corpi in cui i cervelli si trovano e lo spazio dove tali corpi vivono e stanno in rapporto con altre cose? si sa che tutto questo esiste, perché appartiene al mondo che si mostra, si manifesta, al mondo che sperimentiamo: all’esperienza. L’esperienza è la forma originaria della mente ed è soltanto sulla base di questa forma che ci si può mettere in cammino per cercare e trovare l’origine della «mente». La «mente» di cui si occupa la scienza non è l’esperienza, ma è solo una parte dell’esperienza, ossia della mente originaria che sta alle spalle di ogni ricerca scientifica. E mi riferisco sia agli scienziati «riduzionisti», per i quali la mente non è altro che l’attività del cervello (così come la digestione lo è dello stomaco), sia agli scienziati che intendono difendere l’autonomia (la «spiritualità») della mente rispetto al cervello. Qui importa ribadire che al fondo della conoscenza e dell’agire non sta semplicemente il mondo, ma la manifestazione del mondo, il suo esser noto; ed è innanzitutto a questa manifestazione e notizia che spetta di esser qualificata come «mente». La quale, peraltro, in qualche modo contiene tutti gli spazi e tutti i tempi, altrimenti come potrebbe la scienza parlare dell’infinitamente piccolo e dell’infinitamente grande e degli infiniti universi e del big bang e degli stati che avrebbero potuto precederlo? Questa mente è la luce che illumina uno spettacolo immenso, ma alla quale gli uomini non volgono quasi mai lo sguardo, e quando si rivolgono alla propria mente considerano soltanto la dimensione «psichica», che è soltanto una parte dello spettacolo che in quella luce si mostra. Considerando tale limitata dimensione, lo scienziato «riduzionista» si serve del «principio di causalità»: il cervello è la «causa» e la «mente» è l’«effetto». Ma la meccanica quantistica — «principio di indeterminazione» di Heisenberg, anticipato dalla critica dì Hume al «principio di causalità» — mostra che nessuna legge scientifica, nemmeno il «principio di causalità», ha un valore assoluto: ha un carattere statistico-probabilistico, ossia è una regolarità empirica sempre smentibile. Che a certe funzioni cerebrali corrispondano certi eventi psichici è pertanto una regolarità empirica che non autorizza ad affermare che il cervello sia la causa della mente. «L’anima è in certo modo gli enti»: He psyché ta ònta pòs estin. Aristotele De anima, 231 b, 21. «Gli enti» (ta ònta) non significa «una certa parte degli enti, ma non le altre parti». l’anima «è» gli enti, ma non nel senso che essa sia simpliciter («fisicamente») gli animali, le piante, le case, la terra, il cielo e la totalità degli enti, bensì nel senso che essa è la loro rappresentazione, ossia il loro presentarsi, manifestarsi, apparire. Si interpreta: l’anima è «intenzionalmente» tutti gli enti; è il riferirsi a essi. Ma riferimento e intenzionalità sono innanzitutto l’apparire, il manifestarsi degli enti. 1 “ANIMA” E RIDUZIONISMO La totalità degli enti non appare tutta insieme, e quindi Aristotele non intende affermare che l’anima sia onnisciente, ma che essa è tutti gli enti che via via si vanno manifestando. E tuttavia, in quanto apparire della totalità degli enti l’anima non è un ente particolare appartenente a tale totalità. Ciò non significa che l’anima non possa apparire. L’ affermazione che l’anima è in certo modo gli enti è proprio l’apparire di questa forma di identità dell’anima, in cui l’anima ha come contenuto se stessa. Ma ha come contenuto se stessa non come uno tra gli enti particolari che appaiono, ma come l’apparire della loro totalità. L’apparire degli enti è il fondamento di ogni ricerca, problema, conoscenza, scienza, opinione, fede, progetto, deliberazione, decisione, azione: fondamento anche di quelle convinzioni e indagini che si rivolgono all’«anima», intesa come parte della totalità degli enti. Filosofia, religione, scienza, arte hanno inteso l’anima come uno degli enti particolari che appaiono. Per millenni - tranne la parentesi idealistica quelle forme culturali (e il senso comune) hanno creduto che gli enti esistano indipendentemente dal loro apparire cioè dall’anima. Solo sul fondamento di questa credenza possono farsi innanzi teorie quella evoluzionistica, che concepisce i fatti mentali come risultato di un lunghissimo sviluppo delle specie viventi; la «psichiatria», dove la psiche è circondata dalla «cura» come ogni altro ente particolare. In questo modo, si perde però di vista che queste teorie che considerano l’anima come parte — e gli enti indipendenti dal loro apparire— debbono fondare ogni loro pretesa di verità proprio sull’apparire degli enti, cioè sull’«anima». Il «metodo sperimentale» pone a proprio fondamento l’esperienza; ma dell’esperienza in quanto tale la scienza non si interessa: volta le spalle al senso fondamentale dell’ «anima» per dedicare ogni attenzione all’«anima» come ente. Anche Aristotele, oltre a intendere l’anima come apparire della totalità degli enti, la intende come parte della totalità. Tale apparire è infatti per Aristotele l’identità del conoscente in atto e del conosciuto in atto, ma tale identità è un risultato. Il cominciamento del processo che conduce a questo risultato è, da un lato, la «capacità» dell’anima di conoscere (il suo esser conoscente «in potenza»), dall’altro la «capacità» degli enti di essere conosciuti (il loro esser conosciuti «in potenza»). Ma quando l’anima è conoscente in potenza e differisce dal conosciuto in potenza - ossia dagli enti che possono apparire -, l’anima è una parte della totalità degli enti. L’anima diventa parte anche quando l’apparire della totalità degli enti è inteso come atto di un «io» («persona», «soggetto»), e si afferma, appunto, che «io penso» dove il «pensare» è innanzitutto quell’apparire. Si ritiene che esista un produttore del pensare e che esso sia un «io», una «persona», un «soggetto». «è manifesto che è quest’uomo singolo a pensare» san Tommaso De unitate intellectus. Che quest’uomo singolo sia il pensante (Tommaso) e che il cogitare sia di un ego (Cartesio) appartengono alla stessa prospettiva: l’io, la persona, il soggetto (ma anche il corpo, la materia, il cervello) sono parti della totalità che appare. L’intelligere di «quest’uomo singolo» è il campo di ciò che è manifestum e «quest’uomo singolo» è una parte di questo campo — ossia dell’apparire della totalità degli enti. A questo punto, si tratterebbe di mettere in luce la contraddizione di questa prospettiva. Se in quella prospettiva «io penso» significa «io sono produttore del pensiero», il pensiero non è d’altra parte inteso come qualcosa che sia ignoto all’io. L’io ha notizia del pensiero da lui prodotto. Ma l’aver notizia è l’apparire. E a sua volta il «pensiero» è innanzitutto l’apparire degli enti. L’«io penso» viene infatti quasi sempre unito a «gli enti appaiono a me»: io, che penso, sono appunto l’io a cui appaiono gli enti. Dire quindi che gli enti appaiono a me significa dire che l’apparire degli enti appare a me — appunto perché «a me» non può non significare, in questa prospettiva, «apparire a me»; sì che dire che l’apparire degli enti appare a me significa dire che l’apparire degli enti appare all’apparire a me... et sic in indefinitum. In altri termini, che gli enti appaiano «a me» non significa, in quella prospettiva, che essi appaiono a un sasso o a un albero, ma che appaiono a una coscienza, cioè a un apparire; e se si intende tener fermo che l’apparire è sempre un apparire «a un io», «a una coscienza», allora l’apparire «a me» è l’apparire all’apparire a me, dove l’«a me» determina un progressus in indefinitum. Con la conseguenza che, se ciò a cui appaiono gli enti viene indefinitamente spostato e allontanato, gli enti non appaiono più a qualcuno, e chi crede che l’apparire possa essere solo un apparire a qualcuno è costretto a concludere che non appare alcun ente. E questa è la contraddizione della prospettiva per la quale «io penso» e «gli enti appaiono a me». Nella variante riduzionistica di tale prospettiva, «il cervello pensa». Non si intende sostenere che il pensiero — cioè gli enti che appaiono — è il loro apparire «al cervello», e quindi in tale variante non è presente la contraddizione che invece compete alla prospettiva di cui il riduzionismo è una variante. 2 PENSIERO, SCIENZA, VOLONTÀ di POTENZA In una lettera inviata a Max Born alla fine del 1926, Albert Einstein scrive: «Nessuna quantità di esperimenti potrà dimostrare che ho ragione; un unico esperimento potrà dimostrare che ho sbagliato». Da dieci anni aveva incominciato a render nota la teoria della relatività generale, in cui viene dedotta l’esistenza delle «onde gravitazionali», ora finalmente osservate. L’«osservazione» è un «esperimento». In esso viene constatato un «fatto», ossia una certo evento — ad es un punto luminoso (interpretato come «stella») che in un telescopio opportunamente predisposto coincide con una lineetta nera del reticolato. Ma, dice Einstein, «nessuna quantità di esperimenti potrà dimostrare che ho ragione». È il concetto di «induzione» (epagoghé): si può osservare per un alto numero di volte che le cose di una certa specie hanno una certa proprietà ma da queste osservazioni non si può concludere che tutte le cose di quella specie abbiano questa proprietà. Non si può infatti escludere che, dopo un gran numero di conferme, il laser che ha consentito di sperimentare le «onde gravitazionali» non abbia più a mostrarne l’esistenza. Se per «aver ragione» intorno a una tesi si intende che nessun esperimento potrà far osservare qualcosa di opposto a essa, allora, certamente, un unico esperimento può mostrare che questa tesi è sbagliata. Ma che dire di un laser che nella maggior parte dei casi abbia a mostrare l’esistenza delle onde gravitazionali e solo in uno o in pochi altri casi non abbia a mostrarla? Che dire di un motore che poche volte non ha funzionato ma che per lo più funziona bene? Lo si butterà via? La scienza ha imparato a non buttar via le conoscenze che funzionano come questo motore. Anzi, quando riesce a guardare se stessa, si rende conto che nessuno dei suoi principi «ha ragione» nel senso qui sopra indicato: nessuno è universalmente valido e definitivamente vero. L’estrema potenza che la scienza e la tecnica sanno oggi produrre è proprio dovuta al rifiuto di conoscenze che abbiano la pretesa di essere universali e definitive. La potenza si è tolta la maschera della verità ed è diventata il valore supremo. Il valere non è forse l’avere potenza? E i supremi principi della tradizione filosoficoscientifica? Ad es il «p. di non contraddizione»? La tradizione ha creduto che come non può essere smentito dai «fatti», così non è affermato in base alla loro osservazione. Negli ultimi due secoli è emersa la tendenza a ritenere che quel principio non è una verità assoluta e definitiva ma ha un valore pratico. Se si vuol esser potenti, bisogna che, quando lo si è, non si sia contemporaneamente impotenti. E d’altra parte, se la contraddizione (per esempio il mentire) rende potenti, perché non contraddirsi? I due contributi fondamentali della fisica contemporanea — teoria della relatività e fisica quantistica — mostrano, almeno sinora, di essere tra loro in contraddizione. Ma nessun fisico rinuncerebbe a servirsi di entrambi. E se Kurt Goedel ha dimostrato la possibilità che lo sviluppo del sapere matematico implichi delle contraddizioni, qualora ciò avvenisse i matematici non rinuncerebbero alla matematica esistente. L’esperimento che ha fatto osservare l’esistenza delle onde gravitazionali è stato salutato con legittima soddisfazione perché non smentisce la teoria della relatività. Ma che cosa significa non smentirla? Significa che non l’ha contraddetta. Se l’avesse contraddetta, i fisici avrebbero incominciato a dubitare della sua validità ma non smetterebbero di praticarla. In questo modo la fisica mostra la volontà di non contraddirsi. La quale è insieme volontà che la realtà non sia contraddittoria: volontà, pertanto, che i «fatti» che smentiscono il contenuto di una teoria e questo contenuto non abbiano a coesistere. Si mette da parte, si pensa, il mito della verità assoluta e definitiva del «principio di non contraddizione»; ma è «meglio» evitare la contraddizione. D’altra parte i grandi principi della cultura occidentale, come appunto il «principio di non contraddizione», si presentano come dogmi, che non riescono a mostrare la loro innegabilità. C’è oggi una certa propensione ai «fatti», all’«esperienza», piuttosto che ai «principi»; perfino in campo matematico. Tra la previsione teorica delle onde gravitazionali, operata dalla logica e dalla matematica della teoria della relatività, e l’esperimento che ha fatto osservare la loro esistenza, è questo secondo, tendenzialmente, ad avere l’ultima parola. Una tendenza diffusa, ovunque si tratti di confrontare le teorie ai «fatti» — e, questo, anche se è a sua volta diffusa la convinzione che i «fatti» non siano puri fatti ma «carichi di teoria». Presente, questa tendenza, anche negli ambiti apparentemente più distanti dalle questioni qui considerate. Ad esempio in ambito giuridico. Ho inteso mostrare alcuni aspetti del farsi largo, nel nostro tempo, della volontà di potenza. Essa è presente sin dall’inizio della storia dell’uomo. E continua ad esserlo anche quando il popolo greco, dando inizio alla storia dell’ Occidente, incomincia a pensare il senso della verità innegabile, cioè a credere nella differenza tra volontà e verità. Oggi la volontà di potenza si sta liberando della verità. Sta diventando estremamente coerente. Ma siamo sicuri che non si tratti della coerenza della Follia? 3