No. 14/2000 Gli esperimenti di Mayo: qual è stato il vero "effetto Hawthorne"? di Alessandro Paparelli EOS CONSULENZA PER LA DIREZIONE Era il 1923 quando negli stabilimenti di Cicero (Illinois) cominciò la fase di pre-sperimentazione che portò poi, nel periodo fra il 1927 e il 1933, allo svolgimento di uno degli esperimenti più celebri della storia moderna. Gli esperimenti di Hawthorne, condotti da Elton Mayo, furono in realtà, secondo la logica sperimentale, un grande fiasco. Studiati infatti per verificare, in definitiva, i cali di produttività dovuti al peggioramento delle condizioni ambientali, produssero invece risultati del tutto opposti. Tuttavia fu proprio questo "insuccesso" che, facendo scervellare i ricercatori, permise di accorgersi che il fattore su cui concentrarsi era diverso. Ma la storia non è così semplice… Alessandro Paparelli Gli esperimenti di Hawthorne costituiscono senza dubbio uno dei momenti più celebri e celebrati della ricerca organizzativa e del progresso delle teorie organizzative in generale. Proprio per questo, però, è stato inevitabile che intorno ad essi si sia creata nel tempo una specie di nebbia intellettuale che, nel gioco dello sguardo e del tempo, di volta in volta lasciava scorgere meglio una parte piuttosto che un’altra, o confondeva i contorni della figura fino a creare equivoci sulla sua natura. Nel riprendere tali studi come primo, fondamentale "laboratorio" del coordinamento e della gerarchia, ci sembra quindi doveroso cominciare con uno sguardo un po’ più "soleggiato" per poter poi, su una base il più oggettiva possibile, fare alcune considerazioni. Cominciamo quindi dai fatti. I fatti: la prima fase (1923-1927) I manuali di organizzazione curiosamente non danno a volte esattamente conto di quella che fu effettivamente la prima fase degli esperimenti di Hawthorne. Diciamo quindi innanzitutto che gli studi furono cominciati nel 1923, che a condurli non era Mayo, ma Charles Snow del Comitato per l’Illuminazione Industriale (Committee of Industrial Lightning) e che erano finanziati dalla General Electric. Gli esperimenti si svolsero (così come i successivi) presso gli impianti della Western Electric Company (Hawthorne Works) a Cicero, poco fuori Chicago, nell’Illinois e il loro scopo era quello di studiare l’impatto dell’illuminazione sulla produttività dei lavoratori. Abbastanza "lineari" quindi erano le motivazioni dell’esperimento (considerando anche chi finanziava), così come lineari erano i risultati che ci si attendeva. Tuttavia, nel mondo delle certezze tayloristiche, era evidentemente arrivato il tempo per qualche sorpresa, e così i risultati di differenti livelli di illuminazione sull’output furono del tutto imprevisti, e sicuramente non riconducibili a un rapporto di proporzionalità diretta. In particolare, emerse che durante la durata degli esperimenti, il livello generale di produttività crebbe, indipendentemente dal maggiore o minore livello di illuminazione. A questo punto della storia, si inserisce di solito una popolare leggenda secondo cui per sopperire alla luce insufficiente, le lavoratrici si spostarono pian piano verso i finestroni che si trovavano sui muri perimetrali avvicinandosi fisicamente fra di loro e così, cominciando a scambiare quattro chiacchiere fra un pezzo e l’altro, scoprirono di colpo la socialità, mentre il mondo organizzativo scopriva i gruppi primari. La storia è senz’altro suggestiva ma, a quanto ne sappia, non verificabile. Quel che è sicuro è che questa versione non rende affatto conto di come in realtà siano andati i fatti… L’ "effetto Hawthorne" … E i fatti dicono che alla fine di questa prima fase l’unica scoperta era che qualcosa non quadrava. Nell’esame di queste apparenti incongruenze, però, un collega di Snow, Homer Hilbarger, avanzò un’ipotesi che avrebbe avuto un lungo seguito nonché influenze notevoli in più di un campo. Egli suggerì infatti che il generale 2 ticonzero No. 14/2000 incremento di produttività fosse attribuibile al ruolo di supervisione svolto dai ricercatori: era la prima deduzione di un "effetto Hawthorne". Il miglioramento quantitativo dell’output durante i vari esperimenti veniva quindi attribuito all’attenzione dimostrata ai lavoratori, la quale aveva generato un impegno addizionale degli stessi per "soddisfare" i ricercatori e dimostrare la propria abilità. C’è da dire che questo concetto ebbe notevoli implicazioni, sia metodologiche che manageriali. Dal punto di vista metodologico, introdusse la consapevolezza che l’atto di osservazione in sé stesso può influenzare il comportamento dei soggetti della ricerca e, quindi, confondere gli effetti di altre variabili indipendenti. Dal punto di vista manageriale, la consapevolezza riguardò invece una correlazione, a quel tempo assolutamente inedita, e cioè che la comunicazione e l’interazione con i lavoratori poteva portare a maggiori livelli di impegno e di produttività. Tuttavia, nonostante l’evidente importanza di tali implicazioni (anche ai nostri fini), è prudente per ora fermarsi qui. Vedremo infatti come l’ "effetto Hawthorne", che con la sua popolarità ha coperto o confuso altri aspetti degli esperimenti in questione, non sarà né il punto centrale delle "scoperte" di Mayo, né una verità assoluta, né quindi, infine, il punto centrale delle nostre riflessioni su coordinamento e gerarchia. I fatti: la seconda fase (1927-1931) Nel 1927 l’università di Harvard mandò a Cicero il professor Elton Mayo, insieme ai suoi colleghi del Department of Industrial Research, per condurre ulteriori studi sulle relazioni tra condizioni di lavoro e produttività. Questa seconda fase degli esperimenti di Hawthorne (la prima condotta da Mayo), si svolse dal 1927 al 1931. Nella prima serie di esperimenti, Mayo "prelevò" sei donne dalla linea d’assemblaggio, le isolò dal resto dello stabilimento e le mise a lavorare alla presenza di un supervisore che più che altro era un osservatore amichevole e non ricopriva quindi la figura di supervisore autoritario. Mayo apportò frequenti cambiamenti alle condizioni lavorative (di cui si darà dettaglio fra breve), e lo fece sempre discutendo e spiegando i cambiamenti preventivamente con le componenti stesse del gruppo. Nella seconda serie di esperimenti, i ricercatori selezionarono invece direttamente solo due dei sei componenti, e affidarono a queste il compito di scegliere altre quattro ragazze per completare il gruppo. Questa seconda serie, per la quale forniamo le condizioni e i risultati osservati, fu condotta sull’attività di assemblaggio di relay telefonici e si avvaleva di un meccanismo di feedback garantito dalla presenza di un osservatore che era presente durante tutta la durata dell’esperimento, annotava ogni avvenimento e teneva informate le ragazze sull’esperimento stesso, chiedendo loro altresì consigli e informazioni, oltre che ascoltare le loro eventuali lamentele. Ogni cambiamento apportato alle normali condizioni lavorative che si citerà di seguito durò dalle quattro alle dodici settimane. 3 Alessandro Paparelli Condizioni di lavoro Produttività Condizioni normali: 48 ore settimanali, inclusi i sabato e 2400 relay a settimana per senza pause persona Assegnazione settimane) di un intero pezzo da assemblare (8 Aumento Introduzione di due pause da 5 minuti, una al mattino e una Ulteriore aumento al pomeriggio (5 settimane) Allungamento delle pause a 10 minuti l’una Brusco aumento Introduzione di sei pause di 5 minuti ciascuna Lieve diminuzione (1) Ritorno alle due pause, la prima delle quali accompagnata Aumento da un pasto caldo offerto dall’azienda Uscita dal lavoro alle 16.30 anziché alle 17.00 Aumento Uscita dal lavoro alle 16.00 Livello costante Ritorno alle condizioni iniziali (12 settimane) Massima mai raggiunta (3000 relay a settimana per persona) Le conclusioni di Mayo Le annotazioni riguardanti la produttività della tabella riportata sopra non sono sbagliate: il massimo numero di relay prodotti fu effettivamente registrato dopo che il gruppo fu ritornato alle condizioni di lavoro normali, indubbiamente più svantaggiose dei cambiamenti apportati nel corso dell’esperimento. Stavolta però la sorpresa fu minore e le chiavi di lettura furono trovate più rapidamente, in un campo però fino ad allora non considerato. Il fattore che permise un aumento di produttività in condizioni svantaggiose fu rintracciato infatti nel fatto che nel corso dell’esperimento l’oggetto della ricerca era cambiato: i sei individui si erano trasformati in un gruppo (2). Il gruppo stesso aveva deciso di cooperare completamente e spontaneamente all’esperimento, avendo quindi la sensazione di partecipare liberamente, senza essere sottoposto a comandi dall’alto o limitazioni dal basso. Il gruppo maturò un maggiore senso di responsabilità, che sostituì alla disciplina imposta da un’autorità superiore, quella auto-imposta dal gruppo stesso, che in quanto tale rimase anche al momento del ritorno alle condizioni originarie. L’attenzione di Mayo si concentrò sul fatto che le ragazze, esercitando una libertà che prima non potevano avere, avevano creato un piccolo sistema sociale, che includeva anche l’osservatore. Tra di loro parlavano, scherzavano, e cominciarono a frequentarsi anche al di fuori del posto di lavoro. Mayo aveva scoperto un concetto fondamentale, per quanto quasi ovvio ai nostri giorni: i luoghi di lavoro sono ambienti sociali e all’interno di essi le persone sono motivate da molto più che il semplice interesse personale. Egli concluse che ogni aspetto dell’ambiente industriale portava con sé un valore sociale: quando le ragazze furono "isolate" dal resto dei lavoratori per effettuare l’esperimento, ciò accrebbe la propria autostima; quando fecero esperienza di un rapporto amichevole 4 ticonzero No. 14/2000 con il proprio supervisore, ciò le rese più felici sul lavoro; quando egli discuteva preventivamente i cambiamenti con loro, ciò accrebbe il loro senso di appartenenza a un "team" allargato. Da questi concetti Mayo allargò il suo campo di analisi, ricollegandosi ai concetti di anomia e solidarietà sociale di Durkheim ed elaborando così una teoria che allargava gli effetti dei meccanismi di "bilanciamento esterno" (fra una produzione efficace ed efficiente e le forze di mercato) e di "bilanciamento interno" (fra i bisogni individuali dei membri dell’organizzazione e i bisogni dell’organizzazione stessa), che nello stesso periodo venivano elaborati da Roethlisberger e Dickinson, sempre sulla base dei risultati di Hawthorne (Management and the worker, 1939). Elton Mayo ampliava quindi gli orizzonti di questi nuovi ambiti giungendo ad affermare che "la società industriale produce conflitti che si manifestano in un crescente numero di individui infelici" e che il problema della società industriale risiede in uno sbilanciamento fra lo sviluppo degli skill tecnici e quello degli skill sociali, sostenendo amaramente (nel 1945) che "se i nostri skill sociali avessero avanzato di pari passo con i nostri skill tecnici, non ci sarebbe stata un’altra guerra europea". I fatti: la terza fase (1931-1932) Abbiamo tuttavia volutamente presentato non completamente i risultati degli esperimenti di Hawthorne e le implicazioni che ne trassero Mayo ed altri, e lo abbiamo fatto perché ve ne sono di ulteriori che si apprezzano forse meglio presentando singolarmente la terza fase di quegli esperimenti, nota come fase degli esperimenti della "Bank Wiring Observation Room". Lo schema era simile a quello utilizzato per la seconda fase. Stavolta vennero scelti quattordici lavoratori incaricati dei collegamenti elettrici degli interruttori. Questa mansione richiedeva il lavoro congiunto di specialisti per i cavi, saldatori e addetti al controllo e venne scelta perché adatta al focus dell’esperimento, che fu più marcatamente e coscientemente indirizzato alle dinamiche di gruppo, differenziandosi quindi per questo dagli esperimenti della seconda fase. I metodi di ricerca adottati furono stavolta più sofisticati e l’osservazione avvenne intenzionalmente in modo molto meno "intrusivo" che negli esperimenti della fase uno e della fase due. La reale portata delle scoperte di Mayo: I gruppi primari Il risultato di questa terza fase degli esperimenti, in breve, fu che il gruppo di lavoro sembrava limitare l’output a un livello predeterminato. Al variare delle condizioni, infatti, so osservava non tanto un’oscillazione dell’output quanto una certa costanza dello stesso, il quale sembrava avere un "tetto" oltre i quale il gruppo aveva deciso di non andare. Questo risultato aiutò a precisare ulteriormente i concetti che venivano elaborati dalla fase 2. E’ rilevante notare che, con l’accorgimento di adottare metodi di osservazione molto meno "intrusivi", ci si era volutamente allontanati dal discorso riguardante l’ "effetto Hawthorne", per essere in grado di isolare e analizzare in maniera migliore le dinamiche del gruppo in sé. Cominciò così lo studio sistematico di quelli che 5 Alessandro Paparelli sarebbero stati definiti "gruppi primari", e cioè quei gruppi che "sono primari in diversi sensi, ma soprattutto per il fatto di essere fondamentali nella formazione della natura sociale e degli ideali degli individui", i quali hanno difatti come somma ambizione quella di un "posto desiderato nella concezione altrui" (Charles Cooley). Ciò che vorremmo particolarmente mettere in luce, e che caratterizza anche il contributo specifico di questa terza fase degli esperimenti, è il fatto che l’azione di questi gruppi primari può risultare a favore o a sfavore degli obiettivi del management. Concretamente, ad Hawthorne i gruppi primari (e quindi le loro caratteristiche, la loro forza, i loro obiettivi…) avevano da un lato determinato il risultato sorprendentemente positivo della seconda fase, nella quale si era avuto il massimo della produttività addirittura dopo il ripristino delle condizioni iniziali; ma dall’altro, durante la terza fase, avevano agito in senso contrario, autolimitando il livello di output a quello che ritenevano equo, al di là dei cambiamenti nelle condizioni di lavoro. La coscienza di questa "ambivalenza" degli effetti dei gruppi primari fu di grande importanza perché arricchì enormemente la prospettiva di studio, presentando un’immagine completa e non parziale del fenomeno. Rompeva quindi, in questo senso, la logica tayloristica della ricerca del fattore su cui agire per aumentare la produttività: un fattore era stato infatti individuato, aveva dato risultati positivi e anche sorprendenti, ma aveva mostrato anche un’altra faccia della medaglia, di segno opposto. La ricerca di relazioni lineari aveva condotto quindi innanzitutto alla scoperta di relazioni diverse, che si erano poi arricchite di andamenti dai segni opposti. E’ interessante comunque osservare che la portata di questa nuova visione del fattore umano diede dei frutti, anche a livello intellettuale, solo dopo qualche tempo, come è naturale che fosse. Lo stesso Mayo, infatti, ancora nel 1945 affermava che "l’impellente desiderio umano di cooperazione nell’attività ancora persiste nelle persone ordinarie, e può essere utilizzato da un management intelligente e lungimirante". Con tutte le differenze del caso, quindi, lo stesso "eroe" di Hawthorne si rivelava non distantissimo, concettualmente, da Taylor e compagni, nella misura in cui tendeva ad evidenziare, dei fenomeni "scoperti", più che altro la "direzione" positiva, indicandola come possibile ulteriore leva a disposizione del management.(3) Un ultimo "colpo di teatro": l’effetto Hawthorne non c’è più Torniamo ora per un attimo a quell’effetto Hawthorne che, sebbene abbia avuto in ogni caso un importanza rilevante, abbiamo un po’ "accantonato", perché solo marginalmente connesso con le nostre riflessioni. Ebbene, anche l’effetto Hawthorne sembra possa essere riconsiderato in una luce non dissimile da quella che caratterizza i risultati della terza fase degli esperimenti e l’ottica degli studi sui gruppi primari. Esiste infatti una "corrente revisionista" che, oltre a fornire una versione più puntuale degli esperimenti (che in parete si è qui riportato), sostiene la tesi per cui non esisterebbero dati empirici a supporto di un "effetto Hawthorne". Recenti rielaborazioni quantitative dei dati raccolti, infatti, sembrano negare una simile correlazione. Ad ogni modo, al di là di questa posizione, ci sembra giusto "chiudere il cerchio" con una visione più completa anche di questo rinomato fenomeno. 6 ticonzero No. 14/2000 L’effetto Hawthorne, altrimenti ribattezzato efficacemente come "Somebody Upstairs Cares syndrome", può infatti essere considerato (ed agire) come uno stimolo a più elevate prestazioni o, al contrario, come un inibitore delle stesse. Questa visione più completa del fenomeno ha ad esempio rilevanza nell’attività formativa, dove già da tempo si cerca di bilanciare il "fattore osservazione" in modo che possa stimolare l’impegno senza al contrario frenarlo o innescare dinamiche diverse. Conclusioni Cosa possiamo trarre quindi, in conclusione, dagli esperimenti di Hawthorne in termini di concetti di coordinamento e gerarchia? Senz’altro la scoperta della dimensione sociale (in generale) all’interno dell’organizzazione ha costituito "l’evento", a partire dal quale tra l’altro si e’ sviluppato un intero ramo delle discipline organizzative (L’Organizational Behaviour), senza dire delle conseguenze che questa "apertura di prospettiva" ha avuto in innumerevoli campi, non solo economici. Semplificando molto, infatti, non diremmo una grande bugia affermando che il mondo, agli inizi degli anni trenta, era visto tutto un po’ più "meccanicamente". Nondimeno, lo scopo di questo articolo era di cercare le implicazioni di questo "evento" dal punto di vista del coordinamento e della gerarchia. Per farlo abbiamo analizzato con maggiore dettaglio i fatti oggettivi, e abbiamo cercato di portare alla luce alcune considerazioni che spesso, per diversi motivi, sono rimaste all’ombra di altre. Il nostro punto di arrivo, in sintesi, è stato l’aver mostrato che l’insegnamento degli esperimenti di Hawthorne più significativo ai nostri fini può essere individuato nei gruppi primari, che consideriamo come "declinazione" e approfondimento delle dinamiche sociali emerse fin dal principio della ricerca svolta a Cicero. Solo gli esperimenti nel loro complesso hanno infatti portato alla luce un’interpretazione di queste dinamiche più completa e, diremmo, corretta: il fattore umano, sui generis rispetto ai fattori produttivi, vive immerso in un contesto sociale da cui dipende ed è influenzato; è tuttavia fondamentale la consapevolezza della "bidirezionalità" di questo rapporto, potendo esso orientarsi in senso "favorevole" o "sfavorevole, per dirla con i termini allora consueti. Forse diremmo oggi che i gruppi primari sono da vedersi come un sotto-sistema organico all’interno dell’organizzazione, che va quindi affrontato con approcci coerenti con la sua natura. In definitiva, direi che la grande innovazione degli esperimenti di Hawthorne sia stata non tanto la "scoperta" della dimensione sociale, quanto il passaggio, all’interno di questa, da una logica organizzativa ad un’altra completamente diversa: dalla logica del "se…allora" a quella del "dipende". E, decisamente, non è poca cosa. Note (1) Le ragazze protestarono dicendo che il loro ritmo di lavoro era spezzato da pause troppo frequenti 7 Alessandro Paparelli (2) Questo aspetto, ovviamente, come quelli che ne derivano, fu amplificato in questa seconda serie di esperimenti, in considerazione del fatto che le sei persone non erano state tutte scelte dai ricercatori, bensì la parte sostanziale della scelta era stata affidata alle lavoratrici stesse, con ovvie conseguenze. (3) Occorre dire che obiettivamente si tenderebbe a propendere più per un’interpretazione di "buona fede" di questa posizione di Mayo; tuttavia, tutto considerato, l’ambiguità della stessa rende ben conto del cambiamento di prospettiva che stava avvenendo: cambiamento che include infatti sia nuove aperture che inevitabili retaggi. 8