70 MILANO FINANZA SALUTE Personal 29 Ottobre 2016 Nuove N u molecole consentono di combattere e prevenire Parkinson e Alzheimer Amici per il cervello di Elena Correggia N uovi farmaci in via di autorizzazione, neurotecnologie, biomarker e approcci innovativi per la prevenzione e la diagnosi precoce accendono nuove speranze per contrastare alcune delle più invalidanti malattie neurologiche, dal Parkinson all’Alzheimer alla sclerosi multipla. Dal congresso nazionale della Società italiana di neurologia, che si è svolto nei giorni scorsi a Venezia, è emerso che le malattie del cervello costituiscono la condizione patologica più diffusa nel mondo occidentale, soprattutto a causa dell’invecchiamento della popolazione. Per quanto riguarda il morbo di Parkinson, malattia multifattoriale che colpisce in Italia circa 200 mila persone, sono in arrivo nuove formulazioni di levodopa, che si conferma il farmaco di riferimento per il trattamento. «Già introdotta in commercio negli Stati Uniti è per esempio una combinazione di due tipi di levodopa, una a pronto rilascio che agisce nel giro di 15-30 minuti e un’altra invece a rilascio lento, di alcune ore, per rendere più efficace la terapia», spiega il professor Leonardo Lopiano, direttore della Struttura complessa di neurologia dell’ azienda ospedaliera-universitaria Città della Salute e della Scienza di Torino, «a breve saranno inoltre disponibili una levodopa somministrabile per infusione sottocutanea continua e una per via inalatoria, per risolvere i blocchi improvvisi del paziente grazie a un rapido assorbimento». La ricerca sta intanto mettendo a punto nuovi possibili biomarker che consentano di identificare il Parkinson nelle sue fasi prodromiche. Si stanno in particolare elaborando algoritmi di probabilità per testare a livello sperimentale la validità dei nuovi biomarker su soggetti a rischio in base ad alterazioni molecolari e di neuroimaging che non sono ancora in fase conclamata. Poiché quando si arriva alla diagnosi il 60-70% dei neuroni dopaminergici della sostanza nera del cervello sono già compromessi, le terapie neuroprotettive non hanno offerto risultati. L’obiettivo ora è quello di verificare l’efficacia di questi interventi in una fase antecedente della malattia. Il pacemaker in testa. Nuovi sviluppi riguardano poi la stimolazione cerebrale profonda per il controllo dei sintomi, adatta per pazienti selezionati in fase non iniziale, che presentano fluttuazioni e movimenti involontari che i farmaci non riescono più a controllare stabilmente. La tecnica consiste nell’invio di impulsi elettrici mediante l’inserimento di un elettrodo in un punto specifico del cervello collegato a un generatore posto sottocute, nella regione del torace. «Il beneficio prodotto dalla neuromodulazione profonda dei circuiti cerebrali alterati dal Parkinson è già noto da tempo, ma oggi è migliorata la qualità dell’intervento in termini di precisione nel posizionamento dell’elettrodo, del diametro di appena un millimetro», continua Lopiano, «inoltre, l’uso di elettrodi direzionali consente al medico di decidere dove dirigere il campo elettrico all’interno del cervello per rendere il trattamento più efficace ed evitare effetti collaterali nelle aree non coinvolte dalla patologia». Si sta inoltre lavorando allo sviluppo di tecnologie che permettano una stimolazione adattativa, ovvero non costante ma modulata in base alla condizione del momento del paziente nell’arco della giornata, situazione rilevata attraverso il segnale biologico recepito dall’elettrodo. Un sistema per ridurre gli effetti collaterali e l’energia consumata dai dispositivi e migliorare il controllo delle fluttuazioni motorie. Più cure per la sclerosi multipla. Malattia infiammatoria del sistema nervoso centrale, la sclerosi multipla ha decorso cronico e rappresenta il più comune disturbo neurologico disabilitante di origine non traumatica in giovani adulti. Per contrastarla si sta ampliando il ventaglio delle terapie (14 quelle approvate oggi, che si estenderanno a breve a 20) sia come trattamenti di prima linea sia come terapie di seconda linea, per le forme inizialmente più aggressive e per quelle che non rispondono alle terapie iniziali. «Gli ultimi studi hanno confermato la validità anche a lungo termine di alemtuzumab, un anticorpo monoclonale già in u da alcuni anni, che agisce uso c contro un recettore dei linfociti B e T, con una riduzione delle r ricadute e della progressione d della malattia a distanza di sei a anni dalla terapia», afferma il p professor Gianluigi Mancardi, d direttore della clinica neurolog dell’Università di Genova. gica T Trattandosi di una sostanza che s lega ai linfociti, eliminandoli, si r rimane il rischio di sviluppare m malattie autoimmuni e problemi r renali, per cui è necessario monit torare il paziente con frequenti e esami del sangue. Benché la scler sia sempre stata ritenuta rosi p principalmente dovuta all’attiv vazione di linfocitiT autoreattivi, recenti studi hanno dimostrato l’efficacia di farmaci diretti all’eliminazione dei linfociti B. Fra queste molecole c’è ocrelizumab, in fase di registrazione, un anticorpo monoclonale umanizzato con un meccanismo di azione simile al già noto rituximab, anticorpo monoclonale murino, ma con un profilo di tollerabilità che pare migliore, in quanto rituximab può talvolta dare allergie. «L’azione contro i linfociti B è importante perché risulta utile anche per le forme primariamente progressive della malattia, contro le quali prima non si disponeva di terapie», prosegue Mancardi. Già approvato dall’Ema per le forme a ricadute e remissione è poi daclizumab, che agisce contro il recettore dell’interleuchina 2 presente sui linfociti attivati, mentre in fase di registrazione è Cladribina, un immunosoppressore tradizionale che con 20 giorni di dosaggio orale nel corso di due anni ha dimostrato efficacia nel ridurre la frequenza delle ricadute e nel rallentare la progressione della disabilità fino a quattro anni, con un profilo di tossicità accettabile, anche a lungo termine. Agire in anticipo contro l’Alzheimer. Circa 600 mila persone soffrono di Alzheimer in Italia, ma oggi è possibile identificare le alterazioni biologiche che espongono al rischio di sviluppare la malattia. Alla base di essa vi è infatti un accumulo progressivo nel cervello della proteina beta-amiloide, che distrugge le cellule nervose portando alla neurodegenerazione. Questa proteina comincia ad accumularsi anche decenni prima delle manifestazioni cliniche e si può riconoscerne la presenza attraverso un esame Pet con la somministrazione di un tracciante che lega la proteina e, similmente, analizzando i livelli della proteina nel liquido cerebrospinale mediante puntura lombare.A questi esami si possono sottoporre i soggetti con declino cognitivo lieve, che rappresenta la fase prodromica dell’Alzheimer, al fine di avviare strategie terapeutiche preventive per modificare il decorso della malattia, prevenendo o ritardando l’esordio. «A questo scopo sono in fase avanzata di sperimentazione alcune molecole testate a livello internazionale su migliaia di pazienti», spiega il professor Carlo Ferrarese, direttore scientifico del Centro di neuroscienze dell’università di Milano - Bicocca, «una prima tipologia di farmaci, a somministrazione orale, è diretta al blocco degli enzimi che producono la beta-amiloide, con la sua conseguente riduzione. Un altro gruppo è rappresentato invece da anticorpi sintetizzati in laboratorio e iniettabili, che in parte riescono a penetrare nel cervello rimuovendo la proteina e in parte circolano nel sangue, facilitando il passaggio della beta-amiloide dal cervello al sangue e quindi la sua eliminazione». Fra i pazienti che sono stati arruolati negli studi ci sono non solo soggetti con declino cognitivo lieve, ma anche soggetti sani che a causa dell’età avanzata o della familiarità alla malattia hanno deciso di sottoporsi alle indagini diagnostiche, da cui è emersa positività dei marcatori biologici (Pet o liquorali). «Accanto a quelle in fase di studio esistono però strategie preventive già attuabili, come il contrasto del danno vascolare che riveste un ruolo importante nel favorire l’accumulo di beta amiloide», precisa Ferrarese, «studi scientifici hanno documentato infatti come ipertensione, diabete, obesità, fumo, ipercolesterolemia, mancanza di attività fisica e una dieta squilibrata incrementino il rischio di sviluppare demenza. Al contrario la dieta mediterranea, un corretto esercizio fisico e l’allenamento della mente agiscono come fattore protettivo». (riproduzione riservata)