MASSIMO BALDACCI
LA MARINERIA
NELLA MESOPOTAMIA ANTICA
RIVISTA MARITTIMA
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RIVISTA
MARITTIMA
MASSIMO BALDACCI
Mensile della Marina dal 1868
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NELLA MESOPOTAMIA ANTICA
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Francesco Rasulo
Tiziana Patrizi
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L’immagine del frontespizio è il disegno
di un sigillo mesopotamico da Tell Asmar
(ca. 2200 a.C.— Oriental Institute Museum,
Chicago) con il dio solare in processione
su un battello.
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MASSIMO BALDACCI
LA MARINERIA
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RIVISTA MARITTIMA
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LA MARINERIA NELLA MESOPOTAMIA ANTICA
A mia moglie Elena
A mio figlio Gabriele
Supplemento alla Rivista Marittima
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LA MARINERIA NELLA MESOPOTAMIA ANTICA
Introduzione
I
niziando a scrivere le prime parole di questo breve saggio (1), mi sono ricordato di quanto letto tempo fa nella introduzione al primo volume di un’opera
francese sul Medio Evo e che vorrei riproporre per questa occasione: quest’opera non ha la pretesa di essere sapiente, vuole solo essere uno strumento di riferimenti in grado di introdurre il lettore nell’ambito di un argomento troppo spesso ignorato o volutamente sacrificato, quello della marineria nel mondo mesopotamico. Se alla fine della lettura il quadro d’insieme risulterà più chiaro, il merito sarà del materiale esplicativo usato; in caso contrario avrò saputo rendere io
poco evidente la chiarezza di quest’ultimo.
Contrariamente a quanto si potrebbe a prima vista pensare, la storia del mondo occidentale ha avuto il suo inizio nel Vicino Oriente antico e ciò non solo per
quanto concerne l’invenzione e la diffusione della scrittura alfabetica: nata ap-
Palazzo di Sargon II,
Khorsabad. Bassorilievo
in alabastro (3,08x4,09
mt. Ca. 707 a.C.).
Trasporto di tronchi
di cedro dal Libano
su dieci navi con prora
a forma di testa
di cavallo (AO 19889,
Musée du Louvre/A.
Dequier).
Da Sidone i tronchi
raggiungevano il porto
di Tiro e costeggiando
la costa del Libano
giungevano alla foce
del fiume Oronte
da dove proseguivano
via fiume e canali.
(1) L’idea è nata a seguito di alcune conversazioni avute con mio padre, il capitano di vascello (c.a.)
Giuseppe Baldacci. È anche a lui e al privilegio di avere ancora al fianco chi ha saputo e voluto mantenere alto il valore della Marina Italiana nei non facili anni della Guerra e in quelli successivi che
questo piccolo volume è idealmente e affettuosamente dedicato.
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punto nella antica Siria, questa venne perfezionata nel
mondo cananeo (Ugarit, XIV
sec. a.C.) e successivamente
esportata in tutto il Mediterraneo attraverso il commercio
fenicio e l’uso del mezzo più
veloce e appropriato allora a
disposizione, la nave. Anche
se, come si vedrà, in questo
contesto il termine «nave» —
comunemente usato per comodità in tutto il lavoro — esula
da quelle caratteristiche tecniche e non a cui siamo soliti
oggi riferirci.
La valle del Nilo, per quanto riguarda l’Egitto, e soprattutto il fortissimo rigoglio culturale ed economico a cui diedero origine e alimentarono le
culture mesopotamiche di Sumere e Akkad gravitanti nell’area del bacino del Tigri e
dell’Eufrate, seppero infatti
creare (l’Egitto meno a causa
della particolare idiosincrasia della propria identità poco incline a esportare i
propri clichès o a importare di converso esperienze esterne) quei presupposti di
interscambio che furono a loro volta alla base non solo della capillare diffusione
della scrittura cuneiforme in tutto il Vicino Oriente antico, pur con gli adattamenti alle differenti realtà locali, ma anche di una fiorente attività commerciale
che fin dai primi momenti oltrepassò i limitati orizzonti di casa per affacciarsi in
buona parte del mondo allora conosciuto, attraverso lo sviluppo di una marineria ben presto diventata audace quanto intraprendente e la dislocazione di numerosi sbocchi portuali posti non soltanto sulle coste del Mediterraneo con la duplice funzione di ricovero navale e di aree commerciali per lo stoccaggio delle merci e le successive operazioni di distribuzione.
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Lo sviluppo di attività marinaresche fu principalmente supportato e garantito
da un indubbio fattore di successo: l’affermazione diffusa e accettata di una lingua che entrava non solo nella redazione dei «documenti di bordo» — i lasciapassare definiti nelle documentazioni dell’epoca con il nome di «tavolette del
re», senza i quali i molti checkpoints posti lungo l’Eufrate non avrebbero aperto
gli sbarramenti e dunque impedito la prosecuzione del viaggio — o degli elenchi
delle diverse tipologie di beni trasportati, ma della quale ci si serviva anche come lingua franca nei rapporti internazionali e interpersonali. L’utilizzo potremmo dire millenario di un unico vettore costituito da un’unica grafia (quella cuneiforme, in cui ogni segno è una parola — logogramma — o una sillaba — sillabogramma) e da un’unica lingua (il Sumerico prima, l’Akkadico poi, diventato
anzi lingua franca e diplomatica in tutto il Vicino Oriente antico, dall’Egitto fino
all’impero ḫittita in Anatolia) unito a quell’eccezionale materiale — l’argilla —
con cui erano realizzate le tavolette su cui veniva incisa la scrittura con l’aiuto
di uno stilo appuntito di canna, hanno consentito oggi di avere a disposizione un
patrimonio documentale immenso e forse inesauribile per ogni campo della ricerca: alle svariate centinaia di migliaia di tavolette già pubblicate e depositate
soprattutto nei Musei di tutto il mondo e alle migliaia di nuovi inediti che ogni
anno vengono pubblicati, corrispondono infatti altrettante centinaia di migliaia
di tavolette ancora interrate nei siti archeologici. Ciò è naturalmente anche valido per quanto riguarda l’argomento del presente studio, la marineria in generale
mesopotamica di cui, per la prima volta, si da contezza nella nostra lingua e in
cui cercheremo di entrare gradualmente, in modo da tenere conto non solo della
multifattorialità dell’argomento — come vedremo, i navigli entravano a fare
parte di più realtà della società dell’epoca e dunque non solo in un ambito più
intuitivamente commerciale — ma anche della specificità della sua allocazione,
il Vicino Oriente antico, una realtà forse per qualcuno non del tutto quotidiana.
L’attività marinaresca della Mesopotamia è soprattutto messa in evidenza
dalle scoperte epigrafiche fatte negli ultimi decenni: queste hanno dimostrato
non solo la presenza di navi cargo fluviali — gli importanti insediamenti portuali che l’archeologia ha man mano potuto portare alla luce nelle diverse parti del
Vicino Oriente antico dimostrano, come si è detto e per ogni periodo storico, una
altrettanto importante attività commerciale — atte al trasporto di beni tra i più
vari, ma anche le tecniche di costruzione delle stesse imbarcazioni, i materiali
impiegati e la terminologia di riferimento per le diverse parti che tali navi componevano. La loro dimensione — alcune ancore in pietra trovate a Ugarit (XIII
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sec. a.C.) pesano centinaia di chili — indicano esperienze di lunga data da parte
delle maestranze dedicate. I testi della III Dinastia di Ur (2112-2004 a.C.) forniscono ulteriori dettagli sulla marineria dell’epoca il cui uso, ancorchè preponderante nell’ambito commerciale, era certamente ben presente anche in un contesto
militare: l’accerchiamento navale di Cipro o le lettere fatte redigere dall’ultimo
re di Ugarit e inviate alla corte ḫittita come richiesta di soccorso contro l’attacco
navale perpetrato da parte dei «popoli del mare» sono solo due degli eventi che
molto chiaramente riferiscono di impieghi bellici e dunque di navi da guerra.
Il contesto proto-storico e storico
G
ià a partire dagli anni 1960 si iniziò a capire che le tecnologie relative alla cantieristica navale della antica Mesopotamia e alla conseguente navigazione dovevano essere particolamente avanzate, nonostante che fino a
quel momento la ricerca scientifica in merito avesse prodotto ben poche informazioni al riguardo. L’identificazione tuttavia di alcune tipologie ceramiche originarie della Mesopotamia, risalenti al VI-V millennio a.C. e rinvenute in numerosi siti costieri dell’Arabia Saudita, di Baḥrain, di ʿOman e del Qaṭar, ha reso
evidente l’esistenza di un certo tipo di relazioni via mare tra la Mesopotamia e i
paesi rivieraschi, anche se in quel momento venne aprioristicamente negata l’esistenza di un qualunque legame di tipo commerciale. La maggior parte della ceramica rinvenuta in questi siti è tuttavia riferibile alla tipologia che gli archeologi hanno identificato come ʿUbaid dal nome dell’epicentro culturale mesopotamico che tale materiale aveva prodotto ed esportato — talora a oltre 450 kilometri di distanza, come in questi casi — e temporalmente posizionabile nella fase 3 o 4 di questa cultura (ca. 5300-4800 a.C.). Un passo in avanti verso l’identificazione di un risvolto marinaresco per un paese come la Mesopotamia che si
riteneva dedito unicamente allo sviluppo delle risorse naturali interne, fu la scoperta di alcuni modellini di nave che facevano parte dell’arredo di alcune tombe
rinvenute a Eridu nel corso della seconda campagna di scavi insieme a materiali
ceramici di epoca ʿUbaid: uno di questi modellini in argilla — 26 cm di lunghezza, 15,5 cm di larghezza, 10 cm di altezza — è oggi al Iraq Museum di Baghdad
(IM 54900).
Ulteriori evidenze si ebbero durante le campagne di scavo 1990-1991 al sito
siriano di Tell Mašnaqa, quando vennero recuperati altri frammenti di modellini di imbarcazioni del periodo ʿUbaid. Nonostante il tentativo fatto da alcuni
studiosi (Barber, Dothan, Strasser) (2) di voler spiegare questi manufatti non
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come modellini di nave ma
come spolette impiegate
nel quotidiano lavoro di
tessitura a telaio svolto
dalle donne (uno di essi
venne in realtà trovato in
una tomba di Eridu a corredo femminile), i successivi e numerosi ritrovamenti di materiale navale
pongono seri dubbi sulle
ipotesi avanzate. Scoperte
archeologiche ancora più
recenti hanno infatti riproposto, per questo stesso
contesto storico e geografico, evidenze navali al di là Distribuzione di ceramica ʿUbaid nei siti del Golfo
di ogni possibile dubbio. (da R. Carter, Antiquity 80).
Gli scavi condotti a partire
dal 1999 nell’area H3 del sito di Raʾs as-Sabiyah in Kuwait, per esempio, non
solo hanno permesso di recuperare ingenti quantitativi di ceramiche del tipo ʿUbaid, ma hanno anche consentito di definire meglio l’evoluzione di queste società umane verso modelli più complessi alla cui realizzazione contribuirono in
modo determinante quegli interscambi commerciali via mare con la Mesopotamia sui quali erroneamente in passato hanno gravato (e forse in parte gravano
tuttora) errori di interpretazione da parte sia di archeologi che di storici (3): oggi la ceramica mesopotamica ʿUbaid è stata recuperata in oltre sessanta siti archeologici, tra costieri e non, posti fuori dalla Mesopotamia.
(2) T. Dothan, «Spinning-bowls», in Israel Exploration Journal 13 (1963) 97-112; E. Barber, Prehistoric
Textiles, Princeton University Press, Princeton NJ 1991; T.F. Strasser, The Boat Models from Eridu:
Sailing or Spinning during the Ubaid Period, Antiquity 70 (1996) 920-925.
(3) Un tentativo di correzione in tal senso si trova in R.A. Carter – H.E.W. Crawford – S. Mellalieu –
D. Barrett, The Kuwait-British Archaeological Expedition to as-Sabiyah: Report on the first Season’s
Work, Iraq 61 (1999) 43-58; R.A. Carter – H.E.W. Crawford, The Kuwait-British Archaeological Expedition to as-Sabiyah: Report on the second Season’s Work, Iraq 63 (2001) 1-20; R.A. Carter –
H.E.W. Crawford, The Kuwait-British Archaeological Expedition to as-Sabiyah: Report on the third
Season’s Work, Iraq 64 (2002) 1-13; R.A. Carter – H.E.W. Crawford, The Kuwait-British Archaeological Expedition to as-Sabiyah: Report on the fourth Season’s Work, Iraq 65 (2003) 77-90; id., Maritime
Interactions in the Arabian Neolitic. The evidence from H3, As-Sabiyah, an Ubaide-related site in
Kuwait, Leiden 2010.
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Allo stesso modo, oggetti provenienti dalle enclaves commerciali nel Golfo
sono stati abbondantemente reperiti in Mesopotamia.
In quasi ogni struttura architettonica — abitativa o
artigianale che sia — scavata nel sito di Raʾs al-Junayz (III millennio a.C.)
sono stati per esempio recuperati consistenti quantitativi di anelli in conchiglia (Pinctada margaritifera ) dello stesso tipo di Conchiglie di Fasciolaria trapezium. Tombe Reali di Ur
quelli che, via mare, giun- (ca. 2500 a.C.) (Oriental Institute Museum, Chicago).
gevano in Mesopotamia.
Sempre nello stesso sito archeologico, sono state rinvenute conchiglie di Fasciolaria trapezium che, lavorate a forma di bicchiere, hanno trovato spazio come
oggetti di pregio negli arredi funebri delle tombe reali di Ur, in Mesopotamia.
Conchiglie bivalve appartenenti alle specie Glycimeris o Anadara, anch’esse reperite in gran numero nel sito, erano invece utilizzate come piccoli contenitori di
khol (pirolusite, cioè cristalli di ossido di manganese polverizzati e uniti ad altre
sostanze a formare una pasta), un ombretto per gli occhi molto apprezzato dalle
donne in Mesopotamia. Tutto ciò costituisce una straordinaria fonte di informazioni sulla navigazione commerciale e sui mezzi navali, in questo caso del III
millennio a.C.
Il sito di Raʾs as-Sabiyah è collocato in una piccola baia, a ridosso del promontorio roccioso di Jazirat Dubaij. L’80% del materiale ceramico ivi rinvenuto è di
origine mesopotamica e risale alle fasi 2 e 3 (ca. 5500-5300 a.C.) del periodo ʿU(4) Una cronologia precisa dei quattro periodi che caratterizzano la cultura ʿUbaid è tuttavia difficile
da ottenere, pur con le raffinate tecniche del radiocarbonio 14C. È comunque possibile calibrare orientativamente i diversi periodi come segue: ʿUbaid 0 = seconda metà del VII millennio a.C.; ʿUbaid 1 =
i primi del VI millennio a.C.; ʿUbaid 2-3 (tuttora poco rappresentata) = seconda metà del VI millennio
a.C. (ca. 5500-5300 a.C.); ʿUbaid 4: prima metà del V millennio a.C.. I dati più completi (sito alʿUbaid in Mesopotamia) sono comunque quelli che si trovano in H. Valladas – J. Evin – M. Arnold,
Datation par la méthode du charbon 14 des couches Obeid 0 et 1 de Tell el-Oueili (Iraq), in J.-H. Huot
ed., Oueili: travaux de 1987 ey 1989, 381-383, Paris 1996.
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baid (4): tra i reperti figura
anche un modellino di imbarcazione in ceramica che
ne propone la tipologia più
antica, vale a dire quella
che si serviva di canne intrecciate per la sua realizzazione (5).
Un disco in ceramica dipinta con la raffigurazione Modellino di nave in ceramica da Raʾs as-Sabiyah
di una nave e quasi ottanta (da R. Carter, Antiquity 80).
frammenti di bitume derivati dalle normali operazioni di calafatura completano il numero dei reperti
ascrivibili ad attività di tipo marinaresco: una ulteriore conferma sembra essere data anche dall’abbondante presenza di conchiglie lavorate — forse
una vera e propria industria locale dedicata all’eDisegno del modellino dall’area H3, Raʾs as-Sabiyah
sportazione verso la Meso- (da R. Carter, BAR 1826).
potamia (6) — rinvenute
all’interno di edifici in pietra, probabilmente magazzini o ateliers di artigiani. Il modellino di imbarcazione
in ceramica tridimensionale (14,5 cm. di lunghezza; 7 cm. di larghezza; 5 cm. di
altezza), trovato nel corso della campagna di scavo del 2001, è del tutto simile
ad altri esempi ceramici di questo tipo e di questo periodo recuperati in altri can5) R.A. Carter, «Ubaid-period Boat Remains from as-Sabiyah: Excavation by the British Archaeological Expedition to Kuwait», in Proceedings of the Seminar for Arabian Studies 32 (2002) 13-30; R.A.
Carter, «The Neolitic Origins of Seafaring in the Arabian Gulf», in Archaeology International
202/2003 44-47.
(6) In questo senso vanno i lavori di A.H. Masry, tra i primi studiosi a porsi questo tipo di domande. Si
veda, per esempio, Prehistory in Northeastern Arabia: the problem of interregional interaction, Coconut
Grove 1974. Tra gli oggetti più apprezzati in Mesopotamia e realizzati in conchiglia figurano ami da
pesca (ottenuti dalla lavorazione della conchiglia Pinctada margaritifera) e piccoli contenitori per il
khol, un trucco femminile per gli occhi in pasta.
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tieri di scavo: al-ʿUbaid, Uruk, Eridu, Tell ʿUqair, tutti in Mesopotamia; Tell
Mašnaqa, in Siria. Nessuno di questi ha tuttavia offerto migliori dettagli rispetto
a Raʾs as-Sabiyah che dunque, meglio di altri, riesce a dare contezza sulle tecniche navali dell’epoca e sui mezzi con cui le merci venivano trasportate via mare. Le linee parallele incise sul modellino di nave, per esempio, se non hanno
una funzione puramente decorativa (come per esempio forse a Tell Mašnaqa)
(7), possono invece dare una precisa idea del materiale impiegato nell’originale,
vale a dire le canne, anche se si potrebbe comunque pensare alla necessità di voler indicare in tal modo eventuali stacchi tra materiali diversi o tra aree bituminate e aree non trattate. Dentature o approfondimenti sono visibili lungo entrambi i bordi superiori e sono probabilmente da considerare come gli alloggiamenti
dei remi, alla stessa stregua del modellino di imbarcazione trovato a Eridu e a
cui ci si è riferiti poco prima.
Una ulteriore differenza con gli altri modellini navali è data dal fatto che
mentre questi raffigurano imbarcazioni per la navigazione di fiumi e quindi impiegate per il breve tragitto, la nave di as-Sabiyah è invece rappresentativa di un
uso in mare, come fanno d’altronde capire i frammenti di bitume con incrostazioni marine (gusci e conchiglie) rinvenuti nel sito.
Le dimensioni reali delle navi di questo periodo storico non appartengono purtroppo che all’ambito delle ipotesi, anche se un sigillo mesopotamico da Uruk
(IV millennio a.C.) mostra capi di bestiame trasportati su un battello fatto di
canne, materiale tuttora considerato come primario dalle popolazioni locali per
la costruzione di barche: ancora oggi esistono infatti imbarcazioni in canna (in
arabo sono chiamate maddarrʾat, letterale «assemblate con foglie di palma»)
usate per i piccoli spostamenti o per la pesca lungo la costa, ma che comunque
non sono adatte a un trasporto di più di due o tre persone. Gli studiosi si sono
comunque interrogati sulla funzione che questi modellini di nave potevano avere: quello di Eridu è stato rinvenuto nei pressi della tomba 51 in un cimitero del
periodo ʿUbaid; anche i frammenti di nave da Tell Mašnaqa sembrano aver avuto a che fare con sepolture, alla stessa stregua dei numerosi modellini di barche
di epoca successiva (Antico Dinastico, ca. 2900-2500 a.C., o periodo Akkadico,
ca. 2300 a.C.). Realizzati in metallo o bitume, anch’essi sono stati trovati all’interno di tombe a Ur, dove erano deliberatamente posizionati alla fine dei condot(7) I. Theusen, Ubaid Expansion in the Khabur. New Evidences from Tell Mashnaqa, in O. Rouault –
M. Wäfler edd., Le Djéziré et l’Euphrate Syriens, de la Protohistoire à la fin du IIe Millénaire av. J.C.
(Subartu 8), 71-79, Turnhout 2000.
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ti per le libagioni. Se per questi è dunque possibile pensare a temi rituali connessi con la presentazione delle offerte ai defunti, lo stesso non si può invece dire
per quanto riguarda il modellino
di nave del periodo ʿUbaid di
Raʾs as-Sabiyah.
L’importanza dei ritrovamenti di
Raʾs as-Sabiyah relativi alla cantieristica navale non si esaurisce
tuttavia con questo modellino di
nave: come accennato, all’interno
di una delle strutture architettoniche in pietra che hanno permesso
di portare alla luce elementi tipici
del neolitico locale uniti a elementi tipici invece del periodo
mesopotamico di ʿUbaid (8), è
stato recuperato un disco in ceramica di 7 cm. di diametro ricavato da un grosso frammento di vaso ʿUbaid.
L’immagine posta sul disco è
quella di una nave con due albeDisco ceramico da Raʾs as-Sabiyah con la più antica
ri: ciò suggerisce una conoscenza
raffigurazione di una nave a vela
della navigazione a vela già nel
(da R. Carter, Antiquity 80).
periodo ʿUbaid 3 (ca. 5300 a.C.),
oltre a costituire la più antica documentazione oggi disponibile relativa all’uso di alberatura navale e dunque di
un adeguato e corrispondente sistema di vele.
(8) Ciò sembra rientrare nell’ottica di sistematiche relazioni di lunga data tra la Mesopotamia e i Paesi
rivieraschi del Golfo, dove i mercanti mesopotamici avevano le loro aree preferenziali di approvvigionamento di perle e di gioielleria basata sulla lavorazione di conchiglie nonché di pesce, lavorato e non,
e di bitume, in cambio di ceramica, pellami, prodotti di allevamento e materie prime lavorate. Sul
problema si veda H.P. Uerpmann – M. Uerpmann, Ubaid Pottery in the Eastern Gulf – New Evidence
from Umm al—Qawain, Arabian Archaeology and Epighaphy 7 (1996) 125-139; R.A. Carter, Excavations and Ubaid-Period Boat Remains at H3, as-Sabiyah (Kuwait), in E. Olijdam – R.H. Spoor edd.,
Intercultural Relations between South and Southwest Asia. Studies in Commemoration of E.C.L. During Caspers, BAR International Series 1828 (2008) 92-102. Il reperimento di numerosi esempi di ceramiche dipinte di tipo ʿUbaid in alcune aree cimiteriali, fa ritenere come queste fossero particolarmente apprezzate dalle popolazioni locali e dunque altrettanto richieste come oggetti di importazione e
di scambio.
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La terza tipologia di reperti aventi a che fare con la cantieristica navale che il
sito archeologico neolitico di Raʾs as-Sabiyah ha permesso di recuperare è costituito da frammenti di materiale bituminoso usato per la impermeabilizzazione di
scafi realizzati con le canne. Già recuperati nel corso della prima campagna di
scavo (1999), la loro funzione venne tuttavia definita solo con la terza campagna quando, inseriti in un contesto più ampio di ritrovamenti, ne venne stabilita
con certezza la tipologia d’uso. Questi frammenti, la cui dimensione varia tra i
cinque e gli otto centimetri, costituiscono i più antichi materiali navali fino a oggi reperiti nel Vicino Oriente e, comunque, possono essere considerati come i più
antichi resti navali in assoluto. Alcuni di essi presentano ancora i segni lasciati
dalle canne, mentre altri (la maggior parte: 22 su 35) hanno incastonati concrezioni marine e gusci. Nessuno di essi presenta segni lasciati dalle canne su entrambi i lati, così come nessuno presenta concrezioni marine su entrambi i lati:
solo cinque hanno da un lato i segni delle canne (lato interno) e dall’altro le concrezioni marine (lato esterno). Potrebbe essere questa la dimostrazione più evidente del loro uso, cioè la impermeabilizzazione degli scafi di imbarcazioni che
andavano regolarmente per mare. Le concrezioni marine, inoltre, si trovano solo
su questi frammenti e non, per esempio, su vasellame o su pietra, cosa che potrebbe significare l’avvenuta sommersione (anche temporanea ma reiterata, come nel caso delle alte maree) di aree abitative da parte del mare. È comunque
probabile che questi frammenti bituminosi non si siano staccati autonomamente,
ma che siano invece stati rimossi da vecchie imbarcazioni in disarmo — come
ulteriormente dimostrano le concrezioni marine di cui alcuni sono dotati — per
essere riutilizzati in seguito come materiale di cantiere per ristrutturazioni o per
la finitura di nuove navi.
Un testo neosumerico databile al secondo anno di regno di Amar-Suʾen (2045
a.C.) e conservato al Louvre (AO 5673) aiuta a capire meglio queste tecniche di
recupero e riciclaggio dei materiali ritenuti eventualmente riutilizzabili. Nel testo
si fa riferimento in modo dettagliato ai materiali usati per la costruzione / revisione di undici navi e delle loro innumerevoli parti — il testo è infatti lungo 177
linee suddivise in quattro colonne. A proposito del bitume — dei differenti tipi di
bitume — impiegato, se ne menziona un tipo «in pezzi» (il verbo gul in sumerico
vale «rompere», «fare a pezzi») verosimilmente frantumatosi in seguito a precedenti opere di rimozione della calafatura da altre imbarcazioni (1 talento corrisponde a circa 30 kili; 1 gur a 300 litri/kili):
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LA MARINERIA NELLA MESOPOTAMIA ANTICA
1 má 120 gur
ésir-ḫa5-bi 204 gú
ésir-gul-gul-bi 12 gú
ésir-é-a-bi 2 gur
ì-ku6-bi 1
1 nave da 120 gur.
Bitume secco per questa: 204 talenti;
bitume in pezzi per questa: 12 talenti;
bitume liquido per questa: 2 gur;
olio di pesce per questa: 1 (gur).
Oltre alla funzione di impermeabilizzazione dello scafo, è probabile che l’impiego del bitume avesse anche funzione di antivegetativo. Le analisi effettuate
hanno rilevato che il materiale bituminoso di Raʾs as-Sabiyah era costituito da
una densa componente vegetale (paglia o canna sminuzzata per aumentarne la
flessibilità e quindi la resistenza alla tensione) unita a una parte minerale: il tutto
doveva essere prima scaldato e poi applicato una volta raggiunto lo stato liquido
(9). Tra i reperti trovati nel sito di Raʾs al-Hamra (ʿOman, V-IV millennio a.C.)
figura un orcio in ceramica risalente a circa il 3500 a.C. e usato per scaldare il
bitume da impiegare nei lavori di calafatura. La non purezza del bitume impiegato aveva quindi un motivo essenzialmente pratico: doveva infatti assicurare
impermeabilità, ma anche flessibilità per evitare rotture, resistenza per esempio
nei confronti di impatti accidentali, mancanza di craquelé e quindi resistenza al
calore del sole, leggerezza per non appesantire la barca, plasticità per aderire alle sottostanti strutture in qualunque condizione. Per ottenere tutto ciò era stato
quindi studiato uno specifico amalgama di bitume e di modificatori. Le ricerche
condotte da alcuni ricercatori hanno dimostrato che al bitume erano infatti associati materiali inorganici (sabbie e carbonati) e materiali organici (fibre e grassi
animali) (10). Uno studio compiuto dall’Università di Roma ma non pubblicato
sui resti bituminosi trovati nel sito di Raʾs al-Junayz (seconda metà del III millennio a.C.) ha messo in evidenza una composizione fatta di bitume (fino al
46%), carbonato di calcio (fino al 54%), oli di pesce (fino al 2-3%), canne sminuzzate (del tipo Phragmites australis, cioè la canna comune) e fibre di lana. In
alcuni casi — per esempio parte del materiale di Raʾs al-Junayz, sito di RJ-2 —
(9) J. Connan, R.A. Carter, H.E.W. Crawford, M. Tobby, A. Charré-Duhaut, D. Jarvie, P. Albrecht, K.
Norman, A Comparative Geochemical Study of Bituminous Boat Remains from H3, as-Sabiyah
(Kuwait) and RJ-2, Ra’s al-Jinz (Oman), Arabian Archaeology and Epigraphy 15 (2005) 1-46; M.
Schwartz, D. Hollander, Annealing, Distilling, Reheating and Recycling: Bitumen Processing in the
Ancient Near East, Paléorient 26 (2001) 83-91.
(10) S. Cleuziou – M. Tosi, Black Boats of Magan. Some Thoughts on Bronze-age Water Transport in
Oman and beyond from the Impressed Bitumen Slabs of Raʾs al-Junayz, in A. Parpola – P. Koskikallio
edd., South Asian Archaeology vol. II, Helsinki 1994, 745-761; S. Cleuziou – M. Tosi, «Raʾs al-Jinz
and the Prehistoric Coastal Cultures of the Jaʾalan», in Journal of the Oman Studies 11 (2000) 19-73.
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LA MARINERIA NELLA MESOPOTAMIA ANTICA
le percentuali di grassi animali variano tra il 4 e il 9%.
Per quanto riguarda il sito H3 di
Raʾs as-Sabiyah, la reperibilità di
questi frammenti è risultata maggiore durante gli scavi condotti nell’area abitata durante le fasi ʿUbaid 2 e
3 (ca. 5500-5300 a.C.) per poi diminuire sostanzialmente durante il periodo successivo (fase 4: poco dopo
il 4800 a.C.), non tanto per l’abbandono o per il minor uso di attività
commerciali nave-correlate, quanto
forse per le diversificate tecniche costruttive. Una compresenza di frammenti di bitume con resti di canne o
bituminosi con impressioni di canne
di corde (= sartie) e di ceramica di eFrammenti
concrezioni marine da Ra?s as-Sabiyah
tipo ʿUbaid è verificabile anche in (da R. Carter, Antiquity 80).
altri siti dell’area, come per esempio
ʿAin as-Sayh — siti C e D. Per quanto riguarda l’uso esclusivo di canne
che in questo periodo storico veniva
fatto, è probabile che questo sia stato
in parte sostituito o affiancato da altri materiali solo verso il 2300 a.C.,
in piena Età cioè del Bronzo. Alcuni
ritrovamenti effettuati nel sito di
Raʾs al-Junayz, per esempio, hanno
infatti evidenziato due diverse tipologie di tecnica cantieristica navale:
una prima, ancora legata alla vecchia tecnologia basata sull’uso delle
canne; una seconda, certamente più
moderna, che affiancava strutture
realizzate in canna ad altre realizzate invece con fasciame in legno inchiodato.
Le tecniche relative alla calafatura sono comunque note in tutta l’area del Vi-
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cino Oriente antico, con un ulteriore sviluppo a partire dall’età del Bronzo in poi
(11). Materiali bituminosi del periodo ʿUbaid infatti sono stati recuperati nel sito
di Raʾs al-Junayz, mentre materiali analoghi ma risalenti al periodo antico Dilmun (prima metà del II millennio a.C.) sono presenti tra i reperti di al-Khidr,
forse uno dei centri di smistamento merci di provenienza dalla Mesopotamia per
la particolare struttura ricettiva delle sue insenature e per il ritrovamento di 6
grosse giare intatte di ceramica Dilmun superiori ai 300 litri di capacità. Gli scavi ai siti di Umm an-Nar e Qalaʾat al-Baḫrain (entrambi del III millennio a.C.)
hanno messo in evidenza simili materiali bituminosi. Alcuni di questi frammenti
(as-Sayh, periodo ʿUbaid; Qalaʾat al-Baḫrain e al-Khidr, Età del Bronzo) presentano gli stessi segni della giustaposizione delle canne o di incrostazioni di
molluschi marini di quelli trovati a Raʾs as-Sabiyah (12).
Il materiale bituminoso recuperato e il suo utilizzo nella cantieristica navale,
pone questo tipo di imbarcazioni (es. Raʾs as-Sabiyah) nella categoria ormai
unanimemente accettata dal mondo scientifico di imbarcazioni costruite con «fasci di canne legate insieme a creare una forma concava e impermeabilizzate con
bitume» (13) e nella sottocategoria C12 relativa a imbarcazioni il cui «scheletro
è dotato di coperture idrorepellenti determinate da opere di trasformazione». È
chiaro che questa tipologia di imbarcazioni servì ai mercanti mesopotamici del
periodo ʿUbaid per spingersi oltre i confini della Mesopotamia già durante la seconda metà del VI millennio a.C. e, se raffrontate alle informazioni da altre fonti che abbiamo in merito (ʿUbaid mesopotamico e iconografia mesopotamica dei
periodi successivi), è altrettanto chiaro che la tipologia di queste navi sia mesopotamica e che le maestranze coinvolte nella costruzione e i cantieri navali possano essere stati quelli della Mesopotamia, anche se esiste la possibilità di cantieri locali nel Golfo Persico a cui sembra fare pensare l’origine del bitume impiegato, derivato dalla zona mineraria di Burgan in Kuwait. L’identificazione da
parte dei paleozoologi di ossa di agnelli nel sito H3 di as-Sabiyah lascia adito a
(11) E. Ochsenschlager, Ethnographic Evidence for Wood, Boats, Bitumen and Reeds in sourthern Iraq.
Ethnoarcaheology at al-Hiba, Bulletin of Sumerian Agricolture 6 (1992) 47-78; S. Cleuziou – M. Tosi,
Raʾs al-Jinz and the Prehistoric Coastal Cultures of the Ja?alan, Journal of the Oman Studies 11 (2000)
19-73.
(12) H.A. McClure – N.Y. al-Shaikh, Paleogeography of an ʿUbaid Archaeological Site, Arabian Archaeology and Epigraphy 4 (1993) 107-125; P. Barta – L. Benediková et al., Al-Khidr on Failaka Islands: Preliminary Results of the Fieldworks at a Dilmun Culture Settlement in Kuwait, Tüba-Ar
(Türkiye Bilimer Akademisi Arkeoloji Dergisi) 11 (2008) 121—127.(13) S. McGrail, Towards a Classification of Water Transport, World Arcaheology 16 (1984) 289-303.
(13) S. McGrail, Towards of waterTtransport, World Arcaheology 16 (1984) 289-303.
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supporre che la pastorizia
locale si sia anche potuta
servire di navi e battelli per
il trasporto di greggi o di
parte di essi: si è accennato
a un sigillo da Uruk IV
(tardo IV millennio a.C.)
che mostra un avvenimento
simile, un bovide trasportato su un battello di canne.
Le nuove campagne di
scavo effettuate sui nuovi
siti archeologici hanno comunque ulteriormente confermato l’impiego di imbarcazioni e quindi la diffusione del commercio da e Sigillo W 14772. Lapislazzuli da Uruk IV (ca. 3200 a.C.).
per la Mesopotamia tramite
nave: le imbarcazioni ‘marine’ non sarebbero dunque altro che specializzazioni delle imbarcazioni fluviali
che da sempre hanno percorso i fiumi e i canali della Mesopotamia. Gli scavi di
Raʾs al-Junayz (14), per esempio, un sito dell’Età del Bronzo attivo tra il 2500 e
il 2300 a.C., hanno permesso di recuperare più di 300 frammenti di materiale bituminoso in tutto simile a quello mesopotamico o a quello recuperato a Raʾs asSabiyah (pur all’interno di un intervallo temporale di quasi tre millenni). Anche
in questo caso, l’estrazione potrebbe essere avvenuta nel sito neolitico di Burgan, una località mineraria posta a settanta kilomentri a sud di Raʾs as-Sabiyah
e dove è possibile reperire con facilità agglomerati bituminosi perfino in superficie.
A conferma della diffusione geografica della tipologia costruttiva dei cantieri
navali dell’epoca — canne e bitume — recenti studi effettuati su materiali bituminosi recuperati sul sito di Hacinebi Tepe (ca. 3800 a.C.), posto nella porzione
turca della valle dell’Eufrate, hanno evidenziato anche per questi un utilizzo na(14) S. Cleuziou – M. Tosi, Black Boats of Magan. Some Thoughts on Bronze-age Water Transport in
Oman and beyond from the Impressed Bitumen Slabs of Raʾs al-Junayz, in A. Parpola – P. Koskikallio
edd., South Asian Archaeology vol. II, Helsinki 1994, 745-761; S. Cleuziou – M. Tosi, Raʾs al-Jinz and
the Prehistoric Coastal Cultures of the Ja?alan, Journal of the Oman Studies 11 (2000) 19-73.
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LA MARINERIA NELLA MESOPOTAMIA ANTICA
Bassorilievo
assiro dal palazzo di Sennacherib
(705-681 a.C.):
scene di battaglia
su navi di canna
(British
Museumm).
vale in opere di calafatura di manufatti navali in canna e ipotizzato ancora una
volta la diffusione di tecnologie che, a mezzo del commercio via mare, dalla
Mesopotamia si irradiavano in tutto il Vicino Oriente (15).
Il contesto geografico
G
li scambi culturali a cui frequentemente si è accennato — quegli stessi che
avrebbero in seguito arricchito culture e civiltà più vicine a noi come quelle siro-cananea e fenicia — avvennero principalmente attraverso quei privilegiati contatti commerciali e quelle mire espansionistiche che le città-stato
della Mesopotamia ebbero verso tutti quei paesi che si affacciavano direttamen(15) M. Schwartz – D. Hillander – G. Stein, Paléorient 25 (1999) 67-82; G. Stein et al., «Uruk Colonies
and Mesopotamian Communities: An Interim Report on the 1992—93 Excavation at Hacinebi,
Turkey», in American Journal of Archaeology 100 (1996) 205-260; G. Stein, Rethinking World System: Diasporas, Colonies and Interaction in Uruk Mesopotamia, Tucson 1999; M. Schwartz, «Early
Evidence of Reed Boats from Southeast Anatolia», in Antiquity 76 (2002), 617-618.
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LA MARINERIA NELLA MESOPOTAMIA ANTICA
te sul mare, tra cui naturalmente quelli posti sul Mediterraneo. Tuttavia, la meticolosità talora parossistica con cui gli antichi mesopotamici trattarono ogni
aspetto della loro vita quotidiana, anche quello più apparentemente banale, ha
consentito a noi moderni di poter accedere a informazioni che altrimenti sarebbero irrimediabilmente andate perdute: è questo per esempio il caso di una iscrizione akkadica pubblicata nel 1955 sulla rivista Syria e che è tra l’altro pertinente con l’argomento di questo volume (16). Il re che l’ha commissionata è un
personaggio già incontrato: Yaḫdun-Lim (XIX sec. a.C.) sovrano di Mari, uno
dei regni più importanti dell’alta Mesopotamia. Nel breve testo con cui si volle
dare gloria alla rapida e fortunata campagna militare che diede al re il potere su
gran parte della regione del medio Eufrate e che lo fece giungere fino al Libano,
scopriamo un altro dei motivi che, oltre a quello economico-commerciale, determinò un così grande interesse degli antichi mesopotamici verso il mare Mediterraneo: la sua divinizzazione. Il Mediterraneo era un dio; non solo per i Cananei
della costa. Anche nella Mesopotamia il mare Mediterraneo era divinizzato
«Fino dai tempi più antichi, da quando dio fondò Mari, nessun re residente a
Mari raggiunse mai il Mare. Alla montagna dei cedri (= Libano), alla (montagna) dei bossi, alla grande montagna, essi non erano mai arrivati; per sé
non avevano abbattuto alberi. Yaḫdun-Lim, figlio di Yaggid-Lim, il potente
re, un toro selvaggio tra i re, è arrivato fino al litorale del Mare con una irresistibile forza. Al grande Mare egli ha offerto solenni sacrifici reali e le sue
truppe si sono purificate nelle acque del grande Mare».
Al di là comunque di possibili implicazioni religiose, l’importanza di uno o
più sbocchi sul mare non poteva sfuggire ad amministrazioni che avevano fatto
del commercio fluviale sul Tigri e sull’Eufrate uno dei cardini di una sempre più
fiorente industria di scambi, già comunque attiva e sviluppata nel V-IV millennio a.C. A causa infatti del pessimo stato delle vie carovaniere — spesso battute
anche da predoni — e della difficoltà di effettuare viaggi in asino o in cammello, i grandi cargo fluviali (in Sumerico: má-gur; in Akkadico: makurru, evidente
prestito dal più antico Sumerico) erano di gran lunga i preferiti soprattutto per i
commerci a lunga distanza, mentre una diversa tipologia di navi a piccolo, medio e grande cabotaggio venivano invece usate per diverse e minori necessità.
(16) L’iscrizione, inventariata come ARM HC M.2802, è stata pubblicata da G. Dossin, L’inscription
de fondation de Iaḫdun-Lim, roi de Mari, Syria 32 (1955) 1-28.
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Come si è visto, non solo le evidenze archeologiche ma anche quelle testuali riferiscono di importanti attività mercantili su nave verso e da i mercati del Golfo
Persico: i testi in nostro possesso fanno capire per esempio che gli insediamenti
di Meluḫḫa e di Dilmun, due enclaves commerciali di grande impegno per il volume di affari che annualmente impegnavano questi porti, erano attivi riguardo
al commercio sul mare già all’inizio del III millennio a.C.
Un testo in sumerico di Sargon il Grande, re di Akkad (2334-2279 a.C.), menziona Dilmun in un contesto di auto-esaltazione e di celebrazione della regalità.
È lo stesso Sargon che parla
«Le terre del mare tre volte io le ho espugnate! Ho conquistato Dilmun, fino
alla grande Der- (…) mi sono spinto! Qualunque re verrà dopo di me, conquisti anche lui le terre del mare tre volte! Conquisti anche lui Dilmun! Si
spinga anche lui fino alla grande Der- (…)».
Dilmun è comunque spesso menzionata anche nei testi letterari sumerici, denunciando in tal modo una conoscenza di essa sufficientemente elevata e di lunga data e certo dovuta alle fiorenti relazioni economico-commerciali che le importazioni di datteri da quel Paese alimentavano. Per chi non abbia sufficiente
dimestichezza con la letteratura sumerica basti sapere che il testo più famoso
che contiene un suo ricordo è forse quello relativo al Diluvio sumerico, in cui
ziusudra — «Quello dalla lunga vita», il Noè sumerico — è trasportato a Dilmun, il posto «dove nasce il sole», per viverci alla stessa stregua degli dèi
«Ed ecco che ziusudra il re
prosternandosi davanti ad An e Enlil
ne ottenne la benevolenza:
così gli accordarono una vita
comparabile a quella degli dèi!
Un soffio di immortalità, come quello degli dèi!
Lo posero in una terra oltre il mare,
a Dilmun, là dove sorge il sole».
Strettamente correlata con il dio Enki, divinità tra le maggiori del Pantheon
sumerico e connessa con il mondo delle acque e dunque dei fiumi e dei mari,
Dilmun è ancora menzionata in un altro grande mito arcaico sumerico, certamente risalente al III millennio a.C., dove anzi costituisce l’intero sfondo davanti
al quale si svolge uno dei più importanti miti della creazione mesopotamici. DilOttobre 2011
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mun ha il posto d’onore venendo rinnovata dall’azione divina: da laguna in cui
ristagnava l’acqua salmastra del mare («Nessun altro all’infuori di me percorre
questa laguna» dice all’inizio il dio) a luogo pieno di vita e di bellezza, grazie
alla trasformazione dell’acqua salata e sterile in acqua dolce e feconda. Le dee
che a Dilmun nasceranno (Nin-sar, la «Signora delle piante da orto» e Nin-kura,
la «Signora delle piante da fibra») assicureranno a Dilmun quelle caratteristiche
in cui fioriranno sia la bellezza della vita che l’operosità dell’ingegno umano e
del conseguente commercio. Il refrain che il mito contiene non può allora che
andare in questa direzione
«Dilmun è santità! Dilmun è purezza!
Dilmun è purezza! Dilmun è luce!»
Basta prendere in mano un atlante per vedere come la penisola araba sia in
realtà circondata per da tre lati dal mare: il Golfo Persico a Est, il Mare di Arabia a sud e a lambire la costa omonima, il Mar Rosso a Ovest. Per secoli, la fertile area localizzata tra Yemen, Haḍramaut, ʿOman e Baḥrain ha costituito un
importante carrefour lungo le rotte commerciali da e per l’India: la documentazione archeologica in nostro possesso, basata soprattutto sul ritrovamento di elementi ceramici della cultura mesopotamica cosiddetta di ʿUbaid (V millennio
a.C.) e di quella policroma della cultura altrettanto mesopotamica di Jemdet Nasr (ca. 3000 a.C.) largamente reperiti in tutta quell’area costiera, dimostra come
esistesse un fiorente e duraturo interscambio di cultura materiale promosso e sostenuto dalle attività commerciali. Sembra che la Mesopotamia esportasse verso
questi paesi cultura e tecnologia a essa applicata (ceramica, tessili e manufatti
in argento) per importare invece materiali pregiati e rame, valutandoli non secondo il sistema di pesi e misure usato in Mesopotamia, bensì secondo quello vigente a Dilmun e DILMUN — per esempio nei testi cuneiformi della proto-urbana Ebla (ca. 2350 a.C.) ma non solo — è il logogramma che indicava un tipo di
siclo, quello «pesato».
La Dilmun della documentazione cuneiforme è stata identificata con le isole
che costituiscono Baḥrain, tranne che per i periodi storici indicati come Tardo
Uruk e Antico Dinastico (ca. 3400-2350 a.C.) quando era collocata sulle coste
orientali dell’attuale penisola araba. Dilmun era comunque uno dei mercati più
apprezzati in Mesopotamia non solo per le alte richieste di tessili e lane, di olio
di sesamo e orzo, ma soprattutto per l’approvvigionamento di pietre dure e semidure che ivi arrivavano direttamente dal continente indiano e per i legni esotici. Un testo amministrativo del periodo di Ur III (2112-2004 a.C.) contiene
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l’inventario del tesoro del tempio della dea Nin-gal di Ur e menziona un certo
numero di queste pietre provenienti da Dilmun
«Tre monili con pietre a forma di rene in cornalina, tre monili con perle a forma di occhio di pesce; tre agate; cinque mine di bastoncini in avorio; tre mine
di pietre elligu, due grani di antimonio, tre sicli di arasum, due sicli di ḫulumun. (Il tutto proveniente) da una spedizione a Dilmun».
Si è precedentemente fatto cenno al sito dilmunita di Al-Khidr (prima metà
del II millennio a.C.): le campagne di scavo, effettuate a partire dal 2004, hanno
evidenziato — come già detto
— numerosi frammenti bituminosi da calafatura di navi
che, se letti insieme alle crescenti evidenze di un commercio marittimo dilmunita verso
la Mesopotamia, testimoniano
sull’importante ruolo avuto
dalla navigazione. Anche 52
sigilli a stampo sono stati recuperati e, insieme a essi, un
sigillo d’epoca Ur III che reca
l’iscrizione «Ab-gina, marinaio su un cargo, figlio di UrCalco del sigillo di Ab-gina, al-Khidr
Abba».
(Da Barta-Benediková, Tüba-Ar 2008).
Meluḫḫa sembra invece identificabile
con la Valle dell’Indo, dove le grandi
città sorte nell’ambito della cultura di Ḫarappa e di Mohenjo Daro (ca. 25001900 a.C.) provvedevano alle necessità mesopotamiche relative all’ebano, all’oro, all’avorio e alla cornalina. Un sigillo proveniente dagli scavi compiuti sul Tell
di es-Suleymeh, risalente agli inizi del II millennio a.C. e attualmete all’Iraq Museum di Baghdad, nonostante sia di fattura tipicamente mesopotamica mostra
animali esotici di derivazione dal continente indiano; anche i personaggi raffigurati sono chiaramente vestiti con vesti non mesopotamiche. Ciò costituisce un’ulteriore testimonianza sul commercio marittimo mesopotamico verso mercati appetibili come quelli asiatici. Anche le informazioni fornite dall’epigrafia vanno
nello stesso senso. Una tavoletta cuneiforme, per esempio, del periodo tardo-sarOttobre 2011
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LA MARINERIA NELLA MESOPOTAMIA ANTICA
gonico (ca. 2200 a.C.) menziona un mercante mesopotamico come «proprietario
di una nave di Meluḫḫa» che abbiamo visto essere una delle tipologie navali dell’epoca. Una nuova conferma sulle rotte
commerciali verso Oriente delle navi mesopotamiche è data da un sigillo oggi al Louvre (inv. AO 22310) e databile all’epoca di
Ur III (2112-2004 a.C.) o forse al periodo
immediatamente precedente (2200-2113
a.C.). In esso figura il nome di un certo Šuilišu che la leggenda del sigillo indica come
«interprete della lingua di Meluḫḫa» (emebal me-luḫ-ḫaki), forse un mercante mesopotamico — almeno a giudicare dal nome —
che aveva Meluḫḫa come sede commerciale
preferenziale (17).
Ancora una volta la vita quotidiana permea la letteratura e riceve da questa amplificazione e risalto. Un testo letterario scritto
in sumerico, la Maledizione di Agade, narra della distruzione di questa Copia di parte dell’iscrizione di Sargon
città voluta da Naram-Sin (2254- in sumericorelativa alle navi provenienti dal Golfo.
2218 a.C.) da parte degli dèi adirati
da comportamenti anti-sumerici da parte di Naram-Sin. Nel racconto trovano
tuttavia posto l’import-export mesopotamico e il Paese di Meluḫḫa
«Il suo re, il Pastore Naram-Sin risplendeva come la luce del giorno sulla
santa città di Agade: le sue mura di cinta, come una montagna, toccavano i
cieli! Fu come il Tigri che si butta in mare, allorchè la santa Inanna aprì i
battenti della porta urbica, rendendo possibile a Sumer di portare fuori ciò
che produceva con le barche. I Martu delle montagne, gente che non conosceva la coltivazione della terra, portarono capi di bestiame e vitelli. Gli
(17) G.L. Possehl, Shu.Ilishu’s Cylinder Seal, Expedition 48 (2006) 42-43. L’autore riferisce anche dell’ xpertise effettuata a suo tempo da Edith Porada, la compianta massima esperta di glittica
mesopotamica a livello mondiale, che ne confermò autenticità e datazione (ca. 2220-2159 a.C.) sulla
base di alcune caratteristiche dell’incisione. La scena raffigurata è di tipo devozionale-culturale con alcuni personaggi oranti di fronte a una divinità.
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abitanti di Meluḫḫa, la gente della terra nera, portarono merci dai paesi
stranieri».
La lettura del brano consente alcune conferme: la conoscenza del mare, l’uso
di mezzi navali, la consistenza del commercio da e verso l’estero, l’ampiezza
degli orizzonti che con Meluḫḫa arrivavano fino alle terre dell’India.
La terza delle aree esotiche di approvigionamento era Magan, il Paese della
diorite, da localizzare a sud di Dilmun e da identificare probabilmente con ʿOman o con il più lontano Balochistan: rotte verso Magan resistettero fino a tutto
il periodo della III Dinastia di Ur (2112-2004 a.C.), epoca in cui vi fu una altissima richiesta di spezie (remunerazione molto alta per piccole quantità), per poi
cessare nel successivo periodo antico-babilonese, a partire dal quale solo Dilmun
restò come interlocutore commerciale esotico della Mesopotamia. Alla base di
ciò possono forse esserci motivazioni per una maggiore intraprendenza commerciale da parte di Dilmun, l’unica ad aver resistito in ogni periodo storico. Sembra infatti che Dilmun sia riuscita a diventare l’interlocutore commerciale privilegiato tra gli appetibili mercati della costa indiana (Ḫarappa) e la Mesopotamia: un non trascurabile motivo di crescita economica è probabilmente dovuto
all’acquisizione di tecniche amministrative tipiche della cultura di Ḫarappa, più
snelle rispetto a quelle della Mesopotamia. Per esempio, nella siglatura dei documenti contabili o viaggianti via mare, al posto del sigillo mesopotamico — di
più complessa realizzazione in quanto andava fatto rullare sul materiale (es. argilla) su cui doveva essere imposto — venne adottato il più semplice sigillo a
stampo usato in tutta la valle dell’Indo (18.)
Tutte e tre sono comunque menzionate in una iscrizione cuneiforme risalente
al regno di Sargon il Grande di Akkad (2334-2279 a.C.):
«… navi (in Sumerico: má) da Meluḫḫa, navi (má) da Magan e navi (má)
da Dilmun sono attraccate alle banchine del porto di Akkad».
Un documento conservato al British Museum e risalente al fondatore della Dinastia di Ur III, Ur-nammu (2112-2095 a.C.), ricorda il ritorno del re da un
(18) J. Eidem – F. Højlund, Trade or Diplomacy? Assyria and Dilmun in the Eighteenth Century,
World Archeology 24 (1993) 441-447; B. Vogt, Bronze Age Maritime Trade in the Indian Ocean:
Harappan Traits on the Oman Peninsula, in J. Reade ed., The Indian Ocean in Antiquity, London 1996.
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LA MARINERIA NELLA MESOPOTAMIA ANTICA
viaggio diplomatico e d’affari a Magan e ancora Magan figura nel primo codice
di leggi mesopotamico — oggi al Museo di Istambul —, ben antecedente a quello voluto da Ḫammurapi di Babilonia. Pur se attribuito a Ur-nammu, è probabilmente il figlio Šulgi l’artefice di questa rivoluzione legale, di cui uno degli articoli riguardava il ripristino di parte del traffico commerciale navale sotto l’egida
del tempio.
«A mezzo del potere del dio Nanna, mio signore, io feci in modo che le navi di Magan (má má-ganki) tornassero alle banchine di attracco (ki-SAR) di
Nanna».
Un testo cuneiforme risalente alla III Dinastia di Ur, la cui esasperazione amministrativa ci ha permesso di entrare in possesso di centinaia di migliaia di tavolette, informa su almeno una delle motivazioni per cui le navi riparavano nei
porti, vale a dire la necessità di manutenzione. È questo infatti il caso di cui si
parla nel testo, a proposito di un certo numero di navi di Magan, per le quali
viene stilata la lista dei materiali da impiegare per le opere di restauro
«178 grandi tronchi di palma da dattero; 36 grandi tronchi di tamerice; 32
grandi tronchi di alberi še-ḫi; 10 tamerici di tre cubiti l’una; 276 talenti di
sartie fatte con fibre di palma; 34 talenti di sartie fatte con foglie di palma;
418 talenti di giunchi; 3170 gur (=951.000 l.) di bitume purificato».
Il mare ha sempre esercitato un fascino particolare sull’uomo al punto che, limitandosi al solo ambito letterario, John Kohnen nel 1999 ha stilato un elenco di
quasi 900 autori che hanno scritto almeno un romanzo avente a che fare con il
mare. Comunque sia, il primato della più antica fraseologia marittima lo detiene
il faraone Snefru (ca. 2650 a.C.), una cui iscrizione ricorda che: «Sono arrivate
40 navi cariche di legno di cedro». Il legno, in un paese senza alberi come l’Egitto, era necessariamente fatto arrivare da fuori, in questo caso dal Libano i cui
tronchi di legno di cedro erano apprezzati in tutto il Vicino Oriente antico come
elementi fondamentali nella edificazione e nelle rifiniture di templi e palazzi.
Una iscrizione celebrativa di Šar-kali-šarri (2217-2192 a.C.), quinto re della dinastia di Akkad, oggi al British Museum di Londra attesta la stessa tipologia di
viaggio anche per l’ambito mesopotamico
Lui (= Šar-kali-šarri) ha raggiunto le fonti del fiume Tigri e le fonti del fiume Eufrate e ha tagliato legno di cedro sui monti dell’Amano al fine di
(edificare) il tempio della dea Aštar (BM 38302 ll. 45-57).
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LA MARINERIA NELLA MESOPOTAMIA ANTICA
Mappa di alcuni
canali e sistemi
di irrigazione
a Ovest
dell’Eufrate.
Tavoletta
da Babilonia
(ca. 1680 a.C.)
(Collezione
Schøyen
(MS 3196)).
Legni esotici e materiali pregiati da costruzione rientravano d’altronde nel bagaglio cognitivo di ogni architetto dell’epoca: più il manufatto edile era importante — il palazzo reale o comunque di un notabile o un tempio — maggiore doveva essere l’impiego di elementi strutturali e / o decorativi che potessero determinare stupore in chiunque potesse venire in contatto visivo con esso: nulla di
meglio, dunque, che impiegare quanto il commercio marittimo faceva giungere
in Mesopotamia da oltre mare. Un esempio sarà sufficiente per capire meglio
quanto detto. Tra la corrispondenza in lingua akkadica dei vassalli cananei dell’area siro-palestinese nei confronti del potere centrale egizio all’epoca del faraone Amenofi IV (XIV sec. a.C.) ve ne è una — la numero 89 — inviata dal re
di Biblo Rib-Ḫadda che si lamenta per alcuni problemi di cattivo vicinato con il
regno di Tiro. Il tono della lettera è quello classico in questi casi: mettere in cattiva luce l’avversario, anche riferendo particolari spesso non veritieri ma comunque capaci di suscitare nell’interlocutore quel sottile senso di invidia che da sempre è alla base del rancore umano
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LA MARINERIA NELLA MESOPOTAMIA ANTICA
«Forse che il faraone non si dovrà informare a proposito del reggente di Tiro? Poiché i suoi possedimenti hanno la stessa vastità del mare: lo so bene
io! Ecco, non vi è dimora regale simile a quella della reggia di Tiro. È come la reggia di Ugarit: smisuratamente grandi sono le ricchezze che contiene! — per poi chiudere utilizzando la subdola arma dell’avvertimento —
Che il faraone presti attenzione alle parole del suo servitore!».
I rendiconti delle campagne di scavo condotte sul sito di Ugarit, una città-stato cananea del XIV sec. a.C. posta sulla costa siriana a poca distanza da Lattaqiyah e molto attiva nel commercio merittimo, oltre agli studi specialistici di settore apparsi nei diciassette volumi della serie francese Ras Shamra — Ougarit,
hanno effettivamente e costantemente evidenziato il carattere di opulenza con
cui si circondava la corte ugaritica e che naturalmente traspariva anche dai materiali importati via mare e impiegati nella realizzazione degli edifici più importanti o delle supellettili che templi, palazzi o dimore di notabili contenevano.
Quanto di pregiato i mercanti mesopotamici riuscivano a procurarsi sui mercati stranieri e a trasportare con le loro navi, finiva per essere impiegato nella
stessa maniera che a Ugarit, nella lavorazione cioè e nell’abbellimento dei palazzi e dei templi della Mesopotamia. Anche se l’attuale modo di studiare il Vicino Oriente antico è alquanto cambiato rispetto, per esempio, alla metà del secolo scorso e dunque è stata ridimensionata l’enorme importanza che in quel
momento si pensava che potesse avere il tempio e tutto quanto gli ruotava attorno, è comunque indubbio che anche in Mesopotamia il tempio — la «casa di
dio» — godesse di un inequivocabile grado di supremazia ed essenzialità nei
confronti dell’insediamento umano che a esso faceva riferimento. Come è facilmente intuibile, ciò scatenò frequenti ‘guerre teologiche’ con il solo scopo di vedere primeggiare il proprio tempio rispetto agli altri e dunque la scuola di pensiero religioso che vi era connessa e che alimentava il culto del dio che a quel
tempio faceva riferimento. In attesa allora che le dispute teologiche fossero in
grado di competere sul piano dottrinale riguardo all’affermazione e all’eventuale
supremazia di un dio sugli altri, non restava altro che affidarsi a materiali pregiati come l’avorio o l’alabastro o a legni dalle essenze particolari per cercare di
vincere la competizione. Legni e materiali pregiati erano infatti impiegati — oltre che nella costruzione vera e propria dei templi — anche per le statue degli
dèi, per i tessuti con cui vestire le divinità in occasione delle diverse cerimonie,
per le maschere — spesso in materiali preziosi — che venivano apposte a volti e
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LA MARINERIA NELLA MESOPOTAMIA ANTICA
arti, per gli impianti di occhi e di denti — per i quali
erano usate pietre dure di
diverso tipo. Infine anche
per le barche degli dèi.
Questa mercanzia di lusso, al pari tuttavia di altre
materie prime o di altre
merci, una volta arrivata
sulle coste della Mesopotamia, veniva imbarcata su
navigli di dimensioni minori per poter giungere a destinazione sfruttando altre
vie d’acqua rispetto al mare, quelle cioè offerte da
fiumi e canali. L’Eufrate,
con i suoi circa 2400 kilometri a partire dall’Anatolia, è sicuramente insieme
con il Tigri il fiume di Il Tigri e l’Eufrate (Foto satellitare: 29 Luglio 2004, ore 7.22).
maggiore interesse in tutto
il Vicino Oriente antico, al
punto che la piana alluvionale che questo forma in Siria unitamente ai suoi affluenti Baliḫ e Ḫabur ha visto nascere ben più di un insediamento urbano. Non
solo tuttavia i fiumi erano percorribili dai battelli, ma lo erano anche i canali,
soprattutto i grandi canali, anche se a essi era riservato un uso limitato, locale,
in pratica sulle corte distanze.
I testi fanno capire che lungo i fiumi o i canali i battelli, in discesa, navigavano a filo d’acqua e avevano la precedenza per motivi di sicurezza oltre che per
le intrinseche difficoltà di manovra a pieno carico. In salita, si navigava invece
per alaggio e sempre i testi fanno capire che un’imbarcazione di una tonnellata
riusciva a effettuare una percorrenza su canale pari a circa dieci kilometri per
giorno. Il vantaggio di un tale sistema di trasporto navale è immediatamente apprezzabile se si tiene conto che il trasporto terrestre dell’epoca si avvaleva per lo
più di asini i quali, a seconda della razza, potevano portare tra i sessanta e i
centoventi kili di basto e che dovendo bere tra i trenta e i quaranta litri di acqua
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LA MARINERIA NELLA MESOPOTAMIA ANTICA
al giorno dovevano seguire vie carovaniere che costeggiassero fiumi o canali.
Ciò al di là di una intrinseca lentezza che esponeva il carico delle merci a un
maggiore rischio di (quasi sicuri) assalti di briganti . È almeno quanto fa capire
una lettera degli archivi di Mari (XVIII sec. a.C.)
«Al mio signore dì: così parla Sumḫu-rabi, tuo servo. Ili-iddinam, messaggero del mio signore che era stato inviato a Eluḫut e Tuliš, il suo caposcorta
di Eluḫut, stavano portando dieci asini con un carico di (legno di) ginepro e
un cavallo. Tra Bit-Kapan e Bit Yabanni-Ilum sono stati aggrediti e Ili-iddinam è stato ucciso con quattro suoi servi e due beduini che erano con lui.
Lo stesso è capitato a Tuliš, con cinque suoi servi e una compagna di viaggio. I dieci asini sono stati rubati e anche il cavallo che essi portavano. Di
tutti loro si sono salvati solo due uomini … ma ogni loro bagaglio è andato
perduto».
Nulla era tuttavia lasciato al caso, almeno a partire da un certo periodo storico, anche se è logico ipotizzare che la fase di redazione scritta fosse solo l’ultima di precedenti tradizioni orali di più antica data. Una precisa normativa scritta, di tipo legale, in grado di comporre contenziosi in tema di diritto navale, si
trova nel famoso Codice voluto da Ḫammurapi (1792-1750 a.C.) ma storicamente precedente nelle sue redazioni orali
«Se una nave che va controcorrente sperona e affonda una nave che va nel
senso della corrente, il proprietario della nave che è stata affondata dovrà
indicare sotto giuramento che cosa è andato perduto sul suo battello e il
proprietario della nave che andava contro-corrente e che ha affondato la
nave che andava nel senso della corrente dovrà rifondere all’altro la sua
nave e qualunque cosa sia andata perduta» (§ 240).
Un certo tipo di inconvenienti, per essere evitati o quanto meno ridotti al minimo, necessitavano allora come oggi di personale specializzato: questa doveva
comunque essere anche l’idea dell’epoca se una lettera, ancora dall’archivio di
Mari, riferisce quanto segue
«Al mio signore dì: così parla Apil-kubi, tuo servo. Io ho fatto arrivare 200
tronchi d’albero in assi al porto di Karkemiš: sessanta uomini devono venirmi incontro a Emar, lungo il fiume. Perché ciò possa avvenire è necessario
che un capitano o qualcuno che tra i pescatori conosca l’arte della navigaSupplemento alla Rivista Marittima
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LA MARINERIA NELLA MESOPOTAMIA ANTICA
zione (nell’Akkadico di Mari: murutum, da una radice verbale warum,
«guidare») vada con loro, lungo il fiume».
Il sistema di canalizzazioni messo a punto in Mesopotamia raggiunse molto
spesso livelli di assoluta eccellenza e non solo come sussidio all’agricoltura, ambito per il quale era stato ideato dovendo contrastare l’aridità di zone steppiche.
L’importanza di un timbrigliamento delle acque di questo tipo non solo per la vita agricola del paese mesopotamico, ma anche per l’andamento dei commerci
che queste vie d’acqua usavano nella movimentazione delle merci a mezzo nave, si intuisce per esempio dalla rapidità con cui erano risolti eventuali problemi
che potevano sorgere in merito. In una lettera, sempre dall’archivio di Mari, si
legge per esempio
«Al mio signore dì: così parla Baḫdi-Lim, tuo servo. Un masso che costituiva la parte anteriore di antichi avamposti, ad Ḫabur, è precipitato nel canale. Ciò ha ridotto la portata dell’acqua di mezzo cubito. Avendolo saputo,
ho radunato una squadra di quaranta operai di Appan e di Ḫumsan e ho
iniziato il lavoro. Ora ho fatto frantumare il masso e ripristinato la normale
portata per l’irrigazione: l’acqua non mancherà a Mari nel modo più assoluto».
E ancora. L’importanza di questo sistema di managment idrico è anche assicurata dallo stesso contesto lessicale: recenti studi hanno infatti dimostrato come
nel lessico mesopotamico esistessero molteplici termini per descrivere ogni sorta
di dighe, di argini, di sbarramenti, di chiuse, di bacini e di quant’altro servisse
per modificare e re-indirizzare il naturale percorso delle acque. Se la realizzazione e la manutenzione di queste opere idrauliche era affidata come si è visto a
maestranze esperte, in genere supervisionate dal governatore locale, le stesse
erano invece volute dal re che, molto spesso, univa il proprio nome a quello che
in Sumerico o in Akkadico indicava il «canale» (Sumerico i7; Akkadico iku), dedicando l’intera realizzazione dell’opera al dio o alla dea tutelare della dinastia.
A seconda della importanza dell’opera realizzata — la navigabilità figurava tra
i requisiti preferenziali — era anche possibile che questa facesse la sua comparsa nelle iscrizioni reali o nelle formule di datazione che caratterizzavano i vari
anni di regno e che sovente contenevano, appunto, menzione dell’avvenimento
più saliente dell’anno. Un’iscrizione celebrativa di Ur-nammu (2112-2095 a.C.),
re della potente III Dinastia di Ur, ricorda la realizzazione di uno di questi canali e la conseguente dedica a una divinità
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«A Nanna, figlio primogenito di Enlil, suo signore: Ur-nammu, l’uomo forte, il re di Ur, re
di Sumer e di Akkad, nel
momento in cui edificò il
tempio di Enlil, lì scavò
anche il canale il cui nome è i 7 -Nanna-gú-gal
come canale di confine e
connesse la sua parte Modellino di barca cultuale (British Museum).
estrema con il mare».
Ancora Ur-nammu, in un’altra iscrizione (auto-celebrativa — il Codice a cui
si è accennato prima —, fa capire che la sua attenzione era rivolta all’intero sistema di navigabiltà tramite canale e dunque non a situazioni particolari
«A quel tempo regolamentai il traffico dei battelli di fiume lungo le rive del
Tigri e lungo le rive dell’Eufrate e lungo le rive di ogni fiume» (ll. 150-154).
Non infrequentemente la stessa presenza di agglomerati urbani deve essere
posta in relazione con questi sistemi di canalizzazione la cui funzione, come si è
detto, era duplice: sostegno all’agricoltura e via carovaniera alternativa. Questo
è per esempio il caso della città siriana di Mari, un sito nell’alta Mesopotamia
la cui fondazione va collocata verso il 2900 a.C. e la cui stessa esistenza dipendeva da una strabiliante opera di ingegneria idraulica che previde e realizzò non
soltanto un canale di navigazione ma anche un canale di raccordo che doveva
unire la città all’Eufrate, posto ad alcuni kilometri da essa.
Aver capito questo particolare del doppio canale ha consentito di dare risposte
plausibili ad alcune semplici domande per le quali non si avrebbero spiegazioni
se le cose fossero andate diversamente. Come avrebbero infatti potuto i suoi abitanti approvvigionarsi di acqua dolce, dal momento che la nappa freatica salata
sottostante non poteva essere utilizzata? O come avrebbero fatto le donne deputate agli approvvigionamenti idrici effettuare ogni giorno oltre quattro kilometri
per raggiungere il fiume e quindi l’acqua? O come avrebbero potuto le imbarca-
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LA MARINERIA NELLA MESOPOTAMIA ANTICA
zioni raggiungere la città di Mari, dal momento che i testi (XVIII sec. a.C.) parlano di un porto (karum), di navi a esso attraccate e di merci stoccate nei suoi
magazzini? Questo canale di raccordo, lungo dai quattro ai sette kilometri —
scoperto anche con l’aiuto di fotografie aeree —, è comunque la conferma dell’alto livello raggiunto dalle maestranze dell’epoca oltre che dell’importanza data alla navigazione dei due grandi fiumi della Mesopotamia, il Tigri e soprattutto l’Eufrate. La lettura dei testi fa tuttavia emergere alcune problematiche — si
potrebbe dire — vecchie come il mondo
«Al mio signore dì: così parla Kibri-Dagan, tuo servo. Ho passato in rassegna le maestranze del distretto e gli operai di Terqa che lavorano al canale
di Mari. Riguardo alle maestranze delle diverse località benjaminite, la metà
non si è presentata: la località a cui erano stati richiesti cinquanta lavoratori
ne ha mandati venticinque e quella a cui ne erano stati richiesti trenta ne ha
mandati solo quindici. Allora, ho gridato allo scandalo e ho fatto rapporto al
mio signore!».
Come si è detto, questa opera di ingegneria idraulica non era tuttavia l’unica
a rendere possibile a Mari un ‘trattamento’ delle acque d’avanguardia. Il canale
di raccordo era infatti affiancato da altre due opere similari: un canale di irrigazione, installato in posizione elevata, in modo che le acque potessero facilmente
raggiungere le campagne per cascata gravitazionale; un canale di navigazione
che, seguendo il corso dell’affluente Ḫabur, sfociava nell’Eufrate dopo oltre centodieci kilometri di percorso e con un diametro che oscillava tra gli otto e gli undici metri per tutta la sua lunghezza. Era questo terzo canale che i battelli solcavano per fare giungere a Mari e ai suoi mercati merci imbarcate altrove. Era
questo terzo canale che le barche degli dèi di Mari percorsero dall’inizio del III
millennio in poi, in occasione di spostamenti, pellegrinaggi e processioni rituali
(19).
Si è potuto capire come non sia infrequente leggere nei testi della Mesopotamia che questo o quel dio era in viaggio: i motivi erano sempre di natura religiosa e, allo stesso modo in cui oggi le statue di alcune Madonne particolarmente venerate o di santi vengono portate in processione in luoghi diversi da
quelli di origine, anche allora gli dèi viaggiavano servendosi naturalmente di
(19) Uno dei pochi lavori in questo senso è M. Artzy, Cultic Ship Representation in Late Bronze Age
Mediterranean, in Forth Symposium on Ship Construction in Antiquity, Atene 1991.
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LA MARINERIA NELLA MESOPOTAMIA ANTICA
battelli.
Un esempio tra tutti, per fare meglio comprendere la natura di questi spostamenti, è quello contenuto nel lungo poema sumerico Lugal-e, una composizione
storico-mitologica databile a circa il 2100 a.C., anche se i manoscritti giunti fino a noi non oltrepassano la metà del II millennio. Incentrato su una teologia
improntata all’esaltazione del dio Ninurta, il «Signore della terra da arare», divinità sumerica in cui erano confluiti due altri dèi arcaici, un dio agricolo e un
dio della guerra, il poema — oltre settecento versi — prende il titolo dal primo
verso della composizione, come era prassi in quell’epoca: lugal-e ud-me-lám-bi
nír-gál, «O Re! Luce risplendente e sovrana!». Vi si narra in modo letterario
ancorchè fantastico i difficili rapporti tra il paese di Sumer (in Sumerico: kalam, il «Paese» per antonomasia) e le ribelli popolazioni del Nord — la regione
montuosa dello zagros e dei contrafforti dell’Iran, da cui il commercio mesopotamico derivava approvvigionamenti di legname e pietre — dedite a continue
razzie e sconfinamenti in territorio sumerico e per l’occasione trasformati in esseri fantastici, gli uomini-pietra. Verso la metà del poema è contenuta una sorta di lapidario fantastico, in cui ognuna delle pietre (uomo) menzionate è analizzata in relazione al suo comportamento nei confronti di Ninurta e di conseguenza giudicata ed eventualmente punita, vale a dire — trattandosi di pietre
— declassata agli usi meno nobili o a essere spezzettata (e dunque privata della sua integrità) nel corso delle lavorazioni. Una volta ristabilita la sua sovranità divina, Ninurta — prima della dossologia finale che ne sottolinea la definitiva promozione all’interno del consesso divino — parte per un pellegrinaggio
che lo condurrà ad altri templi e negli altri luoghi in cui era venerato, quasi a
sancire il suo passaggio a dio universalmente onorato. Ciò viene fatto servendosi naturalmente di un battello (vv. 648-651)
«Allorchè, vinto il paese della Montagna, egli si mise in cammino nella
steppa, il Campione risplendeva come il sole. Tra la folla che lo acclamava
egli procedeva come un re! Avanzò gioioso verso il suo battello preferito, il
má-gur8 (= nave da processione), per imbarcarsi sul suo má-kar-nun-ta-è
(= nave che attracca al molo migliore)».
Come si è già detto, la nave má-gur8 era un tipo di imbarcazione frequentemente impiegata dagli dèi e di un particolare tipo di má-gur8 che oggi si preferisce tradurre con «Arca» ci occuperemo nel prossimo capitolo.
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la marineria nella mesOpOtamia antiCa
il contesto epigrafico
n
elle fonti cuneiformi, la mesopotamia del sud era indicata come kur a-ab-ba, cioè
«il paese del mare». Che la mesopotamia sia stato un paese attivo
anche per mare è intuibile da un testo del 2044 a.C. redatto durante il
secondo anno del re neosumerico
amar-suʾen (2046-2038 a.C.) e oggi al musée du louvre (aO 5673):
il documento riguarda operazioni di
cantieristica navale per la costruzione di navi o la loro manutenzione e riporta interventi effettuati su
otto diverse navi di 60 gur di stazza
ognuna (má 60 gur 8-a-kam) per Canne intrecciate ancora oggi usate nel Golfo per la
un totale di 7.200 giornate lavorati- costruzione di battelli.
ve — non viene però indicato il numero delle maestranze impiegate. alla fine sono menzionati i nomi di altrettanti
marinai (má-laḫ4), verosimilmente i loro capitani, i quali oltre alle incognite del
mare sono riusciti a sfidare anche quelle del tempo:
Otto navi da 60 gur (di stazza)
affidate a lugal-magurri,
abilani,
Daʾaga,
Šukanni,
lugal-kuzu,
Ur-nungal,
lu-suʾen,
Ur-suʾen:
marinai.
il periodo storico mesopotamico che vide l’egemonia della iii Dinastia di Ur è
considerato come uno dei meglio conosciuti anche per ciò che concerne la vita
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la marineria nella mesOpOtamia antiCa
quotidiana in ragione della amplissima documentazione scritta che l’amministrazione locale ha lasciato per ogni campo delle attività umane. tra questi documenti figurano alcuni «registri» di personale (kurum7-aka) che si riferiscono ad
attività lavorative svolte all’interno di un «arsenale navale» (mar-sa) da parte di
maestranze contingentate e specializzate in opere navali. la struttura amministrativa indicata con il termine sumerico mar-sa altro infatti non è se non un
«cantiere navale» in cui le imbarcazioni venivano sia costruite che fatte oggetto
di lavori di manutenzione e le categorie dei lavoratori specializzati allo scopo
sono per lo più indicate come «carpentieri» (nagar), má-laḫ4 letteralmente «marinai» ma nel contesto della cantieristica navale anche «costruttori di imbarcazioni», «maestri calafati» (má-gín), ad-kup4 letteralmente «cestai» ma nel contesto navale «lavoratori (specializzati nell’intreccio) di canne» e šà mar-sa, maestranze di rinforzo insieme alle categorie dei guruš e degli ḫé-dab5, poste in genere sotto la responsabilità di un «caposquadra» (ugula).
Gli stessi testi informano sul fatto che tali maestranze venissero reclutate in
funzione delle attività lavorative e che ad essi spettassero razioni alimentari
quotidiane normali, dimezzate o nulle in relazione alla loro attività giornaliera,
se svolta cioè a tempo pieno o a mezza giornata o non lavorata in caso di assenza: la meticolosità delle registrazioni (kurum7-aka) arriva a posizionare – prima
del nome della persona – un indicatore (1 – il segno DiŠ -, 1/2 – il segno maŠ o nulla) per indicare appunto la quantità delle spettanze alimentari (Bm 110154
v.i:2-5, nisaBa 23 2009 45):
1(DiŠ) lugal-ḫé-gál nagar
1(DiŠ) lú-uš-gi-na ad-kup4
razione completa per l. il carpentiere
razione completa per l. lo specialista
in canne
razione dimezzata per l. lo specialista
1/2(maŠ) lugal-iti-da ad-kup4
in canne
1(DiŠ) lú-sig5-pa-da-du muḫaldim razione completa per l. il cuoco.
Oltre alla stazza delle navi o ai nomi dei capi cantiere, a volte veniamo a sapere anche qualcosa sui proprietari. Un testo proveniente da Umma (ca. 2050
a.C.) e ora a leningrado (erm 15259) ci informa sul futuro proprietario della
neo-varata nave — il figlio del re — e sul relativo passaggio delle consegne
1 nave da 10 gur:
un battello per il figlio del re
da lugal-e-bansa (= il capo cantiere)
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la marineria nella mesOpOtamia antiCa
lu-saizu ( = il messo reale) ha ricevuto.
in linea con le aspettative, dunque, anche i testi (20) dalla mesopotamia stanno portando il loro contributo a ciò che l’archeologia ha messo in evidenza tramite il recupero dei materiali navali. Un testo antico-babilonese (Uet V 645),
databile al sedicesimo anno del regno di rim-sin re di larsa (1822-1763 a.C.),
menziona il capo di un cantiere navale come destinatario di materiali in canna e
i paleobotanici hanno identificato le canne usate in mesopotamia come appartenenti a due possibili tipologie: phragmites australis o phragmites communis.
lo stesso materiale entra negli elenchi delle attrezzature impiegate nella costruzione di imbarcazioni secondo numerosi testi risalenti alla iii Dinastia di Ur
(2112-2004 a.C.). Uno di questi, oggi all’ermitage di leningrado (erm 7820),
databile al quarantatreesimo anno (2052 a.C.) — «anno in cui la sacerdotessa en
del dio nanna venne scelta in base ai presagi» — del lunghissimo regno di Šulgi, il secondo dei cinque re della iii Dinastia di Ur, menziona appunto le canne
tra i materiali allora in uso nei cantieri navali di Umma
102 manufatti in canna per l’interno delle navi:
il loro volume è di 8,5 sar (1 sar = 36 mq),
il (numero delle) fascine è 306,
i giorni di lavoro 51,
1040 gli uomini (impiegati) per una giornata.
sempre di canne — ma in questo caso sfilacciate in vista della particolare lavorazione cui erano destinate — era fatto un certo tipo di cordame, in sumerico
gilim ( nella grafia del cuneiforme sumerico). secondo un altro testo, ancora da
Ur iii, per realizzare una gomena di 27 metri furono necessari 48,5 kili di canne
e un giorno e mezzo di lavoro. Ct Vii 31a è invece un documento redatto sem-
(20) nelle pagine che seguono saranno utilizzate alcune sigle che fanno riferimento a pubblicazioni di
materiale epigrafico edito in vario modo. non essendo di facile comprensione per i non assiriologi, se
ne dà contezza al fine di migliorare la comprensione e l’accettabilità: Bm = British museum; Ct =
Cuneiform texts, london; itt = inventaire des tablettes de tello, paris; mCs = manchester Cuneiform studies, manchester; nisaBa = studi assiriologici messinesi; tCl = textes Cunéiformes
du louvre, paris; tpts = m. sigrist, tablettes du princeton theological seminary. Époque d’Ur iii,
philadelphia 1990; UCp = University of California publications, Berkeley; Uet = Ur excavation
texts, london; YOs = Yale Oriental series, Babylonian texts, new Haven; WmaH = H. sauren,
Wirtschaftsurkunden aus der Zeit der iii. Dynastie von Ur im Besitz des musée d’art et d’Histoire in
Genf, napoli 1969.
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la marineria nella mesOpOtamia antiCa
pre nello stesso periodo che riferisce su materiali di canna impiegati nella costruzione di navi di magan: la «nave di magan» era infatti una delle tipologie di
imbarcazioni marine della mesopotamia — insieme con la «nave di mari» e altre — a cui evidentemente corrispondeva un particolare progetto e forse anche
una specifica lavorazione. lo stesso testo menziona 276 talenti (ca. 8 tonnellate)
di fibre di foglie di palma (šu-sar Kaxsa) per sartie e cordami e 34 talenti (ca.
1 tonnellata) di gomene ottenute dalla lavorazione dello stesso materiale (šu-sar
peš): una così elevata quantità di materiale specializzato come sartie e gomene,
fa pensare che queste dovessero servire a mantenere le navi alla fonda nei diversi porti della mesopotamia. ancora nello stesso testo troviamo elencati 207 talenti (ca. 6.200 kili) di olio di pesce, da usare forse come antivegetativo sulle
stesse sartie e gomene.
il testo dell’ermitage prima citato (erm 15259) relativo alla costruzione della
nave per il principe della casa reale, migliora le nostre conoscenze in merito alla
ingegneria navale dell’epoca indicando non solo alcuni degli elementi costitutivi
della nave (il segno GiŠ è un determinativo che in sumerico indica che quanto
segue è un manufatto in legno) ma anche il quantitativo che di essi serviva per
assemblare le varie parti
1 nave da 10 gur:
(per) il suo bitume secco: 22 talenti;
(per) il suo olio di pesce: 5 sìla;
(per) la sua parte sommersa (GiŠ·-a-ra): 6 pezzi;
(per) le sue fiancate (GiŠ·-a-da): 4 pezzi;
(per) il suo albero (GiŠ·-mi-rí-za): 50 pezzi;
(per) la sua cabina (GiŠ·-ḫum): 1 pezzo;
(per) il suo rostro (GiŠ·-umbin): 8 pezzi;
(per) i suoi remi (GiŠ·-gi-muš): 3 pezzi;
(per) il suo impiantito (GiŠ·-gìri): 35 pezzi.
Un altro testo (WmaH 3), anch’esso risalente alla iii Dinastia di Ur ma redatto a lagaš durante il primo anno di regno di amar-suʾen (2046 a.C.), dice
qualcosa in più sui legni, in questo caso impiegati per l’alberatura delle navi, facendo capire che provenivano da aree — «piantagioni» (kiri6) — gestite da imprenditori locali o, in alcuni casi, dal tempio cittadino
120 tronchi per alberatura (GŠi·-mi-rí-za)
dal vivaio (kiri6) di Ureninnu
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60 pezzi di legno per impiantito (GiŠ-eme-sig)
dal nuovo vivaio (kiri6 gibil) della sacerdotessa ‘nin’;
21 tronchi per alberatura
dal vivaio della sacerdotessa ‘nin’ dedicato al dio iškur.
Durante il periodo antico-babilonese (2003-1595 a.C.) il sumerico cessò di
esistere come lingua parlata, soppiantato dal più moderno akkadico. Così, le
nuove generazioni di scribi che dovettero imparare quella lingua fossile rimasta
in alcuni ambiti del sapere (per esempio i testi religiosi o letterari) si servirono
anche di liste lessicali per imparare a memoria parole che non ricorrevano più
nel parlato quotidiano. Composte a partire dall’epoca antico-babilonese e tuttora
anacronisticamente etichettate con la titolatura ur5-ra con cui avevano inizio le
versioni più tardive, queste liste costituiscono per noi moderni una preziosa fonte
di informazioni. in questi elenchi tematici — veri e propri vocabolari — i termini sumerici (circa 3500 nomi vi compaiono) sono riportati nella categoria di pertinenza e tradotti in akkadico. Ognuno di questi «capitoli» contiene dalle 500 alle 700 linee: nel iV dei Vi capitoli totali — quello cioè che riguarda pietre e
piante, pesci e uccelli — trovano posto anche i termini lessicali inerenti alla marineria. Dopo il generico nome sumerico per «nave» — má — tradotto con il
corripondente akkadico elippu, troviamo per esempio
GiŠ-má-gur8
GiŠ-má-tur
GiŠ-má-u5
GiŠ-má-illat
GiŠ·-má-ti-la
GiŠ·-má-gíd-da
GiŠ·-má-gud4-da
GiŠ·-má-gu-la
GiŠ·-má-sig
GiŠ·-má-šu-ḫa
GiŠ·-má-la-ga
GiŠ·-má-má-ri
GiŠ·-má-uri-ki
GiŠ·-má-dilmun-ki
GiŠ·-má-má-gan-na-ki
GiŠ·-má-me-luḫ-ḫa
GiŠ·-má-ša-ḫa
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makurru
maturru
rukubu
tillatu
muballittu
makittu
makkutu
rabitu
qallatu
elip bairi
alakitu
mairitu
uritu
tilmunitu
makkanitu
meluḫḫitu
šaḫḫitu
nave da processione
nave piccola
nave cargo
nave appoggio
nave da canale
rimorchiatore
nave corta
nave grande
nave leggera
nave da pesca
nave da crociera
nave di mari
nave di Ur
nave di Dilmun
nave di magan
nave di meluḫḫa
nave a vela
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GiŠ-má-gibil
GiŠ-má-libir
GiŠ-má-šu-lál
GiŠ-má-dirig-ga
eššetu
libirtu
lupputtu
nebiru
nave nuova
nave vecchia
nave danneggiata
nave traghetto.
anche se il termine GiŠ-má-gur8 è tradotto con «nave da processione», è comunque probabile, almeno a giudicare dalla forma che a questa nave o a una
sua tipologia è stata data sui sigilli — con un rostro cioè tagliente — che essa
sia stata impiegata anche per scopi bellici. Con l’inizio del iii millennio a.C. le
carestie che nei periodi storici precedenti avevano costituito la principale causa
di avversità per le popolazioni mesopotamiche, vennero infatti rapidamente affiancate e superate da una nuova minaccia per l’uomo, la guerra. anche le navi
ne divennero protagoniste e con un ben diverso ruolo rispetto alla norma, dal
momento che l’intera mesopotamia era attraversata non solo dal tigri e dall’eufrate ma anche da centinaia di canali navigabili attraverso i quali nemici d’ogni
genere su nave potevano spingersi fino all’interno di quella miriade di piccoli e
medi villaggi non protetti e posti negli hinterland delle città mesopotamiche. il
testo che segue risale al periodo antico Dinastico (ca. 2200 a.C.) ed è stato pubblicato per la prima volta nel 1902. Come spesso capita nella letteratura religiosa sumerica, anche questo testo riprende alcune realtà del mondo terreno — in
questo caso il dolore della violenza a seguito di un attacco nemico perpetrato
tramite nave — trasferendole nel mondo iperreale divino per mitizzarle e conferire a esse un maggiore impatto emotivo: nel testo (Ct XV 24) è una dea a parlare, ma nella realtà del mondo è una donna a esserne la protagonista
«Oh, quel giorno della mia vita in cui fui annientata!
Oh, quel giorno della mia vita in cui fui annientata!
Fino a me, nella mia casa, lui giunse!
Oltrepassò le montagne, per giungere fino a me!
la nave, fino a me giunse (percorrendo) il mio fiume!
per colpire me, la nave attraccò al mio molo!
il comandante della nave venne verso di me,
le sue sporche mani allungò verso di me,
e a me gridò: ‘sali! sali a bordo!’.
a prua venne radunato il bottino;
a poppa, io — la regina — venni issata a bordo.
Gelavo, dai brividi di paura!
il nemico strascicò i piedi fino nella mia stanza!
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Copia del testo
religioso
sumerico Ct XV
24 (linee 14-25)
Circa 2200 a.C..
Quel nemico le sue sporche mani allungò su di me!
la sua mano allungò su di me, terrorizzandomi!
Quel nemico la sua mano allungò su di me,
facendomi morire di paura!» (linee 14-25).
nello stesso testo lessicale precedentemente citato, ai nomi delle navi comuni segue una nomenclatura più specializzata e relativa alle imbarcazioni legate
al culto degli dèi: a ogni GiŠ-má, «nave», è associato il nome del dio che ne
faceva uso (linee 292-334). talora erano le stesse navi ad avere diritto a un
nome, soprattutto quando erano navi di dèi importanti: ecco allora che troviamo titolature come
GiŠ-má-úr-nu-ub-zu
GiŠ-má-kir-zal-nun-na
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nave che non ha conosciuto costruzione
nave orgoglio degli abissi.
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Bassorilievo in pietra
con immagine di nave.Šuruppak
(ca. 2600—2500 a.C.: circa 300 anni
dopo la data presunta del diluvio).
Da H.W.F. saggs, Babylonians.
in questa sotto-categoria sono inserite anche navi dedicate a usi «cultuali» o
«liturgici», come per esempio
GiŠ-má-nisan
nave per il trasporto dei primi frutti
nave per la santa processione.
GiŠ-má-gur8-kug-ga
altrove, i testi riferiscono di impieghi più tradizionali riservati alle navi che
tuttavia fanno pensare a tipologie particolari, anche se queste sfuggono a distanza di millenni: così leggiamo di «navi per il trasporto d’argento» (GiŠ·-má-kù),
«navi-silos per il trasporto di cereali» (GiŠ·-má-še), «navi per il trasporto di mele» (GiŠ·-má ḫašḫur), «navi caricate con cetrioli» (GiŠ·-má úkuš-a), «navi dedicate alle messi» (GiŠ·-má še-GÁna túm-a): questi termini compaiono per la verità solo nei testi letterari. Di essi soltanto le «navi-silos per il trasporto di cereali» (GiŠ·-má-še) sono attestate anche nei testi dell’amministrazione quotidiana.
in mesopotamia, gli anni erano datati utilizzando come formula di datazione
l’avvenimento più importante capitato in quell’anno: così, in mancanza d’altro,
apprendiamo da un testo di Umma ora al Danish national museum (n° 10072)
che il secondo anno di regno di Šu-suʾen (2035 a.C.), quarto re della iii Dinastia
di Ur, era datato con la seguente formula
mu má-den-ki
ba-ab-du8
anno: (in cui) la barca del dio enki
venne calafata.
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È ovvio allora che in molti documenti dell’epoca si faccia ampio riferimento
al più importante componente usato in questa tecnica cantieristica, il bitume. la
parola sumerica ésir(-ḫax), «bitume (raffinato)» o — a seconda del periodo storico e dunque della lingua in vigore — la corrispondente akkadica kupru o i loro
sinonimi indicano il materiale che, oltre ad altre applicazioni (ad es. tappi per
recipienti o coibentazioni per cesti), serviva appunto per calafatare le imbarcazioni. i testi tuttavia non si limitano a indicare il nome con cui gli antichi abitanti della mesopotamia chiamavano questo materiale, ma danno anche conto delle
quantità che di esso erano necessarie per le diverse tipologie di navi: un síla (=
ca. un litro) di «bitume secco» (ésir-ḫa5-rá) pesava all’incirca una mina e cioè
500 grammi, stando ad alcuni testi cuneiformi amministrativi oggi conservati nel
museo del louvre (es. tCl V 5680). Un testo antico-babilonese da larsa, databile al dodicesimo anno del regno di rim-sin (ca. 1810 a.C.), riporta per esempio i quantitativi di bitume (ésir) per due navi da 20 gur ciascuna (= 6000 litri)
di stazza: oltre a menzionare una quantità pari a quattro gur (= 1200 litri) per
imbarcazione, il testo cita anche 150 síla (= 150 litri) di ulteriore bitume per
operazioni di rivestimento. i 1350 litri totali per nave corrispondono a circa 675
kili totali di bitume, con una resa di 33.75 kili per ogni gur di stazza. Che ciò
non possa tuttavia costituire la regola generale nei lavori della cantieristica navale mesopotamica, è dimostrato da un altro testo — ancora di periodo anticobabilonese — in cui si ricorda che un’imbarcazione di venti gur di stazza necessitò invece di otto gur (= 2.400 litri = 1.200 kili) di bitume, con una resa quindi
di 150 kili per ogni gur di stazza. È probabile che queste significative differenze
fossero in realtà dovute al diverso stato della nave e quindi alla differente manutenzione di cui poteva necessitare, oltre al diverso impiego che della stessa poteva essere fatto: una imbarcazione per la navigazione in mare avrebbe certamente richiesto materiali in qualità e quantità superiori.
Vediamo nel dettaglio uno di questi testi che aveva a che fare con il bitume,
questo componente essenziale nella cantieristica navale dell’epoca. Databile al
periodo paleo-akkadico (ca. 2350-2200 a.C.) e redatto in sumerico il testo, attualmente facente parte della collezione michail, è stato pubblicato nel 1997
(21) e menziona quantità di bitume che sarebbero servite alla costruzione di navi
(21) G. pettinato, l’uomo incominciò a scrivere. iscrizioni cuneiformi della Collezione michail, milano 1997.
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che, una volta trattate avrebbero preso il nome di má-du8-a, «nave calafata con
bitume» (itt V 8234)
[x]+10 ésir-ḫa5-rá gú
[ ]-gal
[x]+10 ur-á
20 a-zi
10 lugal-ezen
ur-dinanna ga:ra?
mu-túm
10 ésir-é-a gur
x+10 talenti di bitume secco
(da parte di) …-gal
x+10 talenti (di bitume secco) da parte di Ur-a
20 talenti (di bitume secco) da parte di a-zi
10 talenti (di bitume secco)
da parte di lugal- ezen.
Ur-inanna, il mercante fluviale,
ha portato
10 gur di bitume liquido.
È possibile che i personaggi elencati siano stati importatori di bitume dai paesi fornitori o più semplicemente distributori dello stesso e comunque le esigue
quantità di bitume qui elencato (10 talenti corrispondono a 300 kili odierni) verosimilmente servivano per calafatare piccole imbarcazioni per il commercio
fluviale, quindi a piccolo o medio raggio: anche il trasporto di parte di questo bitume era avvenuto a mezzo dell’imbarcazione di un mercante fluviale. nel testo
sono contenuti anche i nomi di due diversi tipi di bitume: quello secco (ésir-ḫa5rá), in pezzi, e quello liquido (ésir-é-a), pronto per essere invece usato. i 10 gur
di bitume liquido a cui si riferisce il testo corrispondono a 2400 sìla (= 2400 litri): nel sistema di misura per aridi adottato in quel periodo, 1 gur era infatti
suddiviso in 240 sìla. altri testi (YOs V 231 o YOs V 234 o UCp iX 90) sono
più espliciti in merito e menzionano espressamente «bitume per calafatura» oppure «materiali bituminosi da impiegare sulle navi».
Una tavoletta di lagaš (WmaH 3), appartenente al primo anno di regno di
amar-suʾen, parla di una nave di 60 gur su cui erano stati caricati 150 talenti
(ca. 4500 kili) di bitume, del quale si attestano alcune ulteriori tipologie
299 sìla (= litri) di bitume liquido (ésir-é-a),
9 misure di bitume grezzo (22) (ésir-a-ba-al),
(22) Che il bitume indicato come «grezzo» (letteralmente: «terroso») fosse di scadente qualità è dimostrato da un passo dello stesso testo dove si dice che per la nave di un armatore, al tempo stesso sacerdote del dio Baba, «al posto di bitume grezzo, sono state impiegate 30 misure di bitume (derivante) da
navi purificato con il fuoco».
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31 misure di bitume di montagna (ésir-ḫur-sag),
bitume da madga, dal deposito sulla riva del canale.
Un testo da Girsu (Ct Vii 31), anch’esso appartenente agli sterminati archivi
della iii Dinastia di Ur, oltre a specificare grandi quantitativi di legname, sartie
in fibra di palma, cordami e oli per la costruzione di un numero non riportato di
navi, menziona anche 3170 gur di un particolare tipo di bitume (ésir-luḫ, «bitume purificato») per la manutenzione di navi battenti bandiera di magan.
nei cantieri navali, le conoscenze specifiche dovevano comunque essere ad
alto livello. lo scafo era suddiviso in parti diverse, ognuna delle quali aveva un
nome ben preciso che è ancora il testo lessicale già citato a fare conoscere
GiŠ·-igi-má
GiŠ·-egir-má
GiŠ·-da-da-má
GiŠ·-gissu-má
panu elippi
arkatu elippi
ṭeḫatu elippi
ṣillu elippi
prora della nave
poppa della nave
fiancata della nave
coperta della nave.
i testi arcaici di Uruk iV (3350-3200 a.C.) contengono un segno pittografico
— che dalla forma e dalla successiva lettura (una volta trasformatosi in segno
cuneiforme) ha fatto pensare a una vela, il cui uso era conosciuto nella marineria mesopotamica già dal iV millennio a.C., come dimostrano non solo il ritrovamento del modellino di eridu — dotato appunto di un alloggiamento per l’albero maestro — ma anche i molti sigilli che evidenziano questa struttura.
Frequentemente avveniva che non disponendo di una propria imbarcazione,
chi voleva trasportare merci si trovava nella condizione di doverne affittare
una. nei testi cuneiformi troviamo informazioni anche su questa tipologia di
offerta commerciale
30 (sìla) di orzo molito
(ricevuti) come affitto per una nave
da Ur-nintu:
convalidato con il sigillo di lusi-anna (WmaH 14)
10 maestranze affittate, specializzate nella navigazione:
il loro compenso — come vitto — (ammonta) a 7 sìla ognuno.
per sei giorni e mezzo
la spettanza in orzo è di 1 gur.
152 sìla è la paga di chi affitta la nave.
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1 nave da 30 gur di stazza:
il suo affitto è di 6 sìla.
1 barcaiolo annesso:
il suo compenso — come vitto — è di 7 sìla.
per sette giorni
la spettanza in orzo è 95 sìla (WmaH 15).
nel periodo della iii dinastia di Ur, i costi di affitto per esempio erano proporzionali alla distanza da coprire e al peso delle merci: il prezzo era dunque quello
corrispondente a 1 sìla (= 1 litro) di orzo per ogni gur trasportato moltiplicato
per 1 danna. il danna o da-na è una parola sumerica che indicava una unità di
lunghezza (ca. 6,7 miglia marine), quella nella fattispecie che si riusciva a coprire in due ore di navigazione. Così, se una nave si trovava a trasportare 40 gur di
carico su una distanza di 30 danna, il pagamento pattuito era di 40x30 = 1200
sìla (cioè la somma che sarebbe stata necessaria all’acquisto di 1200 sìla di orzo). stando ai testi di Umma, un’altra delle città-stato della mesopotamia, l’affitto giornaliero era invece relazionato alle dimensioni della nave e dunque alla
sua capacità di carico: per una imbarcazione di 60 gur di stazza si pagavano 20
sìla; 15 sìla era invece l’affitto di una nave di 40 gur e una più modesta cifra di
5-6 sìla era sufficiente per una nave da 20 gur (23). in altri casi, l’affitto sembra
essere stato forfettario: un testo ancora da Umma (mCs 6 82 H.7165) riferisce
che una nave che aveva trasportato 30 gur di cereali, 20 gur di datteri e 2 gur e
140 sìla di sfarinati, era stata affittata per 30 sìla totali. la meticolosità amministrativa neo-sumerica arriva al punto di dire che il pagamento dei 30 sìla totali
era stato però suddiviso in 15 sìla per il trasporto di orzo e 15 sìla per quello dei
datteri.
Un testo di Ur iii da Umma — ora nel museo nazionale Danese (n° di inventario 15361) (24) — databile al nono anno di regno di amar-suʾen (2038 a.C.)
aiuta a capire meglio quanto detto e a prendere cognizione anche delle possibili
(23) nel periodo della iii Dinastia di Ur, i testi di Umma menzionano dimensioni di stazza che variavano da 10 a 60 gur (1 gur aveva una capacità di circa 300 litri), con tutte le misure intermedie, anche
se è evidente che il cabotaggio dei canali intorno alla città di Umma era possibile solo per i più ampi e
da parte di piccole o medie imbarcazioni. testi contemporanei da Ur (es. Uet iii 272) menzionano invece imbarcazioni la cui stazza oscillava tra 1 e 300 gur.
(24) C. Halvgaard – C. Johansen, Ur iii texts in the Danish national museum, revue d’assyriologie
98 (2004) 8.
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penali applicate in caso di inadempienza
r.
1) 239 sìla še gur
2) á má-ḫun-gá
3) ki lugal-e-ba-an-sa6-ta
4) ba-zi
V.
1) kišib ÁraD-da
2) tukum-bi
3) iti min-èš-a nu-mu-DU
4) 30 gur-àm íb-su-su-a
5) mu lugal in-pà
6) mu en dnanna ba-ḫun
239 sìla di orzo:
ammontare per l’affitto di una nave
registrato
a carico di lugale-bansa.
sigillo di araD-da.
Qualora
al settimo mese egli non abbia
(ancora) pagato,
risarcirà con 30 gur
(e) avrà tradito il giuramento (fatto)
in nome del re.
anno in cui la sacerdotessa ‘en’
del dio nanna è stata eletta.
naturalmente, a viaggiare per nave per giungere in mesopotamia non era
soltanto il bitume; lo stesso mezzo di trasporto era utilizzato anche per altri
materiali di tipo navale, per esempio il fasciame di legno che, da un certo periodo storico in poi, venne ad affiancare e poi a sostituire la canna
testo
nella costruzione di navi. Un testo
da Umma
ancora di Ur iii (amherst 66) rela(3,2x3,1
cm.)
tivo alla cantieristica navale menCollezione
ziona ben 11.787 pezzi di legno.
schøyen
(ms
anche un testo da Umma dello
1947/10).
stesso periodo, redatto nel settimo
anno di regno di amar-suʾen (2040
a.C.) e oggi nella collezione privata schøyen, contiene un elenco di
materiali lignei per la manutenzione di navi fluviali e che, in questo
caso, erano stati importati in mesopotamia tramite la nave cargo di un certo lugal-bangar.
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i legni per la carpenteria marittima facevano parte di essenze pregiate che
molto spesso venivano importate perché non presenti sul suolo mesopotamico.
le maestranze egizie della seconda metà del iii millennio a.C. usavano per
esempio legno di cedro per le costruzioni navali, importandolo dal libano e anche in mesopotamia il legno di cedro era particolarmente apprezzato, insieme a
legni locali come l’acacia, il tamericio, il sicomoro. tra i legni importati figurano la quercia — fatta arrivare dai monti Zagros, nel nord del paese —, uno tra i
legni preferiti per la sua durezza e la inattaccabiltà da parte della teredine, un
mollusco bivalve vermiforme e xilofago in grado di scavare gallerie in qualunque tipo di legname. moorey (25), analizzando i materiali lignei recuperati negli
scavi di vari siti archeologici, ha potuto stabilire che i legni più adoperati nella
cantieristica navale in mesopotamia erano il frassino, il cedro, il cipresso, l’olmo, la quercia, il pino, il tamericio, il teak e il salice: ciò a partire dalla seconda
metà del iii millennio a.C. Un testo oggi conservato nel museo di Genf e redatto
nel corso del quarto anno del regno di ·Šu-suʾen (2033 a.C.) menziona un notevole numero di tronchi di pino (GiŠ·-ù-suḫ) tra i materiali che nel cantiere navale erano impiegati per la costruzione di navi da 120, 60 e 30 gur. alcuni testi
commerciali sumerici d’epoca pre-sargonica (ca. 2400 a.C.) riferiscono di legni
appositamente importati e utilizzati nei cantieri navali per tre diverse tipologie di
nave: má-gula, má-lugud-da (26) e má-gur8-ra. infatti, se la maggior parte del
legname importato era impiegato dall’industria di trasformazione (= prodotti finiti), parte di esso era invece usato nelle costruzioni navali dove serviva per la
scheletratura o per il fasciame che era a sua volta rivestito di bitume, di pelli o
di altro materiale e dunque non necessitava di dimensioni importanti in lunghezza o in altezza.
molte navi, soprattutto quelle adibiti ai viaggi di media-lunga distanza, erano
cabinate e anche la glittica mesopotamica conferma questo particolare facendo
vedere, tra le raffigurazioni di navi incise sui sigilli, alcune che sono dotate di
cabina, la cui funzione variava a seconda del tipo di nave: sulle navi processionali, per esempio, essa costituiva la proiezione del tempio stesso del dio che, a
mezzo della nave, poteva giungere in altre sedi di culto. a conferma dell’anti(25) p.r.s. moorey, ancient mesopotamian materials and industries, Winona lake in 1999.
(26) má-gula era verosimilmente una barca fatta di materiali di canna: gula, in sumerico, indica appunto la fascina di canna legata; má-lugud-da era invece una barca «leggera» (lugud), usata per la navigazione lungo i fiumi dove era richiesta appunto una struttura che abbinasse facilità di manovra a
misure contenute: un altro significato del sumerico lugud è infatti «corto».
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chità di questa tecnica, possono essere citati alcuni sigilli del periodo Jemdet nasr / Uruk iV (3200 ca. a.C.) oltre che alcuni segni pittografici dei testi di Uruk.
la lista di parole cui abbiamo accennato contiene anch’essa numerose conferme
epigrafiche di queste cabinature
GiŠ·-u5-má
GiŠ·-é-má
GiŠ·-é-gag-má
GiŠ·-gag-má
ḫinnu elippi
bitu elippi
ḫinnu elippi
sikkatu elippi
cabina della nave
cabina (lett. casa) della nave
cabina della nave
cabina piramidale della nave.
lo stesso testo lessicale menziona decori per alcune navi e ulteriori particolari
li leggiamo in un testo akkadico in cui un re si vanta di aver abbellito con essi
una nave: «le sue fiancate, la prora e la poppa ho equipaggiato con lavori in oro
e (figure di) dragoni», mentre Šulgi, il secondo re della iii Dinastia di Ur, in una
delle composizioni poetiche da lui scritte dice che «la sua (= della nave) cabina
— il sumerico ha é-gal, «la grande casa» — ho decorato di stelle come il cielo».
Un altro tipo di decorazione usata per abbellire le navi divine o quelle regali era
la «polena» in materiale pregiato — corno o avorio: così infatti è probabile che
vada inteso il termine si (‘corno’ in sumerico è si) che un testo letterario anticobabilonese (ca. 1800 a.C.) unisce a GiŠ-má, la nave: «sulla prora della mia nave con la sua polena (GiŠ-má si-bi) veleggerò verso casa» (nanše B iV:14) dice
la dea nanše all’interno di un frammento di una più ampia composizione in sumerico da inserire nell’ambito di quella sempre sfumata ma mai scissa attività
templare-amministrativa del suo tempio durante la iii Dinastia di Ur nel territorio di lagaš-Girsu. in realtà, questa bipolare attività teologico-temporale fu propria di ogni tempio, non solo quindi del tempio di nanše.
l’importanza di poter disporre di legname scelto, specifico e in alcuni casi
pregiato, doveva certo essere fondamentale per la carpenteria navale di alto profilo se perfino i testi letterari si scomodano per ricordarla. nella letteratura su-
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merica esiste infatti un lungo testo poetico che oggi conosciamo per le trascrizioni che di esso vennero fatte dalle scuole scribali (27) di nippur in epoca paleobabilonese, ma la cui composizione originaria probabilmente avvenne già durante la iii Dinastia di Ur (2112-2004 a.C.). i principali protagonisti del poema sono tre: il dio lunare nanna-suʾen - che con la sua presenza conferisce una dimensione sovrannaturale al re di Ur, mitizzando un reale pellegrinaggio a nippur compiuto via fiume dal re in accompagnamento della statua del dio; la città
di Ur — che da questa simbiosi dio-re sembra trarre ogni tipo di vantaggio; il
pellegrinaggio stesso Ur→nippur — che a sua volta mitizza e dà enfasi alle
quotidiane spedizioni fluviali lungo l’eufrate che collegavano Ur (a sud) con
nippur (a nord), quella nippur i cui «palmizi erano slanciati quando Dilmun
non esisteva ancora!». nanna-suʾen ha bisogno di una nave fluviale per poter
effettuare questo pellegrinaggio rituale e parte del poema racconta la sua costruzione (28)
«per costruire una nave da pellegrinaggio (Gi·-má-gur8),
per approntare una nave da pellegrinaggio,
per cercare fascine di canne (Gi.KiD.BÚr) (29) suʾen inviò qualcuno.
per le canne (gi)(30) della nave da pellegrinaggio, a tummal
nanna-suʾen ha mandato un uomo.
per il bitume (ésir) della nave da pellegrinaggio, ad apsu
ašimbabbar ha mandato un uomo.
per i suoi giunchi (ú-a-númun), a Du-ašaga,
nanna-suʾen ha mandato un uomo.
(27 )le é-dub-ba (lett. «casa delle tavolette») paleo-babilonesi, oltre ad essere scuole dove i giovani
apprendisti scribi (dub-sar) imparavano la loro arte anche attraverso l’esercizio del sumerico ormai
non più lingua viva, erano sofisticate comunità di pensiero all’interno delle quali lo studio e la copia di
testi poetici come questi erano usati per creare un comune patrimonio letterario sumerico ed un legame
con la storia sumerica, oltre che per implementare il background personale degli scribi.
(28) il testo, studiato in tutti i suoi manoscritti, è stato pubblicato da a.J. Ferrara, nanna—suen’s
Journey to nippur, roma 1973. le linee del brano riportato vanno dalla 37 alla 52.
(29) secondo un altro testo letterario, queste «fascine» (Gi.KiD) servivano per «rivestire la nave» (nígin-nígin-na-má).
(30) Un testo neosumerico da lagaš (WmaH 5) menziona un elevatissimo numero di queste «fascine di
canne» (sa-gi; ‘canna’ in sumerico è gi), il cui uso era riservato anche in questo caso alla cantieristica
navale: il numero a cui la prima parte del testo fa riferimento è di «9714 fascine di canne». a queste se
ne aggiungeranno, nella seconda metà del documento, altre 8800, di cui 4740 da considerare «sul conto
del re».
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modellino in argento di nave cultuale (65x20x8 cm.). tombe reali di Ur (iraq museum, Baghdad).
per le sue gaffe (GiŠ·-mi-rí-za), alla foresta dei cedri
ašimbabbar ha mandato un uomo.
per il suo impiantito (GiŠ·-eme-sig), alla foresta di Kununa
nanna-suʾen ha mandato un uomo.
per le sue bordature (a-da) di poppa, alla montagna dei cedri fragranti
ašimbabbar ha mandato un uomo.
per le sue fiancate (GiŠ·-ù), alla foresta di ebla
ašimbabbar ha mandato un uomo.
per il suo legno di pino (GiŠ·-ù-suḫ5), alla foresta dei cedri fragranti
nanna-suʾen ha mandato un uomo.
per il suo … in legno di ginepro (GiŠ·-li), a langi
ašimbabbar ha mandato un uomo.
per il suo … , a …
ašimbabbar ha mandato un uomo.
per il suo … di canne, a …
nanna—suʾen ha mandato un uomo».
Questo testo non è unico ma affonda le sue radici in un milieu letterario-religioso comune: altre composizioni analoghe sono infatti rintracciabili nella letterarura della mesopotamia, dove ogni divinità poteva in pratica avvalersi della
realizzazione di una barca cultuale. Un altro testo di epoca medio-Babilonese
(ca. XiV sec. a.C.), scritto in un sumerico non corretto in quanto ormai lingua
fossile utilizzata solo in ambito letterario, ripercorre infatti un simile cliché a
proposito della nave del dio enki (4r 25, linee 6-19)
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Calco da un sigillo in steatite rosa: divinità in viaggio su una nave in un fiume
«la nave: il materiale in canna (gi) è importato da magan,
il bitume (ésir) è fornito dall’abisso,
il materiale in canna da rivestimento (Gi.KiD-má-nígin) è …,
il suo impiantito (GiŠ·-eme-sig) è in lapislazzuli,
la sua gaffa (GiŠ·-mi-rí-za) è fatto d’oro,
il suo timone (GiŠ·-gi-muš6) è stato portato da meluḫḫa,
i suoi remi (GiŠ·-gisal) — sette volte sette — sono leoni della steppa con fauci
digrignanti.
la nave: le sue fiancate (é-gar8) sono cedri (abbattuti) nelle loro foreste,
la sua copertura (an-má-dul) sono (foglie) di palma da dattero di Dilmun».
il modellino di nave in argento trovato nel cosiddetto Cimitero reale di Ur
(circa 1850 tombe del periodo dinastico e sargonico, 2600-2500 a.C.) (31) può
forse dare una idea visiva più precisa di questo tipo di navi cultuali fatta costruire per gli dèi, anche se è certo evidente anche a chi non vada per mare che queste descrizioni nei testi letterari dovevano essere ben diverse da quelle reali che
solcavano i canali della mesopotamia, diverse a loro volta da quelle che veleggiavano sul mare del Golfo.
la documentazione epigrafica in nostro possesso informa ampiamente anche
su questa tipologia di barche che potrebbero essere definite come processionali
(31) C.l. Woolley, the royal Cemetery: report on the pre—Dynastic and sargonid Graves excavated
between 1926 and 1931. Ur excavations vol. 2, london 1934; r.l. Zettler – l. Horne, treasures from
the royal tombs of Ur, philadelphia 1998.
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— il nome che nei testi compare è appunto quello di má-gur8, cioè «nave processionale» — , legate ai frequenti spostamenti che le statue degli dèi dovevano
compiere da un tempio all’altro e da una città all’altra per esigenze di fede. Come si è visto, i re locali — anche per garantire un imprinting celeste alla propria
regalità e il conseguente favore divino di cui necessitavano — spesso presenziavano in prima persona a questi pellegrinaggi che avvenivano tramite rete di canali e su battello. il testo relativo al viaggio di nanna-suʾen riferisce non senza
humor di un numero di imbarcazioni talmente elevato da ingolfare un intero canale per una lunghezza di quasi dodici kilometri: «Quanto al convoglio (di navi), l’inizio era già arrivato a Uruk, ma la fine era ancora a larsa».
anche le navi dei pellegrinaggi divini figurano nelle formule di datazione: all’interno di esse capita infatti di trovare ricordato qualche evento inerente alle
navi degli dèi. Gli esempi che seguono, per brevità, sono limitati al solo periodo
della iii Dinastia di Ur
regno di Šulgi
anno in cui fu calafata la nave del dio nin-lil
anno seguente a quello in cui fu calafata la nave di nin-lil
(2087 a.C.)
(2086 a.C.)
regno di ·u-suʾen
anno in cui Šu-suʾen re di Ur costruì la nave di enki detta ‘lo stambecco degli abissi’
(2035 a.C.)
anno seguente a quello in cui la nave di enki, lo ‘stambecco degli abissi’, fu
costruita
(2034 a.C.)
anno in cui Šu-suʾen re di Ur costruì una grande nave per en-lil e nin-lil
(2029 a.C.)
anno seguente a quello in cui Šu-suʾen re di Ur costruì una grande nave per
en-lil e nin-lil
(2028 a.C.).
il re-poeta Šulgi, figlio e successore del fondatore della iii Dinastia di Ur,
sembra aver voluto ulteriormente confermare un legame al mondo divino anche
per questa ingegnosa invenzione con cui si potevano solcare le acque, dedicando
— alla nave in generale — una composizione poetica da lui strutturata come un
inno reale alla dea nin-lil: la vicenda principale era determinata dalla costruzio(32) il testo è stato recentemente ripreso da J. Klein, Šulgi and ninlil’s Boat: a Hymn of building and dedication, in J. Klein - a. skaist edd., Bar-ilan studies in assyriology, 80-131, Bar-ilan 1990.
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ne della barca processionale per questa dea, avvenuta nell’ottavo anno del suo
regno. l’inno, voluto dal re ma probabilmente composto a più mani e con l’aiuto delle scuole scribali, è oggi conosciuto per le circa 90 linee arrivate fino a noi.
nella sua prima parte (linee 1-39), il testo racconta in modo poetico la costruzione di questa nave divina, dedicando un intero verso a ogni termine nautico e
cercando di raggruppare questi ultimi in blocchi funzionali: si avrà così una sezione dedicata ai congegni propellenti; una dedicata agli impiantiti; una alla cabina e alle sue componenti; una a parti differenti. tutto è mitizzato e trasportato
in una dimensione virtuale — la banchina da cui salpa la nave si chiama «Banchina ‘gloria delle correnti d’acqua’ (kar-me-te-a-gi6-a)»; il tratto di eufrate che
percorre per giungere fino a nippur prende il nome di «Canale ‘anno dell’abbondanza’ (i7-mu-ḫé-gál-la)» — ma allo stesso tempo tutto ha una strettissima relazione con il mondo reale della cantieristica navale. Cerchiamo di leggere quella
parte del testo che più esplicitamente di altre tratta delle tecniche di costruzione
navale — nel testo l’autore parla della nave rivolgendosi a lei in seconda persona, come con un reale interlocutore (32)
«la tua dea, nin-lil, dette ordini per la tua costruzione:
al fedele ?ulgi dette istruzioni a tuo riguardo
e lui, dalla perspicace intelligenza, seppe cosa fare a tuo riguardo:
il pastore giorno e notte non dormì,
lui, l’astuto e programmatore, colui che conosce ogni cosa,
nella fitta foresta di cedri fece abbattere grandi cedri per te.
Quanto alle grandie quantità di materiali in canna (muru12), sei come la luce
del giorno che è diffusa sulla pura terra;
quanto alle pertiche (gi-zi), sei come un dragone che dorme sonni sereni nella
tana;
quanto alle gaffe (GiŠ-mi-rí-za), sei come un serpente il cui ventre è pressato
sui flutti;
quanto all’impiantito (GiŠ-eme-sig), sei come una corrente di flutti che rutilano insieme nel limpido eufrate;
quanto alle fiancate (GiŠ-ù-má), sei come una scala che porta a una sorgente
montana;
quanto al traversino (GiŠ·-ḫum), sei come un’elevata predella, eretta nel mez
zo dell’abisso;
quanto alla cabina (GiŠ·-iGi.DUB), sei come l’aratta, pieno di tesori;
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scena processionale
con nave.
Disegno
da un frammento
in pietra di epoca
Cassita (ca. 1180
a.C.) (da m.
De Graeve, the ship
of the ancient near
east fig. Viii).
quanto alle insegne (GiŠ·-an-ti-bal), adorne dei simboli di regalità, sei come
una foresta di cipressi su cui scintillano gocce d’acqua;
quanto alle piccole parti in canna (gi-KiD-ŠÚ-má), sei come il cielo di sera illuminato di stelle;
quanto al palo d’ormeggio (GiŠ-dimgul), sei come un nastro celeste …;
quanto alla lunga fiancata (GiŠ-ad-úš), sei come un guerriero che cozza contro un altro guerriero;
quanto alla prora (má-sag), sei come il dio-luna che rischiara con la sua luce
il cielo;
quanto alla poppa (GiŠ-egir-má), sei come il dio-sole la cui luce sorge all’oOttobre 2011
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rizzonte».
Una simile fraseologia, al di là della specifica utilità nel permettere di recuperare molti dei termini tecnici della cantieristica navale dell’epoca, se pone il
concetto di nave in una dimensione certamente iper-reale, dimostra comunque la
particolare considerazione — unicamente derivata da un uso quotidiano — che
le popolazioni della mesopotamia avevano per questo mezzo di trasporto. l’ennesima dimostrazione è la parte finale della composizione poetica in sumerico,
in pratica il panegirico della nave di enki di cui si è parlato prima (4r 25, linee
22-30)
«la nave è benedetta da enki,
di lei si è presa cura Damgalnunna,
un nome felice le è stato dato da asarluḫi.
sirsir, il (divino) marinaio di eridu,
e ninildu, il capo carpentiere celeste,
l’hanno costruita con cura con le loro mani divine.
Oh nave, possa la fortuna camminare davanti a te!
Oh nave, possa la prosperità camminare dietro a te!» (33).
Come accennato, gli dèi e di conseguenza i templi che a loro facevano riferimento, in quell’epoca non gestivano unicamente la res theologica e dunque ciò
che gravitava nell’ambito della religione e gli aspetti a questa connessi, ma interagivano in molti altri settori della vita cosiddetta laica, compreso quello marinaresco. È questo il caso riportato da due testi redatti all’epoca di Ur-nammu
(2112-2095 a.C.), il fondatore della iii Dinastia di Ur, entrambi al British museum di londra. nel primo di essi (Bm 30086) si fa riferimento alla costruzione
(forse semplicemente si trattò di una ri-fondazione) del tempio del dio nanna e
alla ristrutturazione di alcune banchine di scalo per i grandi cargo mercantili abbandonate da lungo tempo e che entravano nella giurisdizione amministrativa
della stessa area templare
«al dio nanna, primogenito di enlil, suo signore: Ur-nammu, l’uomo potente, il re della terra di sumer e di akkad, colui che ha edificato il tempio del
(33) il testo sul viaggio a nippur del dio lunare nanna—suʾen di cui si è tradotta poc’anzi una sua parte,
a questo proposito dice che quando il dio enki “veleggia” (u5-a-ni) l’anno sarà ricolmo di abbondanza.
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dio nanna, lui ha ripristinato un antica consuetudine commerciale! al lido, ha
fatto sì che il commercio potesse raggiungere le aree di scalo (ki-sar) e ha
fatto tornare le navi di magan sotto la sua (= di nanna) giurisdizione» (34).
le spedizioni dei valletti divini nel mondo allora conosciuto di cui abbiamo
letto nel poema sul viaggio in barca del dio nanna-suʾen, altro non sono che
amplificazioni dei reali viaggi commerciali che i mercanti della mesopotamia
compivano — dal Golfo persico al mediterraneo, dal libano alla costa siriana e
ai contrafforti dell’anatolia — non solo per vendere all’estero manufatture della
mesopotamia, ma anche per acquistare in altri paesi ciò che in mesopotamia
mancava, per esempio il legname per la carpenteria navale. il testo letterario fa
anche capire che legni diversi erano impiegati per le diverse parti dello scafo e
probabilmente così era anche nella realtà cantieristica. Una volta costruita e ancora all’interno del cantiere, la nave era collocata su basamenti in legno («piedi») per essere messa in assetto; dopodichè avveniva il varo, tramite dispositivi
sempre in legno per «trascinare» la nave in acqua: lo stesso testo a cui ci si è già
riferiti — la lista lessicale ur5-ra -, alle linee 391-392 parla infatti di
GiŠ-uš-má-du (variante: GiŠ-má-dù-uš)
«dispositivo in legno (GiŠ) per trascinare (uš) una nave (má) costruita (du)».
Diversamente dagli dèi che potevano comunque disporre di risorse illimitate a
cui attingere, le condizioni economiche in cui talora venivano a trovarsi le diverse corti del Vicino Oriente antico potevano non consentire di affrontare spese
straordinarie o impreviste, magari imposte da repentini mutamenti di alleanze
diplomatiche e dalle conseguenti guerre che da ciò potevano scaturire. anche le
armi navali dunque potevano veder diminuiti i propri budget in momenti di contingenza economica. a mali estremi estremi rimedi, dice un proverbio millenario
a cui dovette comunque pensare anche il re assiro Šamši-addu che, dopo aver
conquistato la città di mari, vi insediò come re il figlio Yašmaḫ-addu (ca. 1795
a.C.). avendo bisogno di importanti quantità di bronzo per l’imminente campagna militare, il re non si peritò di ordinarne il recupero dagli arredi tombali di un
antico re di mari, Yaḫdun-lim, di cui egli aveva sconfitto il successore: non appartenedo alla stessa linea dinastica, il gesto per quanto discutibile non assume
(34) D. Frayne, Ur iii period. the royal inscriptions of mesopotamia. the early periods vol. 3/2. toronto 1997.
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quelle connotazioni sacrileghe che invece avrebbe se inserito in un contesto di
rottura dinastica.
la lettera è inedita e appartiene agli archivi di mari con il numero di inventario a 2177 e fa esplicito riferimento anche ad armamenti navali, facendo in tal
modo capire che le navi erano usate anche per scopi militari oltre che per il
commercio
«al nostro signore (=Yašmaḫ-addu) dì: così parlano i tuoi sudditi la?um
e mašiya. riguardo al fatto di fare costruire mille navi e diecimila lance, il re
(=·Šamši-addu) ci ha scritto e noi diamo risposta alla tavoletta del re in questo modo: il nostro signore (=·Šamši-addu) ci ha scritto in questi termini:
‘nella tomba di Yaḫdun-lim il bronzo è abbondante!’. il bronzo che serve per
diecimila punte di lancia da sei sicli ognuna (ammonta) a sedici talenti e quaranta mine di bronzo. Ora, il bronzo che può essere recuperato dalla tomba di
Yaḫdun-lim ammonta appena a trenta mine! … se il re interroga il nostro signore (=Yašmaḫ-addu), che egli attiri l’attenzione del re sul fatto che non
abbiamo potuto fabbricare le lance mancando il bronzo e che non essendo in
grado di far costruire mille navi, ne faremo realizzare trecento».
la documentazione epigrafica (35) in nostro possesso consente anche di desumere informazioni riguardo alla lavorazione materiale che avveniva all’interno
dei cantieri navali. Un testo oggi conservato al museo nazionale Danese (Copenhagen 30) indica che cinque maestranze specializzate (guruš) impiegarono
cinque giorni per costruire lo scheletro in legno di una nave per il re neosumerico
amar-suʾen, mentre secondo un altro testo (WmaH 3) — anch’esso di epoca Ur
iii — la riparazione o la costruzione di una nave di 60 gur di stazza implicò un
lavoro pari a 602 giorni-uomo
«1 nave di 60 gur:
Kuš è il capitano / l’armatore.
(35) la contabilità amministrativa del comparto navale doveva essere, soprattutto nell’epoca di Ur iii,
di particolare mole ed impegno se un testo neosumerico (tpts 1 549) menziona un certo lugale—bansa nella qualifica di «scriba (dub-sar) dei capitani di vascello», una sorta quindi di amministrativo nella capitaneria di porto, il cui compito doveva essere quello di redigere quanto avveniva in quello specifico contesto.
(36) il fatto che nello stesso documento sia citato un tipo di bitume definito gibil, cioè «nuovo», fa ritenere che quello indicato «a/in pezzi» sia in realtà un bitume già calafato in precedenza e che sia stato
successivamente rimosso – staccandosi appunto in pezzi – per l’eventuale disarmo di navi ormai vetuste o irrimediabilmente danneggiate
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la marineria nella mesOpOtamia antiCa
Bitume in pezzi (36) (ésir-ḫax-bi) per questa: 160 misure;
bitume liquido (ésir-é-a-bi) per questa: 350 litri;
manovalanza: 602 operai impiegati 1 giorno».
Un documento antico babilonese da Ur (Uet V 468) specifica che nel momento di redazione del testo vi erano non meno di 186 operai impiegati nella lavorazione delle gomene.
il legno o le canne non erano comunque i soli materiali impiegati: talora e per
le barche di maggiore prestigio — quelle per il re o per gli dèi — veniva impiegata anche la pelle conciata, anche se i testi che menzionano questo materiale
per gli allestimenti navali non sono antecedenti all’epoca della iii Dinastia di
Ur. Bm 105587, un testo sempre di epoca Ur iii, attesta che a un lavoratore specializzato (guruš) era stato affidato l’incarico di eseguire rifiniture in pelle per la
barca del re e che il tempo da lui impiegato per quest’incarico era stato di otto
giorni. sempre il testo Copenhagen 30 di cui si è già detto contiene un ulteriore
dato sulla realizzazione della barca per amar-suʾen (2046-2038 a.C.): parte del
fasciame in legno della barca avrebbe dovuto essere rivestito di pellame in tre
colori differenti. Questa finitura aveva coinvolto cinque maestranze per cinque
giorni di lavoro e utilizzato un totale di ottantacinque pellami.
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LA MArINerIA NeLLA MesOPOTAMIA ANTICA
Il contesto letterario
U
n impiego quotidiano di mezzi adibiti alla navigazione e una conoscenza
ad un così alto livello delle tecniche che intorno a tali mezzi ruotavano —
dalla costruzione al restauro, dalle opere di ingegneria idraulica alla capacità di trarre vantaggi dalle stagionali esondazioni dei fiumi, alla vigoria impartita al commercio navale — non potevano passare inosservati a chi aveva il
compito di registrare gli avvenimenti del mondo per poi vestirli con le parole del
mito, idealizzando e rendendo immortali contenuti e contenitori. In questo caso,
il contenitore è il mito del Diluvio, ma anche la particolare nave realizzata per
sopravvivere al Diluvio. Tra i contenuti figura invece lui, l’uomo di Dio: quello
che forse tutti conosciamo meglio con il nome di Noè.
Má-gur8-maḫ: questo è il nome con cui i testi della Mesopotamia hanno identificato l’Arca, la «grande nave» che ha traghettato il genere umano tra un ‘prima’ — quegli spazi temporali ancora avulsi da convenzioni umane e che sfumano nei primordi dell’Universo — e un ‘dopo’, legato invece a più piccole realtà
terrene. Má-gur8-maḫ Non sono soltanto due parole, i concetti racchiusi sono
molti: è una nave (má), ma è una nave che appartiene alla categoria delle imbarcazioni cultuali-processionali (má-gur8), quelle usate anche dagli dèi. È inoltre una nave dalle dimensioni insolite (maḫ): si vedrà come questa grandezza sia
non soltanto legata alle dimensioni fisiche, reali, ma come racchiuda complesse
indicazioni simboliche. Anche la sua navigazione è simbolica prima che reale,
solcando la storia prima che i mari. Parlare dell’arca, di questa grande e particolare nave, vuol comunque dire parlare del suo contesto, vale a dire di quella
gigantesca scenografia che prende il nome di Diluvio. Ognuno dei due è indissolubilmente legato all’altra.
«Noè era un uomo giusto e integro tra i suoi contemporanei e camminava con
Dio» (Genesi 6,9). Così, quasi in punta di piedi Noè entra nella storia della Bibbia e nella storia dell’uomo: la semplicità e l’essenzialità delle parole della Bibbia è in tema con chi nella propria vita altro non cerca che la vicinanza di Dio.
L’ebraico nḥ, Noè, è affine a nwḥ, il verbo ebraico della tranquillità, dell’attesa
fiduciosa, di chi — con l’aiuto di Dio — è in grado di aver ragione perfino sulla
furia incontrollabile degli elementi della natura. Noè è allora «Colui che dà sollievo», nei confronti del quale neppure il Diluvio potrà alcunchè. Il Diluvio non
è infatti per chi cammina sulla strada indicata da Dio. Il Diluvio è per tutti gli
altri. Alcune linee di un testo mesopotamico sul Diluvio aiutano a capire proprio
questo concetto:
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LA MArINerIA NeLLA MesOPOTAMIA ANTICA
«Vi era in quei tempi Atra-?asis:
enki il suo dio lo teneva al corrente.
Lui poteva parlare con il suo dio
e il suo dio poteva parlare con lui».
A-ma-ru (in sumerico), abubu (in akkadico): così chiamavano il Diluvio le
antiche genti della Mesopotamia. Quanto ai nomi degli eroi del Diluvio, essi
sembrano legati a epoche metastoriche per le quali il filo dell’effettivo ricordo si
è strettamente intrecciato con quello della leggenda, all’interno del gomitolo delle esperienze umane. se Noè, «Colui che dà sollievo», è l’eroe del Diluvio della
Bibbia, leggendo i frammenti del Diluvio della Mesopotamia spuntano i nomisoprannomi dei suoi predecessori: Zi-ud-sud-rá, «Quello dalla lunga vita», Atraḫasis, «Il supersaggio», Ut-napištim, «Colui che ha trovato la vita (eterna)».
strana storia quella del Diluvio. Fino al 1872 ognuno avrebbe saputo collocarlo
unicamente nella Bibbia. Nel 1872 venne invece letto il primo frammento di un
Diluvio diverso da quello biblico, al di fuori della Bibbia: l’evento è ugualmente
universale, ma la scenografia è cambiata, è quella dell’antica Mesopotamia e
anche la lingua, il babilonese, è una delle lingue della Mesopotamia. rispetto a
quello biblico, il racconto mesopotamico diventa la redazione più antica: fino al
1914 però, anno in cui venne scoperto a Filadelfia un frammento cuneiforme ancora più antico, scritto non in babilonese ma in sumerico e databile al 1600 a.C.
«Quanto io avevo lo caricai sull’arca:
quanto io avevo in argento, lo caricai;
quanto io avevo in oro, lo caricai;
quanto io avevo in ogni specie di seme di vita, lo caricai.
Feci entrare nell’arca tutta la mia famiglia e parentela,
animali selvatici dei campi, animali domestici dei campi» (XI 80-85).
Chi parla è Ut-napištim, l’eroe di una delle redazioni del Diluvio mesopotamico e il racconto va inserito nel più noto Poema di Gilgameš. Grandi Diluvi,
grandi navi anche se in questo caso non di nave si tratta ma di ‘arca’. Così, se
calcolata con i moderni parametri di misura, le dimensioni dell’arca, di questa
speciale nave in grado di affrontare e oltrepassare la distruzione del mondo, sono veramente notevoli: 137 metri di lunghezza, 22 metri di larghezza, 13 metri
di altezza e oltre 43.000 tonnellate di stazza. Berosso, un sacerdote del dio Marduk nella città di Babilonia scrive in greco la sua Babyloniakà — la storia Babilonese composta verso il 275 a.C. In essa la lunghezza dell’arca era pari a
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LA MArINerIA NeLLA MesOPOTAMIA ANTICA
«cinque tiri di freccia» (circa un kilometro), mentre la larghezza era pari a «due
tiri di freccia» (mezzo kilometro). In Mesopotamia, prima di Berosso, dovevano
pensarla nella stessa maniera se i testi definiscono l’arca con il trasparente nome
di elippu rabitu, la «grande nave». È ancora il Poema di Gilgameš a darci qualche informazione in merito. Fantasia e realtà, storia e leggenda sembrano giocare tra loro
«Il quinto giorno gettai le basi del suo esterno.
Un campo intero era la sua superficie:
le sue fiancate erano dieci volte dodici cubiti in altezza,
i lati della parte alta erano di uguale lunghezza: dieci volte dodici cubiti.
Così progettai il disegno della sua struttura.
La dotai di sei ponti,
suddividendola in sette livelli.
Di ognuno suddivisi la superficie con nove (divisori).
Nella zona centrale misi otturatori per (drenare) l’acqua.
Mi occupai delle pertiche e stivai quanto necessario.
Tre volte tremilaseicento unità di bitume naturale versai nel forno;
tre volte tremilaseicento unità di pece resinosa» (XI 56-66).
Costruire una simile imbarcazione non doveva essere un’impresa facile neppure per gli architetti navali dell’epoca, neppure per chi — come i protagonisti
del Diluvio — stava entrando nella storia attraverso la porta riservata agli eroi.
su un frammento di una tavoletta cuneiforme del VII secolo a.C. scoperto nel
1873 a Ninive sono infatti dipinte le reazioni di timore e di incertezza di Atraḫasis, uno dei ‘Noè’ della Mesopotamia (DT 42)(37)
«Atra-ḫasis aprì la bocca per parlare
e si rivolse a ea, suo signore:
Mai ho costruito una nave!
Traccia, ti prego, il disegno sulla terra
così che io possa vederlo e costruire la nave!
ea tracciò sulla terra il disegno» (DT 42 11-16).
(37) È curioso sapere che la sigla di questa tavoletta – DT – detiva dal nome del giornale inglese Daily
Teleghaph che finanziò con fondi propri la ‘campagna archeologica’ (1873 a Ninive) nella quale venne
scoprta la tavoletta in questione.
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LA MArINerIA NeLLA MesOPOTAMIA ANTICA
Una popolare canzoncina spagnola per bambini inizia con le parole Cuando
tengo sed y bebo … «Quando ho sete e bevo, quando mi bagno sulla riva e gioco con le mie berchette, quando vedo il mare piatto e le goccerelle di pioggia che
mi baciano il viso, grido sempre: viva l’acqua e il buon Dio che la regala!». Non
tutte le acque hanno comunque questa rassicurante simbologia: altre acque operano sprigionando energie negative. A-ma-ru kalam-ma ba-ùr-ra, «il Diluvio sulla terra dilagò»: così è detto nelle memorie cuniformi della Mesopotamia, tramandato con la saggezza dell’antichità, a cui non servono molte parole. Tutto
viene lavato dalle acque simboliche e, al loro defluire, tutto riceve il suo adeguato compenso. La zavorra della vita affonda; sul pelo dell’acqua rimangono le
cose veramente importanti della vita; tutto il resto è confinato in un copione privo di senso. L’io narrante che ci accompagna in questo viaggio all’interno del
senso stesso della vita è Ut-napištim e lo fa attravesro i segni cuneiformi del
Poema di Gilgameš
«Ogni chiarore è mutato in tenebra.
Le fondamenta della terra sono in pezzi, come un’orcio.
Per tutto un giorno soffia la tempesta,
sferzante soffia e gonfia i flutti.
Come l’incubo della guerra, essa calpesta gli uomini:
tra loro non riescono più a vedersi.
…
Le acque si placano, la tempesta si fa silente, il Diluvio cessa.
Aprii allora la finestra e il calore del sole colpì le mie guance.
Guardai il giorno: un silenzio di morte regnava,
l’intero genere umano era tornato fango.
La terra si tendeva uniforme, come una tettoia.
rimasi in ginocchio, piangente:
lungo le guance colavano le lacrime» (XI 106-111; 131-137).
È parte della vita stessa il Diluvio. Né va cercato dove non può esserci. Allora
come oggi è il quotidiano incontro-scontro tra l’uomo e i suoi atavici nemici: il
male e la morte. Non a caso i nomi degli eroi del Diluvio evocano concetti di
eternità: così il sumerico Zi-ud-sud-rá, «Quello dalla lunga vita»; così il babilonese Ut-napštim, «Colui che ha trovato la vita». Non a caso il racconto del Diluvio e dell’Arca-nave-traghetto è stato inserito nel Poema di Gilgameš, l’uomo
alla ricerca della vita eterna. La Bibbia scoprirà che non di vita dei corpi si tratta, ma di un’altra Vita. Ma forse tutto ciò era già stato scoperto: «egli vive né
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LA MArINerIA NeLLA MesOPOTAMIA ANTICA
mai morrà» dice un’epigrafe funeraria di Ugarit nel XIV secolo a.C.
È un racconto perpetuato, nella sua perenne attualità, da ogni generazione e
per ogni uomo sarà la forza del proprio io a decretare la sconfitta del Diluvio.
Per chi come me ha avuto il padre in Marina, nel leggere parte del testo di
una delle tante versioni che questo racconto ha avuto — una assira del VI secolo
a.C. e oggi al British Museum di Londra — gli sembrerà di sentire l’eco delle
parole che hanno accompagnato i tanti racconti fatti sul mare in tempesta quando, giovani guardiamarina in guerra, si trovarono sbalottati su navi non meno in
pericolo dell’Arca. Le lacune del testo anziché impoverirlo sono come i buchi su
un tessuto logoro: parlano di storie antiche ma con la riservatezza di voler sottacere qualcosa
«Il vento … e recò il turbine.
Cavalcò Adad i quattro venti, i suoi destrieri:
il vento del sud, il vento del Nord, il vento dell’est, il vento dell’Ovest —
Tempesta, Burrasca, Turbine e Pioggia a raffiche.
Venti cattivi … i venti si erano sollevati.
Il vento del sud … insorse al suo fianco,
il vento dell’ovest spazzò al suo fianco,
… andò …
Il carro degli dèi …
s’avventò in avanti, uccise, devastò.
Ninurta giunse e fece straripare le dighe,
Nergal sradicò le paline di sbarramento,
con i suoi artigli Anzu lacerò il cielo,
sgretolò la terra come un coccio, scompaginò le sue fondamenta.
… comparve il Diluvio.
La sua furia si abbattè sugli uomini come una guerra.
… l’urlo del Diluvio
… atterrì gli dèi» (BM 98977+99331 2-21).
Nelle molte allusioni che la simbologia del Diluvio contiene, capita a un certo punto di accorgersi — quasi con stupore — che l’impressionante e gigantesco
mito cosmico altro non è che la piccola vicenda personale di ogni uomo tessuta
giorno dopo giorno con il filo della sofferenza e dove le minacciose acque del
Caos altro non sono che dolore-sfiducia-amarezza-negazione-malattia-vuoto interiore. È la piccolezza della natura umana il fulcro intorno a cui ruota la granOttobre 2011
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LA MArINerIA NeLLA MesOPOTAMIA ANTICA
Poema di Gilgameš. Tavoletta neo-assira: Ninive, VII sec. a.C. British Museum.
dezza del Diluvio.
secondo la Bibbia piovve per quaranta giorni e quaranta notti (Genesi 7,12) e
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LA MArINerIA NeLLA MesOPOTAMIA ANTICA
«le acque restarono alte sopra la terra per centocinquanta giorni» (Genesi 7,24).
Andò meglio al Diluvio della Mesopotamia secondo quanto raccontato nel Poema di Gilgameš
«sei giorni e sette notti
soffiò il vento e la tempesta: il Diluvio sconvolse la terra.
Come fu il settimo giorno, la tempesta, il Diluvio, la distruzione cessò.
Il mare — colui che si era contorto come una donna tra le doglie —
si calmò; la tempesta si fece silente; il Diluvio cessò» (XI 127-131).
«scrutai le rive, fino ai confini del mare:
a dodici leghe emergeva una terra.
Fu il monte Nimuš dove l’arca si fermò.
Così fu per un primo e un secondo giorno.
Così fu per un terzo e un quarto giorno.
Così fu per un quinto e un sesto giorno.
Quando spuntò il settimo giorno,
feci uscire una colomba e la lasciai andare.
La colomba partì ma ritornò a me:
nessun posatoio era visibile, così tornò a me.
Feci uscire una rondine e la lasciai andare:
nessun posatoio era visibile, così tornò a me.
Feci uscire un corvo e lo lasciai andare:
il corvo partì e vide che le acque erano rientrate:
mangiò, raspò, crocidò ma non tornò a me» (XI 138-154).
Nippur è il nome di una delle città della Mesopotamia sumerica, capitale della
teologia di sumer e una delle maggiori aree di scavo, al punto che le quattro
campagne di scavo condotte tra il 1889 e il 1900 portarono alla luce oltre trentamila tavolette che presero la strada del Philadelphia Museum of Arts. Una di esse, CBs 10673, redatta tra la fine del XVIII sec. a.C. e l’inizio del XVII, contiene la versione più antica del Diluvio e della sua nave. Il testo è unico: finora non
sono stati reperiti duplicati.
Il Diluvio è stato progettato all’interno del consesso divino, ma non all’unanimità. Uno degli dèi, il dio enki, non partecipa alla votazione né è d’accordo con
lo scempio che verrà fatto del genere umano
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LA MArINerIA NeLLA MesOPOTAMIA ANTICA
«Cercherò di impedire la distruzione della mia umanità.
Cercherò di fermare il genocidio delle mie creature.
Voglio che la gente torni (ad abitare) le terre da loro abitate» (38-40).
Intrecciato con il mito e anzi da esso supportato vi è un chiaro tema teologico:
l’antico sacerdote di enki prende lo spunto dal racconto per tessere le lodi del
suo dio rispetto agli altri dèi e cercare di privilegiarne la teologia; nonostante
l’azione disgregante e dirompente del Diluvio, s’impone il lessico mistico della
stabilità determinata dal calore dell’appartenenza reciproca: ‘mia’ è definità l’umanità e ‘mie’ le creature che la compongono. Dio e il suo popolo entrano in risonanza. Tutto è fatto in funzione uno dell’altro
«Non arginò l’alluvio, ma scavò il suolo e incanalò l’acqua;
dispose la pulitura dei piccoli canali e dei fossati per l’irrigazione» (99-100).
Con la quarta colonna ha inizio la storia del Diluvio e dell’arca anche per il
più antico testo sumerico. Tutto concorrea creare una scenografia incisiva e
drammatica: Ziusudra che origlia le ultime confabulazioni degli dèi; l’ineluttabilità di un evento ormai imminente; il particolare lessico della distruzione: «abbattersi», «essere annientato», «aver fine» sono i verbi impiegati che non sottendono speranza alcuna. su tutto, comunque, l’intervento salvifico di enki
«La loro opposizione portarono gli dèi fino al Ki-ur.
Zi-ud-sud-rá udì, stando sul lato,
stando sulla sinistra del muro laterale …
Muro laterale, ti devo parlare! Presta attenzione alle mie parole,
presta orecchio al mio avvertimento!
Per nostra iniziativa un Diluvio si abbatterà,
la progenie dell’umanità sarà annientata!» (151-157).
I colori diventano presto quelli della tempesta: la veste del cielo non è più colore azzurro orlato di pioggia. Nelle lacune del testo trovano posto la costruzione
della nave, grande e fatta di legno (GIŠ, come si è già visto): GIŠ-má-gur8-gur8,
la «grande nave» — il duplice segno gur8 usato sembra raddoppiarne la dimensione. Trova anche posto una ovattata e surreale realtà, come se gli eventi si formassero e difformassero al di là del mutevole fuoco di una lente
«I venti maligni e i venti di tempesta tutti insieme si adunarono:
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LA MArINerIA NeLLA MesOPOTAMIA ANTICA
il Diluvio imperversò.
sette giorni e sette notti
il Diluvio sul paese dilagò.
L’arca nel Diluvio il vento maligno sballottò» (201-205).
Un altro testo della Mesopotamia che, anche se più recente, come questi è incentrato sul tema del Diluvio, aggiunge golosi particolari alla vicenda. La III tavoletta del poema akkadico di Atra-ḫasis mostra un Diluvio diverso dai precedenti: oltre a essere un Diluvio di acque è anche un Diluvio di preghiera e di giustizia. La supplica dell’uomo a Dio perché egli sia con lui si fonde con la supplica di Dio all’uomo perché questo lo ascolti. Disponibilità reciproca e corrente
biunivoca di intesa emergono allora dal racconto
«Atra-ḫasis aprì la bocca
e disse al suo signore:
Trasporto
su nave del
legno di cedro
dal Libano.
Particolare
di un rilievo
neo-assiro (713706 a.C.)
Palazzo
di sargon II,
Khorsabad.
Musée
du Louvre (Foto
A. Dequier).
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LA MArINerIA NeLLA MesOPOTAMIA ANTICA
Mostrami il significato dei sogni;
che io conosca e possa valutarne le conseguenze!
enki aprì la bocca
e disse al suo fedele:
Presta attenzione al messaggio che ti dirò!
Muro: ascoltami!
Canniccio: custodisci le mie parole!
Demolisci la casa e costruisci un’arca!
L’arca che costruisci sia come …
Ponile un tetto, come ha l’abisso,
così che il sole non possa entrarvi.
Dotala di ponti superiori e di ponti inferiori.
Che sia robusta la sua struttura!
Che il bitume sia forte da conferire forza!» (I colonna 11-32).
Come già nel racconto sumerico o in quello della Bibbia, al Diluvio akkadico
non servono molte parole per presentarsi: ne bastano due, «uscì il Diluvio» (itta-ṣa-a a-bu-bu). Connotazioni negative sono apprezzabili fin da subito: il verbo
akkadico aṣu è infatti spesso usato per contesti avversi che subentrano con una
rapidità ostile: la rovina, il veleno, l’oscurità perniciosa
«Il giorno cambiò il suo aspetto.
…
… il Diluvio uscì.
Come una mazza da guerra si abbattè sulle genti:
nessuno potè più vedere l’altro;
non riuscirono più a vedersi nella catastrofe.
Il Diluvio mugghiava come un toro,
come un onagro urlava il vento.
L’oscurità divenne densa,
il sole scomparve» (II e III colonna, 10-18).
Alla fine del mito di Atra-ḫasis, il numero dei concertanti si è drasticamente
ridotto; ne è rimasto solo uno, il fedele timorato di Dio, simbolo della nuova comunità di credenti. È lui che con note solenni suona l’inno per il conseguito risultato finale. Autore della pièce e direttore d’orchestra è il suo Dio di cui sono
tessute le lodi per aver salvato l’umanità con una nave che solca i mari della
storia e della leggenda. Gli altri, soprattutto loro, quegli dèi che avevano ordinasupplemento alla rivista Marittima
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LA MArINerIA NeLLA MesOPOTAMIA ANTICA
to il Diluvio, non contano più e l’indovinata immagine plastica con cui escono di
scena è quella di uno sciame di insetti: ridotti alla stregua di losche, la loro teologia ne esce totalmente ridimensionata, se non addirittura azzerata
«egli, (Atra-ḫasis), pose …
preparò l’offerta …
Gli dèi sentirono il profumo:
come mosche si ammassarono sull’offerta» (V colonna, 31-34).
Lentamente ci si prepara alla venuta del Dio solo: pur in un contesto politesista si inizia a definire chi ha un ruolo più importante di altri, chi è il vero Dio.
La conclusione non può essere allora diversa da questa
«Possano gli dèi ascoltare questo canto
così da poterti lodare.
Possano gli Igigi ascoltarlo
così da celebrare la tua grandezza» (VIII colonna, 9-12).
È una storia nella storia quella del Diluvio e della sua nave.
Tell Asmar. sigillo akkadico con divinità su barca cultuale.Ca. 2200 a.C..
Oriental Institute. Chicago
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LA MArINerIA NeLLA MesOPOTAMIA ANTICA
Appendice 1
Cronologia della Mesopotamia
Periodo Halaf (Nord)
Periodo ʿUbaid (Nord)
Periodo ʿUbaid (sud)
Uruk arcaico
Uruk tardo
Jemdet-Nasr (sud)
Antico Dinastico I
Antico Dinastico IIIa-b
Impero Akkadico
Interregno Guteo
III Dinastia di Ur
6500-5500
5500-4000
6200-4000
3900-3600
4000
3750
3400-3200
3300
3100-2900
2900-2750
2600-2500
2340-2125
2154-2112
2112-2004
Periodo Isin-Larsa
2025-1887
2025-1863
2017-1887
Periodo Antico Assiro
2025-1365
2025
1753
1715
1500-1365
Periodo Antico Babilonese 1994-1595
1728-1685
1753
1595
Periodo Medio Babilonese 1570-689
1520-1170
1225-1186
1186-1157
1157-1156
contatti commerciali con siria e
Arabia
fondazione di Uruk
colonizzazione della Mesopotamia
invenzione della scrittura (Uruk)
contatti commerciali con l’egitto
cultura sumerica
cultura sumerica
periodo sargonico
conquista di Akkad
impero sumerico conquista di Ur
da parte di elam
dinastia amorrea di Larsa
dinastia sumero-akkadica di Isin
conquista amorrea
conquista antico-babilonese
indipemdenza assira
conquista da parte dei Mitanni
Hammurapi di Babilonia
conquista dell’Assiria
saccheggio di Babilonia da parte
hittita
dinastia kassita
dominazione assira
indipendenza di Babilonia
conquista elamita
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LA MArINerIA NeLLA MesOPOTAMIA ANTICA
Periodo Medio Assiro
Periodo Neo Assiro
Periodo Neo Babilonese
1365-883
1225-1186
883-609
714-681
668-626
689-625
671-663
612
625-539
609-539
605-565
539
conquista di Babilonia
regno di sennacherib
regno di Assurbanipal
conquista di Babilonia
conquista dell’egitto
caduta di Ninive
conquista dell’Assiria
regno di Nabucodonosor
caduta di Babilonia; inizio della
dominazione persiana
Mappa della Mesopotamia antica (The University of North Carolina at Pembroke).
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LA MArINerIA NeLLA MesOPOTAMIA ANTICA
Appendice 2
La Paleozoologia conferma l’antichità della marineria (38)
FAMILY
COMMON NAMe
H3
ABU
DOs
ALM
J19-UP
ALM
J19-LOW
Chondrichthyes
Dorosomidae
Clupeidae
shark/ray/skate
Gizzard shad
Herrings
sardines/shads
sea catfifh
Needlefish
silversides
Flathead
Grouper
Jack/Trevally
Ponyfish
Mojarra
Ponyfish/Mojarra
**
***
**
*
Arridae
Belonidae
Atherinidae
Platycephalidae
serranidae
Carangidae
Leiognathidae
Gerreidae
Leiognathidae/
Gerreidae
Lutjanidae
Haemulidae
Lethrinidae
sparidae
scaridae
Mugilidae
sphyraenidae
siganidae
scombridae
KeY
H3
ABU
DOs
ALM-J19-UP
2000
ALM-J19-LOW
2000
KH-FB
KH-P
sH
DA-11
UAQ1+2
UA Q69
snapper
Grunt
emperor
seabream
Parrotfish
Mullet
Barracuda
rabbitfish
Tuna/Mackerel
***
*
**
**
*
***
*
**
***
**
*
*
**
***
*
*
***
*
*
**
**
sITe
KH-P
sH
DAII
*
***
*
*
*
***
*
*
*
*
**
*
*
**
**
*
***
6h -
*
5th
UAQ 69
*
***
**
*
*
*
*
**
***
DATe
UAQ 1+2
*
*
***
*
***
*
*
*
*
*
*
*
KH-FB
reCOVerY
sOUrCe
*
*
*
*
*
***
***
*
*
*
**
***
*
*
**
*
site H3, sabiyah, Kuwait
Abu Khamis, saudi Arabia
Dosariyah, saudi Arabia
Al Markh site J19
Late
early
mill. BC
early 4th mill. BC
5h mill. BC
4h mill. BC
4 mm
? 5 mm
? 5 mm
4 mm
BeeCH, 2004
MAsrY, 1974; BeeCH, pers. obs.
MAsrY, 1974; BeeCH, 2004
VON DeN DrIesCH & MANHArTH,
Upper levels, Bahrain
Al Markh site J19
4h mill. BC
4 mm
VON DeN
Lower levels, Bahrain
Khor site FB, Qatar
Khor site P, Qatar
shagra, Qatar
site DA11, Daima, UAe
Umm al-Qaiwain sites 1+2, UAe
Umm al-Qaiwain site 69, UAe
5h mill. BC
5h mill. BC
5h mill. BC
Late 6h- early 5th mill. BC
5h mill. BC
5h mill. BC
(some 1,5 mm)
? 3-4 mm
? 3-4 mm
? 3-4 mm
4 mm
1 mm
? 4-5 mm
DrIesCH & MANHArTH,
Desse, 1988
Desse, 1988
Desse, 1988
BeeCH, 2004
BeeCH, 2004
UerPMANN & UerPMANN, 1996
supplemento alla rivista Marittima
*
*
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LA MArINerIA NeLLA MesOPOTAMIA ANTICA
UAQ 69
H,
H,
*
*
Le lische di pesce trovate nei siti archeologici neolitici — VI-IV millenni a.C.
— del Golfo Persico danno una precisa idea dello sviluppo raggiunto dalle moderne tecniche di Paleobiologia e dalle informazioni che da esse si possono desumere se applicate all’Archeologia. Le lische di pesce dimostrano infatti come già
nel neolitico la pesca in mare fosse una pratica diffusa e dunque ciò costituisce
una testimonianza indiretta ma incontrovertibile sull’uso di imbarcazioni di canna da parte delle popolazioni locali. erano queste stesse o altre imbarcazioni a
esse simili che andavano e venivano dalle coste della Mesopotamia, da cui per
esempio importavano in larga misura ceramiche della cultura di ?Ubaid, la cui
reperibilità nei siti del Golfo è stata ampiamente dimostrata dalle campagne di
scavo che hanno anzi dimostrato come il punto di partenza di questa ceramica
fosse proprio la Mesopotamia meridionale (39). Una spiegazione plausibile a
questa considerevole mole di materiale mesopotamico fuori dalla Mesopotamia
è certamente connessa alla intraprendenza di abili mercanti di Ur specializzati
nel commercio marittimo(40) o, forse più verosimilmente, a vere e proprie ‘organizzazioni’ adibite al commercio inter-territoriale tramite nave.
Un testo risalente a circa il 2100 a.C. — Dinastia di Akkad — attualmente al
Museo di Istambul dà informazioni concrete sulla pesca di pesce in mare e sulle
importazioni in Mesopotamia
«5400 pesci di mare
2 gur e 2/5 di pesci …
di proprietà di Nin-maḫ
che si trovano nella (sua) barca.
Nin-maḫ li ha portati» (ITT I 1407).
(38) Le due tabelle – la seconda contiene la chiave per le sigle citate nella prima — sono tratte dall’articolo di M.J. Beech – e. Glover, The environmnent and economy of an Ubaid—related settlement on
Dalma Island, United Arab emirates, Paléorient 31 (2005), 97-107. Per un aggiornamento: L. Benediková - P. Barta, A Bronze Age settlement at Al-Khidr, Proc semin Arab stud 39 (2009), 43-56; W.
Chen et al., Discriminant analysis as a tool to identify catfish (Ariidae) species of the excavated archaeological otoliths, environ Biol Fish 90 (2011), 287-299.
(39) s. Méry - G. schneider, Mesopotamian Pottery Wares in eastern Arabia from the5th to the 2nd
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Appendice 3
Il ruolo del comparto navale nel commercio estero.
In epoche protostoriche come quella mesopotamica convenzionalmente indicata come Tardo Uruk — ultima parte del IV millennio a.C. —, l’idea che la rapida espansione del commercio (anche navale) sia in certo qual modo legata alla
nascita e allo sviluppo della scrittura non è sicuramente una novità (41). Già oltre dieci anni fa’ venne infatti proposta l’accattivante teoria secondo la quale il
proto-cuneiforme di Uruk (42) (ca. 3200 a.C.) sarebbe servito a suggellare transazioni commerciali tra le più varie (43), forse ancora prima di essere usato per
altri scopi: è infatti innegabile che beni e materiali chiaramente di importazione
abbiano trovato posto in modo quasi concomitante sulle tavolette di argilla —
come segni di scrittura — e nelle case degli abitanti di Uruk e delle altre città
della Mesopotamia — come beni di consumo. È quindi ipotizzabile come all’interno delle strette interconnessioni esistenti tra scrittura e commercio internazionale, la prima (= la scrittura) possa costituire quella tracciabilità visiva di relazioni commerciali tra le diverse città e paesi altrimenti non visibili.
È dunque quasi unicamente attraverso la scrittura dei documenti amministrativi dell’epoca se oggi riusciamo a risalire alle relazioni commerciali più varie,
anche se per quelle veicolate dalle carovane sulla terra ferma e per il periodo
storico che ci riguarda, la ricostruzione del traffico commerciale non può avvenire che in maniera approssimativa, basandosi per esempio sul numero di volte
che una città è menzionata nei testi trovati scavando un’altra città: è verosimile
che il volume commerciale sia infatti direttamente proporzionale all’entità delle
citazioni. Pochi altri parametri — la distanza territoriale, le affinità culturali, le
alleanze politiche — possono entrare in gioco, soprattutto nei periodi storici successivi, all’epoca cioè della crescente urbanizzazione della Mesopotamia. A differenza delle strade d’acqua, assai più numerose e veloci, le vie carovaniere su
pista si riducevano principalmente a due: quella che da sippar raggiungeva Mari
(41) Tra i pittogrammi del proto—cuneiforme di Uruk ve ne sono due o tre che raffigurano una nave –
la forma del segno varia da quella della luna crescente a quella della mezza nave —, a ulteriore significazione che tale mezzo di trasporto era conosciuto ed usato intorno al 3200 a.C.
(42) I testi di Uruk non sono tuttavia i soli documenti scritti più antichi della Mesopotamia. Tavolette
similari sono state recuperate nel contemporaneo sito di Jemdet Nasr, nella Babilonia del nord, e nei siti limitrofi di Tell Uqair e di Khafaji.
(43) r. Matthews, The emergence of Writing in the Ancient Near east, in Ph. Talon – K. van Lerberghe edd., en syrie. Aux origines de l’écriture, Brussels 1997
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e, attraverso il deserto, Qatna e la costa fenicia e quindi il Mediterraneo; e quella che, partendo ugualmente da sippar, costeggiava il Tigri fino a Ninive e poi
piegava verso Nagar e Ḫarran per arrivare al mare.
Le stesse materie prime aiutano tuttavia a identificare l’orizzonte geografico
di approvvigionamento delle merci che giungevano in Mesopotamia: il rame arrivava dall’Anatolia, lo stagno dalla Persia, l’argento dall’Armenia, l’oro dall’India e dall’egitto, il legno dal Libano, le pietre dai monti dello Zagros, le pietre dure e preziose dall’India, le perle e i gioielli in conchiglia dal Golfo. Il bronzo, scoperto verso la fine del IV millennio a.C., contribuì notevolmente come
merce privilegiata di scambio ad aumentare l’entità dei traffici commerciali,
buona parte dei quali — come già più volte detto — avveniva tramite nave lungo rotte ben stabilite che percorrevano in lungo e in largo il Mare Mediterraneo
(egitto ⇔ Costa siro-Cananea; Cilicia ⇔ Costa della siria del Nord; Costa siro-Cananea ⇔ Cipro ⇔ egitto; egeo ⇔ Costa siro-Cananea; egeo ⇔ egitto).
Come si può ben immaginare, le navi da trasporto anche allora erano soggette
ai naufragi e i dati che derivano da uno dei naufragi meglio studiati, quello di
una nave cananea avvenuto (ca. 1316 a.C.) a Ulu Burun presso Kafl sulla costa
Il Mediterraneo orientale nel periodo dell’età del Bronzo.
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sud occidentale della Turchia — scoperta nel 1982 e recuperata nel corso di una
decennale (1984-1994) e sofisticata campagna di archeologia marina condotta
dal Institute of Nautical Archaeology —, sembrano confermare il ruolo preponderante che le marine commerciali dell’epoca avevano in tutto il bacino del Mediterraneo orientale (44). Il cargo in questione misurava circa 15 metri di lunghezza e poteva trasportare fino a venti tonnellate di merci. La navigazione a
lungo raggio è altresì dimostrata dal notevole sistema di ancoraggio a bordo: 24
ancore in pietra di peso variabile tra i 120 e i 210 kili.
sono state comunque le merci trasportate ad aver da subito attirato l’attenzione degli studiosi per via dell’ampio ventaglio di paesi rappresentati e dunque per
l’importanza che il relitto di Ulu Burun mostrava di avere nell’ambito degli studi
sul commercio navale antico: tra di esse sono infatti rappresentati beni provenienti da quasi tutte le realtà territoriali allora conosciute. Il legno di cedro con
cui era fatto lo scafo proveniva dal Libano e anche la sua forma farebbe pensare a cantieri navali cananei, in quel tempo all’avanguardia. Ugualmente cananee
erano le 149 anfore di magazzinaggio: molte contenevano resina di terebinto,
usata nella profumeria, mentre le dieci tonnellate di rame che erano stivate a
bordo sotto forma di lingotti provenivano da Cipro. L’ulteriore tonnellata di stagno rinvenuta, anch’essa in lingotti, proveniva sicuramente dalla Turchia, punto
di transito per questo minerale che vi giungeva dal vicino Afghanistan. Quanto
ai beni di lusso trasportati, l’ebano veniva dall’alto egitto, l’avorio — sia da
zanne di elefante che da denti di ippopotamo — ancora dall’egitto dove giungeva dalle zone interne dell’Africa, i manufatti di oreficeria micenea dall’egeo. I
pesi in pietra recuperati sulla nave, oltre a costituire l’unità di misura ponderale,
denotano una sofisticata imprenditoria commerciale in cui certamente si voleva
identificare il mercante proprietario del cargo e al tempo stesso riflettono il sistema di misura siro-palestinese allora in vigore in quella parte di Mediterraneo.
La parola sumerica má, «nave», deve ancora essere pubblicata all’interno del
Pennsylvania sumerian Dictionary ma si sa già che conterrà oltre mille rimandi.
(44) Il Metropolitan Museum of Art nel suo sito Web offre un istruttivo gioco interattivo, partendo proprio dal più antico naufragio conosciuto, quello della nave cananea ad Ulu Burun. Il gioco, che si trova
associato ad un video dell’INA (Institute of Nautical Archaeology, T&AUniversity, Texas) sul ritrovamento del relitto, si chiama ‘shipwreck: An Ancient sea Trade Game’ e si raggiunge dal sito internet
www.metmuseum.org/explore/shipwreck/index.html
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Appendice 4
Una battaglia navale nel Mediterraneo Orientale
Il tempio funerario di ramses III costruito a Medinet Habu presso Tebe nell’Alto egitto è tra i più noti monumenti dell’arte egizia. Ciò anche per il vivace
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racconto che viene fatto — attraverso i rilievi posti su una delle sue pareti — della più famosa battaglia navale dell’antichità preclassica (ca. 1176 a.C. — ottavo
anno di regno di ramses III) con lo scopo di arginare l’ondata di morte e distruzione determinata in tutto il Mediterraneo Orientale dall’invasione di una coalizione di poche popolazioni, per lo più originarie dell’egeo (anche se non mancano genti cananee e dunque navi cananee) e prevalentemente marinare, comunemente indicata con il nome a essa dato dagli studiosi moderni di Popoli del Mare.
Le tecnologie che queste popolazioni esportarono nel corso del loro veloce e distruttivo raid a partire dalle coste dell’Anatolia per giungere fino all’egitto portarono tuttavia un indubbio contributo alle culture locali: non soltanto infatti conoscevano e usavano un particolare tipo di tecnica nello squadro dei blocchi di pietra che risultò in molti casi migliorativa rispetto a quella fino ad allora impiegata,
ma avendo una grande dimestichezza con il mezzo navale — una lettera scritta
dalla corte ḫittita chiede informazioni su questa gente «che abita sulle navi» —,
usavano tecniche di navigazione alternative che consentivano loro di evitare l’uso
dei remi. Le immagini che il tempio di Medinet Habu offre delle navi dei Popoli
del Mare le mostra infatti prive di remi, anche se il modo da essi preferito di attacco — colpire e fuggire — implica un uso veloce del mezzo navale, indipendente quindi dalle condizioni del vento.
Anche se l’impatto dei Popoli del Mare e il decisivo contributo da loro dato al
precario equilibrio con cui si stava gestendo la crisi del Tardo Bronzo — che difatti dopo poco collassò — non riguarda il tema di questo studio, si è voluto comuque ugualmente darne conto, pur in appendice, per due motivi principali: il
primo è determinato dalla particolare tipologia delle scorribande di queste popolazioni che possono sovrapporsi a quelle dei pirati che anche nell’epoca mesopotamica usarono la stessa tecnica di attacco, almeno a giudicare dai pochi accenni a cui i testi della Mesopotamia fanno riferimento e che in piccola parte si è
avuto modo di leggere. Il secondo motivo è che la presenza dei Popoli del Mare
figura anche nei testi cuneiformi akkadici, oltre che nelle iscrizioni dell’antico
egitto, e anche se può essere considerato come un Akkadico periferico, essendo
quello di Ugarit o della corte ḫittita o di Cipro, è comunque — almeno linguisticamente — associabile con la Mesopotamia.
Prima duqnue che venisse combattuta la battaglia navale di cui parla il tempio di Medinet Habu, tutto il bacino orinetale del Mediterraneo era in allarme:
una lettera trovata a Ugarit (XIV sec. A.C.) e risalente all’ultimo periodo prima
della sua distruzione a opera dei Popoli del Mare, riferisce di alcuni timori del
governatore di Cipro
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«Così dice ešuwara, il capo governatore di Cipro. Al re di Ugarit, dì: Che
tu e il tuo paese possiate stare bene! Per ciò che riguarda questi nemici: è la
gente del tuo paese e le tue navi che hanno avuto (danni) da questa situazione. Le venti navi nemiche non sono alla fonda ma si muovono velocemente e dove siano stazionate io non lo so» (45).
Gli avvenimenti precipitano, le città costiere vengono assalite e date alle
fiamme, l’imminenza di una fine si prospetta sempre più vicina. È ancora una
lettera da Cipro indirizzata alla corte di Ugarit e negli archivi di Ugarit trovata,
a tenerci informati sugli ultimi sviluppi
«Così dice il re (di Cipro): Ad Ammurapi, re di Ugarit, dì: Possa tu stare
bene e possano gli dèi darti buona salute! riguardo a quanto mi hai scritto:
‘sono state avvistate navi nemiche nel mare’, se è vero che sono state avvistate (tali) navi, allora più agguerrito possibile: Dove stazionano le tue truppe e i tuoi carri? Non sono con te? se non lo sono, chi ti salverà dalle forze
nemiche? Circonda di mura le tue città: fa entrare truppe e carri. Poi aspetta il nemico in piena forza!»(46)
La risposta non si fa attendere e il carteggio aumenta di volume. È il re di
Ugarit a scrivere questa volta al suo corrispettivo di Cipro: sono gli ultimi giorni
prima della caduta di Ugarit
«Al re di Cipro, mio signore, dì: così parla il re di Ugarit … ecco che stanno arrivando le navi nemiche e con il fuoco distruggono le mie città. Cose
mai viste hanno fatto nel paese! Forse non sapevi che le mie truppe stazionano nel paese ḫittita e che le mie navi sono in Licia: non sono ancora arrivate e il paese è perduto! Il convoglio di sette navi che si è appena avvicinato ci ha dato molto fastidio!» (47)
(45) La lettera (rs 20.18) è stata pubblicata nel 1968 in Ugaritica V e il suo studio ripreso da G. steiner, schiffe von Ahhijawa oder Krieg—schiffe von Amurru im Šaušgamuwa—Vertrag, Ugarit—Forschungen 21 (1989) 393—411.
(46) Anche questa lettera (rs L 1) appartiene all’archivio pubblicato nel volume Ugaritica V. si veda
anche e. Linder, The Maritime Texts of Ugarit: A study of Late Bronze Age shipping (Tesi non pubblicata, Brandeis University 1970) 69—72.
(47) rs 20.238 è la sigla con cui questa tavoletta, anch’essa in Akkadico, è stata pubblicata in Ugaritica V. su questo testo, ancora e. Linder, The Maritime Texts of Ugarit: A study of Late Bronze Age
shipping (Tesi non pubblicata, Brandeis University 1970) 58—62.
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LA MArINerIA NeLLA MesOPOTAMIA ANTICA
BIBLIOGrAFIA
Gli studi sulla ‘Marineria’ antica hanno recentemente avuto un rinnovato vigore, anche se va riconosciuto che questo argomento costituisce tuttora la minima parte della vastissima produzione scientifica che mese dopo mese incrementa
considerevolmente il volume della letteratura sul Vicino Oriente antico.
La nascita di database come Tropis pubblicato sul sito www.underwaterarchaeology.gr o di riviste scientifiche specializzate come International Journal of
Nautical Archaeology, organo della Nautical Archaeology society (sul Web:
www.nauticalarchaeologysociety.org) insieme all’attenzione che alcuni Istituti di
ricerca — come la britannica society of Nautical research (sul Web:
www.snr.org.uk), che pubblica il trimestrale Mariners’ Mirror, o il Centre of
Maritime Archaeology dell’Università di Oxford (sul Web: www.ocma.ox.ac.uk)
o come l’americano Institute of Nautical Archaeology (= INA) della Texas
A&M University (TAMU, sul Web: nautarch.tamu.edu) — iniziano a rivolgere a
questo argomento sta gradualmente migliorando lo stato dell’arte. Quanto segue
è solo un ulteriore aiuto dato al lettore che volesse ampliare le proprie conoscenze in merito, anche se logicamente l’elenco offerto è lontano dal volersi considerare completo. Allo scopo comunque di aumentare la sua utilità, sono state inserite anche bibliografie relative ad altri comparti marinareschi del Vicino Oriente
(es. l’egitto o il mondo egeo-miceneo) anche se naturalmente esulano dalla presente trattazione. Le abbreviazioni — soprattutto per le riviste — seguono in genere l’elenco pubblicato in American Journal of Archaeology 95 (1991) 4-16.
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LA MArINerIA NeLLA MesOPOTAMIA ANTICA
L’Autore
Massimo Baldacci insegna sia in Italia (Università di roma e L’Aquila) che
all’estero (Università di stuttgart - Germania). È autore di oltre 180 pubblicazioni scientifiche su riviste specialistiche edite sia in Italia che all’estero. Come
saggista ha pubblicato con le maggiori case editrici italiane: storia di Ugarit.
Una città stato ai primordi della Bibbia, Piemme 1996; Il libro dei morti dell’antica Ugarit, Piemme 1998; Il Diluvio, Mondadori 1999 (2a ed. Oscar Mondadori
2000); Prima della Bibbia: sulle tracce della religione arcaica del Proto-Israele,
Mondadori 2001 (2a edizione 2003); Il male antico, san Paolo edizioni 2008.
Ottobre 2011
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