LA SICILIA
VENERDÌ 21 OTTOBRE 2016
cultura
ASTERISCHI
l
&
s
ife
tyle
Mio figlio
nel vocio
della sera
e il mio groppo
Sarà per sempre così, mi dice lo specialista. E
anche peggio, leggo nei suoi occhi che mi
guardano e sfuggono subito dopo. Noi due
sappiamo tutto. Io in maniera nebulosa, immagino senza precisioni, sento dentro il tutto che avverrà.
Mio figlio al telefono mi dice di pensare
una cosa alla volta, mentre il treno sferraglia
sotto e sopra la città e sento gli altri parlare
al cellulare e chissà se avranno una mamma
così. Però sorridiamo molto noi due, ci diciamo le cose che non si dovrebbero dire in
L’opera. Come si è formato il personaggio della principessa nel capolavoro di Puccini, figura che calza a pennello sulla vita
della baronessa Amalia Fiorio di cui si innamorò Renato Simoni, inviato in Cina e Giappone per il “Corriere della sera”,
autore del libretto con il paroliere Giuseppe Adami. Lui le chiese di sposarlo, lei rimase nelle sue fredde stanze, cinta di gelo
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maniera leggera e lui parla parla e io alla fine
sono stanca e lui mi spiega e penso che è
come avere solo lui nella mia vita. Mi saluta
alla fine, veloce, e ci lasciamo. Lui con la città
e il vocio della sera che finisce che mi giunge
intatto, io con la mia stanza e il letto e i libri
e il futuro di noi due. E il groppo, certo, il
groppo. Avrà fatto la spesa, dopo, sbattuto lo
zaino sulla scrivania, abbassato la serranda
sulla piazza famosa, steso il bucato, acceso il
pc. Vorrei mi dimenticasse.
LETIZIA DIMARTINO
IL SAGGIO
DI BOGGIONE
Da Clizia
a Morgante
nelle parole
metafore
e comicità
ANDREA BISICCHIA
Una scena della
Turandot di
Puccini messa in
scena al Teatro
Bellini di Catania
La Turandot milanese
Il dotto francese François
Pétis de la Croix scrisse una
serie di novelle storiche
basate sulle tradizioni
novellistiche del Medio
Oriente. Fu letto dal conte
Gozzi che ne tirò fuori la
storia di Turandotte
SERGIO SCIACCA
T
urandot era una baronessa milanese, viveva in Argentina e aveva tre figli: non è la pazza fantasia di un cercatore di scoop, ma la
assoluta realtà, alla quale si può aggiungere che il suo innamorato (quello che
nell’opera canta “Tu pure o principessa
nella tua fredda stanza…”) era un giornalista di Verona, caporedattore del
Corriere della Sera, autore di commedie
dialettali e ammiratore del siciliano recitato dal nostro Angelo Musco, di quello veneto scritto dall’illustre prof. universitario Arnaldo Fraccaroli. Tutto as-
solutamente vero. Si pretende che Turandot sia principessa di Pechino, pur avendo un nome persiano (Turan- Dokht
significa “figlia del Turchestan), e centro-asiatici -non cinesi- sono i nomi degli altri personaggi: Calaf, Timur. Suonano di cinese solo il nome di Liù, fedele
serva del padre di Calaf, e dei tre dignitari Ping. Pong, Pang che sembrano desunti da un semplice gioco di vocali.
Quanto ci può essere di vero in una favola qui non è affatto cinese, ma turcomanno, ambientato a Samarcanda, dove vanno benissimo i nomi turcomanni.
E chi ce lo dice? La fonte, attendibilissima di tutta questa avventurosa vicenda. Il dotto francese François Pétis de la
Croix (1653-1713) che a differenza di
tutti quelli finora citati sapeva perfettamente sia l’arabo che il turco e il persiano, rappresentò gli interessi del re Luigi
XIV contro i predoni di Tripoli in Libia: li
capiva benissimo e fece loro sganciare
600mila franchi a favore del fisco francese come pena per le loro malefatte. Il
Re Sole fu tanto entusiasta che lo nominò prof. di lingue orientali. Disse di avere trovato un manoscritto persiano intitolato Mille e un giorno (che nessuno
ha mai visto); ma certamente attinse alle tradizioni storiche o novellistiche
che abbondano nella copiosa letteratu-
LA STORIA
Nel 1710 lo studioso
François Pétis de la
Croix pubblicò una
raccolta di favole “Les
mille et un jours”, che
hanno per cornice la
storia di una giovane
principessa che
comincia ad aborrire il
genere maschile,
perché lo considera
incostante negli
affetti, ingrato e
traditore. Di questi
racconti fa parte
anche la “Storia del
principe Calaf e della
principessa della Cina”
in cui compare
Tourandocte.
ra del Medio Oriente. Il suo libro andò a
ruba e lo lesse a Venezia il conte Gozzi
che ne tirò fuori la storia di Turandotte,
dove i dignitari di Pechino erano, allegramente Tartaglia (=balbuziente) e
Brighella (attaccabrighe) e Truffaldino.
E la Turandot milanese? Partiamo dal
suo innamorato, che era Renato Simoni (1875-1952) veronese di talento
che dall’Adige sbarcò al Corriere della
Sera distinguendosi subito per ingegno e laboriosità. Scriveva sempre, viveva in redazione (mangiava anche
lì), rimase sempre scapolo. Fu mandato come inviato in Cina e Giappone (e
ne dette conto nell’inserto letterario
del Corriere) non limitandosi ad ascoltare quel che gli dicevano, ma cercando anche di capire da solo. Ebbe
qualche infarinatura di cinese come
dimostrano gli inserti sparsi nel suo libro di memorie edito nel 1920 e di cui
hanno riflessi anche nel libretto della
Turandot da lui scritto per Puccini assieme al paroliere Giuseppe Adami.
Chiaramente sono suoi i riferimenti
precisi alla provincia dello Hunan
(che lui fa diventare Honan), alla sua
capitale Xiang (che lui fa diventare Tsiang), al tempio sul monte che lui trascrive Deng Miao (mentre oggi si scrive Dong Miao). E la Turandot che vive-
va in Argentina? Eccoci. Dal Giappone
passò in America e in Argentina conobbe la baronessa Amalia Fiorio, poco più anziana di lui, moglie del suo amico ingegnere Rezzara, madre felice
di tre figli. La signora Amalia venne a
Milano per educare in patria i figli.
L’ingegnere morì. Il capo redattore innamorato fin dal primo giorno che la
vide, dopo qualche tempo, le chiese
con garbo di sposarlo. Quella gli oppose un cortese rifiuto. Restarono buoni
amici. Fin a quando entrambi divennero vecchi. Il loro amore rimase sempre platonico. Pranzavano assieme
(con i figli e i nipoti di lei) nelle grandi
feste; lui sorvegliava l’educazione
morale dei “quasi suoi figli”. Lei rimase nelle sue fredde stanze, cinta di gelo. Il vero Calaf era Simoni, che tra l’altro scrisse una commedia (in dialetto
veneto) intitolata “La vedova” e la dedicò alla donna del suo cuore; come
Leopardi a Silvia o Dante a Beatrice.
Ma il canto d’amore che le note pucciniane resero sublime, era il suo. Amore tanto spirituale che non cambiò
mai per le circostanze della vita. E così
la strampalata storia orientale cucita
dal poliglotta del Re Sole diventava
vera sotto il cielo di Milano dove Renato si spense nel 1952.
SCRITTI
DI IERI
Sunniti e sciiti nella mappa del Medio Oriente
Per mettere fine a
queste guerre di
religione bisognerà
ridisegnare una
nuova carta
geografica con
popolazioni
omogenee
TONY ZERMO
C
ambierà presto la mappa del
Medio Oriente, appena le opposte fazioni ne avranno abbastanza di versare sangue.
Scrive Angelo Panebianco sul “Corriere della sera” che «occorre che si ridefiniscano i confini per far nascere
nuovi Stati al posto di quelli ormai finiti, disegnati dalle potenze occidentali nel XX secolo. Mentre Assad e i
suoi alleati russi distruggono Aleppo
e contemporaneamente nel nord
dell’Iraq è in corso una cruciale battaglia per strappare Mosul al cosiddetto Stato islamico, e mentre per soprappiù le due grandi potenze, Stati
Uniti e Russia, sono impegnate nel
più pericoloso duello che si ricordi
dopo la crisi dei missili a Cuba del
1962, non è ancora giunto il tempo evidentemente. Ma ormai tutti sono
convinti che non c’è nessuna speranza di pacificare il Medio Oriente se
non si mette da parte la pericolosa illusione di poter utilizzare la vecchia
carta geografica in cui figuravano entità statali denominate “Siria”, “Iraq”,
“Yemen”, forse anche “Libia”». E a
questo punto l’articolista si chiede:
perché è nato lo Stato islamico, Isis o
Daesh? La risposta ufficiale è perché
ha goduto dell’appoggio di altri Stati
dell’area. Ma è una risposta solo parziale. «La principale ragione è che i
sunniti ex iracheni non vogliono essere dominati da una maggioranza
sciita (come accadrebbe se il vecchio
Iraq venisse ricostituito) e i sunniti ex
siriani non vogliono tornare sotto il
tallone della minoranza alawita (la
PROFUGHI IN SIRIA
Siria di Assad). «Lo Stato islamico verrà rapidamente sconfitto nel momento in cui ai sunniti di Iraq e di Siria
sarà consentito di dare vita ad uno
Stato sunnita unificato».
Poi c’è la questione dei curdi, il popolo senza terra. Sono i peshmerga
curdi, uomini e donne, quelli che affrontano l’Isis a Mosul e lo fanno affinché dopo possano avere finalmente lo Stato che chiedono dalla caduta
dell’impero ottomano. Ma qui la questione ci complica ancora di più perché l’inaffidabile turco Erdogan massacra da sempre i curdi non volendo
cedere pezzi di territorio e ha inviato
in Siria le sue truppe nella speranza di
allargare i suoi confini. A questo punto, dopo il mancato golpe, bisognerebbe sbarazzarsi anche di lui, un player micidiale in quello scacchiere.
I
l teatro italiano dimentica, spesso, i
suoi autori classici. Delle commedie
di Machiavelli si ricordano due belle edizioni che risalgono agli anni
Settanta e che portavano la firma di Roberto Guicciardini, entrambe alternavano il rigore filologico con qualità stilistico formali non indifferenti. Altre edizioni, puntando alla superficie, hanno
avuto meno storia. Chi volesse oggi ritornare su “La Mandragola” e “La Clizia”
non potrebbe fare a meno dello studio
approfondito di Valter Boggione: “Le
parole amorose: Mandragola, Clizia,
Morgante”, Marsilio editore, dal quale
potrebbe ricavare decine di spunti per
eventuali messinscene. Ristudiando le
due commedie, l’autore sostiene una
tesi ovvero che la comicità contenuta
nelle due opere, vada ricercata, non nelle situazione né nell’intreccio, bensì
nelle parole, quelle sciocche, quelle ingiuriose, quelle amorose, la cui potenza
appartiene, però, alla gergalità, ricca di
controsensi e di metafore che sono il
fondamento stesso della scrittura comica, grazie alle quali, vengono evitate
le oscenità, perché ovattate dall’uso che
si riesce a farne. A questa tesi, Boggione
fa seguire quella dei rapporti che esistono tra l’opera teatrale del Machiavelli
con la tradizione novellistica, carnascialesca e burchiellesca, ma anche con
la classicità, attraverso Plauto e Terenzio, del quale, il segretario fiorentino aveva tradotto “L’Andria”, e ancora con
“L’Ars poetica” di Orazio, con i cui versi
riveste i Prologhi, oltre che le Canzoni e
gli Intermezzi, vere e proprie dichiarazioni di poetica, intrise di quel tanto di
epicureismo tanto caro a Lorenzo dei
Medici e alla città di Firenze. “Giovare”e
“Dilettare” è il motto di Orazio, ebbene
non c’è di meglio per vivere senza affanni e senza inganni a cui l’umanità sembra destinata.
Gli inganni a cui ricorre Machiavelli
sono quelli tipici della commedia
classica, essendo costruiti sull’avarizia dei vecchi, sul furore degli innamorati, sulla miseria dei servi, sulle
lusinghe delle meretrici, sulla poca fede degli esseri umani. Di questi inganni sono protagonisti giovani parassiti,
fraudolenti, puttane, innamorati. Sia
gli inganni che i caratteri hanno come
fine la comicità e il diletto che, a loro
volta, sono generati dalla doppiezza
della scrittura che, per un bravo regista, dovrebbe trasformarsi in scrittura
scenica non certo convenzionale. Le
tematiche presenti nelle due commedie, pur costruite sull’amore senile e
giovanile, sulla bisessualità, sull’eros
come motore dell’azione, non escludono le letture allegoriche, né quelle
politiche, tanto che molti esegeti, tra i
quali lo stesso Boggione, fanno spesso
riferimento all’autobiografismo del
Machiavelli, la cui insoddisfazione è
presente nella Mandragola, o escluso
dalla vita amorosa, perché ritenuto
vecchio (aveva 46 anni) quando si innamorò di Barbara Salutati, la nota
cantante della Clizia. Non credo all’autobiografismo, in questo secondo
caso, dato che Nicomaco, nella commedia ha settant’anni ed è atrocemente beffato, oltre che svergognato.
La vergogna a cui allude l’autore va estesa alla società del suo tempo che viveva una specie di miracolo economico, interrotto dall’arrivo di Carlo VIII,
tanto che La Mandragola può considerarsi il riflesso di quel miracolo, mentre Clizia, il riflesso della crisi. Un breve capitolo è dedicato al Morgante e
alle parole amorose del poema corrosivo del Pulci.