Phineas Gage, un caso storico in campo neurologico Mi è capitato di leggere della vicenda di Phineas Gage, operaio statunitense addetto alla costruzione di ferrovie che subì un grave incidente, celebre in campo neurologico per la sua eccezionalità e fonte di informazioni sul funzionamento del cervello. Phineas Gage sopravvisse ad un grave incidente sul lavoro: una sbarra di ferro lunga un metro e pesante sei chili lo trafisse vicino allo zigomo sinistro, attraversò la parte frontale del cranio e fuoriuscì dall’alto. Ricostruzione CGI del cranio lesionato di Gage La vicenda di Phineas Gage risale al 1848, quando Gage aveva solo 25 anni; perse subito i sensi, ma pochi minuti dopo era già cosciente e parlava con i medici e tre mesi più tardi venne dimesso e andò a vivere con i genitori. Dopo un primo periodo di convalescenza che vide la sua personalità più irrequieta e meno razionale, riprese non solo a lavorare, ma a svolgere mansioni che richiedevano complesse abilità sensoriali, motorie e sociali: guidò una diligenza in Cile, dove si era trasferito. Dopo la sua morte, il cervello di Gage è stato oggetto di molti studi e ricerche. La scienza ha studiato molto questo caso e, di recente, grazie ai nuovi strumenti d’indagine, è giunta ad una maggiore precisione sul funzionamento del suo cervello dopo l’incidente. Dagherrotipo di Phineas Gage col ferro in mano Lo studio più avanzato è quello del team della Harvard Medical School di Boston, guidato da Peter Ratiu, che ha ricostruito sul Journal od Neurotrauma il percorso della barra usando, non un modello generato in base alle misurazioni, come negli studi precedenti, ma una ricostruzione 3D basata sulle TAC ad alta risoluzione. Conclusioni: solo l’emisfero sinistro era stato colpito, erano stati danneggiati tratti di materia bianca nel lobo frontale sinistro, ma non nel destro. L’integrità del lobo frontale destro spiega il relativo recupero neurologico di Gage e conferma la plasticità cerebrale; in pratica, l’emisfero destro ha supplito nel tempo alle funzioni perse dal sinistro, come peraltro già molto prima ipotizzato dal Dott. John Martyn Harlow. Che forza il cervello umano! Cinzia Malaguti Bibliografia: G. Sabato, La vera storia di Phineas Gage, su Le Scienze, nr. 133 M. MacMillan, An old kind of fame: stories of Phineas Gage, The MIT Press, 2000 I benefici di una buona notte di sonno Le ricerche degli ultimi venti anni cominciano a darci una spiegazione, pur in continua implementazione, del perché dobbiamo dormire. Il dato più chiaro è che il sonno non ha un unico scopo. Gli studi di questi ultimi venti anni hanno analizzato le correlazioni del sonno con le funzioni immunologiche, ormonali e del sistema nervoso centrale suggerendoci che, se non dormiamo a sufficienza, potremmo ritrovarci malati, sovrappeso, smemorati e depressi, oltre che stanchi. Sonno e sistema immunitario Gli effetti della deprivazione del sonno sul sistema immunitario sono marcati, è quanto suggeriscono due studi che hanno considerato la risposta dell’organismo all’immunizzazione con vaccini. La ricerca ha coinvolto due gruppi di volontari; dopo la vaccinazione, ai componenti del primo gruppo era stato permesso di dormire normalmente, agli altri era stato impedito di dormire per una notte intera. Dopo quattro settimane, i ricercatori hanno prelevato campioni di sangue per misurare la quantità di anticorpi protettivi che il loro sistema immunitario aveva prodotto come risposta al virus nel vaccino. I risultati: il livello di anticorpi del gruppo che aveva beneficiato di una notte di sonno normale era più elevato del 97 per cento rispetto al livello del gruppo deprivato del sonno. Effetti negativi sono misurabili anche dopo una notte di sonno incompleta. Sonno e sistema ormonale Prove convincenti di un’alterazione della funzione ormonale a causa di sonno insufficiente derivano dagli studi condotti da Karine Spiegel. Durante la ricerca, ai volontari era stato permesso di dormire appena quattro ore per notte; dopo cinque notti di sonno limitato, la loro capacità di eliminare il glucosio dal sangue, processo controllato dall’ormone insulina, si era ridotta del 40 per cento. Un altro studio ha rilevato un aumento nella secrezione dell’ormone (grelina) che stimola il senso dell’appetito ed una diminuzione dell’ormone che inibisce il senso di fame. Queste ricerche mettono pertanto in relazione il sonno insufficiente con lo sviluppo del diabete e con l’aumento di peso. Sonno e sistema nervoso centrale Una singola notte di deprivazione del sonno influisce sul deposito delle memorie emozionali, è questo il risultato di uno studio effettuato da Robert Stickgold e Matthew P. Walker. I risultati suggeriscono che, quando siamo deprivati del sonno, formiamo una quantità doppia di memorie di eventi negativi della nostra vita rispetto agli eventi positivi; “produciamo così una memoria distorta della nostra giornata, una potenziale causa di depressione“, afferma Robert Stickgold. Il ruolo di una buona dormita nei processi di stabilizzazione selettiva, rinforzo, integrazione e analisi di nuove memorie è ormai riconosciuto da tutti i ricercatori come significativo. Agli inizi degli studi sul rapporto tra sonno e memoria, Avi Karni e colleghi in Israele dimostrarono che le prestazioni di alcuni soggetti, allenati per un compito di discriminazione visiva, erano migliorate durante una notte di sonno, ma a patto che fosse permesso loro di entrare nella fase di sonno REM, il sonno profondo durante la quale avviene buona parte dei sogni. Questo esperimento aveva dimostrato che il sonno, oltre a stabilizzare i ricordi impedendo che si deteriorino nel tempo, è in grado anche di perfezionarli. Il sonno rinforza anche le capacità cognitive ed analitiche del cervello; grazie alla stabilizzazione selettiva delle informazioni, il sonno elimina “i rumori di sfondo” e trattiene gli elementi che considera preziosi. E’ per questa ragione che, se studiamo la sera prima di andare a letto, il nostro esame scolastico mattutino avrà risultati migliori che non se studiando la mattina con l’esame nel pomeriggio, a meno che tra lo studio e l’esame ci facciamo un bel pisolino. Una possibile new entry nella lista dei benefici è l’eliminazione delle tossine dal cervello. A questo sembrano portare i risultati di una ricerca effettuata sui topi da Lulu Xie e colleghi dell’University of Rochester Medical Center. I ricercatori hanno iniettato nei topi la proteina beta-amiloide (precursore delle placche che determinano la malattia di Alzheimer) ed hanno scoperto che veniva eliminata dal cervello nel sonno con una velocità doppia rispetto a quella osservata negli animali svegli. Il maggior flusso del liquido cerebrospinale tra il cervello ed il midollo spinale che si verifica durante il sonno, probabilmente, ha contribuito a spazzare via la molecola potenzialmente dannosa. Conclusioni Dormire bene e a sufficienza influisce sulla nostra salute fisica e mentale e, pertanto, contribuisce al nostro benessere e in maniera maggiore di quanto potevamo pensare. L’elenco dei benefici non si esaurisce qui, man mano che la ricerca prosegue ed affonda la sperimentazione nei vari aspetti del funzionamento del nostro organismo, sono certa troverà altre correlazioni significative. Cinzia Malaguti Bibliografia: R. Stickgold, Dormiamoci su!, Le Scienze, nr. 568 G. Tononi e C. Cirelli, La funzione del sonno, Le Scienze, n. 542 Come vincere la paura parlare in pubblico di E’ perfettamente normale provare quelle spiacevoli sensazioni legate alla paura di parlare in pubblico, ma le neuroscienze e la psicologia hanno rilevato che in certe situazioni la presenza di altre persone ha un impatto positivo sulle prestazioni. Già negli anni settanta, lo psicologo statunitense Robert Zajonc dell’Università del Michigan, elaborò la teoria secondo la quale se un compito è semplice o abituale, ovvero automatico, la presenza di pubblico avrebbe un effetto stimolante, mentre nel caso di mansioni più complesse o meno familiari il pubblico influirebbe negativamente sulle prestazioni. L’ipotesi è stata confermata dalle ricerche e dagli esperimenti di Nickolas Cottrell, psicologo dell’Università del Kent. Per capire perché i compiti più semplici sono facilitati dalla presenza di pubblico e quelli complessi no, dobbiamo comprendere come funziona l’attività di riflessione nel nostro cervello. L’attività di riflessione coinvolge la corteccia prefrontale, una regione situata appena dietro la fronte. Lo stress altera questa parte del nostro cervello. In condizioni di stress, infatti, l’amigdala (la zona dove nascono le emozioni come l’ansia) intensifica la produzione di noradrenalina e dopamina con l’effetto di mandare “in panne” la corteccia prefrontale: le risposte appropriate ci sfuggono, perdiamo il buon senso e ricordiamo solo in parte quello che sappiamo. In condizioni normali, la corteccia prefrontale garantisce il funzionamento dei normali meccanismi di pensiero e di riflessione e regola l’attività delle aree situate nelle profondità del cervello (il corpo striato coinvolto nella formazione delle abitudini, l’ipotalamo sede dei bisogni fondamentali come la fame e l’amigdala dove nascono le emozioni). E’ però possibile governare questo processo e, anzi, volgerlo a nostro favore attraverso un lavoro preparatorio di ripetizione ed automatizzazione. A forza di ripetere, succede che le parole, la gestualità e la mimica sono trasferiti progressivamente dalle aree frontali, che sono vulnerabili allo stress, alle zone più interne del cervello, meno sensibili. Allora, quando saremo davanti al nostro pubblico, anche in condizioni di stress, sarà l’automatismo creato, non l’attività della corteccia, a farci fare una splendida figura. Nei casi in cui occorre poi interagire ed improvvisare, la buona riuscita della prima parte della presentazione, darà quella fiducia in noi stessi, tale che lo stress avrà effetti minori. Insomma, un circolo virtuoso, ma tutto ciò vale solo se ci siamo preparati adeguatamente e quindi abbiamo padronanza dell’argomento da trattare. Cinzia Malaguti Fonte: N. Guéguen, Ansia da palcoscenico, Mente & Cervello, n. 132 Come migliorare la memoria Giovani e meno giovani, a tutti è capitato di rammaricarci per non ricordare un fatto, un evento o un particolare. La scienza si interroga costantemente sui metodi per aumentare la memoria. Nessuna pillola magica, ma quattro strumenti alla portata di tutti. Attenzione e curiosità Se siamo distratti, la nostra mente non riesce ad eseguire una scansione di ciò che abbiamo di fronte, quindi in primo luogo abbandoniamo la distrazione. Dopo l’attenzione, mettiamoci un po’ di curiosità, di piacere di conoscere ed apprendere. La curiosità, spiegano infatti alcuni scienziati della University of California di Davis, accende non solo le aree del cervello legate alle sensazioni di ricompensa, ma anche quelle dell’ippocampo, dove si formano le nuove memorie. Riposo Nel sonno le memorie si consolidano, in primo luogo le ultime esperienze perché sono quelle non disturbate da memorie successive. Uno studio pubblicato su Neurobiology of Learning and Memory afferma che un riposino di appena un’ora dopo la lettura o lo studio riesce a migliorare le performance mnemoniche fino a cinque volte. Ecco perché ai ragazzi che studiano il miglior consiglio che si può dare è quello di ripassare le lezioni la sera prima di andare a dormire, piuttosto che la mattina, oppure fare un pisolino dopo lo studio. Movimento Così come il cervello ha bisogno di riposto per consolidare la memoria, così ha anche bisogno di movimento per mantenersi allenato ad imparare e ricordare. L’esercizio fisico facilita l’apprendimento perché, aumentando il battito cardiaco, aumenta la quantità di ossigeno che arriva al cervello. Ne consegue che l’educazione fisica nelle scuole può migliorare le prestazioni degli studenti se fatta nelle prime ore della mattina. L’esercizio fisico, inoltre, favorisce la neurogenesi, ossia la nascita di nuovi neuroni; per questa ragione l’esercizio fisico rientra nelle prescrizioni contro il declino cognitivo associato all’età. Alimentazione Mangiare pesce fa bene alla memoria e migliora le facoltà cognitive. Lo confermano gli scienziati della Facoltà di Medicina dell’Università di Pittsburgh, il cui studio è stato pubblicato on line sull’ American Journal of Preventive Medicine. Anche il caffè risulta attivo sulla memoria, ma aiuta a consolidare il ricordo solo se bevuto dopo aver imparato qualcosa; a questa conclusione è giunto uno studio pubblicato su Nature Neuroscience. I mirtilli sono un altro alimento tenuto in stretta osservazione dagli scienziati che studiano come potenziare l’apprendimento e la memoria. I mirtilli, in frutto o in succo, sembrano contrastare il declino cognitivo legato all’età, aiutare l’apprendimento spaziale e la memoria, per merito dei flavonoidi che potrebbero aiutare il flusso sanguigno nel cervello. Una ricerca presentata dalla University of Reading ha mostrato l’efficacia del succo di mirtilli selvatici nell’aumentare la memoria e la concentrazione nei bambini delle elementari. Cinzia Malaguti Fonte: A.L. Bonfranceschi, Per ricordare meglio, fate un pisolino, L’Espresso, n. 47, Editoriale L’Espresso bel Il senso del tatto ed i suoi segnali non verbali Il senso del tatto ha sede nell’organo più esteso del corpo umano: la pelle. Attraverso i recettori tattili la pelle fornisce un feedback immediato e sensibile dell’ambiente. Il senso del tatto è anche uno straordinario mezzo di comunicazione, più di quanto possiamo immaginare. Il tatto ha un’enorme importanza anche nei rapporti umani; i piccoli contatti nella vita quotidiana, dall’amichevole stretta di mano all’incoraggiante pacca sulla spalla, dalla stretta al braccio per richiamare l’attenzione di qualcuno alla lieve carezza sulla guancia, sono segnali il cui impatto psicologico e relazionale è molto forte. Il contatto fisico, anche un semplice tocco informale al braccio, rende chi lo riceve più disponibile e generoso nei confronti degli altri. Uno studio ha infatti mostrato che i passanti acconsentivano più facilmente a firmare una petizione o a compilare un questionario dopo che chi formulava la richiesta aveva appoggiato loro per breve tempo la mano sul braccio. Altri ricercatori avevano chiesto per strada alcune indicazioni a degli estranei, poi ringraziando avevano toccato alcune persone di sfuggita sul braccio. Congedandosi, avevano lasciato cadere un oggetto, solo in apparenza senza volerlo: le persone che in precedenza erano state toccate accorrevano più spesso e più velocemente in aiuto, raccogliendo l’oggetto per restituirlo al proprietario. I ricercatori sostengono che questo dipenda dal fatto che un lieve contatto sul braccio segnala vicinanza, calore, simpatia. Anche i bambini reagiscono a questi segnali non verbali. A scuola, se l’insegnante tocca delicatamente il braccio al bambino chiamato ad eseguire i calcoli alla lavagna, questi è più invogliato. Il contatto fisico migliora anche la pazienza, come si rileva da uno studio condotto nel 2014 dalla psicologa Julia Leonard; la ricercatrice ha suddiviso bambini di quattro e cinque anni in due gruppi con la raccomandazione di non mangiare i biscotti posti sotto un bicchiere mentre lei si assentava dalla stanza per qualche minuto, se non riuscivano a resistere dovevano suonare la campanella per farla rientrare; i bambini che, insieme alla raccomandazione, avevano ricevuto un delicato tocco sulla schiena, prima di afferrare la campanella aspettavano in media due minuti in più dei loro compagni esortati a rinunciare soltanto verbalmente. La ricercatrice Julia Leonard, ora al Massachusetts Institute of Technology, ha concluso che anche un breve contatto può creare un’atmosfera cordiale, in grado di accrescere nel bambino, oltre alla capacità di cooperare, anche quella di regolare le proprie emozioni. Sono importanti i risultati di queste ricerche perché ci rendono consapevoli di avere a disposizione con il tatto uno straordinario strumento di facilitazione nei rapporti umani e didattici. Il senso del tatto si può poi sviluppare con l’utilizzo e lo sanno bene coloro che hanno perso la vista: grazie al tatto, possono leggere e “sentire” l’ambiente che li circonda, con un senso che, a differenza di quello della vista, lascia poco spazio alle illusioni. Cinzia Malaguti Fonte: J. Retzbach, Il senso ritrovato, Mente & Cervello La sclerosi multipla, cosa c’è di nuovo La sclerosi multipla è una malattia infiammatoria di origine autoimmune che interessa la guaina mielinica di rivestimento dei nervi. Sull’origine della sclerosi multipla, quello che si è scoperto fino ad oggi è che esistono persone che hanno una predisposizione genetica all’autoimmunità, ma anche le influenze ambientali possono provocare lo scatenamento del processo infiammatorio. La sclerosi multipla è una malattia molto diffusa in Europa e in Nord America, mentre è meno frequente nelle altre popolazioni. La SM può avere inizio da una banale infezione virale: nell’individuo si scatena una risposta immune in parte diretta all’eliminazione del virus e in parte diretta erroneamente contro il sistema nervoso centrale. L’aggressione alla guaina di rivestimento dei nervi genera delle placche che alterano la trasmissione degli impulsi generandone dispersione. Per capire il funzionamento della sclerosi multipla ci è utile pensare ad un filo elettrico attraversato dalla corrente, se la guaina isolante del cavo elettrico è integra la corrente elettrica lo percorrerà senza dispersioni, arrivando potente a destinazione, ma se la guaina è bucata o difettosa, l’apparecchio elettrico ad essa collegato non potrà funzionare; la stessa cosa succede con la sclerosi multipla, al punto da impedire il normale funzionamento di gambe e braccia, ad esempio. Ho avuto esperienza di sclerosi multipla essendone stato ammalato mio marito, una malattia bizzarra e imprevedibile, purtroppo in fase progressiva, trattata solo con cortisone. Oggi esistono migliori mezzi diagnostici e circa una decina di diverse terapie. Sclerosi multipla, diffusione nel mondo Strumenti diagnostici e terapie E’ necessario riuscire ad avviare le cure il più precocemente possibile, prima che inizi la fase progressiva. Un valido supporto alla diagnostica clinica proviene dalla Risonanza Magnetica che “permette di evidenziare specifiche alterazioni – ricorda il Prof. Gianluigi Mancardi, Direttore della Clinica Neurologica dell’Università di Genova -. E’ lo strumento che meglio visualizza la placche d’infiammazione ed è importante per la diagnosi e per capire se la cura sul paziente sta funzionando. Se così non fosse, nella RM si evidenzierebbero nuove lesioni rispetto ad esami precedenti“. Per quanto riguarda le terapie, circa una decina, alcune sono adatte alle forme iniziali, altre specifiche per curare l’elevata attività infiammatoria, quindi più aggressive. In Italia da qualche decennio si sta usando il glatiramer acetato, un trattamento con effetti collaterali quasi inesistenti ed efficace nel ridurre la frequenza delle ricadute. Recentemente è stata registrata in Europa una nuova formulazione di glatiramer acetato con somministrazione trisettimanale, permettendo così di evitate iniezioni giornaliere. La ricerca prosegue e chissà forse un giorno la sclerosi multipla non sarà più fonte di preoccupazione e sofferenza per tante persone. Ottima attività informativa e di sostegno dall’Associazione Italiana Sclerosi Multipla. è Cinzia Malaguti Fonte: Società Italiana di Neurologia, Neurologia, Ottobre 2015 fatta