LA KASHERUT EBRAICA
Di Jean-Michel Carasso
I riti sono stati studiati da sempre e da eminenti pensatori, che ne hanno dato varie interpretazioni.
Le due interpretazioni più frequenti e più interessanti, a mio avviso, sono quelle che definiscono i
riti: dimostrazioni di appartenenza ad una determinata collettività e ricerca di un contatto o di una
sintonia con il sacro e il divino. Un modo, quest’ultimo, per propiziarsi forze ignote che da sempre
spaventano l’uomo o lo spingono ad indagare sull’incomprensibile. Riti e rituali sono quindi
strumenti di riconoscimento e di spiritualità.
La religione ebraica ha dei riti che presentono spesso caratteristiche multiple. Possono essere
insieme: riti negativi (proibire per allontanare l’impurità), riti positivi (prescrivere per raggiungere il
sacro), riti quotidiani (per esempio nell’alimentazione), riti ciclici (legati alle feste e ricorrenze), riti
commemorativi (legati al ricordo di eventi storici), riti espressivi (simbolo dell’attaccamento
dell’uomo al sacro), riti ambientali (segno della relazione tra l’uomo con il gruppo o la comunità),
riti individuali (legati al consumo), riti collettivi (nella produzione e la preparazione degli alimenti).
Uno dei rituali caratteristici dell’ebraismo è l’insieme delle pratiche che riguardano, appunto,
l’alimentazione. L’ebraismo, in effetti, regolamenta tutti gli aspetti della vita umana in funzione del
contatto permanente con la Scrittura, attraverso una serie molto lunga di precetti collegati o
interpretati da brani e versetti della Torah e del Talmud.
Il rituale alimentare, chiamato in ebraico “Kasherut” (adeguamento), considera nei minimi
particolari la maniera di nutrirsi degli ebrei praticanti, e in effetti è abbastanza difficile immaginare
di parlare di cucina ebraica senza parlare di cucina Kasher. Nella definizione diciamo “folkloristica”
della cucina ebraica si possono riconoscere modi e pietanze che derivano dalle varie cucine con le
quali gli ebrei sono venuti a contatto e che hanno fatto loro nel corso della loro lunghissima
“Diaspora”, modi e pietanze che però hanno sempre interpretato in chiave “kasher”, per l’appunto
“adeguandoli” alle regole religiose, regole che nel loro caso rappresentano in maniera molto forte
un insieme di riti che mirano a mantenere la coesione del gruppo di appartenenza.
Nell’ebraismo, il cibo adatto al consumo viene adesso chiamato “kasher”, aggettivo che significa,
appunto, “adatto”, “adeguato”, e il cui sostantivo è “kasherut”. L’aggettivo “kasher” si applicava,
all’origine, prima ad alcuni concetti, poi passò anche agli oggetti del culto e alle persone coinvolte
nelle materie religiose a vari livelli, mentre per i cibi si preferivano gli aggettivi “puro” o “impuro”.
Oggi la parola “kasher” si applica decisamente ai cibi, e il sostantivo “kasherut” indica l’insieme
delle leggi, regole e usanze che si applicano ai cibi che l’ebraismo autorizza.
Ciò che colpisce nella “kasherut” è la multiplicità e la complessità delle sue regole. La sua origine è
legata alla Rivelazione, e in effetti senza divinità la “kasherut” non avrebbe motivo di esistere, ma
ha conosciuto numerosi sviluppi nel corso dei secoli. Le sue interpretazioni sono state multiple
perché ogni generazione di Ebrei ci vede ciò che più la coinvolge. Questo rituale, assolutamente
centrale nella vita religiosa ebraica, è diventato via via un simbolo di autorità e una fonte di autorità.
Simbolo di autorità per chi garantisce l’autenticità della “kasherut”, e fonte di autorità per chi ne
autorizza l’applicazione.
Con la sua produzione di massa, l’internazionalizzazione dei mercati e le nuove aspettative dei
consumatori, la moderna società dei consumi ha portato ad una maggiore riorganizzazione della
“kasherut”. L’intervento di metodi sempre più sofisticati nella produzione alimentare, l’avvento di
procedimenti come la liofilizzazione e la surgelazione, l’uso frequente di conservanti e coloranti di
origine sintetica o chimica e l’uso di additivi o esaltatori di sapore hanno obbligato ad applicare
nuove norme e precetti ad un rituale che considerava a priori gli ingredienti come elementi naturali
non alterati dall’intervento umano. E viene da chiedersi quale dei due concetti avrà la meglio: la
“kasherut” come rituale eterno e immutabile risalente alle origini dell’ebraismo, o la “kasherut”
come caratteristica dell’ebraismo che evolve con la propria società in mutazione, ma questo
dibattito non è di mia competenza.
Le regole dell’alimentazione “kasher” possono essere presentate sotto quattro titoli:
1. alimenti e miscugli proibiti
2. alimenti autorizzati e la loro preparazione
3. bevande
4. regole specifiche per shabbat e Pesach.
Dagli alimenti e miscugli proibiti non fanno parte, con qualche regola particolare, tutti i cereali,
legumi, ortaggi, verdure, frutta, ecc, con la particolarità che i cereali e i legumi non possono essere
mescolati in terra d’Israele mentre altrove nel mondo possono esserlo.
Gli animali invece sono soggetti a regole precisissime che costituiscono riti numerosi. Ecco le
regole principali: Sono autorizzati tutti i mammiferi che ruminano e hanno lo zoccolo diviso
(manzo, vitello, montone, agnello, ecc.). Tutti gli altri mammiferi, ai quali mancano una o tutte e
due queste caratteristiche sono assolutamente proibiti (non solo il maiale come si crede
comunemente). Il maiale è l’animale più rappresentativo dei divieti assoluti, anche perché viene
considerato un animale sporco, ma sono proibiti anche il cavallo, il coniglio, la lepre, ecc.
Il caso degli uccelli è un po’ più complesso perché non esiste una regola unica che indichi quelli
autorizzati e quelli proibiti. La Bibbia enumera ventiquattro specie di uccelli impuri, tra i quali
l’aquila, lo struzzo, il pellicano, la cicogna, la civetta, il gufo e così via, e dichiara puri tutti gli altri.
Ma nella pratica vengono considerati “kasher” solo gli uccelli domestici come galline, quaglie,
anatre, oche, ecc, e “non kasher” gli uccelli selvatici e in particolare i predatori perché si nutrono di
carne e soprattutto di sangue. Si noterà, tra l’altro, il fatto che gli ebrei possono essere considerati
buongustai visto che sono proibiti quasi tutti gli uccelli che sono comunque immangiabili e/o
sgradevoli di consistenza o sapore. In quanto riguarda lo struzzo, che oggi va tanto di moda, è
probabilmente troppo stupido per fare parte dell’alimentazione ebraica! È bene ricordare che la
“kasherut” contempla persino le uova degli uccelli autorizzati, i quali devono essere aperti uno per
uno e separatamente, e eliminati se ci si incontra la minima traccia di sangue o di fecondazione. Le
uova sode sono autorizzate in funzione di una complicatissima regola di proporzioni che vale per
tutti gli elementi alimentari che si possono contare uno per uno, incluso i cereali, i semi e i legumi.
Per i pesci, esistono come per i mammiferi alcune regole chiare: per essere autorizzati devono avere
scaglie e pinne. Tutti i pesci ai quali mancano una o tutte e due le caratteristiche sono proibiti.
Alcuni pesci, però, sono oggetti di controversia, per esempio il pesce spada, che ha sì pinne e
scaglie, ma le cui scaglie sono attaccate direttamente alla pelle e non si possono rimuovere senza
ferire l’animale, e un animale ferito diventa automaticamente “non kasher”, per motivi che
vedremo.
I molluschi, crostacei e frutti di mare di tutti i tipi sono assolutamente proibiti, così come tutti i
batraci, i rettili e gli invertebrati, con l’eccezione di quattro categorie di cavallette indicate nel
Levitico, ma quest’autorizzazione è oggi caduta in desuetudine tranne che per alcuni ebrei originari
dello Yemen che seguitano ad usufruirne.
Alla lista degli animali proibiti si aggiunge un’altra interdizione: il miscuglio carne e latte o derivati
del latte. Questa regola assoluta e assolutamente rispettata con precisione in tutto il mondo ebraico
religioso proviene da un versetto della Bibbia ripetuto ben tre volte nell’Esodo e nel Deuteronomio:
“non cucinerai il capretto nel latte di sua madre”. Da questa tripla ingiunzione è nata la tripla
interdizione di cucinare, consumare o usufruire di un cibo che mescola carne e latte o latticino.
Questa è una delle regole della “kasherut” più complesse da osservare nella pratica, perché implica
in ogni cucina che si vuole “kasher” la presenza di due tipi di attrezzature complete, dalle stoviglie
alle posate, piatti, scodelle, contenitori, ecc, totalmente separati nell’uso: una per la cucina con
carne e una per la cucina con latte e latticini. Il pollame è assimilato alla carne, mentre pesce e
vegetali possono essere cucinati e consumati in ambedue le attrezzature.
Esiste inoltre un termine, che non s’incontra in nessun testo sacro ma che è entrato a fare parte della
“kasherut”: il termine “parve”, ovvero “neutro”, che si applica a quegli cibi che non fanno parte né
della carne né dei latticini e possono quindi essere cucinati e consumati sia nella cucina di carne che
in quella di latte. Naturalmente il concetto di “parve” si applica anch’esso all’attrezzatura di cucina
e di servizio, e non è raro trovare ristoranti o alberghi “kasher” in giro per il mondo che abbiano ben
tre cucine con tre attrezzature: una per la carne, una per i latticini e una per i neutri, almeno che non
decidano, come per esempio il ristorante “kasher” vegetariano di Firenze, di dedicarsi ad una sola di
queste tre cucine.
In quanto riguarda i prodotti della terra, sono tutti autorizzati, con alcune regole limitate che però
non sono universali: alcune sono decadute e alcune si applicano solo ad Israele, come per esempio il
fatto di non mescolare semi di tipi diversi fra loro o prelevare una percentuale dei prodotti coltivati
da devolvere alla carità, in memoria dei tempi in cui parte della raccolta andava a nutrire i preti, i
leviti e i poveri, che non possedevano terre proprie.
Bisogna citare anche le due regole dell’Orlah e della Hallah. La prima proibisce il consumo dei
frutti di un albero nei primi tre anni, ed è sempre in vigore. La seconda consisteva una volta nel
prelevare una porzione di ogni pane o dolce preparato con i 5 cereali seguenti: grano, orzo, farro,
avena, e segale, porzione che veniva consegnata ai preti. Di questa regola ancestrale rimane oggi
traccia simbolica nel fatto che ogni massaia brucia un pezzettino del pane o del dolce che sta
confezionando.
Aggiungiamo che la non osservanza delle regole della kasherut non solo rende improprio al
consumo il cibo stesso, ma rende “non kasher” gli strumenti usati per cucinarlo e consumarlo.
Un campo importantissimo della kasherut è quello degli animali autorizzati e della loro
preparazione rituale.
I pesci non necessitano di preparazione particolare, sempre che facciano parte della categoria
autorizzata. I mammiferi e uccelli, in compenso, devono subire un procedimento molto rigoroso
prima di essere consumati. Se sono “nevelah”, ovvero morti di morte naturale o uccisi in maniera
non rituale, sono impropri al consumo anche se fanno parte della categoria “kasher”.
La macellazione rituale, chiamata “shehita”, prevede il taglio con un coltello perfettamente affilato,
il più velocemente possibile e causando il minimo di dolore all’animale, della trachea, l’esofago, la
giugulare e la carotide insieme. L’animale, tra l’altro, deve essere in perfetto stato fisico e non
presentare nessun difetto esterno o interno, nessuna ferita, nessuno strappo muscolare, nessuna
frattura, niente…altrimenti viene considerato come improprio al consumo perché “trefa”, ovvero
“strappato”, termine che oggi corrisponde al contrario di “kasher”.
Ma non basta che l’animale stesso sia in condizioni perfette, bisogna anche che il “shohet”, o
macellaio rituale, possieda un coltello dalla lama perfetta, lama che verificherà ad ogni
macellazione passandola sulle dita e le unghie, e che non commetta nessun errore nell’atto di
macellare. Gli errori fatali sono di cinque tipi: “shehiya” ovvero interruzione, esitazione anche
minima durante l’atto, che lo prolunga e aumenta la sofferenza dell’animale; “drassa”, ovvero
pressione sul coltello invece del movimento avanti indietro; “halada”, ovvero sprofondamento, che
avviene quando il coltello è bloccato da peli o piume e non è visibile durante tutta la durata
dell’atto; “hagrama”, ovvero deviazione provocata dall’incisione fuori dal punto prescritto; “ikur”,
ovvero strappo dei tessuti invece di incisione.
Non essendo successo nessuno di questi errori, il “shohet” deve verificare che l’animale era in
buona salute, con particolare attenzione allo stato dei polmoni. L’animale viene allora dichiarato
“kasher”. Ma non è ancora pronto per il consumo… Prima bisogna levargli il sego, che è proibito al
consumo in ricordo del fatto che faceva parte delle offerte al tempio di Gerusalemme; il nervo
sciatico, proibito da un versetto della Genesi che ricorda il combattimento di Giacobbe con
l’angelo; il sangue che è assolutamente proibito perché nel Levitico troviamo quest’asserzione:
“L’anima di ogni carne, è il suo sangue”. Poiché il nervo sciatico è molto difficile da rimuovere
dalla carne, è frequente che i macellai kasher non vendano il quarto posteriore degli animali. Per
quanto riguarda il sangue, esso deve essere totalmente assente dalla carne pronta. A questo scopo, la
carne viene messa a bagno nell’acqua per mezz’ora, poi salata con sale grosso per un’ora e poi
sciacquata perfettamente. Solo allora può essere cucinata in tutte le maniere, ma sempre con gli
strumenti riservati alla cucina di carne.
Per evitare che il sangue coaguli e diventi quindi difficile da rimuovere tutto con l’ammollo e la
salatura, è consigliato fare queste due operazioni nei tre giorni dopo la macellazione. Altrimenti la
carne deve essere ammollata in acqua o sciacquata ogni 72 ore.
Le bevande analcoliche sono autorizzate tutte se provengono da frutta o verdura, alla condizione
che non siano state addizionate di conservanti, coloranti o altri prodotti chimici o naturali non
autorizzati. Nel dubbio, meglio scegliere una bevanda che comporta solo polpa e acqua. Il latte è
autorizzato se proviene da animali autorizzati, naturalmente, ma non può essere conservato né
consumato insieme alla carne o nei contenitori per carne. Per il vino, la questione è leggermente più
delicata: il vino deve essere stato riconosciuto e dichiarato “kasher”. La sua composizione,
naturalmente deve essere esente da prodotti chimici, e la sua produzione deve essere stata seguita
dall’inizio alla fine da ebrei religiosi deputati a questa sorveglianza, incluso l’imbottigliamento. Il
motivo è di evitare così il consumo di qualsiasi vino dedicato alle libagioni di un culto idolatra,
consumo che verrebbe assimilato alla partecipazione al culto in questione, come indicato
nell’Esodo. Questo si applica ugualmente a tutti i liquori a base di vino come cognac, armagnac,
porto, aperitivi ecc. Ne consegue naturalmente che anche l’aceto per l’insalata debba provenire da
vino kasher, mentre gli altri alcool e la birra, che non provengono da vino, sono autorizzati.
Ma che un cibo sia semplicemente “kasher” non basta ancora. In due occasioni particolari della vita
ebraica la “kasherut” deve essere specifica: il shabbat, ovvero il riposo settimanale dal venerdì sera
al sabato sera legato al fatto che Dio avrebbe creato il mondo in 6 giorni e si sarebbe riposato il
settimo, e Pesach, ovvero la Pasqua ebraica, celebrata in ricordo della fuga del popolo Ebreo
dall’Egitto e dalla schiavitù verso la libertà e la Terra Promessa.
Tra le 39 attività proibite durante il shabbat, una riguarda particolarmente la nutrizione, ed è quella
di accendere un fuoco. Cucinare durante il shabbat è quindi totalmente proibito, ma gli alimenti che
sono stati piazzati prima del venerdì sera su un fuoco acceso anch’esso prima del venerdì sera si
possono consumare caldi durante il riposo. Nei tempi antichi questa regola valeva per il fuoco che
serviva in casa per cucinare, oggi si è estesa anche al gas e alla corrente elettrica. Impossibile usare
un forno a microonde, come aprire e chiudere un frigorifero dentro il quale c’è una luce elettrica,
impossibile usare elettrodomestici, insomma il cibo deve essere stato preparato prima del shabbat e
messo a cuocere su un fuoco che poi rimarrà acceso fino alla fine del shabbat. Una volta si usava il
legno, il carbone, la brace, ecc, oggi si usano gli scaldavivande elettrici. Questo implica
naturalmente che i piatti del shabbat sono abitualmente piatti unici di quelli che possono cuocere ed
essere tenuti in caldo per ore e ore. Tutte le comunità ebraiche del mondo, a seconda della loro
origine, hanno un piatto tipo del shabbat generalmente composto di molti ingredienti nutrienti come
carne, verdure, cereali, legumi: che si chiami Tcholent in Europa centrale, Hamin nelle comunità
sefardite e in Israele o D’fina in Nordafrica, sempre di un piatto completo del shabbat si tratta.
Per la festa di Pesach si applicano regole molto rigide. La regola base è che non deve esserci nessun
tipo di “Hamets”, ovvero lievito, nei cibi che si consumano durante gli 8 giorni della Pasqua,
neanche sotto forma di traccia o di residuo. Da questa deriva una serie di regole di pulizia e
eliminazione della minima quantità o traccia di lievito da tutta la casa, dalla cucina, dagli utensili e
attrezzature, e il fatto che tutto ciò che viene usato per l’alimentazione durante Pesach deve essere
rigorosamente riservato a quel periodo per evitare che abbia contenuto o toccato lievito durante il
resto dell’anno. Questo, insieme al pane azimo senza lievito che ormai fa parte dell’alimentazione
dietetica anche non-ebraica, in ricordo del momento in cui fu annunciata agli Ebrei schiavi in Egitto
la fuga imminente: non ebbero il tempo di fare lievitare il pane che stavano preparando e dovettero
poi portarlo via e mangiarlo non-lievitato.
Queste sono le regole basilari e gli elementi religiosi che compongono la “kasherut” alimentare, ma
questa presentazione non è esauriente. Ogni momento della vita religiosa ebraica viene scandito da
regole alimentari specifiche.