VALENTINA VALENTINI L’oggetto-attore. imballaggi, happening, povertà Non penso che il MANICHINO (o la FIGURA DI CERA) possa sostituire l’ATTORE VIVO, come avrebbe voluto Kleist e Craig, sarebbe troppo facile e ingenuo. Cerco di definire i motivi e la destinazione di questa insolita entità, apparsa d’un tratto nei miei pensieri o nelle mie idee. La sua apparizione coincide con la mia sempre più profonda convinzione che la vita non può essere espressa nell’arte che attraverso la mancanza della vita, attraverso il ricorso alla MORTE, attraverso le APPARENZE, il VUOTO e l’assenza di COMUNICAZIONE1. Nel capitolo Interesse per il corpo, ne La dialettica dell’illuminismo (1966)2, Horkheimer e Adorno, assumono il corpo come soggetto rimosso dalla storia della civiltà. Alla luce dell’esperienza del nazismo in Europa e della società capitalistica negli Stati Uniti, i due filosofi osservano che l’uomo si degrada a corpus, assume la dimensione di “oggetto”, da cui scaturisce l’impulso di morte e di distruzione. La riduzione del corpo vivente –Leib– in Körper, corpocadavere e natura materiale, non è più risarcibile. Separato dallo spirito, è oggetto, cosa morta, corpus… «così come la natura vivente è reificata, ridotta a materia in cui si perde la distinzione fra intero e parcellizzato, il tutto e la parte»3. Sarebbe interessante ripercorrere la storia che, partendo dalla marionetta di Kleist, attraversando la visione brechtiana e mülleriana di un corpo-macchina4, ricostruisca il processo di deindividualizzazione che ha attraversato il teatro del novecento in un doppio percorso, che porta alla spiritualità e al ready-made. Questo saggio si interroga su come si configurano corpo e oggetto nella produzione teatrale e plastica di Tadeusz Kantor. Se l’attore come l’evento scenico ha durata effimera, l’oggetto invece permane, e può avere una vita autonoma, oltre la sua funzione di oggetto di scena, non come mero residuo dello spettacolo. Nel caso in esame, il suo statuto è quello dell’opera d’arte, come Kantor ribadisce nella Lettera alle Autorità, in cui chiede una perizia legale «che riconosca quegli oggetti come opere d’arte e definisca il loro prezzo, garantendo e assicurando in tal modo che vengano sottoposti alla salvaguardia e alla conservazione museale»5. La questione del binomio corpo-oggetto è un nodo centrale dell’estetica kantoriana ed è stata sviscerata dall’artista stesso oltre che dagli studiosi della sua opera. La produzione scritta di Kantor è rilevante, non solo perché corre in parallelo e getta luce sulla sua produzione teatrale e plastica, ma in quanto opera letteraria che affascina il lettore con la potenza del suo linguaggio e delle sue immagini. Tant’è che chi si accinge a analizzare la T. Kantor, Dal Taccuino [1975], in V. Fagone (a cura di), Oggetti e Macchine del Teatro di Tadeusz Kantor, Museo Internazionale della Marionetta, Palermo 1987, p. 24. 2 M. Horkeimer e T. Adorno, Interesse per il corpo, in Id., Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1966. 3 Ivi, pp. 249-50. 4 H. Müller, Verkommens ufer Medeamaterial landschaft mit Argonaute, tr. it, Riva abbandonata. Materiale per Medea e Paesaggio con astronauti, in Ead.,Germania morte a Berlino e altri testi, Ubulibri, Milano 1984. 5 T. Kantor, Lettera alle autorità, in V. Fagone (a cura di), Oggetti e macchine del teatro di Tadeusz Kantor, cit., p. 21. 1 1 prima, corre il rischio di ri-flettersi/specchiarsi nella seconda e di comporre un florilègio estratto dai suoi meravigliosi testi, piuttosto che uno studio storico-critico-teorico. Il motivo che ci stimola a riprendere la diade corpo-oggetto è il tentare di andare aldilà delle genealogie e delle classificazione delle tipologie di oggetti costruiti e utilizzati da Kantor, tanto nei suoi spettacoli che nelle sue esposizioni d’arte, che ha prodotto una variegata nomenclatura: macchine d’invenzione, oggetti-immagine, emballages scenici, oggetti poveri, bio-oggetti, opera macchina, ready-made6. Noi proponiamo di costituire come campo di indagine l’oggetto-attore, ovvero trattare il binomio corpo e oggetto come una entità dotata di due poli differenti e transitivi, nel senso che qualità dell’uno passano nell’altro e viceversa. L’oggetto-attore e l’attore-oggetto come dispositivo intermedio, codificato reciprocamente dal movimento (opere macchine) e dalla stasi (emballages), dal vivente e dall’inerte e che acquista movimento e stasi in modo transitivo e interscambiabile. Si tratta di costituire, innanzitutto, la fondatezza di tale costrutto, che non disgiunge l’attore dall’oggetto; successivamente, occorrerà individuare i tratti che transitano dall’uno e all’altro. Noi ci limitiamo a svolgere il primo punto. Si tratta di mettere a fuoco la natura ambivalente di una polarità che coniuga e trapassa dall’organismo all’oggetto e dall’oggetto all’organismo, declinandosi in figure polimorfe, senza fissare i tratti dell’organicità nell’attore e quelli dell’inorganico nell’oggetto: la connotazione di attante o dramatis personae investe entrambi. Infatti, nel teatro di Tadeusz Kantor, il costume fa tutt’uno con il corpo, non è il suo rivestimento; gli emballages rendono indiscernibili il dentro e il fuori; i manichini messi in movimento dagli attori, costituiscono un continuum nello spazio-tempo dello spettacolo. Tale transitività fra organico e inorganico, corpo e oggetto, trova una rispondenza nelle tendenze artistiche internazionali a cui Kantor ha partecipato in modo singolare, anche se la vastità dei riferimenti meriterebbe una trattazione molto più ampia. L’oggetto-attore Sulla scena degli spettacoli di Tadeusz Kantor vaga un’umanità ferita, mutilata, deforme, sopravvissuta ai campi di concentramento nazisti, alle guerre, allo stalinismo. Nel suo teatro l’azione scaturisce da situazioni emozionali primarie: paura, vergogna, sofferenza, aggressività; stati patologici come le malattie, la vecchiaia, la morte; fatti veri –in Crepino gli artisti (1985) viene data lettura della lettera con cui Mejerchol’d chiedeva la grazia a Stalin– luoghi reali: non casi particolari, borghesi, privati, ma universali e collettivi. Non è vero che Kantor condivideva le idee di Craig e Moholy Nagy di una scena priva di essere viventi: Kantor ha rielaborato le idee di Craig, come di Schlemmer e Moholy Nagy, in una direzione che è quella della reciprocità fra vivente e inerte, fra manichino e attore, per cui l’attore ha assunto le sembianze del manichino e viceversa. Nella concezione di Schlemmer del palcoscenico visuale assoluto, la figura umana è bandita perché disturberebbe, come organismo, l’ordine meccanico della scena visuale fatta di forma, colore, spazio e architettura7. L’oggetto-attore di Kantor è vicino ai corpi-scultura di Laszlo Moholy-Nagy, deformati dai costumi, dalle maschere, dai colori, in direzione spersonalizzante. Inoltre il ricorso all’automa e alla marionetta per Kantor non è finalizzato Non è il caso di riportare l’amplia bibliografia su questo tema, ci limitiamo a segnalare due volumi recenti: M. Kobialka, Further On, Nothing. Tadeusz Kantor’s Theatre, University of Minnesota Press, Minneapolis 2009, e R. Palazzi, Kantor, la materia e l’anima, Titivillus, Pisa 2010. Sarebbe interessante analizzare la funzione “memoriale” dell’oggetto-attore di Kantor in relazione ad altri autori, come il regista lettone Alvis Hermanis, o al romanzo Il Museo dell’innocenza di Orhan Pamuk, in cui si racconta di un amore impossibile surrogato dalla presenza di oggetti appartenuti alla persona amata. 7 Cfr. O. Schlemmer, Uomo e Figura artistica, in Id., Il teatro del Bauhaus, Einaudi, Torino 1975, pp. 2-21. 6 2 al superamento dei limiti e delle posture naturali del corpo, in direzione della leggerezza acrobatica e ancor meno in una prospettiva spirituale. Nelle prime figurazioni della sua idea di attore-oggetto –lo spettacolo Balladyna (1942), una favola romantica, i corpi degli attori sono trasformati con elementi geometrici applicati in modo da cancellare i tratti umani e assimilare l’attore a una scultura, un elemento plastico e cromatico, dadaista, con tante facce, somigliante a una marionetta. Il concetto di oggettoattore risale a questo spettacolo, motivato dall’istanza (costruttivista e craighiana) di plasmare il corpo vivente dell’attore secondo una forma e viceversa di attribuire la forma vivente dell’attore alla materia, alla sculture. Infatti scrive Kantor, il suo oggetto-attore «Non è un monumento-scultura riempiente soltanto dello spazio»8. In Balladyna, troviamo l’Eremita, un personaggio racchiuso in: una grande cassa grigia di tela, come una bara,/immobile, dentro: un uomo chiuso, da un lato/spunta una viva, mobile MANO,/una maschera con appena delineata l’anatomia del viso…/niente della convenzionale santità dell’eremita/(una) CASSA normale!9 Eliminare la psicologia, l’illusione, l’immedesimazione e riportare l’azione drammatica alle figure geometriche, ai colori, al cerchio, al movimento, queste istanze sono dispositivi costruttivi del teatro di Kantor, sin dai primi spettacoli10. Ne La piccola dimora di Witkiewicz (1961, Teatro Cricot 2), a venti anni di distanza, nella scena del suo teatro è all’opera il metodo del teatro informale dove si imponevano forme decostruttive, fluide, cangianti: Gli attori, oppressi nello spazio stretto e assurdo/dell’armadio/ammucchiati, mescolati a degli oggetti senza vita/(dei sacchi, una massa di sacchi)/con le loro individualità e dignità degradate/pendono inerti come degli abiti/s’identificano con la massa pesante dei sacchi,/(i sacchi; imballaggio che occupa il gradino più basso nella gerarchia degli oggetti e che diventano quindi una materia non oggettivizzabile)11. Anche con il teatro informale l’obbiettivo è modellare la figura umana come una massa plastica, bloccare il movimento, i gesti, le azioni, la mobilità del volto. In questi anni Kantor, dopo il soggiorno di alcuni mesi a New York e in California, realizza alcuni happening fra i quali ricordiamo: Cricotage (1965 a Varsavia, galleria Foksal), Linea di divisione (1966, a Cracovia), Il grande Imballaggio (1966, a Basilea), Lezione di anatomia secondo Rembrandt (1968, alla Kunsthalle di Norimberga). In questi happening avvengono degli “imballaggi umani”, ovvero, nei termini in cui l’operazione viene descritta da Kantor, Imballaggio con un “interno vivente”, umano. Ho compiuto più volte l’atto di imballare./Maria Stangret partecipa sempre. È già un puro rituale liberato da/ogni simbologia, un atto puro, fatto con ostentazione12. Si tratta di un testo scritto da Kantor dopo il 1942, qualche anno dopo l’allestimento dello spettacolo Balladyna (testo di Julius Slowacki) classificato, dalla Cricoteca, nel repertorio del Teatro Clandestino Indipendente 1942-1945. La traduzione di questo testo è di Malgorzata Misiuda, nella sua tesi di laurea, Il teatro Clandestino di Tadeusz Kantor 1942-1945, relatore prof. Valentina Valentini, Università degli Studi della Calabria, aa. 1999-2000, p. 75. 9 Ivi, p. 76. 10 «Si tratta di una REIFICAZIONE della sfera psichica, emozionale, interiore. Purgata dallo psicologismo della recitazione, da questa leziosità insopportabile. Ciò significa creare situazioni artificiali. Non reali, scioccanti, impossibili, spesso da circo, vicine a simboli. E anche creare oggetti sconosciuti, misteriosi, enigmatici. Tuttavia sempre oggetti». T. Kantor, Wielopole/Wielopole, Ubulibri, Milano 1981, p. 177. 11 Tadeusz. Kantor, Il teatro informale [1961], in D. Bablet (a cura di), Tadeusz Kantor. Il teatro della morte, Ubulibri, Milano 1979-2000, p. 58. 12 Tadeusz Kantor, Imballaggio Umano, in D. Bablet (a cura di) Tadeusz Kantor. Il teatro della morte, cit., p. 81. Cfr. Manifesto degli imballaggi (1962): «IMBALLAGGIO/quando si desidera preservare,/ fare in modo che qualcosa 8 3 L’azione di racchiudere un corpo ha il suo corrispettivo simmetrico e opposto nell’azione di disimballaggio, (Norimberga, 1968) dove Kantor munito di forbici, coltelli, forchette, riduce a brandelli i vestiti di un uomo grasso seduto in un caffè e intento a mangiare con gusto13. Con gli Emballages, contemporanei alle Antropometrie di Yves Klein, Kantor partecipa alle cerimonie di magnificazione della materia e narcotizzazione dell’umano14. In questi stessi anni gli artisti nordamericani Oldenburg, Dine, Kaprow, Whitman realizzarno numerosi happening, declinazione della scultura in direzione di «un trattamento sovra o im-personale delle persone. È frequente che si dia agli esseri umani che partecipavano all’Happening» scrive Susan Sontag in Contro l’interpretazione, «l’aspetto di oggetti, avvolgendoli in sacchi, in elaborati involucri di carta o in sudari o coprendo loro il viso con una maschera. Oppure la persona può essere usata come natura morta, […]»15. In questo saggio Sontag evidenzia il continuum che l’happening, “il teatro dei pittori”, stabilisce fra ambiente, oggetto di scena, elemento di costume e figura umana; la trasformazione dei corpi in accessori inanimati; la sensazione di pericolo che l’ambiente in cui si svolge l’happening suscita nel visitatore, anche a causa dell’imprevedibilità dell’azione. La distanza che separava assemblage, pittura animata, collage animati, dall’invadere lo spazio e includervi persone, materiali e oggetti, con l’happening è colmata. Kantor attraversa e partecipa a tutti questi passaggi, che sono quelli della scultura moderna e delle tendenze artistiche internazionali in un travaso continuo fra arti performative e arti plastiche. L’intento di Kantor, modellando la figura umana in un sacco o fasciandola in strisce di carta, è quello di sperimentare metodi di composizione di forme nuove attraverso l’«Eliminazione dell’azione,/del movimento,/del discorso./Risparmio nel manifestare/i sentimenti,/fino a raggiungere la vita/vegetativa»16. In Gallinella acquatica (1967) anche i costumi della troupe di attori sono imballaggi: «un gruppo di eterni erranti, e i loro costumi, ermetici e complicati, “imballaggi” a più strati, sono saldati alla massa di valigie, di sacchi, di zaini, di balle di stoffa»17. Il costume nel teatro informale non riveste ma aderisce al corpo, lo costruisce, lo reinventa come oggetto-attore, innestandolo con elementi ripugnanti: cassonetti della spazzatura, armadi e casse che contengono figure umane, sculture fuori scala, misteriose, perché non se ne comprende la funzione. Tali oggetti hanno qualcosa di familiare e di stravolto, come il cassone di Nella piccola dimora che assomiglia a un macinacaffè e a un tritacarne nello stesso tempo. I veicoli come i carri, carretti, biciclette, sono corpi-macchine, includono persone. La madre, un personaggio di questo spettacolo, «Indossa una fodera, come se fosse un mobile. Porta con difficoltà una gran quantità di pacchi di vestiti, ugualmente ricoperti di fodere. Non ce la fa»18. È interscambiabile con l’armadio, dove infatti sparisce e dove il suo corpo viene tritato dal factotum che gira la manovella, che trasforma l’armadio in tritacarne. L’armadio è come il pozzo dello spettacolo omonimo di duri,/fissare,/ sfuggire al tempo,/IMBALLAGGIO!... quando si tende a nascondere molto profondamente,/ contro l’ingerenza,l’ignoranza, la volgarità». Ivi, p. 74. 13Tadeusz Kantor, Vestito-imballaggio, ivi p. 79. 14 Nel periodo in cui Kantor realizza i suoi Emballages, Christo, un artista di origini bulgara, a Parigi, realizzava Empaquetage (1958), passando, negli anni successivi dall’impacchettare gli oggetti ai monumenti e ai paesaggi. 15 Cfr S. Sontag, Happening: un’arte d’accostamento radicale, in Ead., Contro l’interpretazione, Mondadori, Milano 1967-1998, p. 358. Cfr anche M. Kirby, Happening, De Donato, Bari 1968. 16 Tadeusz Kantor, Manifesto del teatro zero [1963], in D. Bablet (a cura di), Tadeusz Kantor. Il teatro della morte, cit., p. 93. 17 Tadeusz Kantor, Dall’imballaggio all’idea di viaggio [1967], ivi, p. 81. 18 Tadeusz Kantor, Partitura di”Una tranquilla dimora di campagna”, di Witkiewicz (estratto), Atto I, ivi, p. 61. 4 Rem&Cap19, un vuoto in cui le cose scompaiono e da cui appaiono. In questo spettacolo la reciprocità corpo-oggetto è totale e Kantor lo rileva: «Gli attori non sono molto diversi dai sacchi fra i quali si muovono»20. La qualità e la condizione di oggetto proviene dall’essere inerte, non dotato di volontà, determinazione, come un manichino, senza reazione, senza memoria. In Gallinella acquatica (1967), l’attore non indossa dei costumi, ma forme astratte create dalla pittrice Maria Jarema: Cosa possiamo fare per distruggere la forma singolare e personale dell’attore affinché divenga materia? Materia umana, materia senza le caratteristiche di un individuo; materia decomposta, naturalmente, perché quando si vuole conoscere la materia, bisogna scomporla21. E la stessa operazione viene condotta sul linguaggio verbale: come ridurlo a materia? Invece di parole, borbottii, balbettii –fonemi incomprensibili– frasi spezzate, gesti sonori (piangere, gridare, sputare), mescolati con altri materiali sonori (cani che abbaiano). Attraverso il paradigma dell’informale, dispositivi costruttivi dello spettacolo diventano il caso, la spontaneità, la materia decomposta, per cui oggetto e figura umana convivono, l’essere vivente diventa corpus, pari a un oggetto trovato, mescolato con la spazzatura, prelevato dalle discariche: «l’oggetto misero, povero, non in grado di essere utile nella vita, alla soglia dell’immondezzaio, un oggetto che destava pietà e COMMOZIONE!!»22, come una “ruota del carro infangata”, in grado di fare concorrenza all’attore sulla scena. Ciò accade in uno spazio che ha una funzione drammaturgica, non è semplice cornice all’azione, ma un multispazio, dotato di energia. Inoltre, come abbiamo già osservato, nel teatro di Tadeusz Kantor gli oggetti-attori, in quanto viventi nello spazio e nel tempo scenico, si trasformano, per cui una culla diventa uno strumento di tortura ginecologico, l’apparecchio fotografico si trasforma in una mitragliatrice, un letto girevole uno strumento di morte, un armadio un imballaggio di corpi, congegno meccanico che prima comprime e imballa gli attori e poi li espelle, macchina che impedisce loro la possibilità di esistere come attori e di recitare. L’attore morto e il teatro immondezzaio Il saggio Il luogo teatrale è una riflessione pubblicata in occasione della prima rappresentazione dello spettacolo, Wielopole/Wielopole (1980) in cui, richiamandosi al suo manifesto Emballages del 1964, Kantor stabiliva una corrispondenza diretta fra spazio scenico e realtà degradata: Ed ecco i luoghi in cui ho collocato il mio teatro, oppure di cui/ fantasticavo./ Non posso definire con esattezza che cosa essi avessero/ di tanto particolare da indurmi a sceglierli./ La loro, per così dire, “elementare” quotidianità... / Nel teatro di Rem& Cap, in un differente contesto storico e culturale rispetto al mondo-teatro di Kantor, ritroviamo, al posto delle psicologiche connotazioni dei personaggi, le declinazioni e trasformazioni del corpo-oggetto, passaggi dall'animato all'inanimato, dal fantoccio al fantasma, (una figura priva di corpo, che in Coro fuoriesce dalla valigia), dall'ombra alla macchina organica, dall'elemento di costume (la parte per il tutto), al fagotto (il costume raggomitolato formato da un cappello, un paio di scarpe, un gilet) che sta al posto del personaggio, lo connota e lo istituisce in absentia a mo’ di natura morta. 20 Scena 1: Nibek e la governante, in Denis Bablet (a cura di), Tadeusz Kantor. Il teatro della morte, cit., p. 62. 21Tadeusz Kantor, in F. Quadri, Colloquio con Tadeusz Kantor. Invenzione di un teatro diverso, Einaudi, Torino 1984, p. 19. 22 Ivi, p. 15. 19 5 ordinarietà.../ il loro abbandono.../ la loro nostalgia, malinconia, tristezza... / fuggevolezza... poesia... / forse miserabilità, “povertà”.../ Di certo in queste mie scelte avevano molto peso la predisposizione e la tensione che avevo manifestato fin dai miei inizi al concetto di “REALTÀ DEL RANGO PIÛ BASSO”, in cui, come la definivo nel mio Manifesto Imballaggi, l’oggetto rivela la sua essenza proprio al limite della sua distruzione, fra l’IMMONDEZZAIO e l’ETERNITÀ23. Privilegiare “la realtà del rango più basso” ha motivazioni profonde, che affondano, oltre che nella conoscenza delle tendenze artistiche europee, nell’insegnamento –nel periodo della sua formazione artistica– e nella frequentazione di Bruno Schulz, con cui Kantor condivide, come analizza Luigi Marinelli, la «“mitizzazione” della propria degradata realtà autobiografica, familiare e infantile»24. I racconti di Bruno Schulz, raccolti sotto il titolo Il trattato sui manichini, sono da inscrivere come fonte privilegiata per la definizione dell’estetica del teatro di Kantor, riscontrabile (come lui stesso dichiara), a partire da La classe morta (1975). Luigi Marinelli ha analizzato e ricostruito tale discendenza: L’idea dell’attore-manichino e del manichino-attore era dunque presente fin dai suoi esordi a Tadeusz Kantor, che teatralmente la riprendeva da colui che –accanto a Meyerchol’d, Vachtangov e il Bauhaus– fu uno dei suoi grandi maestri dell’avanguardia storica: Gordon Craig. La vera novità non sarà dunque la presenza “viva” dei manichini fra i banchi della Classe morta, bensì –ed è al solito lo stesso Kantor a guidarci in questa interpretazione– la connessa idea del teatro e in genere della creazione artistica come direttamente dipendente dal concetto di “realtà del rango più basso”, ovvero di “ciarpame” (tandeta), come avrebbe detto l’uno o l’altro dei nostri artisti25. Nel mondo immaginato da Schulz, come è raffigurato nel Trattato dei manichini, i materiali privilegiati sono paccottiglia «[…] perché ci affascina, ci incanta il basso costo, la mediocrità, la volgarità del materiale.[…] amiamo la sua dissonanza, la sua resistenza, la sua maldestra rozzezza.[…]»26. L’aspirazione alla demiurgia di Kantor, creatore di spettacoli teatrali, trova in questi racconti di Schulz (il cui sottotitolo è Secondo libro della Genesi)27, una sorta di manifesto pertinente alla pratica del teatro, anche se il teatro non viene nominato. Schulz parla delle sue creature come di esseri che hanno un’esistenza breve (“non saranno eroi di romanzi in più volumi”), a una sola dimensione, che significa chiamarli alla vita per una sola parola, un solo gesto, per un unico istante. Ed è anche contemplata quella tecnica di sottrazione che Kantor mette in opera, ovvero esporre alla vista pochi elementi – un braccio, una gamba, metà del viso, anziché l’intera figura umana. Questo stesso principio di nascondere per far vedere, enunciato da Schulz, cancellare delle parti del corpo umano, è un dispositivo di sottrazione, attivo nel teatro di Kantor. L’imballaggio è un processo che svolge la funzione di preservare, sottraendo alla vista e agli agenti corrosivi, la materia organica e inorganica: è Tadeusz Kantor, Wielopole/ Wielopole, Ubulibri, Milano 1981, p. 166. Luigi Marinelli, Kantor e l’ombra di Schulz, in La Figura nel tappeto, n. 2. inverno 2007,s p. 25 Ibidem 26 Bruno Schulz, Le botteghe color cannella, Einaudi, Torino 2008, p.38. 27 Nel racconto il padre che aveva sviluppato un programma di una seconda demiurgia così l’affermava: «In una parola –concludeva mio padre– noi vogliamo creare una seconda volta l’uomo, a immagine e somiglianza di un manichino», ivi, p. 38. 23 24 6 una strategia di segno opposto a quella della pop art «che, secondo Kantor, nell’imballaggio non vede che la fascinazione industriale e idolatria»28. Numerosi sono gli oggetti-attori degradati nel teatro di Kantor: la stia per polli, un water-forca in cui si impicca senza morire il suicida di Crepino gli artisti, il carretto giocattolo, l’organino meccanico suonato da zio Stasio, il deportato in Siberia in Wielopole/Wielopole, la padella da malati, il seggiolone a forma di patibolo, le donne delle pulizie, i custodi del cimitero, le spie e gli sgherri, il vecchietto del WC de La classe morta. […]Si tratta di individui loschi, creature mediocri e sospette che aspettano che le si “noleggi” come domestiche “a ore”. Quasi sgualciti, sporchi, malvestiti, malaticci, imbastarditi, che fanno malamente la parte di persone spesso a noi care e vicine29. Queste persone sono ingaggiate dall’Agenzia di noleggio dei cari assenti. Infatti, nella lista della realtà degradata, i morti sono presenze sceniche. I personaggi di Wielopole/ Wielopole (1980) sono una sorta di reincarnazioni, incatenati a ripetere, come una pena da scontare, gli episodi della vita umana: le nascite, le morti, le cerimonie allegre e le disgrazie, impregnati di una intonazione epica che allarga l’angusto spazio privato della casa a quello universale dell’umanità. Sono scritturati per lo spazio-tempo della costruzione dello spettacolo, a rivivere quegli episodi («Il ricordo si serve di personaggi “presi a nolo”». Scrive ancora Kantor nella nota a Wielopole/Wielopole) Attore-oggetto e attore morto sono i manichini e fantocci: fatti di materiali poveri che nel teatro di Kantor sono doppi delle dramatis personae, dotati di una coscienza superiore che è quella che viene dopo la morte. Sia ne La classe morta che in Wielopole/Wielopole, i manichini non sostituiscono, ma raddoppiano gli umani, ne ripetono le fattezze, sono distanti e vicini e dunque perturbanti: formano dei composti di macchinino e organico, antenati dei cyborg (bio-oggetti), un corpo unico le cui azioni sono determinate dalla macchina, come il manichino legato a un piccolo velocipede portato sulla schiena dal vecchietto nel ruolo dell’insegnante de La classe morta, o la sedia legata al corpo di un uomo di potere in Oggi è il mio compleanno. E, dal momento che corpi e oggetti insieme, avendo analogo trattamento ,sono affiancati sullo stesso banco – l’attore in carne e ossa e la sua copia, un manichino di cera –, entrambi aspirano ad assumere e assumono la dimensione del corpo morto. Per me il modello per l’attore è il morto. L’uomo morto ha le stesse caratteristiche che deve avere l’attore. Il cadavere attira l’attenzione della gente e la respinge: la stessa cosa deve avvenire per l’attore. Deve attirare e respingere […] E deve essere morto, deve essere separato per sempre, in maniera inimmaginabile, dagli spettatori. […] Creare una barriera invisibile, come quella che sta fra i morti e i vivi30. Povertà vs monumento A differenza dei ready made di Duchamp, con i quali è apparentato, l’oggetto-attore di Kantor non discende dal voler esaltare la bellezza dell’indifferenziato, secondo la lettura che Rosalind Krauss dà del ready-made, quanto da un profondo senso etico di stampo adorniano: non è più possibile costruire l’oggetto artistico, l’opera «[…] bisogna solo prendere, strappare l’oggetto dalla vita e dargli il nome di opera d’arte»31. E, mentre l’operazione di Duchamp di collocare l’oggetto trovato su un piedistallo lo sterilizza, Tadeusz Kantor, L’idea di imballaggio, in D. Bablet (a cura di), Tadeusz Kantro. Il teatro della morte, cit., p. 76. Tadeusz Kantor, Wielopole/Wielopole, cit., p. 161 30 Tadeusz Kantor in F. Quadri, Colloquio con Tadeusz Kantor. Invenzione di un teatro diverso, cit., p. 29. Cfr. anche T. Kantor, L’inglorioso passaggio dal mondo dei morti al mondo dei vivi, in Luigi. Marinelli e Silvia. Parlagreco (a cura di), La Classe Morta, Libri Scheiwiller, Milano 2003, pp. 13-14. 31 Ivi, p. 22. 28 29 7 rispetto alla carica materica e vitalistica che la sua origine gli attribuisce, ovvero lo libera da affetti personali, gli oggetti di Kantor conservano la tensione e la drammaticità di qualcosa di vivente. Oggetti trovati e attori imballati come pacchi costituiscono un insieme reversibile. Architettura e scultura sconfinano, come i manichini e gli attori con il viso bianco di biacca, seduti sui banchi di scuola de La Classe morta. L’ oggetto-attore di Kantor è da includere nel repertorio che Rosalind Krauss ha allineato nel suo studio, Passages in Modern Sculpture, in cui costruisce una storia della scultura dotata di movimento, che comprende l'arte cinetica degli Hanging Mobile (1936) di Calder, una scultura che tenta di imitare l'organismo umano, avendo assunto come modello l’attore32. I tratti in comune con la scultura moderna dell’oggetto-attore di Kantor si ritrovano nell’interscambiabilità fra oggetto e figura umana (il corpo umano viene manipolato da Nam June Paik come un oggetto scultoreo e viceversa i televisori antropomorfizzati compongono le Family of Robot, Uncle e Aunt (1986); nella dimensione teatrale dello spazio plastico, visivo, acustico costruito dalla scultura ambientale (environment, installazione) di cui lo spettatore fa parte; nell’uso di oggetti banali e quotidiani. Un artista che ci viene incontro sul tracciato della qualità liveness della scultura moderna, è Jannis Kounellis, estimatore del teatro di Tadeusz Kantor, per il quale: «La galleria deve essere considerata una cavità drammatica, teatrale»33. Infatti è abitata da: uccelli, cavalli, pesci rossi, fiori, cactus, quarti di bue appesi su lamiere, fiamme di lampade a gas e a petrolio. Sono le cose viventi «Animali, vegetali e minerali insorti nel mondo dell’arte» di cui scrive Germano Celant, «materiali ed elementi naturali (rame, zinco, terra, acqua, fiumi, piombo, neve, fuoco, erba, aria, pietra, elettricità, uranio, cielo, peso, gravità, calore, crescita, ecc.)»34. Nel Manifesto dell’Anti-Esposizione (1963), Kantor afferma che l’artista non plasma con la sua techné l’opera, ma si limita a prelevare dal reale ciò che esiste, per cui l’oggetto, strappato dalla realtà della vita, assemblato, costruito, va nella direzione di una rappresentazione antillusionistica e antimimetica, antimonumentale e povera. Non fosse stato per quella POVERTÀ, tutto si sarebbe ridotto a una comune elevazione/ dell’OGGETTO alla dignità di Monumento d’Arte./ Monumento…quanto li disprezzavo, in quei terribili anni di guerra./ Molto, invece mi stava a cuore la POVERTÀ. / Cercavo di trattenerla. La povertà sarebbe divenuta per lungo tempo, forse fino alla fine, il contenuto della mia arte35. L’artista, seguendo le tesi di Celant, come uno scienziato e un alchimista, uno stregone, penetra le proprietà “fisiche, chimiche e biologiche” dei nuovi materiali, il che significa rifiuto della competenza specializzata, della techné del pittore-scultore; a favore di un artistaalchimista che vive simbioticamente con la natura, non la rappresenta soltanto e quindi Seguendo l'analisi della studiosa americana, la scultura moderna avrebbe integrato ambiente e figura umana – oggetto classico di rappresentazione – dotandola di movimento e rendendola astratta. Il passaggio da scultura ambiente (Bedroom Ensemble [1963] di Oldenburg), elimina la rappresentazione del corpo e inserisce la presenza vivente di una persona reale, lo spettatore in uno spazio costruito per lui, in continuità con il suo mondo perché (a differenza della scultura minimalista), riproduce, secondo l'estetica pop, un environment quotidiano, non diverso da quello in cui lo spettatore abitualmente vive, ma espressione di un mondo reificato, invaso di oggetti che lo sovrastano con la loro serialità e uniformità. Cfr. R. Krauss, Forme del readymade: Duchamp e Brancusi, in Ead., Passaggi, Bruno Mondadori, Milano 1998, pp. 205-243. 33 J. Kounellis, Non per il teatro ma con il teatro. Conversazione con Italo Moscati, in Odissea lagunare, Sellerio, Palermo 1993, p. 62. 34 G. Celant, Arte povera, Mazzotta, Milano 1969, p. 225. 35 T. Kantor, La mia opera, il mio viaggio, Federico Motta, Milano 1991 , p. 115. 32 8 prefigura una osmosi fra il vivente e il mondo vegetale, animale e minerale, etc36. Sembra il ritratto di Joseph Beuys, i cui ambienti, che costruiva come scenario per le sue Aktionen, implicavano materie come feltro, grasso, legno, acciaio, piombo, juta, e oggetti d’uso comune, come torce elettriche, slitte, telefoni, bende, motori... dotati di energia e di valore simbolico e autobiografico. Come nel teatro di Kantor, la liveness dei materiali di Beuys e di Kounellis (carbon fossile, tronchi di legno, sacchi di iuta riempiti di carbone, cotone, terra, lana, caffè, armadi, rotaie dei treni, pezzi di navi, macchine da cucire, coltelli, letti di metallo, tappeti, libri, bicchieri, bottiglie, scarpe, abiti appesi a un gancio, come se la persona che li ha indossati fosse là vicino)37, è espressione di un’estetica che si oppone da un lato al monumentale (questo aspetto è in comune con il minimalismo) e dall’altro alla produzione in serie dell’arte pop, al consumismo antitetico al valore del conservare e preservare l’oggetto nel tempo. Se per Jannis Kounellis l’effimero è la materia vivente che la scultura moderna privilegia, per Christian Boltanski – un artista che riconosce il suo debito nei confronti dell’arte di Tadeusz Kantor – è ciò che è già stato, l’assenza del vivente38. Scrive Boltanski: Kantor è uno degli artisti che mi ha influenzato maggiormente. L’ho conosciuto un poco. In confronto con altri uomini di teatro importanti, aveva una grande povertà di mezzi, una sorta di teatro ambulante. Tutto il suo lavoro è basato sulla memoria – che è anche la mia – dell’Europa centrale ed è legato alla guerra. È anche la mia storia, la mia mitologia, che mescola tragicità e derisione, sofferenza, musica popolare, clownerie e orrore, in un universo espressionista 39. A Kantor si ispirano le sue Saynètes Comiques (1974), brevi sketches in cui Boltanski interpretava, come clown «dei personaggi clichè della memoria collettiva; il padre, la madre, il piccolo cristiano, il nonno»40, così come le installazioni cinetiche con marionette di cartone, fili, sughero colorati e luce. Le opere sono monumenti funebri eretti a una umanità anonima e familiare, volti non identificati, liturgie del volto che non diventa icona, che turba perché emerge dal buio, presenza fantasmatica, come se tornasse dall’aldilà, da un senza tempo. Come Kantor, Boltanski ha un dialogo con i morti, non solo quelli familiari della sua infanzia, ma con le vite anonime immesse nel flusso della storia. La fotografia si presta a celebrare queste cerimonie del lutto, della scomparsa. «Io compio sempre il paragone tra un vestito usato, Il primo libro di Germano Celant, Arte povera, raduna una serie di artisti, (molti di questi sono gli stessi che compaiono nei due programmi televisivi di Gerry Schum, Identifications e Land Art: Walter De Maria, Mario Merz, Richard Long, Joseph Beuys, Giovanni Anselmo, Lawrence Weiner, Alighiero Boetti e altri) e contiene un testo-programma dell’arte povera, pp. 225-230. Prima di questo testo, Celant aveva pubblicato Arte povera, appunti per una guerriglia, in «Flash Art», n. 5, novembre-dicembre 1967, s.p. L’attenzione all’oggetto, in questo primo testo, ne esalta la precarietà e l’instabilità: «[…] la loro esistenza dipende dal nostro intervento e dal nostro comportamento. Non sono prodotti autonomi, ma instabili, vivi in rapporto al nostro vivere». Ivi, s.p. 37 Nella trilogia Mauser, Quartet e Der Findling (1991) allestita dall’artista con Heiner Müller, la scena è composta con armadi dell’epoca della guerra, che disegnavano dei cerchi concentrici sul palcoscenico che fungevano anche da sipari. C’erano degli uomini acrobati che cadevano dall’alto, legati come libri a delle corde di ferro alla cui estremità era legato un lungo coltello da cucina. 38 In Wielopole/Wielopole, troviamo una riflessione di Kantor sulla fotografia: «La vita che dura questo solo, unico momento,/come se attraverso il miracoloso, e insieme terrificante e micidiale/processo della FOTOGRAFIA, fossero stati privati del passato/e del futuro./Come se gli fossero stati tolti il passato, diverso per ciascuno,/e la vita futura, piena di sorprese e di fascino…/A loro giustificazione hanno solo questo unico breve istante, in cui stano in posa in quel modo…», in F. Quadri, Colloquio con Tadeusz Kantor. Invenzione di un teatro diverso, cit., p. 20. Ringrazio Luigi Marinelli per la segnalazione. 39 D. Eccher (a cura di), Christian Boltanski, Charta, Milano 1997, p. 81. 40 Ivi, p. 134. 36 9 un corpo morto e la fotografia di qualcuno. In tutti e tre i casi si tratta di un oggetto che rinvia a un soggetto e alla sua assenza. Non c’è carne»41. Con Kantor ha in comune la rappresentazione della morte, che è quella dell’olocausto e quella quotidiana, degradata, che emerge dalle pagine di giornali da cui preleva le foto di delitti, stupri, corpi mutilati, immagini pubbliche che espone alla vista dello spettatore velandole con lenzuola bianche o nere fluttuanti42. Come Kantor, infanzia, memoria e ricordo sono dispositivi costruttivi dell’opera, che conducono Boltanski a un accumulo di oggetti appartenuti alle persone comuni (coltellini, bottoni, occhiali, coperchi di scatole di conserva, vestiti, accumulati fino ad arrivare ai battiti del cuore). Réserve (1991), Reliquarie (1996), infatti sono titoli che ricorrono nelle sue 43opere. La fenomenologia dell’ oggetto-attore nello spazio scenico con le sue interferenze nelle arti plastiche, analizzata attraverso la produzione di Tadeusz Kantor, si inscrive nel processo d’astrazione del teatro avviato dalle avanguardie storiche. Lo scambio di proprietà fra il corpo vivo dell’attore e gli oggetti nello spazio scenico, è stata una strategia compositiva di decostruzione della rappresentazione, che ha sovvertito il rapporto figurapaesaggio. L’oggetto inanimato è stato antropomorfizzato e messo nella condizione di modificare il circostante, mentre l’umano è stato mortificato, defraudato della sua capacità di interagire con l’ambiente. A fine millennio, con le sperimentazioni delle intelligenze artificiali, degli innesti uomomacchina (il cyborg=cibernetica+organismo), l’organico si è dissolto in una serie di flussi elettronici che controllano la nostra esperienza. Anche il concetto di realtà degradata, i cui esempi li troviamo nei clown osceni di Bruce Nauman, come nelle performance e installazioni di Mike Kelley e Paul Mc Carthy e in molti opere di artisti contemporanei – più che riconfigurare il reale –, secondo Hal Foster, sono «la principale incarnazione dell’infantilismo contemporaneo»44. Nel mondo-teatro di Kantor si inscrive una visione ferita della storia, un’umanità in cui i vinti e gli oppressi, nonostante siano impotenti davanti agli orrori del mondo, sono incrostati di memorie, di tempo, di vissuto, che li rende ancora tragicamente umani. E forse proprio per questo, i silenzi, le grida e i balbettii dei suoi vecchi-bambini sono percepiti dallo spettatore tanto più dolorosamente violenti dei corpi crudelmente smembrati del teatro di Sarah Kane. Ringrazio Luigi Marinelli, Daniela Lancioni, Giulia Palladini , Natalia Zarzecka Testi citati Yve-Alain. Bois, Rosalind. Krauss, Formless. A User’s Guide, 1997 Urzone Inc. (L’informe, B Mondatori, Milano 2003) Ivi, p. 105. Anche in questo caso, il raffronto con la pop art è d’obbligo, e in particolare con la serie Death and Desasters di Andy Warhol. 43 Les Archives du coeur, work in progress installato in Giappone,nell’isola di Teshima, che raccoglie i battiti del cuore di tante persone che volontariamente aderiscono all’invito dell’artista di registrare e archiviare le pulsazioni cardiache che sopravvivono anche alla morte di chi li ha donati . In Les Vétements (1996), Boltanski ammucchia abiti colorati: «Il vestito usato parla di qualcuno che era lì ma non c’è più. L’odore, le pieghe sono rimaste, ma non la persona». Ivi, p. 151 44 Hal Foster, Il ritorno del reale, L’avanguardia alla fine del Novecento. Postmediaooks, Milano 2006, p. 157. Cfr. a tale proposito lo studio di Y.A. Bois, R. Krauss, L’informe, B Mondatori, Milano 2003. 41 42 10 Germano. Celant, Arte povera. Mazzotta, Milano 1969. Danilo. Eccher ( a cura di ), Christian Boltanski, Charta, Milano 1997. Vittorio. Fagone ( a cura di), Oggetti e Macchine del Teatro di Tadeusz Kantor, Museo Internazionale della Marionetta, Palermo 1987. 1 Hal. Foster, Il ritorno del reale, L’avanguardia alla fine del Novecento, Postmediabooks, Milano 2006. Jannis. Kounellis, Non per il teatro ma con il teatro. Conversazione con Italo Moscati, in Odissea lagunare, Sellerio, Palermo 1993. M. Horkeimer e Theodor. Adorno, Interesse per il corpo, in Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1966. Michal. Kobialka, Further On, Nothing. Tadeusz Kantor’s Theatre, University of Minnesota Press, Minneapolis 2009. Denis. Bablet (a cura di), Il teatro della morte, Ubulibri, Milano 1991-2000. Tadeusz. Kantor, La mia opera, il mio viaggio, Federico. Motta, Milano,1991 Tadeusz. Kantor, Wielopole/Wielopole, Ubulibri, Milano, 1981. 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