Le vie romane, strumento di integrazione

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Le vie romane, strumento di
integrazione
di Alfredo Valvo*
La diffusione della civiltà
Non è una esagerazione considerare le strade romane (viae publicae) il mezzo attraverso il quale Roma diffuse velocemente e ordinatamente la propria civiltà, che per tutte le
popolazioni che venivano a contatto con essa era anche un’occasione di progresso, soprattutto nell’organizzazione e nell’amministrazione del territorio.
I Romani, come altri popoli antichi, avevano un’approfondita conoscenza del territorio dove erano stanziati e di quelli, prossimi e meno prossimi, che entrarono progressivamente a far parte del sistema imperniato sulla città dominante. Essi sapevano anche gestirlo con tecniche progredite, frutto di esperienza secolare, spesso apprese dagli Etruschi
(Cicerone insiste sul fatto che gli ordinamenti politici di Roma erano stati temprati dall’esperienza e non erano frutto di improvvisazione: questa considerazione potrebbe essere estesa a molte istituzioni, non solo politiche, dei Romani). Le conoscenze tecniche dei Romani
erano molto più avanzate di quanto si creda abitualmente. Basti pensare alle opere di idraulica realizzate a Roma, tra le quali la più imponente fu la costruzione della Cloaca Maxima,
attribuita a Tarquinio Prisco, il primo re di Roma di origine etrusca (gli Etruschi erano in possesso del know-how più avanzato in materia edilizia e idraulica). Essa consentì di drenare le
acque della pianura canalizzandole verso il corso del Tevere e rendendo così definitivamente abitabile la zona del Foro (principio-metà VI secolo a.C.).
Non meno impressionante per le conoscenze tecniche che aveva richiesto e quindi
come testimonianza del livello di progresso raggiunto – di ordine geometrico, matematico,
idraulico ed altro – fu la costruzione degli acquedotti, lunghi talvolta centinaia di chilometri, nei quali, attraverso la “minima inclinazione necessaria possibile” era impressa all’acqua che vi scorreva la velocità necessaria per raggiungere Roma o le città romane, sparse
dovunque.
Indispensabile per superare la condizione, psicologica prima ancora che politica, di
città-stato, destinata per sua natura a un’espansione territoriale limitata, a una visione conservativa delle proprie istituzioni e, pur con l’eccezione di Atene, impreparata a esportare
idee, civiltà, progresso, era la costruzione di vie di comunicazione sicure e stabili.
*Alfredo Valvo è
Docente di Storia
romana ed
Epigrafia latina
all’Università
Cattolica del Sacro
Cuore di Brescia.
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di Alfredo Valvo
Un piano di espansione senza precedenti
Roma fu in origine e rimase per alcuni secoli (almeno fino alla metà del III secolo a.C., quando dovette dotarsi di una flotta da guerra per contrastare i Cartaginesi) una potenza continentale, diremmo “con i piedi per terra”, in tutti i sensi. Le vie d’acqua marittime (ma anche
fluviali e lacustri) non erano praticabili per alcuni mesi all’anno; soprattutto con l’autunno
il mare diventava pericoloso e sebbene le navi che solcavano le acque del Mediterraneo fossero abbastanza solide non potevano tutte, tanto meno quelle onerarie (da trasporto), affrontare i pericoli della navigazione. Inoltre, ancora gli Etruschi, presentissimi nella vita della
Roma delle origini, verso la fine del VI secolo a.C. si erano dovuti aprire vie di comunicazione terrestri per raggiungere le proprie colonie in Campania, divenute irraggiungibili per
mare data la pericolosità degli elementi naturali, la perdita del dominio su Roma (l’Isola
Tiberina consentiva facilmente il passaggio dalla sponda destra del Tevere, etrusca, a quella sinistra per proseguire verso sud) e soprattutto le insidie delle grandi città concorrenti
sulle rotte del commercio: prime fra tutte le città greche dell’Italia meridionale e Cartagine.
Tuttavia la costruzione delle vie che, partendo da Roma, mettevano in comunicazione
con il resto della penisola – prima col meridione d’Italia e poi, sempre più intensamente,
con il settentrione – avevano all’origine non soltanto esigenze di trasporto ma rispondevano
a un piano di espansione che non era limitato al consolidamento della conquista, ma aperto a una mentalità nuova e vigorosa che fino ad allora nessuna popolazione del Mediterraneo
aveva espresso.
La grandezza di Roma aveva un’origine diversa da tutte le altre che l’avevano preceduta. Parlare di questo ci porterebbe lontano, ma almeno qualche breve cenno è necessario,
prima di scendere in particolari sulle vie romane.
L’interesse collettivo della civitas sopra ogni interesse particolare
Anche le vie, come le istituzioni, le magistrature, i comizi, l’esercito e via dicendo
rispondevano sempre a un’esigenza di fondo che costituisce lo “zoccolo” indistruttibile di
quella civiltà: la prevalenza degli interessi collettivi della civitas (si può tradurre, in maniera approssimativa, con “popolo romano”) su ogni altro interesse particolare, poiché il bene
comune e la “maggior grandezza” del popolo romano (maiestas populi Romani) sovrastavano qualsiasi altro bene o scopo. Tutto ciò sembrerebbe fuori tema se non si tenesse conto
che la costruzione della civiltà romana nasce dalla compartecipazione alla gestione del potere di popolo e senato fin dall’età monarchica (almeno dal VII-VI secolo a.C.). Questa capacità di trovare una sintesi tra le istanze popolari e quelle del “ceto dirigente” raggiunse il
punto più alto nel III secolo a.C. Su queste basi, finché esse prevalsero sugli interessi personali, Roma costruì la propria grandezza.
I Romani incominciarono a costruire le vie quando la Città aveva ormai acquisito un
primato sul meridione dell’Italia. Le vie di comunicazione potevano offrire opportunità prima
sconosciute nel commercio e nelle comunicazioni di vario genere (circolava di tutto e si
diffondeva anche la cultura greco-ellenistica che il meridione “esportava” a Roma) ma pote-
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vano costituire anche un pericolo. Alla fine del IV secolo a.C., intorno al 312, anno della
censura di Appio Claudio detto il Cieco, risale la prima via publica costruita dai Romani: era
la via Appia, detta la “regina delle vie romane”. Essa collegava Roma con Capua, antica colonia etrusca e fiorente città commerciale. Fu più tardi prolungata fino a Benevento. La via
Appia rivestiva al momento in cui venne tracciata, e continuò a rivestire nei secoli successivi, un ruolo strategico di primaria importanza, sia militare che commerciale; per la sua
manutenzione, in età imperiale, venne istituita una curatela speciale affidata a un magistrato di rango pretorio.
Via Appia: salto di civiltà, propaganda e rischio
La costruzione della via Appia non segnò soltanto un salto qualitativo della politica di
Roma, ma anche un salto di civiltà. Se lo scopo immediato di Roma poteva essere quello di
stabilire un collegamento stabile e definitivo con le comunità meridionali con le quali aveva
stretto vincoli impegnativi rappresentati dai foedera (i trattati di alleanza conclusi con Stati,
popoli e città sconfitti o che avevano accettato il primato di Roma senza combattere), la
nuova prospettiva nella quale entrava Roma era quella di una relazione stabile con questi
Stati, popoli e città. Lo scambio di idee, esperienze, prodotti (sia di artigianato che opere
d’arte e anche culturali) facilitava la convivenza pacifica attraverso un’interdipendenza nella
quale Roma si coinvolgeva pienamente, cosciente però della sua solidità politica e sicura
della saldezza dei suoi princìpi e delle sue tradizioni. Roma sapeva di correre anche dei
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rischi. Uno di questi, che si rivelò quasi subito, era la prevalenza culturale del mondo grecoellenistico e delle sue “novità”: novus per i Romani era spesso sinonimo di sovversivo (questo la dice lunga sul valore della tradizione a Roma, il mos maiorum, considerato addirittura fonte del diritto, come le leggi e i senatoconsulti).
I nuovi rapporti favorirono intese a livello gentilizio (il matrimonio era lo strumento più
naturale ed efficace di integrazione) soprattutto con le élite locali, solitamente vicine ai
Romani e (o perché) interessate a svolgere un ruolo di primo piano all’interno delle loro
comunità. Furono stabiliti anche legami di ospitalità (hospitium) privati, che tuttavia si riverberavano sulle intese a livello più alto. Da tutto ciò, anche se sommariamente accennato, si
può trarre la conclusione che fin dagli inizi della loro politica di espansione in Italia (ma lo
stesso si potrà dire al tempo dell’imperatore Claudio, che realizzò definitivamente il disegno
di fare «di molte e diverse genti una sola patria») i Romani perseguirono coerentemente il
disegno di integrare popoli e nazioni con le quali venivano a contatto. Va da sé che la rete
stradale che essi realizzarono man mano che procedeva la conquista, ne era uno strumento
insostituibile.
La costruzione di una via come l’Appia richiedeva conoscenze tecniche evolute e un
coraggio non indifferente di fronte alle difficoltà naturali da superare: fiumi da attraversare,
montagne da tagliare, insidie naturali di ogni genere. In questa come in altre circostanze
Roma metteva alla prova se stessa mostrando alle popolazioni con le quali veniva a contatto che non c’erano ostacoli che essa non potesse superare con la sua volontà, la sua fermezza frutto della stabilità politica e anche con la sua intraprendenza intelligente, cosciente dei propri mezzi. Le vie furono sempre considerate una espressione della politica di grandezza di Roma, ma furono anche un mezzo straordinario di propaganda.
La rete viaria
La presenza di Roma si rendeva visibile attraverso la costruzione di nuove strade, con
diramazioni che consentivano di non escludere centri minori o fuori dalla direttrice principale. Le strade erano anche belle: a seconda della disponibilità di pietra locale, spesso di
eccellente qualità, alcuni tratti erano policromi, con effetti scenografici difficilmente immaginabili; talvolta ai lati di esse sorgevano costruzioni monumentali, rappresentate da mausolei e sepolture gentilizie e anche da luoghi di incontro sorti presso incroci importanti o
all’ingresso delle città che attraversavano: ai Romani non mancavano originalità e buon
gusto. Una traccia utile per individuare il percorso delle antiche vie romane sono i miliari,
pietre poste a distanza di un miglio una dall’altra (il miglio romano era poco meno di un chilometro e mezzo) in modo da essere visibili anche da lontano.
Le altre grandi vie che furono tracciate tra la fine del III secolo a.C. e quello successivo rispondevano soprattutto a esigenze di ordine militare e politico. Si trattava di vie – la
Flaminia, che conduceva a Rimini, la Emilia, che congiungeva Rimini con Piacenza, la
Cassia che attraversava l’Etruria e finiva ad Arezzo, l’Aurelia che percorreva la costa occidentale della penisola, infine la Postumia, che, avendo la sua origine in Piacenza (punto
d’arrivo della via Emilia) piegava a occidente verso Genova e a oriente verso Aquileia, unendo così il Tirreno con l’Adriatico – che costituivano l’ossatura della difesa romana verso set-
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tentrione e da ovest ad est, lungo la quale venivano dedotte importanti colonie – veri e propri presìdi militari – destinate a romanizzare progressivamente tutto il settentrione della
penisola.
Le vie consentivano agli eserciti di muoversi con speditezza e dietro ai soldati venivano schiere di commercianti, viaggiatori a vario titolo, uomini e famiglie in cerca di fortuna (la migrazione spontanea verso il nord fu molto intensa sul finire del II secolo a.C.: essa
si arrestava ai piedi delle Alpi e rappresentò una forma di colonizzazione autonoma, non
sostenuta, ma neppure ostacolata dal potere centrale). La rete viaria romana, soprattutto in
Italia, non è separabile dal disegno di colonizzazione perseguito dal senato romano e dal processo di unificazione della penisola sotto il dominio di Roma, compiutosi con Augusto, ma
già per Catone, il più antico scrittore romano in lingua latina, l’Italia arrivava fino alle Alpi,
che egli considerava baluardo naturale della penisola.
I Romani costruirono vie anche fuori d’Italia. Tra le principali si ricorda l’antica via
Sebaste, compiuta anch’essa sotto Augusto, che attraversava i territori della penisola anatolica, costellata da colonie di veterani romani, e la via Egnatia, che univa l’Adriatico a
Bisanzio.
La costruzione delle strade romane ebbe come effetto immediato la realizzazione di
un servizio postale (cursus publicus) efficiente e regolare, che ridusse drasticamente i tempi
delle comunicazioni, mentre la necessità di riprodurre, su materiali scrittorii come la pergamena, il tracciato delle vie, con le relative distanze, i luoghi per la sosta, le difficoltà che si
incontravano sul percorso e così via, tutte informazioni utilizzate soprattutto a scopi militari, migliorarono le conoscenze geografiche e ne perfezionarono le forme di rappresentazione,
come attestano gli antichi Itinerari giunti fino a noi.
Indicazioni bibliografiche
G. Radke, Viae publicae romanae, Cappelli, Bologna 1981.
F. Coarelli, Guida archeologica di Roma, Mondadori, Milano 1994.
Le strade dell’Italia romana, Touring Club Italiano, Milano 2004.
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