GIOVEDÌ 17 GENNAIO 2013 C'È TANTO ANCORA DA SCOPRIRE GIOVANNI BIGNAMI Presidente dell'Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), Accademico dei Lincei, membro dellʼAccademia di Francia e Presidente del Comitato mondiale per la Ricerca Spaziale, ha lavorato al vertice di centri della Nasa, dellʼESA e del CNES, oltre che in Germania e nellʼex Unione Sovietica. Dal 1997 al 2002 è stato Direttore Scientifico dellʼAgenzia Spaziale Italiana, ente che ha presieduto dal 2007 al 2008. Ha avuto vari incarichi nellʼAgenzia Spaziale Europea, in quella francese e in numerosi organismi internazionali PER SAPERNE DI PIÙ… Giovanni Bignami, Cristina Bellon, "Il futuro spiegato ai ragazzi", Ed. Mondadori, 2012 Giovanni Bignami "Cosa resta da scoprire", Ed. Mondadori, 2011 Giovanni Bignami "I marziani siamo noi", Ed. Zanichelli 2010 WEB http://www.ilfuturospiegatoairagazzi.it/ Un sito divertente e utile http://www.media.inaf.it/ La sezione del sito dell'istituto Nazionale di Astrofisica dedicata all'informazione QUELLO CHE DOVRESTE DECIDERVI A SCOPRIRE Quando Cicerone aveva in mente unʼorazione, per esempio una Catilinaria, come faceva? Giorno o notte, chiamava il suo fedele schiavo Tirone (che dormiva apposta sdraiato fuori della sua porta) e gli dettava le parole man mano che gli venivano. Tirone era uno schiavo molto intelligente, al quale Cicerone voleva bene e che stimava come collaboratore, al punto da dargli la libertà poco prima di fuggire da Roma verso la sua drammatica fine. Ma è per colpa di Tirone se, oggi come ieri, generazioni di studenti sono stati costretti a leggere e tradurre pallosissime orazioni ciceroniane, quelle che lui più o meno improvvisava, o che aveva memorizzato e studiato nei toni e nelle pause, in Senato (ricordate? «Video vos, patres conscripti...»). Tirone, nella sua ansia di trasformare in prosa eterna lʼoratoria ciceroniana, fu addirittura costretto a inventare una specie di stenografia, per non perdere il filo mentre freneticamente con lo stilo incideva caratteri su tavolette di cera, che erano il top della tecnologia dellʼepoca quanto a materiali riciclabili. Grazie a questo suo metodo, riusciva a scrivere più o meno alla velocità con la quale Cicerone parlava. E, come Cicerone, tutti, oratori, filosofi, scrittori, insomma, chiunque avesse qualcosa da dire che fosse esprimibile con un alfabeto, hanno lavorato così per duemila anni. Se avevi unʼidea in testa, o la scrivevi tu o la dettavi a un collaboratore più o meno bravo, efficiente o rapido a fare la stessa cosa, cioè trasmettere la tua idea a qualcuno o al resto del mondo, o alla posterità. Il problema, naturalmente, esiste ancora oggi, identico nella sostanza se non nella forma. Dagli anni ʼ50 abbiamo il dittafono, una macchina (pensate come sarebbe sembrata incredibile a Cicerone e soprattutto a Tirone) che raccoglie la tua voce e la fissa, in modo che poi la si possa trascrivere con tutta calma. È un passo avanti gigantesco che ha permesso di passare (per la prima volta nella storia dellʼuomo) da verba volant a scripta manent, davvero, senza intermediazioni umane e conseguenti variazioni in meglio o in peggio o introduzioni di ambiguità su cosa è stato veramente detto. Un poʼ come fare la fotografia della cometa al telescopio (o di un microbo al microscopio) invece di dipingerla o disegnarla a mano. Oggi, per fare da raccolta del nostro output cerebrale, abbiamo anche sistemi più sofisticati e diretti, equivalenti, concettualmente, a un nastro magnetico più uno «sbobinatore» umano: parliamo davanti a un computer che scrive (quasi) bene come Tirone tutto quello che diciamo. Oppure stiamo davanti a una webcam, perché un giorno il software di trascrizione della voce potrebbe anche diventare capace di trascrivere, per esempio, quella magnifica invenzione che è il linguaggio a gesti di coloro che non parlano, una rivoluzione culturale per una parte sofferente dellʼumanità. Naturalmente, oltre a sfruttare la cara vecchia voce umana (per chi è così fortunato da averla), abbiamo anche la tastiera come accesso alla scrittura, oltre ai mezzi che avevano Orazio, Dante, Mozart e Einstein, che furono ben capaci di rendere eterno più del bronzo il loro pensiero. Il signor Qfwfq sorride bonario di questa nostra goffaggine umana nellʼinsistere a fissare e trasmettere il nostro pensiero attraverso un linguaggio, una cosa che noi consideriamo una grande conquista da millenni, ma che lui considera superata da tempo. “Quello che dovreste decidervi a scoprire» mi dice «è unʼinterfaccia diretta del vostro cervello con un supporto hardware, insomma un contatto diretto neurone-silicio, per avere la massima velocità ed efficienza nella trasmissione del datopensiero.» Non capisco molto bene e glielo dico, ottenendo il solito sorrisetto telepatico di sufficienza mentre mi invia: “Pensa un poʼ alla telepatia con cui ti parlo, che passa attraverso tutto, pensa a come si potrebbe, al meglio, svuotare la fase di output, il registro di uscita, della tua mente. Immagina di possedere una pennetta USB da piantarti in unʼapposita porta ricavata, per esempio, dietro lʼorecchio destro (o sinistro per i mancini). Ci potresti scaricare tutto quello che hai pensato finora, e poi attaccarla alla stampante. Semplice no? Invece che a penny for your thoughts, un soldino per i tuoi pensieri, a pen for your thoughts”. Wow, il signor Qfwfq ha fatto la battuta. Scherzi a parte, secondo Freeman Dyson, grande fisico dello Institute for Advanced Study di Princeton, è davvero possibile unʼinterfaccia hardware tra mente e resto del mondo. Il principio è semplice. Se è vero (come è vero) che i neuroni trasmettono segnali elettrici alla frequenza delle microonde, con larghezza di banda dellʼordine del kilohertz (103 Hz), un singolo trasmettitore a microonde allʼinterno del cervello con una larghezza di banda di qualche gigahertz (109 Hz) potrebbe trasmettere fuori dalla nostra testa lʼattività di un milione di neuroni. di Giovanni Bignami MILIONI DI TERRE NELLʼUNIVERSO Lo diciamo da un poʼ di tempo: i pianeti sono la norma e non l'eccezione intorno alle stelle. Oggi i nostri telescopi europei in Cile danno una conferma e una nuova dimensione alla planetologia galattica: sono le stelle più comuni di tutte, le nane rosse, ad avere pianeti, anche pianeti «rocciosi», fatti come la Terra. Le nane rosse, cioè il 70-80% dei cento miliardi di stelle della nostra galassia, sono un po' più fredde del nostro Sole, che è una nana gialla. Ma questo significa solo che la «zona abitabile», cioè la distanza dalla stella dove potrebbe esistere la vita, è un po' più vicina alla stella che non nel caso del nostro sistema solare. Su un pianeta posto nella zona abitabile, l'acqua può essere liquida per miliardi di anni se la stella è stabile. E sulla Terra la vita, l'unico esempio che conosciamo, si è sviluppata proprio perché l'acqua è liquida da miliardi di anni. Insomma, ci devono essere miliardi di nuove terre, in giro per la nostra galassia, e molte potrebbero avere avuto le condizioni giuste per lo sviluppo della vita. Difficile, sempre più difficile pensare di essere soli… ma attenzione: non pensiamo subito ad omini verdi o ad E.T. Da sempre, e anche oggi, la forma di vita più comune sulla Terra è quella di organismi monocellulari o poco più: organismi complessi o addirittura «intelligenti» sono presenti sul nostro pianeta da una frazione di tempo piccola rispetto ai quattro miliardi di anni della vita sulla Terra. Lo stesso, quasi certamente, succede su un'altra terra intorno alla sua stellina qualunque. La probabilità di trovare un pianeta con E.T., o anche solo con un brontosauro o un ominide, è, ahimè, piccolissima. Ma partiamo dall'inizio: dobbiamo continuare a trovare molti pianeti simili alla Terra e possibilmente vicini a noi, per poterli studiare bene. La scoperta fatta con i telescopi europei in Cile è entusiasmante proprio perché dice che a poche decine di anni luce da noi, cioè dietro casa, ce ne possono essere molti, quasi certamente intorno a stelle che abbiamo catalogato ma che non abbiamo mai preso sul serio. Solo che, per scoprire e per studiare queste nuove terre, ci vogliono strumenti fatti apposta, molto sensibili, e bisogna esplorare molta superficie celeste. Dal Cile, per esempio, si vede solo l'emisfero Sud. Ma per fortuna c'è il Telescopio Nazionale Galileo, dell'Istituto Nazionale di Astrofisica, che guarda l'altra metà del cielo: posto su una montagna delle Isole Canarie, copre l'emisfero Nord. E, proprio al Tng, Inaf ha appena inaugurato uno strumento, HarpsN, fatto in Italia e che cercherà pianeti, vicini e lontani. E' capace di fare perfino quello che non sanno fare i telescopi spaziali e Nature, la rivista scientifica più prestigiosa del mondo, gli ha dedicato un pezzo, anche se non ha ancora visto nient'altro che il suo primo fotone. Forse proprio uno strumento italiano vedrà la casa dei nostri vicini galattici. Di sicuro, lavorerà su quello che ci resta da scoprire, che per fortuna sembra non finire mai. di Giovanni Bignami da “La Stampa” del 30/03/2012 BASTA CON LA FERRAGLIA ORA MANDIAMOCI UN UOMO Abbiamo quasi perso il conto di quante missioni il pianeta Terra ha inviato verso il pianeta Marte. Forse una quarantina, tra russe, americane, europee e giapponesi. Circa la metà sono fallite, con un tasso di fallimento che diminuisce poco nel tempo. Meno della metà di quelle coronate da successo ha avuto una fase più o meno fortunata di «ammartaggio». A partire dal primo, quello russo del 1971, sul suolo marziano sono poi finiti quasi una decina di tonnellate di oggetti terrestri (e speriamo che tutti fossero sterili, ma temiamo di no). Adesso per la Nasa arriva Curiosity, la più ambiziosa, con un rover da quasi una tonnellata: grande, appunto, come una Land Rover, per un costo di almeno due miliardi e mezzo. Tutti si aspettano grandi cose da Curiosity, ma la Nasa mette le mani avanti: non ha a bordo strumenti capaci di cercare la vita su Marte, solo di capire se ci potrebbe essere. E qui cʼè il buco, grande come una casa, del programma di esplorazione robotica planetaria Nasa: ma perché, dai tempi dei due gloriosi Viking voluti da Carl Segan nel 1977-1978, non si è più tentato un vero esperimento di ricerca della vita? Eʼ la domanda che si pongono molti astrobiologi al mondo. E nessuno, compresa la Nasa, ha saputo dare una risposta convincente. Eʼ troppo difficile cercare la vita in modo «remoto», con un robot sulla superficie? Carl Sagan almeno ci tentava, sfiorando il ridicolo quando, semiserio, disse che sui Viking avrebbero dovuto mettere un faro: forse la fauna marziana era notturna. Per peggiorare le cose, la Nasa ha mollato Exomars, il prossimo robot per Marte, ora in costruzione tra Esa e Russia. Mossa difficile da capire, tenuto conto che Exomars, almeno sulla carta, ha le migliori possibilità dai Viking ad oggi di trovare vita: andrà a cercarla sottoterra, dove forse è nascosta, al sicuro dalle radiazioni e dagli estremi climatici della superficie. Che cosa ha in mente, allora, la Nasa? Dopo il ciclone Bush e le sue sparate sul ritorno umano alla Luna, ora scomparse, Obama (qui per altri quattro anni, pare) dice alla Nasa di pensare in modo serio al ritorno dellʼuomo nello spazio. Ma alla grande: lasciamo ai cosiddetti «privati» di giocare con quel costoso giocattolo che è la Stazione spaziale internazionale, almeno ancora per qualche anno. E per quanto riguarda lʼesplorazione robotica del sistema solare, certo, andiamo avanti. Ma il grosso dei soldi andranno al ritorno dellʼuomo americano nello spazio profondo. Per la Luna, lasciamo fare ai cinesi: abbiamo già dato. di Giovanni Bignami da “La Stampa” del 05/08/2012