Gli studi sui neuroni: la grandezza dell’uomo contro ogni determinismo a cura di Giacomo Andreata (classe VA) In un recente articolo di una rivista mi sono imbattuto nell’intervista all’esperto di neuroscienze Michele di Francesco, che mi ha destato molto interesse perché offre un suo contributo dello stare davanti alle ultimissime scoperte sul cervello. Vi è, infatti, chi sostiene che nel cervello vi sia un’area “delle scelte morali” e che il soggetto non è altro che “un pacchetto di neuroni”, affermazione formulata all’inizio degli anni Novanta dal Premio Nobel Francis Crick. Ma è veramente questo l’uomo? A partire dal '800 con lo svilupparsi della tecnologia e delle scienze si arriva a un livello di conoscenze che non vanno ad indagare solo ciò che circonda l’uomo, ma cercano di studiare, in maniera scientifica, l’uomo stesso. Così, dopo vari stadi nasce, con il premio nobel John C. Eccles nel 1963, la neuroscienza cognitiva che ha come scopo quello di comprendere i meccanismi all’interno del nostro cervello che regolano tutto il nostro agire e le emozioni che proviamo. Nello specifico negli anni Sessanta-Settanta si ha una svolta sul campo poiché ci si rende conto dell’insufficienza dell’approccio comportamentista, per cui la mente era considerata una “scatola nera”, inconoscibile, e la sola comprensione sperimentabile e scientifica era il rapporto tra stimolo ambientale e risposta dell’uomo. Allo stesso tempo però ha avuto piede il materialismo contemporaneo, che riconduce i fenomeni mentali all’attività nervosa del cervello e li confina nella scatola cranica, fino alla coincidenza tra essere persona e avere un cervello. Credo che alla base di questa scienza si possa trovare la domanda esistenziale, quella semplice domanda che l’uomo si è sempre posto: “Chi sono io?”. La neuroscienza ha certamente un'enorme portata rivoluzionaria: poter conoscere meglio il funzionamento del nostro sistema nervoso ci permetterebbe di conoscere i problemi a esso associati e quindi ci porterebbe alla loro possibile risoluzione. Tutto ciò sembra incredibile in quanto aprirebbe una porta verso un mondo che fino ad ora abbiamo potuto solo intravedere dalla fessura di quella stessa porta. Credere che si possa conoscere fino in fondo l’uomo e, quindi, lo si possa controllare dovrebbe far paura perché porta con sé il rischio di ridurre e considerare l'uomo unicamente come una perfetta combinazione e collaborazione di neuroni che rispondono a stimoli esterni. Se fosse così la domanda del "chi sono io?" troverebbe una probabile risposta nell’affermazione che non si è altro che una perfetta macchina della natura molto complessa avente come unico scopo quello di sopravvivere e di riprodursi; per far ciò si avallerebbe della sua stessa intelligenza, compiendo azioni logiche. Detto ciò è il caso di fare un passo indietro, per capire cosa è l’intelligenza. Nel cercare di rispondere ad una domanda tanto complessa, non si può arrivare che a due possibili conclusioni. Secondo una prima ipotesi l'intelligenza si baserebbe sul semplice utilizzo delle proprie conoscenze che permettono di raggiungere un obbiettivo. Tale definizione mi sembra sia abbastanza riduttiva ma essenziale per arrivare ad una seconda considerazione di intelligenza: quella basata non solo sulle conoscenze e sulle azioni razionali ma anche sulle azioni apparentemente irrazionali e contraddittorie. Ad esempio se l’uomo ha come unico scopo quello di fare il proprio bene perché mai dovrebbe compiere azioni che gli recherebbero un danno solo per aiutare qualcun altro? Eppure ci sono donne che rinunciano a cure per dare alla luce un figlio giungendo alla morte. Questo sarebbe un comportamento non logico eppure abbiamo detto che l'uomo è una macchina che compie azioni logiche. Quindi la definizione di uomo quale semplice macchina logica è sbagliata per le contraddizioni che l'esperienza offre. Il credere di poter conoscerci meglio rispetto a quanto ci circonda è un possibile rischio della neuroscienza. Infatti non è così. L’introspezione è fallace tanto quanto la conoscenza del mondo esterno. Questo perché l’uomo non compie azioni che sono statiche e ripetibili in modo costante: noi e il nostro pensiero mutiamo continuamente fino alla fine della nostra esistenza. Perciò, essendo l'uomo un essere in divenire non è semplificabile e riducibile ad un processo in cui ad A segue B ma ci sarà sempre quella variabile imprevista che porterà ad un altro risultato. In chi, di fronte a un paesaggio naturale, come quello del cielo stellato, non scaturisce lo stupore? Sì, in noi accadrà una qualche reazione neuronale, ma non sarà solo quella a renderci uomini. Sarà necessario un qualcosa di indescrivibile, presente in noi, a renderci unici. Perciò, per quanto, ad esempio, la scimmia possa avere dei comportamenti simili a quelli umani non è come noi: non siamo simili per un fatto di intelligenza, perché, se fosse così, allora noi non saremmo l'altro che delle scimmie intelligenti. No! Noi siamo sì razionali ma tanto di più irrazionali, così irrazionali da essere uomini capaci di un sacrificio. Non vi è determinismo nell’uomo, essendovi la componente dell’unicità della persona e della sua libertà.