ETICA DELLA RICERCA BIOMEDICA.
PER UNA VISIONE CRISTIANA
ATTI DELLA NONA ASSEMBLEA
DELLA PONTIFICIA ACCADEMIA PER LA VITA
Città del Vaticano, 24-26 Febbraio 2003
A cura di :
JUAN DE DIOS VIAL CORREA
ELIO SGRECCIA
LIBRERIA EDITRICE VATICANA
2004
Presentazione (Prof. JUAN DE DIOS VIAL CORREA E ELIO SGRECCIA)
Discorso del Santo Padre GIOVANNI PAOLO II
RELAZIONI INTRODUTTIVE
S.E.R. Mons. JAVIER LOZANO BARRAGÁN, Nuovo paradigma: origini e proposte
Prof. VINCENZO CAPPELLETTI, Biomedicina del ventesimo secolo
INTERVENTI NELLA TAVOLA ROTONDA
"Le Attuali Frontiere della Ricerca Biomedica a Servizio dell’Uomo"
Prof. MÓNICA LÓPEZ BARAHONA, Recenti progressi in tema di biologia molecolare con un
impatto diretto sulla vita umana
Prof. ANGELO VESCOVI, Cellule staminali cerebrali: stabilità funzionale, plasticità e potenziale
terapeutico
Prof. IGNAZIO MARINO, Etica della ricerca biomedica: per una visione cristiana
Prof. ANTONIO BATTRO, Le nuove frontiere nella neuroeducazione
1 RELAZIONI TEMATICHE
Prof. ADRIANO BOMPIANI, La ricerca sperimentale in ambito biomedico. Ambiti, metodologie,
criteri di validità dei progetti di ricerca
Prof. GONZALO HERRANZ, Alcuni contributi cristiani all’etica della ricerca biomedica: una
prospettiva storica
Prof. ADRIANO PESSINA, La relazione tra la ricerca biomedica, l’antropologia e l’etica filosofica.
Appunti per una riflessione metodologica
Prof. ROBERT SPAEMANN, Ars longa, vita brevis
Prof. WILLIAM MAY, Dignità umana e ricerca biomedica: le rispettive posizioni del soggetto della
ricerca e del ricercatore
Prof. DANIEL SERRÃO, L’etica della ricerca sperimentale sull’uomo: principii e linee guida
Prof. EUGENE DIAMOND, Il conflitto di interessi nell’etica medica
Rev. Prof. ROBERTO COLOMBO, I soggetti vulnerabili della ricerca biomedica: il caso
dell’embrione umano
Prof. ANTONIO SPAGNOLO, Comitati di etica per la ricerca: procedure e qualità della revisione
etica
Prof. JUAN DE DIOS VIAL CORREA, L’etica della sperimentazione sugli animali
Prof. ADRIANA LORETI-BEGHE’, Normativa internazionale e ricerca biomedica: conquiste attuali
e prospettive future
Prof. PIERMARCO AROLDI, Il coinvolgimento del grande pubblico sullo sviluppo della ricerca
biomedica: il ruolo dei mass-media
S.E.R. Mons. ELIO SGRECCIA, La politica della ricerca biomedica: valori e priorità
APPENDICE: DOCUMENTI CONCLUSIVI
Comunicato Finale
Proposta di Impegno Etico per i Ricercatori in Ambito Biomedico
2 JUAN DE DIOS VIAL CORREA, ELIO SGRECCIA PRESENTAZIONE Il tema affrontato in occasione dell'annuale Assemblea della Pontificia Accademia per la Vita: "Etica della Ricerca Biomedica. Per una Visione Cristiana" (Città del Vaticano, 24-­‐26 febbraio 2003) si caratterizza per la vastità del panorama delle questioni trattate e per l'attualità di molti problemi che vengono necessariamente affrontati. L'etica della ricerca riguarda anzitutto tutto il processo che l'investigazione programmata richiede: il progetto nelle sue finalità e nei finanziamenti; l'etica della sperimentazione, che a sua volta implica molte problematiche (il rischio, il consenso, il metodo di arruolamento dei pazienti, la validità del programma investigativo, l'obiettività dei controlli, la divulgazione dei risultati); la fase applicativa di ordine tecnologico o clinico; la questione dell'assegnazione delle risorse economiche e la giustificazione degli eventuali brevetti; la messa a disposizione dei farmaci o dei presidi terapeutici. La stessa sperimentazione animale non è scevra di problemi etici, oggi presi in considerazione con maggiore sensibilità. Alcune questioni delicate toccano non soltanto il processo della ricerca come tale ma l'oggetto-­‐
soggetto della sperimentazione: l'embrione, il feto, la donna in età fertile, i problemi emergenti dalla procreazione assistita, dalla clonazione, dall'uso delle cellule staminali: le popolazione primitive, problemi questi che hanno già investito la sfera del diritto e mantengono un'acuta attività e problematicità anche nei consessi internazionali. Altra novità degli ultimi tempi è costituita dall'incidenza sempre più forte che i problemi economici-­‐finanziari esercitano sullo sviluppo della ricerca tutta, compresa quella biomedica. Il livello di sviluppo economico di un Paese esige la ricerca scientifica innovativa, e la capacità di esportarne i risultati e i prodotti. La ricerca biomedica non si sottrae a questo fatto: i Paesi più sviluppati economicamente sono quelli che hanno una ricerca scientifica più avanzata ed un livello di assistenza medica. Lo svolgimento dell'importante incontro di studio, preceduto come al solito da una preparazione condotta all'interno di una Task-­‐Force di specialisti ha toccato la gran parte di questi temi, senza trascurare il quadro culturale in cui si collocano, le linee di tendenza e le frontiere più avanzate in cui oggi si colloca la ricerca stessa in ambito biologico, neurologico, medico-­‐chirurgico. Temi specifici come quelli della ricerca sull'embrione, della sperimentazione sull'animale, sulle cellule staminali sono stati accompagnati e confrontati con i temi specificamente bioetici, filosofici, socio-­‐politici e normativi. Ma c'è ancora un fatto peculiare che qualifica la portata del Convegno e la rilevanza del volume che ne raccoglie gli Atti: al termine dei lavori, oltre alla pubblicazione delle Conclusioni che ricalcano le tematiche dei lavori e le linee etiche orientative, è stato diramato un Appello ai Ricercatori, per invitarli a sottoscrivere un impegno etico qualificato su cui svolgere in seguito un confronto e perseguire un dialogo. Risulta che c'è già stata un'adesione significativa a questo invito anche di interi Istituti. Questo appello fa eco a quello del Santo Padre incluso nel Suo Discorso ai partecipanti: "Rinnovo pertanto un sentito appello affinché la ricerca scientifica e biomedica, evitando ogni tentazione di manipolazione dell'uomo, si dedichi con impegno ad esplorare vie e risorse per il sostegno della vita umana, la cura delle malattie e la soluzione dei sempre nuovi problemi in ambito biomedico" (L'Osservatore Romano, 24-­‐25 febbraio 2003). 3 Questo volume, pertanto, segna un punto di specifica connotazione delle istanze cristiane nell'ambito della ricerca, ma porta anche il segno di un cammino percorso dalla PAV, la quale, come ha detto il Santo Padre nello stesso Discorso, "nel campo della ricerca biomedica può costituire un punto di riferimento e d'illuminazione non solo per i ricercatori cattolici, ma anche per quanti desiderano operare in questo settore della biomedicina per il bene vero di ogni uomo" (Ibid.). È un invito che la PAV non può lasciar cadere, ma ha la responsabilità di raccogliere con umiltà e spirito di servizio. 4 GIOVANNI PAOLO II Discorso ai Partecipanti alla IX Assemblea Generale della PAV Carissimi membri della Pontificia Accademia per la Vita! 1. La celebrazione della vostra Assemblea mi offre l’occasione di rivolgervi con gioia il mio saluto, esprimendovi apprezzamento per l’intenso impegno con cui l’Accademia per la Vita si dedica allo studio dei nuovi problemi nel campo soprattutto della bioetica. Un particolare ringraziamento rivolgo al Presidente, Prof. Juan de Dios Vial Correa, per le amabili parole di saluto indirizzatemi, come pure al Vice Presidente, Mons. Elio Sgreccia, solerte e valido nella sua dedizione al compito affidatogli. Saluto anche con affetto i membri del Consiglio Direttivo e i Relatori di questa importante riunione. 2. Nei lavori della vostra Assemblea avete voluto affrontare, in un programma articolato e denso di riflessioni fra loro complementari, il tema della ricerca biomedica, ponendovi dal punto di vista della ragione illuminata dalla fede. È una prospettiva che non restringe il campo di osservazione, ma piuttosto lo amplia, perché la luce della Rivelazione viene in aiuto della ragione per una più piena comprensione di ciò che è proprio della dignità dell’uomo. Non è forse l’uomo che, come scienziato, promuove la ricerca? Spesso è ancora l’uomo il soggetto su cui si compie la sperimentazione. In ogni caso, è sempre lui il destinatario dei risultati della ricerca biomedica. È un fatto da tutti riconosciuto che i miglioramenti della medicina nella cura delle malattie dipendono prioritariamente dai progressi della ricerca. In particolare, è soprattutto in questo modo che la medicina ha potuto contribuire in maniera decisiva a sconfiggere epidemie letali e ad affrontare con esiti positivi gravi malattie, migliorando notevolmente, in grandi aree del mondo sviluppato, la durata e la qualità della vita. Tutti, credenti e non credenti, dobbiamo rendere omaggio ed esprimere sincero appoggio a questo sforzo della scienza biomedica, rivolto non soltanto a farci meglio conoscere le meraviglie del corpo umano, ma anche a favorire un degno livello di salute e di vita per le popolazioni del pianeta. 3. La chiesa cattolica intende esprimere anche un ulteriore motivo di gratitudine a tanti scienziati dediti alla ricerca nell’ambito della biomedicina: molte volte, infatti, il Magistero ha richiesto il loro aiuto per la soluzione di delicati problemi morali e sociali, ricevendone una convinta ed efficace collaborazione. Qui vorrei ricordare in particolare l’invito che il Papa Paolo VI, nell’Enciclica Humanae Vitae, rivolse a ricercatori e scienziati, affinché offrissero il loro contributo "al bene della famiglia e del matrimonio", cercando di "chiarire più a fondo le diverse condizioni che favoriscono un’onesta regolazione della procreazione umana" (n.24). È invito che faccio mio sottolineandone la permanente attualità, resa anche più acuta dalla crescente urgenza di trovare soluzioni "naturali" ai problemi di infertilità coniugale. Io stesso, nell’Enciclica Evangelium Vitae, ho fatto appello agli intellettuali cattolici perché si rendessero presenti negli ambienti privilegiati dell’elaborazione culturale e della ricerca scientifica per rendere operante nella società una nuova cultura della vita (cfr n. 98). Proprio in questa prospettiva ho istituito la vostra Accademia per la Vita con il compito di "studiare, formare e informare circa i principali problemi di biomedicina e di diritto, relativi alla promozione e alla difesa della vita, soprattutto nel diretto rapporto che essi hanno con la morale 5 cristiana e le direttive del magistero della Chiesa" (Motu Proprio Vitae Mysterium, 4) Nel terreno della ricerca biomedica l’Accademia per la Vita può quindi costituire un punto di riferimento e di illuminazione non solo per i ricercatori cattolici, ma anche per quanti desiderano operare in questo settore della biomedicina per il bene vero di ogni uomo. 4. Rinnovo, pertanto, un sentito appello affinché la ricerca scientifica e biomedica, evitando ogni tentazione di manipolazione dell’uomo, si dedichi con impegno ad esplorare vie e risorse per il sostegno della vita umana, la cura delle malattie e la soluzione dei sempre nuovi problemi in ambito biomedico. La Chiesa rispetta ed appoggia la ricerca scientifica, quando essa persegue un orientamento autenticamente umanistico, rifuggendo da ogni forma di strumentalizzazione o distruzione dell’essere umano e mantenendosi libera dalla schiavitù degli interessi politici ed economici. Proponendo gli orientamenti morali indicati dalla ragione naturale, la Chiesa è convinta di offrire un servizio prezioso alla ricerca scientifica, protesa verso il perseguimento del bene vero dell’uomo. In questa prospettiva essa ricorda che non solo gli scopi, ma anche i metodi e i mezzi della ricerca devono essere sempre rispettosi della dignità di ogni essere umano in qualsiasi stadio del suo sviluppo e in ogni fase della sperimentazione. Oggi, forse più che in altri tempi dato l’enorme sviluppo delle biotecnologie anche sperimentali sull’uomo, è necessario che gli scienziati siano consapevoli dei limiti invalicabili che la tutela della vita, dell’integrità e dignità di ogni essere umano impone alla loro attività di ricerca. Sono tornato più volte su questo argomento, perché sono convinto che tacere di fronte a certi esiti o pretese della sperimentazione sull’uomo non è permesso a nessuno e tanto meno alla chiesa, cui quel eventuale silenzio sarebbe domani imputato da parte della storia e forse degli stessi cultori della scienza. 5. Una speciale parola di incoraggiamento desidero rivolgere agli scienziati cattolici perché, con competenza e professionalità offrano il loro contributo nei settori ove più e urgente un aiuto per la soluzione dei problemi che toccano la vita e la salute degli uomini. Il mio appello è rivolto in particolare alle Istituzioni ed alle Università, che si fregiano della qualifica di "cattoliche" perché si impegnino ad essere sempre all’altezza dei valori ideali che ne hanno propiziato l’origine. Occorre un vero e proprio movimento di pensiero e una nuova cultura di alto profilo etico e di ineccepibile valore scientifico, per promuovere un progresso autenticamente umano ed effettivamente libera nella stessa ricerca. 6. Un’ultima osservazione è necessaria; cresce l’urgenza di colmare il gravissimo e inaccettabile fossato che separa il mondo in via di sviluppo dal mondo sviluppato, quanto alla capacità di portare avanti la ricerca biomedica, a beneficio dell’assistenza sanitaria e a sostegno delle popolazioni afflitte dalla miseria e da disastrose epidemie. Penso, in special modo, al dramma dell’AIDS, particolarmente grave in molti Paesi dell’Africa. Occorre rendersi conto che lasciare queste popolazioni senza le risorse della scienza e della cultura significa non soltanto condannarle alla povertà, allo sfruttamento economico e alla mancanza di organizzazione sanitaria, ma anche commettere un’ingiustizia e alimentare una minaccia a lungo termine per il mondo globalizzato. Valorizzare le risorse umane endogene, vuol dire garantire l’equilibrio sanitario e, in definitiva contribuire alla pace del mondo intero. L’istanza morale relativa alla ricerca scientifica biomedica si apre così necessariamente ad un discorso di giustizia e di solidarietà internazionale. 7. Auguro alla Pontificia Accademia per la Vita, che si accinge a iniziare il suo decimo anno di vita, di prendere a cuore questo messaggio e di farlo giungere a tutti i ricercatori, credenti e non 6 credenti, contribuendo anche in questo modo alla missione della Chiesa nel nuovo Millennio. A sostegno di questo speciale servizio, caro al mio cuore e necessario per l’umanità di oggi e di domani, invoco su di voi e sul vostro lavoro il costante aiuto di Dio e la protezione di Maria, Sede della Sapienza. Come pegno dei lumi celesti, imparto volentieri a voi e ai vostri familiari e colleghi di lavoro l’Apostolica Benedizione. (pubblicato in "L’Osservatore Romano", Lunedì-­‐Martedì 24/25 Febbraio 2003, p. 5) 7 JAVIER LOZANO BARRAGÁN Nuovo paradigma: origini e proposte Attending to United Nations meetings, and seeing the different positions of the Governments in the World about the principles and values according to which one must build the Bioethics, I tried to find a ethical system from which one can logically understand those official issues. Between several settlements I find finally the right material to construct the synthesis. This system is called the New Paradigm, that now I will expose synthetically in the first part of my talk. Once individualizing the system, I thought it was necessary to go to his roots. Some of them I will present in the second part, and in the third part I will make some evaluation and positive proposals. THE NEW PARADIGM It is strange that in the matter of Ethics the norms will have a compilation into a Paradigm that in its own concept for many is only a hypothesis and properly not required to be truth. And it is still more strange that one can configure norms not according to the truth; but the fact is that we have now this Paradigm and it is taken as supreme law for many Departments of Health in the World, and guides the behaviour of many Bioethics Committees. I synthesize it in 12 points. The authors Within the United Nations, the World Health Organisation and UNESCO, were requested to accept this Paradigm in particular by three NGOs: "The Women's Environment and Development Organisation", "The Earth Council Green peace"and "The International Planned Parenthood Federation". They have adopted a series of principles within the context of what is called "new ethics" or "global ethics". Some of their significant points are as follows. The global development Today's world, as it is, cannot go on; after the Cold War we are faced with unsustainable ecological situations, we are going towards a total degradation of the planet because of pollution caused by toxic refuse of every kind, as well as radioactive waste. All of this brings us a constant malaise that continue cannot go on. We need to work for the everyone's well-­‐being and prosperity. We need to achieve global prosperity and well-­‐being. The sustainable development Such global prosperity and well-­‐being is possible only with global development and not with that kind of development which has been achieved so far. This is because such development can no longer be sustained. We should achieve sustainable development, that is to say development that will no longer damage the planet, where, indeed, through harmonious development, there will be prosperity and well-­‐being for everyone, a prosperity and well-­‐being that centres around the person. 8 The quality of life Global prosperity and well-­‐being with sustainable development is the aim of the new global ethics. It is that convergence towards which the new paradigm is directed. This global prosperity and well-­‐being is what constitutes that goal known asquality of life, which is defined "as the perception of the individual of his position in life, in the context of the culture and the system of values in which he finds himself, in relation to his goals, expectations, standards and interest". This is a concept of life of vast range that embraces in a complex way the physical health of the person, his psychological state, his personal beliefs, his social relations and his ability to relate to the relevant data of his environment (WHOQOL). The fields of quality of life Quality of life covers six fields: 1. physical health; 2. psychological health; 3. industrialisation and environmental degradation, the ineptitude of institutions, environmental pollution, the fabrication of food, 4. social injustice, 5. forms of religious extremism and other kinds of extremism, intolerance and social exclusion have to be fought, 6. the new spirituality that transcends all other spiritualities and religions; it fights them and replaces them because they are seen as bastions of resistance against some of the values and goals of the new paradigm. The values The values of free enterprise, national sovereignty, religions, dogmas, natural law and traditional values must be rejected because they are irrelevant and because they have created an ethical void. Now, new values have to be created, the only ones that will allow people to live in peace. The values of the new paradigm are those that inspire a culture of peace: love, sharing, care, comradeship, a process that leads decisions to be taken after consultation participatory democracy, decentralisation, negotiation, processes of arbitration and positive adjudication, no war, respect for life, freedom, justice and fairness, mutual respect, and integrity. The pillars These ethics are based upon five pillars: human rights and responsibility, democracy and the components of civil society, the protection of minorities, commitment to the peaceful solution of conflicts and open negotiations, inter-­‐generational equity. The spirituality Given that the various religions of the world are not able to generate these global ethics, it is necessary to supplement them with a new spirituality whose goal is global prosperity and well-­‐
being with sustainable development. Nature, the earth (called "Gaia"), is divine and inviolable. Man is one of various elements, and is to be understood only in harmony with the earth. This is said not to be a new religion but a new spirituality. The religions that have existed hitherto have been concerned with the other life -­‐ this spirituality is concerned with this earthly life. It is a spirituality without God, to be located at a temporal level, whose final goal is the liveability of the actual world and in it the prosperity and well-­‐being of man. However, in this new spirituality valid elements present in different creeds are not rejected. They are brought together to form global ethics. In this way, and in particular from the religions of the 9 American native communities, are taken their respect for nature and necessary interaction between man and nature. From Judaism is taken the concept of holiness; from Buddhism, serenity and impassivity; from Hinduism, respect for animals; from Islam, the virtue of justice; and from Christianity, charity and mercy. Despite all this, it is asserted that no religion is competent to resolve the ecological problem; no religion has valid answers for this epoch of globalisation. We need to fight against hegemonies that are sought after and dogmatic hierarchies that want to impose their points of view. The objective is to shape a shared framework of behaviour that points out the fundamental ethical principles for emerging global society. Overpopulation, industrialisation, environmental degradation, the ineptitude of institutions, environmental pollution, the fabrication of food, social injustice, forms of religious extremism and other kinds of extremism, intolerance and social exclusion have to be fought. The new spirituality transcends all other spiritualities and religions; it fights them and replaces them because they are seen as bastions of resistance against some of the values and goals of the new paradigm. The problems The problems to be solved are classified into four groups: the first concerns re-­‐establishing the correct relationship between man and nature; the second, the meaning of happiness, life and fullness; the third examines the relationship between the individual and the community, and the fourth is concerned with the balance between fairness and freedom. The norms Such new ethics are independent of dogma and natural law. They redefine the connection between knowledge and ethical practice. This connection is not causal as is the case with the sciences-­‐ it is situational. That is to say, there is no need for evident norms that govern behaviour. It is, rather, the behaviour of today that will be translated into norms of behaviour for the future. The problem is to generate agreement so that the peoples of the world accept these new global ethics, and for this reason it is necessary to motivate everyone in the most effective way. The foundations The three foundations upon which these new ethics and this new spirituality are founded are human rights, health for everyone, and education. The human rights Human rights are based upon total fairness amongst men. For this reason, the only acceptable remedy required is, on the one hand, a stabilisation of population levels, and on the other, a massive transfer of wealth from the rich to the poor. For some supporters of these ethics, capitalism is the root of all evils, and for this reason a requirement of the new order is opposition to economic globalisation. They argue that we need to create a new, shared standard of life for everyone. The diversity of cultures is respected and at the same time the aim is the imposition of a universal culture. 10 Health for all Health for everyone requires the presence of eight elements: education in health, suitable food, clean water, elementary forms of care, mother-­‐child health, vaccination against the principal infectious diseases, the prevention and control of local endemic diseases, the suitable treatment of illnesses and management of common disasters, access to essential drugs and medicines, and reproductive health. This right is inherent in social security, involves the eradication of poverty, global social fairness, and is achieved through global governance. It requires concern for education and democratic tendencies. Education for all Education must be education for all. The contents of the basic curriculum of the education of the population is divided into four categories: social and economic development with emphasis on social demography; the environment and the ecosystem, and management of the inter-­‐
relationship between the population and the environment in particular; sexuality and the achievement of personal complementariness; and the family and prosperity and well-­‐being. Emphasis is placed upon human rights, sustainable development, fairness within humanity; health security, participation, governability, techniques for shaping support, global citizenship, peace, the protection of the environment and reproductive health. This education must be holistic. It is the key to obtaining agreement on acceptance of the new paradigm. And because it must be interdisciplinary it has to generate a complex process. It must be both formal and informal. The principles of bioethics All this helps to outline the principles of bioethics closed to the Transcendent. Within such bioethics, which some people have called "subjective" or "autonomous", some general normative principles have been formulated in order to be able to map out the study of human behaviour within the life and health sciences. These principles are three in number and they are as follows: the principle of autonomy; the principle of doing good (and on the negative side of not doing harm); the principle of justice. The principle of autonomy means the freedom of the moral agent, and this means that an action is good if it respects the freedom of the moral agent and other people. The principle of doing good means that good should always be done and doing wrong should always be avoided. The principle of justice means that each person should be given what is due to him. The origins of the these principles Given that as a matter of fact this form of bioethics does not contain objective norms, the justification of such principles is complicated. Some people have attacked these principles, arguing that they have already gone beyond American principleism (a reference to the place where they were drawn up). Others, on the other hand, provide a justification for these principles and argue that their formulation was carried out along experimental lines on the basis of the good and bad results of actions carried out in the field of bioethics accompanied by a synthesis of their consequences. Various explanations are given or none are given at all. The different positions are as follows: 11 the evolutionistic theory: the evolution of the species continued when man appeared and man continues to evolve not only as regards his nature but also in terms of his culture, and thus for each stage of his history there is a different culture and a different set of ethics. In the contemporary stage of his history, those principles of bioethics are the valid one. The subjectivist theory: it is not possible to know values: each person must proceed as he thinks fit and as a general result of this procedure the principles that are adopted arise. The contract theory: given the subjectivist theory leads us to full relativism, it is applied, however, with the support of consent, that is to say agreeing with everyone and proceeding in line with the opinion of the majority, a sort of social contract between the members of society. Everyone agrees on these principles. The clinical theory: however, given that it is not always possible to reach agreement, each case is examined in turn and the action taken is that considered the best for that particular case. The utilitarian theory: if one asks what the best is for that particular case, the answer provided involves the utilitarian theory of cost/benefit, according to which what costs least and gives the best results should be carried out. The theory of new principles: some authors (for example Peter Singer) argue that one should not dwell upon the old principles but rather invent new ones. Thus, for example, one should not adhere simply to the principle "thou shalt not kill" but adhere, instead, to a new one, which affirms: "kill only if you decide freely to do so and take responsibility for all the consequences". The principles that are adopted can be adopted as ethical principles, as long as each person decides freely and takes responsibility for all the consequences. SOME ROOTS OF THIS PARADIGM Without entering into complex Eastern thought but remaining within the Western cultural sphere, we find two opposing ways of thinking, in varying conditions of contradiction with each other, about the ethical point that logically arises from their mental worlds. These two approaches have registered major successes but also great failures. Those two positions we find in the line of to be and to become, and in the line of to be and to think. In this second part, we will also proceed in a very schematic way. To be and to become In classical Greek antiquity we find two philosophers Parmenedas and Heraclitus with divergent approaches: that of Parmenedas of one and all, immobility, and that of Heraclitus of everything evolves, mobility. Classical Greek philosphers would, through Aristotle, join the two alternatives in hylomorphism. Many centuries later, in the face of nominalism, St. Thomas Aquinas declared "ens est id quod est" (being is what is), objective reality, whereas Duns Scoto stated "ens est id quod potest esse" (being is what can be), mere possibility. This last way of thinking, opens the door to the Empirisme of Bacon, Hobbes, Hume and Locke, with all its advantages and disadvantages. The science will be separated from its transcendental goal, in the sense of St. Agustin, and closed in the material experience as such. By another point of view, Nominalism of William of Ockham is very important in the Middle Age problem of the reality of Universals, according to whom the Universal is nothing else but a mere vocal emission. Consequently there are no universal truths, and as a result, no norms of universal mandatory application. 12 Thinking and being The great change came with Descartes, or to put it more accurately, with his followers, because Descartes probably remains in the platonic way of thinking belonging to the Oratory of LaBerule. The alternative was: do I think it because it is being, or is it being because I think it? If one accepts the first part of the alternative then an objective truth exists; if one accepts the second, the truth is what I accept it as. In the context of the second part of the alternative a large part of contemporary thought was forged, and this had decisive consequences as regards ethics because it meant the absolute autonomy of man: it is he who decides in the final analysis what is true and what is false, what is good and what is bad. This full autonomy would also be deduced from other key points in the thought of Descartes, that of "clear and distinct" ideas which belong only to substances: God, the conscience, and extension. The basic condition for a thing to be seen as a substance is its full independence. Descartes said that a substance "est id quod ita existit ut nulla alia re indigeat ad existendum" (it is what exists so and does not need anything else to exist). This Cartesian concept would lead later to the full independence and autonomy of man. Man in himself, was held to be, absurdly, his own project. His own present reality was his future project and in the best of cases, along the lines of Engels, the "pious atheist", his project was the myth arising from the multiplication of his own wishes to the point of mathematical infinity. We are here in the line of the positivistic way of thinking in the Encyclopaedism, specially of August Comte. In this line of not objectivity, denying the possibility of acceding to the noumenon, Kant advanced in ethics to collective and formal subjectivity with his "categorical imperative"; so He formulate the norm according the consensus of the majority. For his part, Hegel gave political consistency to this subjectivity by locating the highest realisation of the "spirit" in the State, in the prusian State, and so making the political power the norm of morality. Subsequently, following the path of Engels, Marx said that "Hegel would be made to walk with his feet on the ground" in dialectical materialism, where the classless society was seen as the only source of morality in the autonomy of consequent historical materialism. Contemporary currents In the logical development of this subjectivism, six currents of thought have today become established. They are easily applied to this Paradigm, and they are: Eclecticism, which accepts any type of behaviour, outside its system, context or evaluation; Historicism, according to which truth changes according to adaptation to a specific epoch; Scientism, in which it is affirmed that the only acceptable truth is experimental truth in the scientific field; Pragmatism, where ethical decisions are made taking into account only the criteria of utility according to the cost/benefit tandem guided by the opinion of the majority; Nihilism, in which there is the simple abandonment of the idea of reaching objective truths; Post-­‐modernity, in which nihilistic positions are adopted. It is obvious that in this whole way of thinking in the field of Ethics, the outcome was merely subjective ethics opposed to the objectivity of nature, which was no longer seen as real, because objectivity is conceived statically (here include also the Natural Law). As a result, it was declared that "objective" ethics, based upon nature, is the outcome of ignorance or out of fashion, belonging to the Ages of darkness of the mankind. The experimental sciences are based in the mobility of things that is the only reality. Especially in the field of medicine: it was asserted that 13 whereas until a short time ago this belonged to the field of the observable, now, instead, all its action develops within the field of "that which can be manipulated". Passing from the scientific plane to the religious plane, the Christian Protestant approach has strongly contested the very concept of "nature", at least of human nature, because it sees nature as essentially vitiated. If nature is indeed like that, it is logical that human nature cannot be moral norm. SOME EVALUATION AND PROJECT The values of the new paradigm It is right to react against environmental degradation, and it is also right to be aware of the fact that development has its limits and that development that does not take into account the degradation that it causes to nature should not be supported. At the same time, it is right to search for prosperity and well-­‐being and that the greatest prosperity and well-­‐being for the greatest number of the inhabitants of the planet should be ensured. It is equally right that quality of life should be procured, especially if by this is understood self-­‐
awareness of the position that a person occupies in his overall -­‐ both ecological and cultural in a broad sense, situation, which includes the economic, social, religious, political and cultural aspects, in the strict sense of the terms, of the field of education. It is right to defend human rights, respect for social minorities, for democracy, for fairness amongst all men, that is to say their fundamental equality, both as regards men and women, to re-­‐establish a correct relationship between man and the environment and between the individual and the community. It is right to defend social justice, and the economic injustice present in today's world is very evident. To require health for everyone, at least as regards its basic elements, is an inescapable requirement, and obtaining education for all is also a primary need. The anti-­‐values of the new paradigm The most important anti-­‐value lies in the fact that the new paradigm presents itself, as they say, as a new spirituality, which takes the place of all religions because these are inadequate to the task of preserving the ecosystem. In practical terms, this is a new secularist religion, a religion without God, or to put it another way, with a new God, the earth itself, which they call Gaia. The subordinate element of this divinity is man. The series of values that the new paradigm upholds are values that are subordinated to this divinity, which is translated into the supreme ecological value, known as sustainable development. Within this sustainable development the supreme ethical goal is prosperity and well-­‐being. It is certain that this paradigm totally denies Christianity and its founding historical fact, namely the Word made flesh, the redemptive death of Christ and his glorious resurrection. If one accepts this historical fact, the pre-­‐supposition of the new paradigm collapses completely. This does not means that the values espoused by the new paradigm also collapse. Indeed, these are not extraneous to Christian thought but are to be placed within it. Ever since Genesis, reference has been made to homo sapiens and homo faber. The two have to be reconciled: man is not the despotic master of nature but a wise worker who dominates nature and respects its laws. What makes the new paradigm unacceptable is its denial of God and the life beyond, and, in concrete terms, the denial of Christ as the only saviour. 14 The use of terms in the New Paradigm often carries some confusion: they never speak of persons but individuals, not equality, but equity, not government but new governance, not family but peer, not procreation, but reproductive health, etc. The equality of the sexes is to be accepted, not, however, in the sense of homosexuality and the destruction of the family. Birth control is to be accepted, but not in a destructive sense such as that planned through the culture of death, which is applied in a special way in the third world. Prosperity and well-­‐being is not the same as happiness. Christ does not promise us in an illusory way total prosperity and well-­‐being in this world, but he does promise us happiness. The point of discernment for any religion, or as the new paradigm says, any spirituality, is the solution to the problem of death. This is something that the new paradigm does not in the least possess because it simply avoids it, and what death involves, and in a special way suffering, pain and illness. Christ is the only person to give a satisfying answer to it: with his glorious cross in the resurrection. One of the great problems of the new paradigm is when it becomes aware of the fact that everything has to be based upon examples of agreement that do not arise from objective truths but from subjective opinions. It thus tries to create artificial forms of agreement. Such forms of agreement are absolutely variable and for this reason ethics or bioethics based upon the new paradigm do not have consistency. An ethical law without authentic foundation cannot be a true law. Saying that the actual behaviour must convert itself in norm for the future generations is totally insane. Regarding to the principles of bioethics As we can see, in each of the given explanations to justify those principles one arrives at a form of relativism, not only in observing the alleged origins of these principles but also in examining the principles themselves. It is indeed the fact the principle of autonomy corresponds to acting with freedom, but this means that for this moral action those who do not possess freedom are not taken into consideration: people such as invalids, children, foetuses, and embryos. Regarding to the principle to do good, but what is good? What really does good to a person? If we do not know anything about what can be good for a person, we cannot do good to that person. The same applies to the principle of justice: what is due to every person? The very principles advanced, seen in themselves, doe not have an explanation. It is usually said that these principles must be understood as actual principles, that is to say as merely principles to be actually applied, and not as prima facie principles, that is to say as theoretical principles. But the difficulty remains in the case of principles to be actually applied as well: why should I act in this way if it is not reasonable? In addition, when these principles come into conflict with each other which of them should prevail? For example, if the principle of autonomy comes into conflict with the principle of doing good and this, in its turn, comes into conflict with the principle of justice, which principle should we follow? We need a further and prior principle, which gives them unity and which resolves a possible conflict. The principle of autonomy, and thus the principle of freedom as well, has its own limits when it has before it the good of a third party, and the good of a third party is also limited when it has before it what is due to another person. In the final analysis, however, the principles do not lay down what is due to that person. Thus some people make recourse to what they call ethical narrative, in which they narrate, one after the other, only the cases that occur, and action is taken following the example of what came before. Or refuge is taken in what they call female perception, that is to say what the refined goodness adjudges advisable. In this way one draws near to another criterion that they call the criterion "of virtue", by which the person who decides what is good and what is bad is the person who has sufficient virtue, where by 15 virtue is understood acting according to recta ratio. In referring to upright reason, one draws near to the classic conception of objective bioethics. The principles must be accepted only by their objective foundation, withdrawing them from the relativism of the mere subjectivity. Being and thinking The answer to the question we raised at the beginning according the Cartesian mentality must be: the being is not because I think in it, but I can think in it because it exist. This is the objectivity in which the Ethics must be founded. As regards the current of thought that gives objectivity to ethics, we encounter the Aristotelian-­‐
Thomistic position, which, in fundamental terms, was adopted by the Magisterium of the Catholic Church, without neglecting the valid elements that are found in the subjectivist discourse already discussed and in all the inputs from Catholicism that have enriched it. In this current of thought therefore truth lies in the conformity of thought with the object. It is not the thought of man that creates reality, but the existence that gives reality the possibility of being thought. The criterion of morality by which we know if an action is good or bad is certainly man, the subject, but this subject is objective, is the human nature, considered in his complexity which implies his opening to the Transcendent. Morality consists of the pathway by which to realise the "human project" but this pathway not only does not exclude the transcendent model from man himself but necessarily includes it. A person cannot at the same time be his own present and his own future. In this form man does not create morality, morality transcends him, it is there and he meets it, is object "ob-­‐jacet". It is not the case that the subject is not implied, indeed it is the subject who follows the pathway and in a certain way marks it out, even though not according to his absolute free will because there are norms that transcend him. Man has his own autonomy in enjoying his freedom. However, this autonomy, this norm of being himself, is not absolute. Man in his limited and constantly constructed reality must necessarily be open to a model that transcends him. THE PROJECT: SUBJECTIVITY, OBJECTIVITY AND MOBILITY OF THE HUMAN NATURE Bioethics as a project In speaking about the life sciences and in asking ourselves about correct human behaviour to be followed in the experimental sciences that manipulate life, the question includes the following factors: human life, lack of human life, increase in human life, improvement of human life, norms to be followed to obtain this improvement, and deviations to be avoided. In other words, we find ourselves face to face with the tandem "need-­‐satisfaction". This means that there is a living subject who aspires to improve himself, he has to tread his path; if he has to follow a path he must mark it out, and if he marks it out, he must first know where it leads if he wants to mark it out. In the field of life one has to know what life is, what the best life that one wishes for is, which pathways should be followed to achieve it and which should be avoided, because these latter, rather than giving life, could lead to its loss. Bioethics thus appears as a project for the construction of man through the life and health sciences. 16 Technology and bioethics To make the point more clearly, we could imagine neutral technology (since in fact there are no neutral sciences because every science is analysis and synthesis, and synthesis can never be neutral). If then we could speak about neutral technology, closed within itself, we would have to say that according to the laws of the laboratory, hypothesis, experimentation, thesis, new hypothesis, new thesis and new experimentation -­‐ the framework of technology in itself is mere possibility, whereas the framework of ethics is the goal. For this reason, technology in itself can build or destroy man, technology in itself is blind, however advanced and marvellous it may appear to be. Biotechnology in itself is blind and ambivalent. An intelligent project For this reason, so that a real bioethics can exist that provides us with norms for behaviour in the field of health and life, the first thing that we must ask ourselves concerns the project for man that people have in mind in the manipulation of these fields of health and life. Curiously, having a project denotes intelligence but at the same time also indicates weakness because a project represents an intention to improve reality which appears deficient, because, if such were not the case, the projects to improve it would not exist. Authentic bioethics must appear as a project to improve human life itself which contains all the life and health sciences as its intelligence, as that intus legere (read within) that in every analysis always has present the synthesis of arrival which can be nothing else but the construction of human life. The best self For a project regarding life to function (like any other project), it has to understand as completely as possible the life reality that it wishes to improve, and the "best self" to which it aspires. This best self, which is a goal and a purpose at the same time, is the model whose reproduction is sought. According to these two realities, a tendency, a pathway, an ethos from the self to the best self, is marked out. This pathway is ethics and, in our case, bioethics. In it we find norms that cannot be merely formulations or imperatives outside the self but real constructions of the same "self" that gradually draw it near to this best self, increasing its vital density. Therefore a science must always finally be conceived in the sense of St. Agustin, as a teleological knowledge; if not it will be dehumanising and destroying man himself. Freedom It is ethical theory and practice as a whole that opens up to the true concept of freedom, which does not consist simply in doing what one wishes but in that attribute of will that directs it towards one's own construction. In this sense, the criterion of morality is man himself in his total complexity and not in closing himself up in his own ability to construct himself and in his enormous capacity to destroy himself. This complexity leads him to be aware of his own reality which means being in a relationship, being open and beginning, therefore, to walk, or rather to open himself freely to the Other, which in this case is the fullness of Strength, Truth and Love, namely God. Man, through freedom, in his project of construction, always opens himself to forces of the authentic progress of biotechnology in order to increasingly achieve his life fullness in constant harmony with God, with the whole of mankind and with the total environmental context. 17 Revelation Many times one does not dare to speak in the scientific fields of Revelation, especially in Bioethics, but I think that this is the proper dimension of an authentic objective Bioethics that will be open to the whole project of man. In Catholic thought such open, "objective", real, without frontiers, ethics open up to full communication with Almighty God the Father who realises in us the Truth of the Son through his Incarnation, Passion, Death and Resurrection. He fills up all our aspirations leading us along the pathway that is Christ in the fullness of the love of His Spirit. Catholic ethics and bioethics are Christ's walking within us to the Father through his death and resurrection through the love of the Holy Spirit. Bioethics is in this way the walking of the Spirit in us through the pathways of the life and health sciences. "Those who are led by the Spirit are the children of God'. The spirit infuses in man the ability to walk towards the construction of total Christ, which is virtuous life, and maps out the understanding of Christ himself as a pathway through the commandments and the Sermon on the Mount. Catholic bioethics, therefore, is: The systematic and deep study of the behaviour that constructs man through the life and health sciences in walking with Christ towards the Father, fullness of life, through the strength of the Holy Spirit. This theological vision expresses a deep and structural dialogue with all the relevant sciences and forms of technology, with all the unifying forms of thought of analyses carried out by the different philosophical and theological currents, entering into dialogue as well with other religions taking into account the fact that it is a study of behaviour and thus, as a result, it cannot remain within the trajectory of reflection but must take concrete form in light that guides in the difficult solution of the problems raised by genetic engineering. 18 VINCENZO CAPPELLETTI BIOMEDICINA DEL VENTESIMO SECOLO LA FISIOPATOLOGIA COME PARADIGMA Sullo scorcio del secolo decimonono – nell’ultimo venticinquennio dell’Ottocento, per maggiore esattezza -­‐, una rinnovata medicina, «scientifica», dà atto di sé come costruzione e applicazione dell’unità di fisiologia e patologia: un paradigma teorico dovuto a due personalità di sommo rilievo intellettuale, Rudolf Virchow (1821 – 1902) e Claude Bernard (1813 – 1878). Nel periodo considerato, Virchow è attivo a Berlino tra l’Università, di cui diventa rettore nel ’93, e l’Accademia delle Scienze: appartiene a lui, con una formula peculiare, «pathologische Physiologie» [fisiologia patologica], l’espressione poc’anzi adoperata per indicare l’ancoraggio concettuale del sapere medico alla fine dello scorso secolo. Nel primo numero dell’Archiv für pathologische Anatomie und Physiologie und für klinische Medicin, uscito nel 1847 sotto la sua direzione, Virchow aveva chiarito che «le malattie non sono entità a sé stanti, chiuse in sé stesse; esse non sono sostanze intruse nel nostro corpo, e neppure parassiti che vivano alle spese del corpo: le malattie rappresentano soltanto il decorso dei fenomeni vitali in condizioni abnormi.» Così intesa, la fisiopatologia – riprendiamo il termine corrente – finisce con l’assumere un’accezione tanto vasta, da identificarsi non soltanto con la medicina, ma con la biologia, «la teoria della vita in generale e dell’uomo in particolare», come la definirà lo stesso Virchow, in un articolo pubblicato sull’Archiv nel ’53. Rischiose illazioni e coraggiosi passaggi al limite erano anche incoraggiati dal corso del sapere filosofico negli anni ai quali ci riferiamo. Preparata da riflessioni e interventi propositivi – insigne tra tutti, il documento elaborato dall’ambasciatore del re di Prussia presso il Papa, Wilhelm von Humboldt -­‐; voluta dallo Stato prussiano come simbolo di rinascita nazionale dopo la sconfitta subita a Jena nel 1806 ad opera di Napoleone, era sorta nel 1810 l’Università di Berlino, al fine di ripristinare l’unità del sapere umanistico e scientifico. Ma nei primi due decenni l’influenza predominante sarà quella dei filosofi, attraverso Fichte, Hegel e Schelling, malgrado il prestigio e l’attività del fisiologo Johannes Müller (1801 – 1858), «l’uomo che portava su di sé l’impronta dello straordinario», come lo definirà un allievo, il neurofisiologo Emil du Bois-­‐Reymond, nel discorso commemorativo tenuto l’8 luglio 1858 all’Accademia delle Scienze di Berlino[1]. Sarà il geografo Alexander Humboldt (1769 – 1859), fratello di Wilhelm, a determinare l’avvicendamento del predominio umanistico con quello scientifico, attraverso un ciclo di conferenze con ampie prospezioni naturalistiche, poi raccolte (1845 – ’58) nei cinque volumi del Cosmo[2]. Ma nella cerchia di Müller, pur perdurando la subalternità delle scienze alla filosofia nell’ambiente universitario berlinese, aveva preso forma conclusiva la teoria cellulare con le Ricerche microscopiche sulla concordanza di animali e piante nella struttura e nell’accrescimento, di Theodor Schwann[3]. Finiva permerito dello Schwann una lunga, millenaria incertezza su due questioni fondamentali: dove abbia sede primaria la vita e quali siano le sue proprietà costitutive. Ormai era possibile rispondere, invertendo i quesiti: caratteri distintivi della vita sono l’accrescimento, la riproduzione e l’eccitabilità, mentre la più semplice struttura che li possegga è la cellula, con la quale perciò s’identifica l’entità vivente elementare. E’ difficile sopravvalutare l’importanza del cellularismo: teoria e sperimentazione si preoccuparono di acquisire un rapporto stretto e in taluni casi fondamentale con la prospettiva schwanniana, equiparata a un’assiomatica primaria delle discipline biologiche. Fissato il concetto della patologia come fisiologia delle situazioni morbose, Virchow l’aveva correlata in modo sostanziale con le nuove vedute di Schwann, intitolando nel ’58 l’opera che rimarrà stabilmente legata al suo nome: Patologia cellulare fondatasull’istologia fisiologica e patologica[4]. 19 Muovendosi nell’ambito della biologia generale, identificata e assimilata alla fisiopatologia, Virchow aveva introdotto nel cellularismo una duplice innovazione: la prima, fondamentale, consistente nella legge «omnis cellula e cellula», secondo cui le nuove entità cellulari si formano attraverso la divisione di cellule preesistenti e non da sostanze interstiziali per «generatio aequivoca», e l’altra, corollario della precedente e consistente nella distinzione dell’accrescimento in assimilazione e riproduzione. Ma, nonostante la straordinaria portata innovativa, la fisiopatologia cellulare mostrava i limiti di un’impostazione che oggi chiameremmo riduzionistica, sacrificando i rapporti non descrittivi, ma interpretativi e esplicativi, con le autonome e insopprimibili realtà degli organi e dell’organismo. Una fisiologia d’organo non si fece attendere, e sorse per merito di Hermann Helmholtz (1821 – 1894) in quella stessa scuola di Müller, che sul versante scientifico era giunta a pareggiare la fecondità teoretica della scuola di Hegel. Il Manuale di otticafisiologica[5], elaborato e pubblicato in un cinquantennio, tra il 1856 e il ’95, e La teoria delle sensazioni sonore come fondamento fisiologico della teoria musicale[6], uscita nel ’63 e più volte ristampata, non contraddicevano al postulato cellularistico, ma vi aggiungevano l’esigenza di una complessità strutturale, sulla quale appoggiare e dalla quale ricavare la specifica funzione, oggetto della ricerca fisiologica. Già con le Ricerche schwanniane l’analisi, per così dire, fondamentale, definitoria della vita aveva superato l’ambito morfologico: per aver associato proprietà e forma, Schwann era riuscito dove altri erano falliti. Prima di essere altro, la vita è l’unità morfofunzionale che Galeno aveva avvertita nella dimensione macroscopica, e i microscopisti dell’Ottocento avrebbero riscontrata in un ordine di grandezza centinaia di volte inferiore alla normale osservabilità. Ma parlare di funzione e funzionalità non bastava a rendere sicuro il passaggio dalla morfofisiologia alla fisiopatologia, teorizzata dal Virchow e condivisa, esplicitamente o implicitamente, da tutta la medicina di fine Ottocento: compresa la clinica, dotata di una prerogativa consistente nel proprio diretto rapporto con le malattie e il malato. La prospettiva funzionalistica dava accesso a due innovazioni sostanziali: il concetto di struttura e la categoria della qualità. Non si dà funzione, se non ancorata a un aggregato di cellule o di fattori chimici, come si dirà in seguito. Un aggregato ipercomplesso, chimico e morfologico, finirà con l’apparire anche la cellula, considerata da Schwann l’entità vivente elementare. E neppure si dà funzione senza una specificità qualitativa: la glicogenesi non è il trasporto ematico dell’ossigeno e neppure la percezione del calore e del suono, a non fare che un solo, banale esempio tra i tanti possibili. La fisiologia, o fisiopatologia a dirla ancora con Virchow, con l’abbandono dell’implicito presupposto di una natura uniforme, priva di diversità sostanziali, finiva con il sospingere il geometrismo galileiano e il meccanicismo cartesiano verso un tramonto irreversibile. Ne prenderà atto il neurofisiologo Emil du Bois-­‐Reymond (1818 – 1896), nel discorso su I sette enigmi del mondo[7], tenuto l’8 luglio 1880 nella seduta leibniziana dell’Accademia delle scienze di Berlino. Su una natura concepita come sistema di atomi materiali in movimento, affioravano sette entità problematiche, e per alcune di esse si trattava di una problematicità insuperabile, «trascendente»: l’essenza della materia e della forza, l’origine del moto, l’origine della vita, il finalismo apparente della natura, l’origine della sensazione elementare, il pensiero razionale e il linguaggio, la libertà del volere. In realtà gli «enigmi» erano non sette, ma innumerevoli: ovunque affiorasse una peculiarità da un substrato quantitativo, chi non cercasse una radice del quale accanto all’evidenza del quanto, si precludeva la possibilità di capire l’esperienza o, per dirla con Platone, di «salvare i fenomeni». Consapevole del baratro che si era aperto innanzi alla scienza meccanicistica, il du Bois onestamente concluse il suo discorso accademico con una lucida ammissione di perplessità: «Dubitemus». Drasticamente rinunciataria -­‐ «Ignorabimus» -­‐ era stata invece l’allocuzione sui Confini della conoscenza della natura[8] all’Assemblea dei naturalisti e dei medici tedeschi, svoltasi a Lipsia nell’agosto ’72: materia e coscienza erano apparse fin da 20 allora inconcepibili, «unbegreifliche», movendo da premesse meccaniche. Ma tra i due termini emblematici di una crisi radicale, quello usato per primo e poc’anzi citato avrebbe riassorbito l’altro, quando il du Bois-­‐ Reymond lo avrebbe fatto assurgere a «immutabile e inesorabile verdetto» nella premessa a un’edizione congiunta, 1884, delle due conferenze[9]. Negli stessi anni il materialista e meccanicista Virchow passava sulle posizioni, più moderate, di un «vitalismo meccanico», per cui esisterebbe una forza peculiare, orientatrice dei movimenti nei processi delle singole cellule e dell’organismo. Fisiologi, biologi e morfologi, nel loro affidarsi alle certezze dell’atomismo meccanico – salvo a denunciarne, come faceva il du Bois, i limiti esplicativi per così dire superiori -­‐, sembravano non avvedersi della contestazione empiristica, che ne faceva in quegli anni il fisico Ernst Mach (1838-­‐
1916) a nome del dato sensoriale, seguito dal fisicochimico Wilhelm Ostwald (1853-­‐1932) a nome di una nuova grandezza osservabile, l’«energia». Creatrice della meccanica moderna, solo la ragione poteva intervenire a sanarne le arbitrarie limitazioni e a trascenderne le scoraggianti aporie. Ma la fisiologia era in mani francesi oltre che tedesche e, vista e valutata oggi da noi, la statura intellettuale di Claude Bernard spicca su tutte le altre per la varietà dei programmi di ricerca, per l’affiancamento alla microscopia di metodi autenticamente fisiologici, e infine per la sorprendente ricchezza d’intuizioni epistemologiche e metafisiche. Il Bernard sperimentatore ha un profilo di assoluta eccezione: processi nutritivi e digestivi, funzioni del succo pancreatico, glicogenesi epatica, attività dei nervi vasomotori, meccanismo della paralisi curarica, rapporti fra sistema nervoso vegetativo e termoregolazione sono le aree principali, dove egli potè acquisire conoscenze sostanzialmente nuove e durature, adottando strategie originali come quella da lui stesso chiamata «autopsia chimica». A un caposaldo della biologia e della medicina come la Patologia cellulare del Virchow si possono affiancare, del Bernard, le Lezioni sulle proprietà dei tessuti viventi, tenute allaSorbona nel 1864 e pubblicate nel ’66[10]: ma attorno ad esse c’è una vasta serie di volumi analoghi, nati dall’insegnamento e distribuiti in un venticinquennio, dalle Lezioni di fisiologia sperimentale del ’56[11], alle postume Lezioni di fisiologia operatoria del ’79[12]. Bernard è tiepido verso i tedeschi: alla nozione di cellula antepone quella di protoplasma, e a Virchow ricorda che nell’ampia sintesi della patologia cellulare non bisogna perdere «il sentimento di ciò che è speciale», per giungere fino all’individuo e alla «idiosincrasia», base di tutta la medicina. Un Bernard ancora più grande è quello degli scritti che possono e devono essere considerati filosofici: l’Introduzione allo studio della medicina sperimentale del 1865[13], i Principi di medicina sperimentale, inediti e solo nel 1947 pubblicati nella forma di un corposo compendio da L. Delhoume[14], il Cahier rouge, inedito ma integralmente pubblicato nel 1962 da M. D. Grmek[15]. Un mosaico di intuizioni, di dubbi, di argomentazioni che talvolta sembrano andare in direzioni divergenti e finanche opposte; una trama concettuale che mette in evidenza l’inaccettabile semplificazione perpetrata dal materialismo – meccanicistico in Germania, organicistico in Francia; la schietta perplessità preferita alla certezza fallace: messe in una sola cornice, le riflessioni del Bernard filosofo presentano le caratteristiche accennate. Scienza e filosofia devono procedere insieme, ma le pietre dell’edificio scientifico sono i fatti. La vita è creazione, ma è anche morte. I processi vitali obbediscono al determinismo, ma l’individualità s’impone ovunque. L’anatomia studia l’organizzazione, ma la funzione è indeducibile dalla forma. La sola forma del ragionamento è quella deduttiva per sillogismi, ma lo scienziato deve concedersi le «expériences pour voir». Alta e schietta testimonianza quella resa dal Bernard, fisiologo e filosofo, alla vita in sé stessa e all’umano pensiero che l’investiga. La nascita della medicina scientifica da quella prescientifica, osservativa, impersonata nel secolo di Galilei, Boyle e Newton da Thomas Sydenham (1624 – 1689), ha avuto nel Maestro del Collège de France colui che seppe prenderne atto e auspicarne gli sviluppi. Gli fu cara, l’istituzione creata da Francesco I 21 nel 1513, perché aveva il compito di scrutare l’avvenire della scienza e discuterne i metodi. «La médicine scientifique, que je suis chargé d’enseigner, n’existe pas», dichiarò in una sua lezione. Quasi tutto doveva esser fatto, ma era stata conquistata una certezza : il nucleo della futura medicina scientifica non poteva non essere la fisiopatologia. L’ANOMALIA PSICOPATOLOGICA I dueiniziatori della fisiopatologia sono l’uno, Bernard, morto da un quindicennio, e l’altro, Virchow, ancora attivo e assurto quello stesso anno al rettorato dell’Università di Berlino, quando un giovane e promettente allievo della Facoltà medica viennese, Sigmund Freud (1856 – 1939), pubblica nel’93 sulle Archives de neurologie un articolo: Alcune considerazioni per una studio comparativo delle paralisi motorie organiche e isteriche[16], che crea una vistosa anomalia rispetto al paradigma fisiopatologico della medicina scientifica. L’anomalia era destinata a crescere, anzi a ingigantirsi, passando dalla psicoanalisi alla psicosomatica, fino a essere riconosciuta e ricompresa nello spazio complessivo della medicina, non senza perduranti incertezze. Qui è necessaria una parentesi. Abbiamo adottato una terminologia di derivazione sociologica (R. Merton, Th. Kuhn) – paradigma, anomalia -­‐, con il vantaggio di acquisire, per determinati termini, significati condivisi. Rispetto al paradigma, insieme di asserzioni basilari per una teoria o per una disciplina, si configura come anomalia ciò che, a differenza del puro e semplice ampliamento, contraddice uno o più princìpi sostanziali dell’impianto teorico originario, pur accettandone altre asserzioni normative. Nei riguardi della fisiopatologia assunta come paradigma, risulta anomala la prospettiva psicoanalitica e psicosomatica, che rimanda a fattori non inerenti a strutture anatomiche oppure a funzioni di organi determinati: coerente al paradigma era, viceversa, lo sviluppo della microbiologia con Louis Pasteur (1822-­‐1895) e Robert Koch (1843-­‐1910). Riprendiamo il nostro discorso. Nella memoria citata, Freud dava notizia di una nuova tipologia di paralisi, non simulate e non accompagnate da lesioni cerebrali, distribuite sui distretticorporei «come se l’anatomia del sistema nervoso non esistesse.» Cominciava il lungo itinerario freudiano dalle neuropsicosi di difesa alle fobie, alle psiconevrosi d’angoscia, al narcisismo, alle ossessioni: stati morbosi dove i vissuti psichici imprimono sul soma il loro suggello, anzitutto disegnandovi il profilo soggettivo del sintomo, pur senza ripetere da alterazioni somatiche la loro origine e il loro decorso. Questo la fisiopatologia non poteva accettarlo – e lo aveva rifiutato all’aprirsi della nuova prospettiva con il capo della scuola neurologica di Vienna, Theodor Meynert (1833-­‐1892) -­‐, pur avendo abbandonato, già con Virchow, la pregiudiziale di un rigoroso materialismo, a favore di altra, più aperta e meglio difendibile premessa ideologica. La priorità causale doveva attribuirsi al soma, la posteriorità agli effetti e, tra essi, ai disturbi psichici. Secondo Freud, il paziente affetto da paralisi isterica subiva l’effetto di ricordi sottratti alla coscienza: era l’evento traumatico pregresso, non una lesione anatomica che provocava il deficit motorio e ne disegnava il contorno. Come accedere a contenuti psichici dimenticati, sommersi? Negli Studi sull’isteria, pubblicati nel ’95 con Joseph Breuer (1842-­‐1925)[17], il caso clinico dominante, quello di Anna O., pseudonimo di Berta Pappenheim, presentava una procedura curativa che la stessa paziente aveva inventata. Dando libero corso ai propri pensieri, Anna O. vedeva risolversi i deficit motorî e lo stato di agitazione in cui si trovava. A questo punto occorreva trovare il coraggio, da parte del terapeuta, di rinunciare a ogni intervento esterno, in particolare all’ipnosi, e adottare «un procedimento di svuotamento strato per strato, che ci piaceva paragonare alla tecnica del dissotterrare una città sepolta.» Nel caso di Emmy von N., compreso negli Studi, Freud giungeva a una delle nozioni fondamentali dell’analisi, quella di 22 «conversione» [Konversion], per cui l’energia psichica, proveniente da una rappresentazione rimossa, si traspone in sintomo somatico, conferendogli un contenuto espressivo che diventa un significato da recuperare. Ma negli stessi anni Freud affrontava il problema del sintomo da un altro punto di vista come «equivalente dell’attacco d’angoscia», mascherato, insospettabile. La neuropatologia era giunta a un bivio, tra la psiche tradotta e talvolta regredita in corporeità, e la corporeità come contenitore di processi non giunti a elaborarsi psichicamente. Il secondo itinerario sarà quello percorso dalla medicina psicosomatica con i suoi più autorevoli Autori e i testi che ne hanno fissato l’assetto teorico: Franz Alexander, Medicina psicosomatica: princìpi e applicazioni[18], Michael Balint, La colpa basilare. Aspetti terapeutici della regressione[19], Viktor von Weizsäcker, Natura e spirito[20], Günter Ammon, Psicoanalisi e psicosomatica[21]. La psicosomatica si allontana dalla storia del soggetto, dell’Io, per tornare alla genesi delle strutture egoiche, penetrando nel cuore della struttura relazionale produttrice della malattia, che è ravvisata nella «famiglia psicosomatogena». Punto nodale dell’evento morboso nel paziente con reazioni psicosomatiche, secondo Ammon, è il disturbo delle funzioni basilari dell’Io corporeo: l’aggressività e il narcisismo. Il vertice della soggettività, tra coscienza e «potenze del destino», per dirla con il Freud di Inibizione, sintomo e angoscia[22], si perde in un lontano orizzonte per chi segua l’itinerario psicosomatico, e non quello psicoanalitico del Maestro di Vienna e del suo geniale e infedele allievo, Carl Gustav Jung (1875-­‐1961), analista dell’espressione simbolica tra psicologia del profondo e scienze umane[23]. Si è intanto costituita una psichiatria, totalmente rinnovata, attraverso Karl Jaspers (1883 – 1969) e la sua con la Psicopatologia generale[24] , alla ricerca d’ipotesi interpretative e tentativi terapeutici nell’universo sovvertito delle psicosi. Quanto sopra accennato, in particolare la complementarità di psicoanalisi e psicosomatica, dovrebbe favorire il riassorbimento dell’anomalia psicopatologica, in funzione interrogativa e problematica, nella fisiopatologia, pur all’inizio circoscritta nella funzione di riferimento paradigmatico. E tuttavia ciò tarda a verificarsi, perché la corporeità, come la fisiopatologia è incline a concepirla, non offre un terreno ontologicamente idoneo all’innesto della mente o, più modestamente, del mentale. Sono rimaste convinzioni isolate quelle del Bernard nel Quaderno rosso, per cui la caratteristica di ogni cosa risiederebbe nel suo «insieme», che a sua volta non avrebbe un «sostrato materiale determinato», ma sarebbe «per così dire, l’anima della cosa.» Siamo al confine dell’osservabile, che troppo spesso la scienza ha considerato e considera come il confine del pensabile, almeno in senso scientifico. Saranno la teoria dell’informazione e la cibernetica a varcarlo, il presunto limite, meccanicistico ed empiristico, della pensabilità, tra gli anni Quaranta e i Cinquanta: ilcibernetico Norbert Wiener riconoscerà che un materialismo non aperto all’immaterialità dell’informazione si preclude il diritto di appartenere all’odierno pensiero scientifico. Va riconosciuto al paradigma fisiopatologico il merito di un’evoluzione sostanziale affrontata e proseguita nel Novecento, per rintracciare e descrivere l’unità somatopsichica dell’organismo. Il sistema nervoso autonomo diventa il garante dell’omeostasi interna. Sistema nervoso e ghiandole endocrine giungono a correlarsi in un nuovo programma di ricerca, la già segnalata neuroendocrinologia, superando la netta cesura che il Bernard aveva postulata tra funzioni di relazione e funzioni di nutrizione. Ma l’unità dell’individuo che da ciò scaturisce, pur rappresentando una lusinghiera conquista, dev’essere avviata verso l’unità psicosomatica della persona. Con l’ontologia virtuale che la sottende, tale unità rappresenta il nuovo traguardo che il paradigma fisiopatologico, e con esso l’intera medicina, hanno avuto il grande merito di delineare e dovranno nei prossimi decenni cercar di raggiungere, articolare, definire. 23 LA DIMENSIONE CHIMICA Alla fine del Settecento, l’analisi chimica della vita si affianca alle discipline morfologiche della tradizione, e alla più recente fisiologia, con Antoine L. Lavoisier (1743 – 1794) e la sua «révolution chimique». Un coraggioso innovatore, Lavoisier, rispetto alla conoscenza dei costituenti elementari della natura, come Galilei e Newton erano stati rispetto alle leggi del movimento. Le due rivoluzioni in corso, quella sociale e quella chimica, culminano entrambe nello stesso luogo e anno: a Parigi nell’89 si riuniscono gli Stati generali e si pubblica il Trattato elementare di chimica[25]. L’aria non è più un corpo semplice, ma mostra d’essere la miscela di un elemento ossidante e di un altro, insufficiente a preservare la vita e perciò chiamato «azoto». Si chiarisce in che cosa consista la respirazione: i polmoni trattengono l’ossigeno contenuto nell’aria inspirata e restituiscono la parte residua. Nello stesso periodo i punti di vista dai quali erano osservati e descritti gli organismi viventi, con il naturalista Georges L. Buffon (1707 – 1788) e il fisiologo Gottfried R. Treviranus (1776 – 1837), accennano a unificarsi nella «biologia», che il Virchow definirà «teoria della vita in genere e in particolare dell’uomo», indicandone la compiuta realizzazione nella propria fisiopatologia. Tra questa prospettiva e la nuova chimica Lavoisier aveva istituito un intrinseco rapporto: non a caso una delle sue innovative memorie era apparsa nell’85 sulle Annales de la Société de médicine[26]. Mandato alla ghigliottina come «fermier du Roi», esattore delle imposte al servizio della corona, Lavoisier muore precocemente, ma la strada aperta da lui si prolungherà verso traguardi lontani. La chimica fisiologica Fra gli «elementi» elencati nel Trattato con ampiezza di particolari, c’era il carbonio, capace di combinarsi con il principio ossidante dell’aria formando un composto acido allo stato gassoso. La posizione privilegiata del carbonio nella scala elettrochimica degli elementi verrà in seguita adeguatamente chiarita, e potrà nascere una «chimica organica», dapprima collegata con l’organismo come presunto fattore di sintesi per i composti del carbonio, poi affrancata dall’ipotesi di una «forza vitale». All’interno della chimica organica si sarebbe enucleata una «chimica fisiologica» con Felix Hoppe-­‐Seyler (1825 -­‐1895), scopritore dell’emoglobina contenuta nei globuli rossi come vettore dell’ossigeno ai tessuti: la struttura chimica e il dosaggio saranno opera di Anders Angström (1814 – 1875). Siamo negli anni in cui nascono la fisiopatologia e la medicina scientifica, con il Virchow e il Bernard: quest’ultimo, come dimostrano alcuni volumi nell’imponente serie delle Leçons, assertore di un esteso e intrinseco rapporto tra chimica e vita. Un allievo tedesco del Bernard, Wilhelm Kühne (1837-­‐1900), coniava nel ’78 il termine «enzima» e contribuiva a individuare i fattori enzimatici-­‐gastrici, intestinali, pancreatici –, che agiscono nei processi digestivi. Come le trasformazioni metaboliche, anche quelle enzimatiche possono ottenersi fuori dall’organismo. Se Friedrich Wöhler (1800 – 1882) nel ’28 aveva ottenuto in laboratorio l’urea che si produce nel metabolismo delle proteine, Edouard Büchner (1860 – 1917) nel ’97 trasformava il glucosio in etanolo e anidride carbonica utilizzando un estratto cellulare di lievito. Al passaggio dall’Otto al Novecento, chimica fisiologica e fisiopatologia avevano lavorato a un’estesa correlazione dei propri ambiti, mostrando la presenza praticamente ubiquitaria di processi chimici in quelli vitali, tanto da simulare un rapporto di causa a effetto. La «biochimica» subentra, quando il passaggio dalla natura inorganica alla natura vivente è stato assunto a proprio carico dalla teoria dell’evoluzione, che ne attenua l’aspetto problematico a vantaggio dell’inferenza osservativa, e valendosi di concetti che fungono da simulatori di evidenza: quello stesso di evoluzione, poi la selezione, l’adattamento, l’autorganizzazione. Ma problemi sostanziali della transizione dalla fisica e dalla chimica alla vita si riproporranno con il successivo passaggio dalla biochimica alla «biologia molecolare». 24 La biochimica Il ventesimo secolo riceve in eredità una chimica per così dire esterna all’organismo, dove va a inserirsi, paradossalmente, una classe di sostanze che l’organismo stesso è incapace di sintetizzare, pur essendo indispensabili a determinate funzioni: le «vitamine», così chiamate dal biochimico polacco Casimir Funk (1884 – 1967), che dedica loro nel 1914 un’opera di esauriente informazione[27],totalmente rielaborata nel ‘22, introducendo il concetto di «malattie da deficienza». Ma l’apporto chimico esogeno, pur avvalorato dai citati «catalizzatori organici» -­‐ la definizione è del Funk -­‐, non arriva a pareggiare per varietà di produzione e significato l’apporto endogeno, proveniente dai processi chimici che si svolgono nei tessuti del corpo umano e animale. Agli enzimi si aggiungono gli «ormoni» -­‐ il termine è dovuto a William M. Bayliss (1860 – 1924) e Ernest H. Starling (1866 – 1927) – e i «mediatori chimici» tra nervo e muscolo, individuati da Otto Loewi (1873 – 1961) e Henry H. Dale (1875 – 1968). Sono sostanze che s’inseriscono in connessioni o nicchie funzionali, e sembrano attualizzare la metafora della macchina umana, evocata nel Settecento dal materialista Julien de la Mettrie (1709 – 1751), ma ancora idonea a recepire il problema delle simultaneità e sinergie di parti inserite in un tutto. La chimica endogena è peraltro rappresentata nell’importanza prioritaria che le compete da due fondamentali processi: il metabolismo e l’immunità. Il metabolismo degli organismi viventi dev’essere considerato una delle massime conquiste conoscitive del ventesimo secolo. I biochimici preferiscono parlare di «metabolismo intermedio», riconducendovi tutte le fasi della trasformazione di proteine, zuccheri e grassi, fino al bivio tra utilizzo energetico e impiego nelle attività di sintesi. Con Hans A. Krebs (1900 – 1981), Albert Szent-­‐Györgyi (1893 – 1986) e Fritz A. Lipmann (1899 – 1986) – nomi che richiamano l’esodo dall’Europa continentale di una larga parte della ricerca scientifica avanzata, negli anni Trenta – si definiscono i concetti di via metabolica, ciclo di reazione, veicolo molecolare, legame chimico ad elevata energia potenziale: nozioni che mettono ordine stretto, vincolante nei rapporti tra natura inorganica e natura vivente. Dentro la cosiddetta area centrale del metabolismo, il «ciclo di Krebs» unifica le vie metaboliche di protidi, glicidi e lipidi, con reazioni cataboliche e anaboliche, accompagnate rispettivamente da liberazione e assorbimento di energia. Le ricerche del Lipmann metteranno in particolare evidenza il ruolo di una sostanza, l’adenosintrifosfato (ATP), che contiene nella sua molecola due legami fosforici ad alto potenziale energetico, e pertanto può fungere da accumulatore ed erogatore di energia. In anni recenti Edwin G. Krebs e E. Fisher dimostreranno la presenza dell’ATP nella catena di conversione del glicogeno in glucosio, mediante fosforilazione dell’enzima glicogenofosforilasi, con un processo a sua volta catalizzato nei due sensi dal doppio fattore enzimatico chinasi – fosfatasi. Si avvicinano gli anni della «biologia molecolare», e la cellula dello Schwann e del Virchow, trasformatasi in laboratorio ipercomplesso, dopo aver infrasceso con i suoi costituenti macromolecolari l’osservabilità della microscopia ottica, si ricolloca al centro della biomedicina. L’immunità decorre parallelamente al metabolismo. I suoi inizi datano dalle osservazioni e dagli esperimenti compiuti da Charles Richet (1850 – 1935), mediante successive inoculazioni di sostanze velenose estratte dalle anemoni di mare: invece di essere immunizzati, gli animali da esperimento morivano per dosi che avrebbero provocato limitati effetti incondizioni normali. Nel 1902 Richet conia il termine «anafilassi», superdifesa, e le dedica un’organica opera nell’11[28]. L’anafilassi diventerà uno dei capitoli dell’immunopatologia, mentre l’immunità viene meglio compresa in termini fisiologici avvicinandola, per i Vertebrati, a ciò che la fagocitosi rappresenta per gli Invertebrati: un processo che serve a difendere la specificità biochimica ed è attivato quando sostanze eterogenee abbiano oltrepassato la barriera della cute e delle mucose di un vertebrato, penetrando nei tessuti. All’ingresso dell’antigene o dell’aptene – proteine e 25 carboidrati, ma anche lipidi, acidi e acidi nucleici -­‐, segue negli organi linfatici la formazione di anticorpi, costituiti da immunoglobuline capaci di coniugarsi chimicamente con l’antigene e d’inattivarlo. In sinergia con i linfociti, elaboratori degli anticorpi, operano le cellule fagocitarie. Due teorie, quella istruttiva e quella selettiva, si sono proposte di spiegare la formazione delle sostanze anticorpali. Secondo la teoria istruttiva, prevalente negli anni Trenta, l’anticorpo si formerebbe sotto l’azione diretta dell’antigene, all’interno delle cellule produttrici. Secondo la più recente teoria selettiva, gli anticorpi sono invece formati partendo dalla matrice di un’informazione che preesiste nell’organismo interessato: l’antigene seleziona le cellule atte a riceverlo e indirettamente ne provoca la proliferazione. L’immunopatologo australiano Frank M. Burnet (1899-­‐1985) ha aggiunto alla teoria prima citata l’ipotesi della selezione clonale, trasferendo l’indagine immunologica al livello molecolare delle immunoglobuline. Aderendo alla superficie della globulina, l’antigene selezionerebbe il relativo clone anticorpale negli organi linfatici, che a loro volta provvederebbero alla sua moltiplicazione selettiva. Lo stesso meccanismo è invocato per spiegare l’«autoimmunità»: parti del corpo divenute eterogenee rispetto all’organismo, diventano il bersaglio della reazione difensiva, alla quale l’immunità si riconduce. E’ del Burnet l’opera di riferimento su tale problema di frontiera: Autoimmunità e malattie autoimmuni[29]. Ma dagli anni Cinquanta si era aperto nella fisiopatologia, e in particolare nell’immunopatologia, il nuovo capitolo dei trapianti d’organo: prima il rene, trapiantato con successo nel ’55 fra gemelli monocoriali, poi il cuore ad opera del cardiochirurgo sudafricano Christian N. Barnard, e ancora il fegato, i polmoni, il pancreas, l’intestino. La risposta dell’ospite al trapianto, il rigetto dei tessuti trapiantati da parte dell’ospite – ma anche il caso inverso, nel trapianto di midollo osseo: il rigetto che le cellule trapiantate attuano verso i tessuti dell’ospite -­‐, i trattamenti farmacologici capaci di sopprimere il rigetto provocando la cosiddetta «immunosoppressione», sono i problemi che l’immunopatologia individua e risolve, valendosi di competenze specialistiche, alle quali offre un terreno di convergenza e di unificazione. La farmacologia fornisce una nuova sostanza attiva, la ciclosporina: un polipeptide ciclico a 11 amminoacidi, capace di interferire con l’interleuchina, sostanza attivatrice dei linfociti produttori di anticorpi. Le conoscenze sull’immunità sono giunte a pareggiare, come già accennato, quelle sul metabolismo: e anch’esse devono essere annoverate tra i massimi avanzamenti della scienza, ottenuti nel Novecento. La biologia molecolare Il cellularismo aveva aggiunto alla dimensione macroscopica della vita l’osservabilità microscopica, permettendo una definizione non meramente intuitiva dell’entità vivente. Chimica fisiologica e biochimica avevano ottenuto un risultato di non minore importanza: il collegamento di natura vivente e natura inorganica, con un rapporto di dipendenza della prima dalla seconda, almeno implicitamente suggerito. E’ questo rapporto che s’inverte con il passaggio dalla biochimica alla biologia molecolare, dopo aver accantonato il paradigma infecondo, fisicochimico, della «biocolloidologia» (M. Florkin), sostituendolo con la strutturistica: quest’ultima ancorata alla Natura del legamechimico di Linus Pauling (1901-­‐1994)[30], cardine di una nuova correlazione assiomatica di tutte le scienze della natura. Le molecole della vita hanno struttura di alta complessità; sono qualitativamente diverse; si mostrano collegate da sinergie o finalità, attuali o virtuali; molte di esse possono ottenersi allo stato cristallino, a differenza dei colloidi. La complessità è il termine che emerge su tutti gli altri: una complessità organizzata e codificata. Chi per primo oppone l’ordine trasmissibile di un «codice», «code-­‐script», alla media statistica, e considera quest’ultima insufficiente a spiegare la trasmissione ereditaria dei caratteri negli organismi viventi, è il fisico Erwin Schrödinger (1887 – 1962), creatore della meccanica ondulatoria. In Che cos’è la vita?[31], nato dalle lezioni tenute nel ’43 al Trinity College di Dublino 26 e pubblicate l’anno successivo, si dà corso a una rettifica sostanziale della filosofia meccanica della natura. A riprendere il giudizio di Bergson sul Bernard, si potrebbe dire che il saggio dello Schrödinger è un discorso sul metodo per la scienza del ventesimo secolo. Discorso, ma anche profezia: tra il ’44 e il ’53 gli acidi nucleici conferiscono un’identità precisa al codice prima citato. La breve memoria di James D. Watson e Francis H. Crick, intitolata Struttura molecolare degli acidi nucleici[32], esce sul periodico Nature nell’aprile 1953: ma è preceduta da un decennio di elaborazione concettuale. Di primaria importanza era stato il contributo dell’immunopatologia al nuovo ordine d’idee. Ma, come osserva il biochimico Erwin Chargaff, era necessario che chimici e biologi fossero pronti ad accettare l’esistenza in natura di molecole gigantesche: il lungimirante Schrödingeraveva parlato del gene come di una macromolecola che consuma entropia negativa. Si apre un intero orizzonte di nuove conoscenze, parte delle quali vanno a integrare la biochimica del metabolismo, parte invece coinvolgono la regolazione funzionale dell’intero organismo, compresa la trasmissione dei caratteri ereditari. L’unità strutturale dei due acidi nucleici – ribonucleico (RNA) e desossiribonucleico (DNA) – è il «nucleotide», che allinea un idrato di carbonio e una base azotata, purinica o pirimidinica: adenina, citosina, guanina, timida, uracile. Nel DNA del nucleo cellulare umano, i nucleotidi ammontano a tre miliardi e agiscono in triplette, i «codoni». Sebbene una larga parte sia presente nei cromosomi ma estranea all’attività dei geni, dunque non organizzata in triplette, la possibilità dell’accennato controllo sulle funzioni organiche è oltremodo vasta e articolata. Invece diventa problematica l’unità – della cellula, dell’organo, dell’organismo – nel mare della molteplicità che la biomedicina si trova a solcare. Le cellule dell’organismo umano sono stimate nell’ordine di dieci alla diciassette, la sola corteccia cerebrale ne avrebbe cento miliardi, ciascuna cellula capace di cento miliardi di collegamenti sinaptici. L’ottenimento dell’unità richiederebbe un salto analogo a quello dalla quantità inerziale della materia alla qualità non inerziale dell’«informazione», che la cibernetica non ha esitato a compiere. Ma il passo dai molti all’uno non viene compiuto, e si delinea una complessità non unificata, paradossale, stupefacente, che rimane tale ancor oggi. Il nuovo ordine d’idee, riprendiamo una precedente espressione, non implica forse la messa in liquidazione dell’originaria fisiopatologia di matrice cellulare? No, anzi ce n’è una conferma dopo la trasformazione della cellula in un laboratorio, che contiene il «codice genetico» al centrodelle proprie sinergie funzionali. Peraltro il riduzionismo non è disposto a dare partita vinta allo strutturalismo, solo perché dal du Bois-­‐Reymond allo Schrödinger si sia dimostrata insostenibile l’autosufficienza della meccanica: eppure la struttura avrebbe un numero crescente di fatti da addurre a proprio favore, rispetto al corpo materiale mobile e alla «teoria dell’urto», che dovrebbe valorizzarlo. Le nuove parole d’ordine sono macromolecole, doppia elica – quella degli acidi nucleici, nucleotidi, triplette, ribosomi, amminoacidi, mitocondri – citati questi ultimi sempre meno spesso, perché disturbano lo schematismo riduzionistico che si è costituito. Invece s’insinua nel discorso scientifico un termine ambiguo di antica origine, il caso. Il biochimico cellulare Jacques Monod in un volume del 1970 che non mantiene la promessa contenuta nel titolo: Il caso e la necessità: saggio sulla filosofia naturale dellabiologia moderna[33], presume di spiegare l’ordine della vita, e dunque l’intera anatomia comparata, con mutazioni casuali della sequenza nucleotidica, che vengono accettate e incorporate stabilmente nel genoma attraverso la selezione evolutiva. Non lo segue il genetista François Jacob, che insieme al Monod aveva individuato l’azione dell’acido ribonucleico (RNA) nella sintesi delle proteine, in La logica del vivente[34]: un organismo risulta da una serie di piani organizzativi, incastrati l’uno nell’altro. Con diversa responsabilità intellettuale un altro biologo molecolare, Renato Dulbecco, ha rappresentato il Progetto della vita[35], collocandovi la «macchina cellulare» accanto al DNA. Nel Sogno del genoma umano e altre illusioni della scienza[36], il genetista Richard Lewontin dell’università di Harward, spinge oltre la critica con sottile ironia: «Il DNA è una molecola morta, 27 una delle molecole meno attive e chimicamente più inerti del mondo vivente… Il DNA non ha il potere di riprodurre sé stesso…Nessuna molecola vivente si autoriproduce. Solo le cellule intere possono contenere tutto il meccanismo necessario per la auto-­‐riproduzione e anch’esse, nel corso dello sviluppo, perdono tale capacità…La sequenza lineare di nucleotidi nel DNA è usata dal meccanismo della cellula per determinare quale sequenza di aminoacidi dev’essere inscritta in una proteina, e per determinare quando e dove la proteina dev’essere prodotta.» (pp.112 s.) Si può obiettare al Lewontin che il DNA rimane la macromolecola biologica con la massima quantità d’informazione per unità di volume o, detto altrimenti, con la densità massima di contenuto informativo. Ma sarebbe un’argomentazione non sostanziale: anche un vocabolario contiene la più elevata quantità d’informazione linguistica, e tuttavia la finalità sta altrove, nel linguaggio con la sua universalità espressiva e il suo uso colloquiale. Analogamente, gli acidi nucleici appartengono al ciclo di produzione delle proteine, ne rappresentano il momento codificato dell’invarianza strutturale: il recente riaffacciarsi di una «proteomica» nella biomedicina potrebb’essere il segnale di un’inversione di tendenza nel percorso teorico e sperimentale della biologia molecolare. Intanto il Progetto Genoma, un’impresa internazionale per il sequenziamento degli accennati tre miliardi circa di nucleotidi presenti nei ventitre cromosomi delle cellule umane, si sarebbe conclusa in maniera spettacolare, a fine secolo e millennio: il 26 giugno 2000 lo hanno annunciato il Presidente degli Stati Uniti e il Premier britannico, dando l’impressione di voler suggellare politicamente il secolo e il millennio in via di conclusione, con un annuncio peraltro prematuro. Spazi vuoti, come dicono i genetisti, sequenze imprecisate sull’uno o sull’altro cromosoma sono state chiarite in seguito: è dei giorni scorsi l’annuncio, sulla rivista Nature, di un’analisi sequenziale approfondita del cromosoma 11, che ospita uno dei «loci» dell’Alzheimer e nel 5 percento dei casi si aggiunge nella sindrome Down alla trisomia del cromosoma 21 – l’anomalia genetica scoperta nel mongolismo da Jérôme Lejeune (1926-­‐1994), nel 1958. Il rapporto tra «loci» genici e funzioni non è quello tra tasto e lettera della macchina per scrivere, se non in casi eccezionali: alla singola funzione corrisponde una struttura di più località geniche e spesso cromosomiche. La vita è struttura a tutti i livelli. Come accennato, solo il tre-­‐cinque percento della sequenza nucleotidica costituisce i «geni», il resto ha provenienza e funzione sconosciute. L’accennato rapporto costituisce un dato sorprendente. Si è ipotizzatoche il cosiddetto «DNA spazzatura», quello non genico, derivi da virus insinuatisi nelle cellule umane durante la lunga storia della vita. Se l’ipotesi verrà provata, potrà derivarne la conferma dell’esistenza di correlazioni strutturali forti, all’interno delle classi in cui sono ripartiti gli organismi viventi: tipi, classi, ordini, generi, specie, fino alla classe che ha un solo membro, quella dell’individuo. Basandosi sulle accennate correlazioni, una minoranza molecolare potrebbe coesistere con una maggioranza soverchiante e esercitare il proprio controllo sullo sviluppo: in modo analogo, il lungo nastro del DNA viene «impacchettato» nella cromatina, obbedendo una singola invarianza topologica. LA MEDICINA CLINICA Clinica e patologia La conferma della cellula come laboratorio chimico della vita rappresenta un primario fattore di continuità nello sviluppo della biomedicina. Nell’ultimo dopoguerra si è reso disponibile il microscopio elettronico, che ha permesso di osservare e descrivere strutture nano-­‐dimensionali, là dove si ammetteva l’esistenza di materiali omogenei, denotati da termini generici, come quello di «protoplasma». Ha trovato dettagliate conferme il ruolo della forma come momento necessario delle funzioni cellulari. Si è precisato come avvenga la comunicazione intercellulare per mezzo di 28 neurotrasmettitori e ormoni. Un programma di morte cellulare, l’«apoptosi», riscuote crescente attenzione per spiegare, attraverso i suoi insuccessi, la sopravvivenza e il percorso degenerativo delle cellule tumorali. Virus, retrovirus, prioni dipendono dalla cellula come compiuta espressione della vitalità. Fisiopatologia e cellularismo erano intrinsecamente legati: la teoria scientifica della vita aveva trovato nella cellula il fondamento della propria concretezza, del proprio realismo. La fisiopatologia aveva anche offerto un saldo ancoraggio alla clinica: essendo la clinica quel momento della medicina che parte non dalla classificazione delle malattie, ma dalla presa d’atto, dall’analisi e dalla descrizione di un singolo fatto morboso, in vista della sua riconduzione alle categorie fisiopatologiche attraverso la diagnosi. In attesa del conclusivo atto diagnostico, la fisiopatologia s’innesta sulla clinica attraverso ciò che potrebbe chiamarsi il ragionamento fisiopatologico: un percorso inferenziale che parte dall’individuazione della funzionalità alterata, si sofferma in un secondo momento a cercare la causa dell’alterazione, imposta quindi il giudizio diagnostico, e verifica infine la correttezza dell’interpretazione con gli effetti del rimedio che si è deciso di somministrare. Sullo sfondo resta qualcosa che rimane un possesso prezioso e geloso della clinica, e non della patologia: la singola persona, con il suo stile di vita e la sua individualità psicofisica, irriducibili entrambi a singole categorie di qualsiasi schema classificatorio. Le malattie rare Ma la cellula, ripristinata nel suo valore di fondamento concreto della fisiopatologia, e dunque della biologia intesa al modo del Virchow, è diventata un laboratorio chimico ipercomplesso, dove l’alterazione o l’assenza di un singolo fattore della funzionalità può provocare un evento morboso o una situazione patologica. E’ il caso delle «malattie rare», «orphan deseases» nella terminologia inglese, per la cui conoscenza disponiamo del rapporto redatto nell’89 dalla National Commission on Orphan deseases, istituita dal Governo degli Stati Uniti: ne è emersa la difficoltà di formulare tempestivamente una diagnosi, che talvolta si ottiene soltanto dopo mesi o anni di attesa. Delle circa cinquemila malattie rare, quattromila sono genetiche. In sede economica le malattie rare hanno posto, per il limitato smercio, il problema della produzione dei farmaci atti a curarle, alcuni dei quali hanno peraltro trovato applicazione anche nella cura di malattie diffuse, con ricavi che arrivano a coprire i costi industriali. I contatti con la fisiopatologia cellulare, o almeno con la fisiopatologia d’organo, sono mantenuti dalla clinica attraverso branche specifiche di ciò che si è ormai soliti chiamare il Sistema sanitario, presente e operante nelle odierne società avanzate: il laboratorio di analisi e la tecnologia applicata alla medicina. E tuttavia la medicina clinica, pur nelle circostanze indicate, che ne configurano un arricchimento, ma anche una limitazione dell’autonomia intuitiva, conserva un duplice privilegio: il rapporto con la totalità dell’individuo e la partecipazione all’esercizio non meramente applicativo della razionalità scientifica. In natura non esistono repliche: anche i gemelli omozigoti hanno impronte digitali diverse. La conquista ippocratica dello «hekaston» -­‐ di ciò che è lontano, «hekas», da altro, e dunque del ciascuno, del questo e del quello-­‐ conserva tutta la propria validità diagnostica, accanto alla doverosa ricerca di ciò che riconduce il caso singolo a un’entità definita, e dunque virtualmente universale, malgrado la bassa frequenza statistica. Le sindromi Accanto alla malattia e alla situazione morbosa, è venuta acquistando crescente importanza, nella patologia e nella clinica, la sindrome: che può considerarsi appartenente a entrambe, alla patologia per il riconoscimento della sua configurazione anatomo-­‐fisiologica, e alla clinica per la variabilità individuale delle sue manifestazioni. Negli anni Trenta, l’austriaco emigrato in Canada Hans H.B. Selye (1907 – 1982) individuava una «sindrome generale di adattamento», che avrebbe 29 poi ricondotto alla nozione di «stress» con Lo stress della vita[37], distinguendovi una reazione di allarme, una fase di resistenza e uno stadio di esaurimento: l’organismo è coinvolto nella sindrome con il sistema nervoso, l’apparato endocrino e le strutture immunitarie. Secondo lo schema delineato dal Selye, l’ipotalamo libera il fattore di rilascio della corticotropina CRF, che a sua volta provoca la liberazione di ormone adrenocorticotropo da parte dell’ipofisi anteriore: questo raggiunge le ghiandole surrenali, che riversano nel sangue ormoni steroidi, attivi su numerosi organi-­‐bersaglio. I due volumi su Ormoni e resistenza[38] hanno concluso una ricerca di alta originalità, che ha riplasmato il concetto generico di sindrome in quello di sinergia reattiva, mettendo in luce una delle molteplici dimensioni unitarie dell’organismo. La recente «sindrome da immunodeficienza acquisita», nota con l’acronimo AIDS, è dovuta ai retrovirus HIV, portatori dell’enzima transcriptasi inversa, che permette di trasferire l’informazione genetica con un percorso inverso dallo RNA al DNA. Alla trisomia del cromosoma 21 è stata ricondotta la «sindrome di Down», o mongolismo, di Jérôme Lejeune, già ricordata. Con Georges Devereux, l’etnopsichiatria ha ritenuto negli anni Settanta di aver individuato alcune specifiche «sindromi etniche», su base culturale. La sindrome è, in tutti i casi segnalati, l’unità di una molteplicità morfofunzionale, e rappresenta il sigillo della complessità, che si manifesta, come molteplicità unificata, anche nella patologia della vita. LE MEDICINE ALTERNATIVE Provenienti, con l’eccezione dell’omeopatia, da aree culturali periferiche, rispetto all’Europa e agli Stati Uniti, le cosiddette medicine alternative rivelano caratteristiche comuni. Il momento clinico prevale su quello patologico, e finisce con il simulare un latente ippocratismo, a condizione di sostituirne la formula «observatio et ratio» con un’altra, nettamente diversa, che potrebbe suonare «observatio et sanatio». Ippocrate di Cos – il fondatore della medicina scientifica al quale vengono fondatamente attribuiti taluni scritti, di alta originalità e di scoperto impegno teorico, compresi nel Corpus hippocraticum – aveva combattuto la «medicina dei postulati» e le sue arbitrarie teorizzazioni, opponendole una feconda sintesi di empirismo e razionalismo. Ciò che il medico trova davanti a sé, consiste sempre in un «questo», in un «ciascuno». Ma Ippocrate, secondo la testimonianza che ce ne ha lasciato Platone nel Fedro, sosteneva che né l’anima né il corpo si possono conoscere «a prescindere dalla natura del tutto»: con un deciso passaggio dal pragmatismo terapeutico a quella cultura biomedica della totalità, che si costituisce storicamente attraverso processi complementari di accumulazione e d’innovazione, e si traduce in sintesi conoscitive sempre più vaste e coerenti. Uno dei più importanti lavori di Ippocrate è Antica medicina [Archaie ietrikè]: e il titolo echeggia il lungo processo di crescita e di sedimentazione, che permetteva allora l’esistenza di categorie del pensiero medico, capaci d’inquadrare e valutare l’esperienza. Clinica senza patologia non c’è, se non nella forma delle baconiane «tavole di assenza e di presenza». Non sono possibili la ponderazione e la valutazione critica di quanto osservato: il dato osservativo e la premessa teorica non entrano in un rapporto dialettico. Valutare l’esperienza diventa un compito azzardato. Consideriamo l’«agopuntura». Tra il 1948 e il ’49 entra nell’ordinamento sanitario della Repubblica popolare cinese come rimedio per il trattamento del dolore, nelle affezioni funzionali e in numerose circostanze morbose attinenti all’ostetricia e alla ginecologia. Si riferisce a una teoria generale dell’universo, che ammette l’esistenza di due principi opposti, lo Yin e lo Yang, e di cinque elementi, rappresentanti l’energia vitale che scorre in tutto il corpo attraverso un sistema di «canali» o «meridiani», dove aghisottili si prefiggono di raggiungerla, in punti 30 determinati, per ristabilire l’equilibrio turbato dalla malattia. Una pratica collaterale, la moxibustione, invece di aghi usa esche di Artemisia (moxa) a diretto contatto con la pelle. Scrivono Lu Gwei-­‐Djen e Joseph Needham – il fondatore della biochimica inglese, passato alla sinologia -­‐ in Aghi celesti. Storia e fondamenti razionali dell’agopuntura e della moxibustione[39]: «E’ indubbio che l’agopuntura abbia rappresentato un sistema di cardinale importanza nella storia della medicina cinese, ma la valutazione obiettiva della sua reale portata è stata fino a tempi recenti, ed è in una certa misura ancor oggi, al centro di grandi dispute. In Asia orientale si possono incontrare medici di formazione moderna, sia cinesi sia occidentali, assolutamente scettici circa la sua validità…Presumibilmente nessuno sarà in grado di valutare appieno l’efficacia reale dell’agopuntura…fino a quando non verranno applicati i metodi d’indagine della statistica medica moderna, con l’analisi di un’adeguata casistica; purtroppo la realizzazione di un programma simile può richiedere un tempo anche superiore al mezzo secolo…» (pp.7 s.). La secrezione di endorfine è l’ipotesi spesso invocata per spiegare l’effetto antidolorifico della terapia. Senza una trama ordinata di definizioni e osservazioni trascritte in linguaggio appropriato, il materiale osservativo perde la possibilità di costituirsi in terreno di conferma, di smentita o d’inferenza verso presupposti altrimenti determinati – è la terza, feconda via del ragionamento scientifico, l’abduzione, accanto alla deduzione e all’induzione. Se l’agopuntura riconduce alla Cina, la «pranoterapia» porta all’India: ma nell’induismo, com’è stato detto, tutto tende a divinizzarsi, e ogni manifestazione divina risulta priva di ciò che il pensiero occidentale chiama, da Aristotele in poi, il «per sé», l’«assolutezza». Il termine sanscrito «prāna» rimanda alle cinque forme dell’energia che pervade tessuti e organi, ed è presente nel corpo fino a che risulta animato dalla vita. Assorbitacon il respiro, l’energia vitale sarebbe convertita in sette appositi centri, e distribuita attraverso specifici canali a tutte le parti del corpo. La mano destra è usata dal pranoterapeuta come mano radiante, la sinistra come mano assorbente. La «medicina manuale» si pone come l’equivalente, parziale, di pranoterapia e chiroterapia nelle categorie e nella prassi della tradizione scientifica occidentale, in particolare americana. All’India appartiene anche la medicina che si richiama all’Ayurveda o «conoscenza della longevità», con un esteso sistema ospedaliero. Almeno un cenno va fatto alla medicina tibetana o lamaica, dove gli studi del benedettino Cyrill von Korvin-­‐Krasinski, in particolare La filosofia medica tibetana. L’uomo come microcosmo[40] rappresentano uno dei pochi, riusciti tentativi di ricostruire un organico sistema di conoscenze mediche, alternative a quelle occidentali, con le loro profonde radici filosofiche e cosmologiche. Verso il Giappone conduce la macrobiotica, un conio maldestro dal greco del giapponese Nyoiti Sakurazawa (1893 – 1966) per indicare la disciplina che dovrebbe condurre a una lunga vita, attraverso un’alimentazione che bandisca l’uso di additivi sintetici nell’agricoltura e nell’industria. All’interno della tradizione occidentale, l’«omeopatia» iniziata da Samuel F.C. Hahnemann (1755 – 1843), radicata peraltro nella tradizione ippocratica e orientata verso un’«arte razionale della guarigione», è la dottrina alternativa più diffusa e autorevole, ma nei limiti della terapia farmacologica. Il suo principio terapeutico, assai noto, è il «similia similibus curantur»: ciò che provoca malattia, in dosi ridotte, infinitesime, induce la guarigione. Ma le diluizioni omeopatiche del farmaco arrivano all’inesistenza, matematicamente dimostrata, della sostanza: a meno di ricorrere a ipotesi estreme come la «memoria dell’acqua» del fisico francese Jacques Benveniste, o la «super-­‐radianza» degli italiani Giuliano Preparata e Emilio Del Giudice: ipotesi fortemente avversate, ma sostenute, soprattutto la seconda, da studiosi degni di credito. Il dialogo tra metodologia omeopatica e allopatica rimane aperto con le due correnti dell’odierna omeopatia: quella umanistica – sudamericana e italiana, e quella biologico-­‐fisica. Da segnalare sull’autorevole Lancet, nel ’97, una revisione critica, o «meta-­‐analisi», poi contestata, di prove e sondaggi sulle 31 verifiche di validità, effettuati negli anni precedenti: i risultati ottenuti non sarebbero completamente spiegabili con l’effetto placebo, attraverso autosuggestione, e dovrebbero ipotizzarsi altre scorciatoie, non ancora individuate, per giustificare l’effetto curativo (pp. 834-­‐
843). L’americano Office ofalternative medicine, creato nel ’92 all’interno dei National Health Institutes con la direzione dell’omeopata Wayne Jonas, rappresenta un presidio di oculata vigilanza, ma anche di giustificata flessibilità, in un ambito forse ricco di promesse nonché, almeno per il momento, di aleatorietà conoscitiva. NEUROSCIENZE, CIBERNETICA Le neuroscienze appartengono al ventesimo secolo: la cellula nervosa s’impone peraltro all’attenzione di anatomici e fisiologi con Camillo Golgi (1844 – 1926) e Santiago Ramón y Cajal (1852 – 1934), e il termine «neurone» è proposto nel 1891 da Heinrich G. Waldeyer (1836 – 1921). Ma l’Ottocento aveva fatto ben altro, creando la fisiologia degli organi di senso o «estesiologia»: un termine uscito dall’uso dopo che si era offuscata l’importanza fondamentale del suo contenuto. Prima che lo Helmholtz vi apportasse i contributi, già citati, delle due opere sull’acustica e sull’ottica fisiologiche, c’era stato un momento di alta rilevanza teoretica, rappresentato dalla cosiddetta «età goethiana». J. Wolfgang Goethe (1749 – 1832) con la Teoria dei colori[41] aveva vittoriosamente rivendicato la natura soggettiva della qualità cromatica, e la sua irriducibilità all’analisi prismatica della luce bianca, come sostenuto da Isaac Newton (1642 – 1727) nella memoria del 1672 Nuova teoria della luce e i colori[42]. Il Müller, già citato, aveva trasferito la soggettività goethiana in oggettività soggettiva, aggiungendovi la sperimentazione del soggetto su sé stesso, con la Fisiologia comparata del senso della vista nell’uomo e negli animali[43]. Nel proclamare l’«Ignorabimus» della concezione meccanica del mondo, il du Bois-­‐
Reymond si sarebbe per l’appunto richiamato alla svolta dal quantitativo al qualitativo, e dall’omogeneo al diverso, avvenuta con la legge sulle «energie specifiche degli organi di senso», formulata dal Müller, suo maestro:le diverse aree sensoriali provocano sensazioni distinte – ciascuna, quella che le è propria -­‐, a prescindere dalla natura dello stimolo. Gli sarebbe invece sfuggita l’altra innovazione mülleriana, di carattere epistemologico: il passaggio da un’oggettività esterna al soggetto in oggettività intrinseca alla soggettività, ma capace di tradursi in affermazione scientifica attraverso l’attività razionale. Con la scoperta dell’organo spirale dell’orecchio interno, dovuta a Alfonso Corti (1822-­‐1876) e resa nota nel 1851 con le Ricerche sull’organo dell’udito nei mammiferi[44], il sistema nervoso centrale, prima che sopravvenisse la scoperta del neurone, aveva mostrato una delle sue mirabili conformazioni strutturali: anche queste sfuggite all’elettrofisiologo du Bois, eppure degne di rappresentare un ottavo «enigma», nell’elenco delle manifestazioni incomprensibili della natura, irricavabili da uno scenario di parti materiali in reciproco movimento. Da quanto prima riferito appare chiaro come la neurofisiologia – parlare di neurofisiopatologia andrebbe oltre l’oggettività storica – abbia rappresentato un’area della biomedicina con accentuata specificità, come terreno d’incisiva elaborazione teorica, al confine con la gnoseologia. Per correlare la continuità e la connessione delle attività razionali alla struttura anatomo-­‐
fisiologica del sistema nervoso, Golgi ad esempio sostenne la tesi delle rete interneuronale, contro l’opposta tesi, poi prevalsa, del Cajal sull’autonomia e polarità dinamica del singolo neurone. L’esigenza unitaria si sarebbe ridestata con Charles Sherrington (1857 – 1952), autore di un’opera classica: L’azioneintegrativa del sistema nervoso[45], uscita nei primi anni del nuovo secolo. «Integrativo», «integrazione»: a tutti i livelli della sua struttura e del suo funzionamento, il sistema nervoso unisce entità, strumenti e momenti diversi, assumendo il ruolo di paradigma 32 strutturale dell’intero organismo, che ha come esigenza primaria l’unificazione della sua necessaria diversificazione. Si integrano le unità neuronali attraverso le «sinapsi», la trasmissione elettrica e la mediazione chimica, la contrazione dei muscoli agonisti e il rilasciamento dei muscoli antagonisti, entrambi indotti per via nervosa: ancora, si integrano innervazione periferica e organi effettori. L’integrazione concepita come unificazione conferisce alla neurofisiologia dello Sherrington quella prerogativa di vetrina dell’organismo vivente, che per lungo tempo era spettata all’embriologia. Sherrington è un dualista, crede che mente e cervello siano entità distinte, ma il suo dualismo, a differenza di quello cartesiano, contiene un’analogia tra i due termini. La funzione integrativa, unificante, del cervello è correlata all’unità dell’universo mentale e a ciò che la produce: l’essenza sintetica del pensiero. La prima può fungere da strumento della seconda nella compagine psicofisica del soggetto umano. Uno degli allievi dello Sherrington, John Eccles (1903-­‐1997), ne riprenderà l’accennato dualismo e l’esigenza, problematica ma feconda, di unificazione. Con Il Sé e il suo cervello[46], scritto dallo Eccles in collaborazione con il filosofo Karl Popper (1902-­‐1994), il dualismo dello Sherrington diventa peraltro «interazionismo»: fisico, psichico e logico. Gli eventi cerebrali diventano soggettività pensante perché giungono a diramarsi in un’oggettività pura, rivendicata anche dallamatematica. Ma alla porta delle neuroscienze preme un altro paradigma, il cognitivismo, che M.S. Gazzaniga compendia in un volume sulle Scienze cognitive[47]: per studiare scientificamente gli eventi mentali si assume il modello semplificato del «robot», aggiungendovi la plasticità sinaptica sherringtoniana. Il cognitivismo diventa un torrente in piena, ma la matematica continua a fare argine, postulando un’oggettività di tipo arcaico, originario, a presidio della mente che aspiri alla verità formale delle proprie asserzioni. Il solco tra logica e matematica da una parte, neurologia e psicologia cognitiviste dall’altra, appare incolmabile, e connota la dimensione problematica della scienza contemporanea. I grandi numeri sono ormai entrati nell’orizzonte della biomedicina e della stessa neurologia: il bisogno di correlazione unitaria è primario, ma l’interruzione dei rapporti con la metafisica ne rende difficile il soddisfacimento. L’austriaco Ludwig von Bertalanffy (1901 – 1972), poi emigrato in Canada, apre alla «teoria dei sistemi»: ritiene saggiamente che l’unità del vivente debba essere analizzata e discussa prima della finalità, ma la prospettiva tecnologica appare insufficiente, limitativa. Ne nascerà tuttavia la «bionica» per lo studio delle funzioni motorie e sensorie degli organismi viventi, nonché per la loro imitazione con dispositivi elettronici o di altro tipo. Sagoma dei sottomarini, ecometro, radar, sonar, trasduttori analoghi agli organi di senso, neuroni artificiali si susseguono, mentre alla teoria dei sistemi succede negli anni Quaranta la «teoria degli automi» con la sua più generale e organica formulazione, la «cibernetica». Il ricorso al solito simulatore di evidenza concettuale, l’evoluzione, non impedisce che Norbert Wiener (1894 – 1964) asserisca e riconosca nettamente l’immaterialità di una grandezza destinata a diventare ubiquitaria nella scienza, l’«informazione». Scrive in Cibernetica[48]: «L’informazione è informazione, non materia o energia. Al giorno d’oggi, nessun materialismo che non ammetta questo può sopravvivere.» (p. 177). Dopo il «codice» di Schrödinger, l’ «informazione», elaborata matematicamente ma non definita da Claude Elwood Shannon in una classica memoria: Teoria matematica della comunicazione[49], anch’essa uscita nel cruciale ’48 -­‐, segnalava la ricchezza che la biomedicina avrebbe potuto apportare a un’indagine senza riserve sui fondamenti teoretici della scienza. Attraverso Shannon e Wiener s’incontrano, e sommano la propria efficacia, due diverse organizzazioni della ricerca: la «big science» dei Bell Telephone Laboratories e il gruppo interdisciplinare. La biomedicina è presente con neurofisiologi e cardiologi nella ristretta, amichevole comunità, dov’è inserito Wiener al Massachusetts Institute of Technology. L’informazione ha le caratteristiche della scoperta nuova, ancora intuitiva: e il suo assurgere a nozione primaria in tutte, praticamente, le assiomatiche scientifiche, alcune delle quali impostate 33 con il formalismo matematico, ne indica la determinante importanza. Ma il passaggio nel novero delle entità che in più riprese abbiamo chiamato «simulatori di evidenza» si manifesta come un grave rischio, e resta tale cinquant’anni dopo. Evoluzione, informazione, complessità: il loro mancato approfondimento filosofico toglie alla biomedicina l’occasione d’insediarsi, con una propria ontologia, metameccanica, in ciò che potremmo chiamare la coscienza dellaconoscenza scientifica del mondo. L’ESIGENZA FILOSOFICA Il pensiero nella medicina [50] è il titolo di un discorso che Hermann Helmholtz tenne a Berlino nel 1877, e rappresenta oggi una ricca fonte di conoscenze sugli anni che videro affermarsi il paradigma fisiopatologico della biomedicina e costituirsi, per merito dello stesso Helmholtz, la fisiologia d’organo. Osservava Helmholtz: «La scoperta di un’idea non si limita a mettere insieme superficiali somiglianze, ma nasce da uno sguardo che abbia colto la profonda connessione del tutto (…) » La scienza non può sottrarsi al compito di enucleare quei capisaldi concettuali delle teorie e quei nuclei centrali delle assiomatiche, la cui funzione è di collegare momenti, aspetti e parti in una sintesi che a tutto conferisca significato e tutto renda comprensibile. La rinunzia ai simulatori di evidenza, da qualsiasi fonte siano stati attinti, va di pari passo con l’enucleazione dei fondamenti, nel senso di caratteristiche determinanti delle evidenze osservate, delle analisi compiute, degli esperimenti effettuati. E’ sembrato di poter indicare nel nuovo cellularismo, costituitosi entro l’ambito della biologia molecolare, il fondamento dell’odierna biomedicina e il vantaggio conoscitivo della tradizione, culminata nella fisiopatologia, sulle medicine alternative. Nella cellula si è ritenuto d’individuare una caratteristica saliente, la sinergia, intesa come unità funzionale di una molteplicità tanto numerosa e diversificata di parti attive, da rientrare nello schema della complessità, rappresentandone l’esempio più probativo. Peraltro sinergia e complessità della vita non si esauriscono a livello cellulare, ma preludono alle analoghe manifestazioni nella fisiopatologia di organi e apparati, nonché dell’intero organismo. Unità sinergica di una complessa molteplicità, morfologica e funzionale: ecco «che cos’è la vita», la natura che consideriamo vivente perché capace di assimilare sostanze eterogenee, di accrescersi, di riprodursi e di rispondere agli stimoli in maniera specifica. Sembra, la vita nella natura, il corollario di un’essenza incondizionata e più alta, e tuttavia essa introduce nello spazio e nel tempo l’individualità capace di correlarsi ad altro, di ricostituirsi da altro, di esplicare funzioni e manifestare intenzioni. Il vivente apre uno spiraglio su un essere precedente il suo darsi e sostanziato di autonomia assoluta. Pensare la biomedicina, per l’esigenza rispecchiata nella lapidaria formulazione dello Helmohltz, è riflettere anzitutto sulla possibilità, sulle implicazioni e sul modo d’insorgenza, sul tempo e sullo spazio di una molteplicità complessa, sinergica, unitaria, e come tale da considerarsi vivente. E’ necessario tornare al concetto di natura, non si può non farlo. Ma il cammino regressivo dovrà spingersi fino al concetto della realtà originaria, precedente ogni altra determinazione. Prescindere, presupporre è un’opzione grave per un’intera cultura, che nelle proprie scelte rischia di distogliersi dall’archetipo della ragione, intesa come esigenza di un incondizionato comprendere, per orientarsi verso la formula attenuata, utilitaria o tutt’al più compromissoria, della prassi. Un duplice «taglio epistemologico» -­‐ icastica espressione: «coupure épistémologique», del razionalista Gaston Bachelard (1884-­‐1962) – ha attraversato il corso della scienza: fra meccanica moderna e fisica aristotelica, e fra concezione informazionale della natura e meccanicismo. Per il neurofisiologo du Bois-­‐Reymond, la vita non figurava nell’elenco degli «enigmi»: si trattava pur sempre di parti materiali con una determinata posizione nello spazio e connotazioni di 34 movimento anch’esse determinate. L’informazione si aggiunge peraltro a due corpi uguali, nel senso ristretto del du Bois, e li rende diversi in termini di struttura e di proprietà. La domanda, a cui s’intitola il saggio citato dello Schrödinger, non è retorica: la vita è un problema che l’intuizione affida all’analisi, e che l’analisi meccanica le restituisce insoluto. Ed è problema che nel pensiero si acuisce, si esaspera, perché il momento della razionalità – che il du Bois onestamentericonosceva enigmatico – si presenta all’uomo congiunto con la sua vitalità corporea, inevidente. Ritorno, dunque, alla filosofia, dopo il lungo e costruttivo percorso della biomedicina nel ventesimo secolo. L’etica, affiorata come prepotente esigenza in un sapere mostratosi disposto adaffrontare con opposte scelte i momenti estremi, nascita e morte dell’esistenza individuale, è un segnale d’allarme, ma certo non la soluzione del problema metafisico, rappresentato dalla natura vivente. C’è un retroterra ontologico, che giustifica o squalifica le scelte che il medico e la società si propongono di compiere. Nella sede civile – giuridica o politica –, la bioetica è portata a circoscrivere un proprio ambito, autosufficiente: ma i confini di tale autonomia si cancellano, appena la ragione sopravviene e riapre, con la domanda sull’essenza della vita, un immenso scenario, cosmologico e ecologico, oltre che antropologico. Il bando ai simulatori di evidenza deve accompagnarsi a un atteggiamento di sottile e vigile analisi verso teorie in corso di formazione, perché nuove, elusive proposte non si sostituiscano alle precedenti. Ciò vale, in particolare, per le vedute sull’«autoorganizzazione» dei sistemi fisici e biologici. In quali limiti e da che cosa si autoorganizza un sistema? La sinergetica, che dovrebb’essere la teoria scientifica più vicina alla sinergia, è una termodinamica dei processi irreversibili, che considera – secondo Hermann Haken – sistemi fisici, chimici e biologici lontani dall’equilibrio termico, dove si verificano processi qualitativamente nuovi, che non possono aver luogo entro sistemi in equilibrio o prossimi all’equilibrio. Da dove la novità tragga origine, la sinergetica non dice e neppure ritiene di doverlo ipotizzare. E invece è proprio questo il problema da affrontare, fino a prospettarne scelte dilemmatiche e soluzioni alternative. Ricorriamo a un esempio. Il biofisico Pierre Lecomte de Noüy (1883 – 1947), attivo nella cerchia di Alexis Carrel (1873 – 1944) – iniziatore dei trapianti d’organo e della cultura in vitro dei tessuti –, affermò che dedurre la vita dal caso è come far nascere la Divina Commedia da una scimmia, messa alla tastiera di una macchina per scrivere. E tuttavia la probabilità che ciò accada è infinitesima, ma non nulla, come invece deve accadere per l’assurdità razionale. Anche l’ipotesi del de Noüy, se altrimenti formulata, poteva ridursi ad assurdità. Bastava far consistere il poema di Dante non in una sequenza di parole, dunque di segni alfabetici, ma in una costruzione di significati: il primate dattilografo, come alternativa al poeta, era escluso in radice. La risposta sulla vita, una risposta coerente a quel che la vita è venuta dicendoci di sé, spetta a una filosofia disposta a scelte coraggiose – in logica si direbbe controintuitive -­‐, e alimentata da istituzioni – università, accademie, congressi – che aggreghino tutta la ricerca e permettano al dialogo di superare, ogni qualvolta necessario, competenze e confini tradizionali. Perquantoriguarda la bioetica, essa vedrà rafforzata la reverenza che ispirano comunque e a tutti la nascita, la sofferenza e la morte: e potrà,corroborata filosoficamente, formulare e giustificare norme di condotta e imperativi inderogabili. 35 [1] DU BOIS-­‐REYMOND E., Gedächtnissrede auf Johannes Müller. Gehalten in der Leibniz-­‐Sitzung der Akademie der Wissenschaften am 8.Juli 1858, in Reden, II, Leipzig: Veit & C., 1887: 143-­‐334. [2] HUMBOLDT A. VON,Kosmos, Entwurf einer physischen Weltbeschreibung, (5 vol.),Stuttgart: Cotta, 1845-­‐1862. [3] SCHWANN TH., Mikroskopische Untersuchungen uber die Uebereinstimmung in der Struktur und dem Wachsthum der Thiere und Pflanzen,Berlin: Sander, 1839. [4] VIRCHOW R., Die Cellularpathologie in ihrer Begründung auf physiologische und pathologische Gewebelehre, Berlin: Hirschwald, 1858. 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RECENTI PROGRESSI IN TEMA DI BIOLOGIA MOLECOLARE CON UN IMPATTO DIRETTO SULLA VITA UMANA INTRODUZIONE La biologia, può essere definita come un’area di studio, che si occupa di tutti gli aspetti fisico-­‐
chimici della vita. Poiché la biologia comprende molti argomenti, per comodità di studio, è stata suddivisa in aree separate. La biologia molecolare rappresenta una di queste branche; in verità, attualmente la biologia è spesso affrontata sulla base di vari livelli, che si occupano di unità fondamentali degli organismi viventi. A livello della biologia molecolare, la vita è spesso considerata come una manifestazione delle trasformazioni chimiche ed energetiche, che si verificano tra i vari componenti chimici che costituiscono un organismo. Così come il 19º secolo può essere considerato l’epoca della biologia cellulare, il 20º secolo è stato caratterizzato dai progressi in tema di biologia molecolare. In realtà, la biologia molecolare ha rappresentato un’area di conoscenza che ha vissuto una rivoluzione drammatica , durante gli ultimi due decenni. E’ veramente difficile riassumere tutti i progressi che tale area ha ottenuto. Comunque, alcune di queste conquiste hanno una particolare ripercussione sulla vita umanae quindi si dimostrano particolarmente importanti per l’Accademia per la Vita. La genetica molecolare e la biologia cellulare sono le aree della biologia molecolare, nelle quali sono state acquisite le conoscenze più rivoluzionarie. In entrambi i campi si possono trovare le questioni critiche della ricerca, che coinvolgono direttamente la vita umana. La genetica molecolare, comprende lo studio della natura molecolare del gene e il meccanismo con cui i geni controllano l’attività della cellula. Sulla base di tale natura molecolare dei geni, la loro sequenza può essere determinata e la funzione delle proteine che essi codificano predetta. La biologia cellulare, è lo studio della fondamentale unità strutturale e funzionale dell’organismo vivente: la cellula. Si può dire che tale studio è iniziato nel 17º secolo, con l’invenzione del microscopio composto. Anche se il maggiore splendore è stato raggiunto nel 19º secolo, la fine del 20º secolo e l’inizio del 21º sono di grande importanza per tale area. GENETICA MOLECOLARE: UNA DELUCIDAZIONE SU ALCUNE IMPLICAZIONI DEL GENOMA UMANO Probabilmente il progresso più spettacolare , ottenuto l’anno scorso, nel campo della ingegneria genetica, è stato la codificazione della sequenza del genoma umano, [1] che era stato ottenuto alcuni anni prima di quanto fosse previsto. Il fatto di conoscere la sequenza del genoma umano, offre un potente strumento alle altre aree della scienza biologica e una via speciale all’interno della medicina.[2] In tutto il mondo alcuni laboratori stanno attualmente lavorando per chiarificare la mappa del genoma umano e codificare la sequenza del genoma stesso, in modo tale da mettere in codice tutte le differenti proteine che unificano un essere umano. 38 In realtà, il campo degli studi sul genoma sta attualmente aprendo vie di notevole interesse, versogli studi proteomici e ci si aspetta che il proteoma umano venga decifrato abbastanza presto. L’attuale conoscenza del genoma umano apre la possibilità di predire l’andamento di certe malattie ( soprattutto di quelle che hanno una origine genetica ). Il cancro è una delle malattie con una chiara origine genetica e non vi è alcun dubbio che la conoscenza di tale patologia stia migliorando grazie alle straordinarie tecniche di sequenziamento, che permettono di evidenziare i frammenti di DNA.[3] Per esempio, siamo in grado di classificare nuovi tipi di tumore, secondo il loro modello genico di espressione e tale classificazione permette di stabilire una migliore diagnosi e di elaborare, in molti casi, una terapia personalizzata. Tale informazione, che riguarda l’evoluzione di una malattia, offre nuovi approcci terapeutici e sta trasformando la medicina attuale in una medicina predittiva e personalizzata. Tuttavia l’identificazione dei geni implicati in alcune malattie, permette nello stesso tempo di classificare la popolazione sulla base del proprio genoma e di stabilire categorie di pazienti a rischio di sviluppare determinate malattie. In confidenza, a questo punto, esiste un problema molto importante, perché il fatto di sapere che una determinata persona possiede alcuni geni mutati e, quindi, ha un alto rischio di sviluppare per esempio un cancro, può avere una influenza sulla polizza assicurativa o sulla sua situazione professionale. Una discriminazione basata su un possibile determinismo genetico, rappresenta una problematica etica molto importante, che appare come una conseguenza della informazione che la conoscenza del genoma umano porta con sé. Esistono due diritti, chedovrebbero essere considerati e che potrebbero determinare importanti conflitti discriminativi: Il diritto della compagnia assicurativa di avere informazioni circa il suo assicurato o il diritto della compagnia di avere informazioni riguardo la salute dei suoi dipendenti. Il diritto di riservatezza circa le informazioni di carattere genetico, relative ad un individuo. E’ fondamentale prendere in considerazione il fatto che un essere umano non è soltanto un insieme di geni, molto ben organizzati e che la sua storia, persino la storia clinica di una persona, non è solamente scritta nei suoi geni. L’uomo è corpo e anima e i geni non determinano il suo comportamento, neanche un suo comportamento clinico. La Dichiarazione dei Diritti Umani, sottolinea con chiarezza che: « Una persona non può essere discriminata sulla base del proprio sesso, razza, religione o codice genetico ».[4] Purtroppo, costantemente assistiamo alla violazione di tale principio, per esempio nella pratica eugenetica delle cliniche della fecondazione in vitro, che seleziona gli embrioni di sesso maschile che possono essere affetti da emofilia. Non è questa una discriminazione di tipo genetico? Un altro quesito interessante può derivare dal fatto che il progetto genoma umano rappresenta la possibilità di “brevettare” i geni. Quando un brevetto viene discusso, è importante distinguere tra due concetti: invenzione e scoperta. Inventare, significa introdurre qualcosa di nuovo nell’esistenza. Scoprire, comporta il trovare qualcosa che già preesiste, ma che risulta ancora non ben conosciuto ( Newton ha scoperto la legge di gravità ). Inventare, indica la fabbricazione come risultato dell’esperimento, dello studio o dell’ingegnosità[5]. Basandosi su tale definizione, la sequenza del genoma umano non è un’invenzione, ma una scoperta e, quindi, non dovrebbe essere brevettata, perché essa appartiene all’umanità. 39 Tuttavia, certi geni possono avere una utilità terapeutica o possono essere usati come markers prognostici o come markers diagnostici. La reale utilità dei geni non è più una scoperta, è una invenzione e dovrebbe essere considerata come ogni altro composto, che funge da marker per la diagnosi o l’evoluzione di certe malattie e, quindi, potrebbe essere brevettata. Insieme con il progetto del genoma umano, altri genomi di specie diverse sono stati sequenziati e la possibilità di transgenesiè stato oggetto di molti dibattiti. Gli organismi, che hanno inseritti nel loro genoma geni provenienti da altre specie ( l’intero complemento dei geni di un organismo ), vengono chiamati trangenici. Usando queste tecniche, sono state generate parecchie piante, animali e alimenti. Per esempio, la produzione di piante transgeniche resistenti all’agente patogeno, sono state ottenute attraverso tale metodologia, o proteine umane che hanno un utilizzo terapeutico, sono state prodotte dagli animali. Come abbiamo già accennato, non possiamo ridurre un essere ai suoi geni, specialmente nel caso delle persone umane, dove la componente spirituale ha l’importanza che tutti conosciamo. Al contrario, l’impiego degli animali come fattori biologici non pone grandi problematiche etiche. La preoccupazione, riguardo i possibili pericoli della trangenesi, è molto spesso polarizzata a causa dei diversi interessi economici o politici. Con una appropriata regolazione, tale tecnica mantiene la grande promessa, di raggiungere sostanziali progressi, in particolare nel campo della agro-­‐biotecnologia. Basandosi sulla conoscenza della sequenza di alcuni geni, appartenenti al genoma degli animali da laboratorio, oggigiorno la generazione di animali da combattimento è una tecnica ben dimostrata, che ha offerto la possibilità di studiare la funzione, in vivo, di un gene reale, eliminandolo dal genoma dell’animale. BIOLOGIA CELLULARE: IMPLICAZIONI DELLA CLONAZIONE La manipolazione del genoma e le tecniche usate per la generazione di animali da combattimento e di animali transgenici,sono gli stessi strumenti utilizzati nella generazione degli animali clonati. Tale meccanismo generativo degli animali clonati, è probabilmente uno degli esperimenti più spettacolari dello scorso secolo ed ha rappresentato una vera e propria rivoluzione per la biologia cellulare classica. Crediamo che la possibilità di generare embrioni umani, usando le tecniche già utilizzate negli animali, abbia una conseguenza direttasulla vita umana edimplicazioni etiche molto importanti, per tale motivo, descriveremo nei dettagli la questione della clonazione. La clonazione, significa essenzialmentegenerare strutture genetiche identiche. Sebbene, esistano vie diverse, per ottenere la clonazione, noi analizzeremo in tale sede, la clonazione attraverso il trasferimento del nucleo. La tecnica del trasferimento nucleare, è stata utilizzata sin dal 1938 in embriologia, ma non comenel 1997, quando tali tecniche acquisirono un significato universale, con la pubblicazione, da parte di W. I. Wilmuth et al., della generazione della prima pecora clonata, di nome Dolly, usando la tecnica sopramenzionata.[6] La tecnica di trasferimento nucleare, consiste nella generazione di uno zigote, attraverso una riproduzione di tipo non sessuale. Si usa un’oocita, nel quale è stato rimosso il nucleo e si trasferisce tale oocita denucleato, in un’altra cellula somatica o cellula embrionale, che contiene il genoma completo. 40 Il genoma viene ri-­‐programmato all’interno dell’oocita ed è in grado di indirizzare l’intero sviluppo embrionale, quando tale zigote viene trasferito all’interno dell’utero. E’ importante ricordare che il genoma è uguale in tutte le cellule somatiche, che collegano i vari tessuti ed organi ed è anche lo stesso genoma dello zigote che ha generato tali organi e tessuti, tuttavia non tutti i geni che integrano il genoma vengono ugualmente espressi in tutte le cellule, ogni cellula esprime soltanto i geni di cui la cellula stessa ha bisogno per la sua funzione. La percentuale di successo di questa via di riproduzione non risulta elevata e varia da specie a specie. Ad esempio, per generare la pecora Dolly è stato necessario usare 277 oociti. Questa possibilità di ri-­‐programmare il genoma non è esclusivo dello zigote. E’ stato dimostrato che l’ambiente è essenziale per l’attivazione dell’espressione dei geni e ci sono alcuni lavori importanti,che rivelano come le cellule staminali adulte possono essere ri-­‐programmate, per generare cellule che non appartengono alla stessa linea cellulare. Generalmente, si pensava che le cellule staminali adulte erano in grado soltanto di generare cellule della propria linea cellulare e quindi che erano multipotenti, tuttavia molti esperimenti dimostrano che la loro potenza è più elevata di quanto si pensa e che si comportano, in molti casi, come cellule staminali pluripotenti. Questo è stato dimostrato –in vitro-­‐ aggiungendo alla loro diversa differenziazione e/o i fattori di crescita;[7-­‐8] o –in vivo-­‐ trapiantandoli in diversi tessuti o organi. [9-­‐10-­‐11-­‐12] Tutto ciò, ha aperto nuove possibilità per le terapie di alcune patologie degenerative, nelle quali la rigenerazione dei tessuti può essere fondamentale. Tuttavia, le cellule staminali dell’adulto non sono il solo tipo di cellule nelle quali la differenziazione può essere indotta, ma tutto questo può essere fatto anche con le cellule staminali embrionali, come è stato già descritto.[13-­‐14] Tutte le questioni menzionate, hanno stabilito le basi per rendere possibile la cosiddetta clonazione terapeutica. La clonazione terapeutica, consisterebbe nella generazione di embrioni umani -­‐in vitro-­‐ attraverso il trasferimento nucleare, allo scopo di mantenerlo in vita per 7 giorni ( fino al momento in cui l’embrione acquisisce lo stato di blastocisti ) e di distruggerlo dopo questo periodo, al fine di ottenere le cellule staminali embrionali dalla blastocisti e differenziarle, in vitro, tentando di avere differenti tipi di tessuto, che dovrebbero essere immunologicamente compatibili con il donatore del genoma , che ha fecondato l’oocita, attraverso il trasferimento nucleare. Questa pratica, dovrebbe essere un esempio, non soltanto di distruzione di vite umane, ma anche di generazione di vite, a partire da un certo genoma, al solo scopo di utilizzarle. Dovrebbe essere un chiaro esempio di utilitarismo. E’ necessario ricordare in tale sede che, in molti paesi, ci sono diversi embrioni congelati, prodotti per la fecondazione in vitro, che potrebbero anche essere usati per la ricerca, laddove la legge lo permetta. Questi embrioni rappresentano, ovviamente, una fonte di cellule staminali embrionali. Inoltre, per le implicazioni etiche descritte a proposito della clonazione, dovremmo anche ricordare che tale tecnica apre la possibilità della generazione di ibridi inter-­‐specie. Il ruolo del biologo molecolare, nella società, oltre alla sua responsabilità morale ed etica, nella ricerca e nello sviluppo di nuove idee, ha condotto ad una revisione della gerarchia, sociale e scientifica,dei valori. Uno scienziato, non può più ignorare le conseguenze delle sue scoperte. La scienza deve agire per il bene dell’essere umano, altrimenti sarà un tipo di scienza che porterà al degrado della umanità, invece di aiutarla a progredire. 41 La scienza di base, è chiamata a cercare la verità attraverso una via corretta , senza attentati ai valori umani essenziali, come la vita: il dono più prezioso che abbiamo. [1] J.C. VENTER, M.D. ADAMS, E.W. MYERS, et al, The Squence of the Human Genome. Science Vo. 291, 16 February 2001. Pag. 1304-­‐1351 [2] D.R. BENTLEY, P. DELOUKAS, A. DUNHAM, et al. , The physical maps for ssequending human chromosomes, 1,6,9,10,13,20 and X, Nature VO. 409, 15 February 2001. Pag. 942-­‐958. [3] O. ERMOLAEVA, M. RASTOGI, K. D. PRUITT et al. Data management and analysis for gene expression arrays.Nature Genetics 20, 23 September 1998, 19-­‐23. [4] HUMAN RIGHTS DECLARATION. 1997 [5] Webster`s New Encyclopedic Dictionary. 1993 [6] CAMPBELL, K.H.S., Mc WIR, RITCHIE, W. WILMUT, I., Sheep cloned by nuclear transfer from a cultured cells line,Nature, vol. 385, 810-­‐813, 27 de febrero de 1997. [7] PITTENGER et al., Multineage potential of adult mesenchymal stem cells. Science, 284, 143-­‐
147. 1999 [8] COLTER, D. et al.,Rapid expansion of recycling stem cells in cultures of plastic-­‐adherent cells from human bone marrow”, Proceedings of the National Academy of Sciences, 97, 3213-­‐3218. 2000. [9] BJORNSON, C.R., RIETZE, R.L., REYNOLS, B.A., MAGLI, M.C. y VESCOVI, A.L., Turning brain into blodd: a hematopoietic fate adopted by adult neural stem cells in vivo. Science, 283, 534-­‐537. 1999 [10] MEZEY, E., CHANDROSS, K. J., HARTA, G., MAKI, R. A. y MCKERCHER, S.R., Turning blood into brain: cells bearing neuronal antigens generated in vivo from bone narrow”. Sicence, 290, 17779-­‐
1782. 2000 [11] BLACK, I.B., PROCKOP, D.J. et al., Adult rat and human bone marrow stromal cells differentiate into neurons.Journal of neuroscience Research, 61, 364-­‐370. 2000 [12] CLARKE D.L., JOHANSSON C.B., WILBERTS, J., VERESSE, B., NILSSON, E., KARLSTROM, H., LENDAHL, U. Y FRISEN, J., Generalized potential of adult neural stem cells. Science 288 (5471):1660-­‐3. 2000 jun. 2 [13] EVANS, M.J., KAUFMAN, M.H. Establishment in culture of pluripotential cells from mouse embryos. Nature, 292, 154-­‐156. 1981 [14] THOMSON, J.A. et al., Embryonic stem cell lines derived from human blastocysts. Science, 282, 1145-­‐1147. 1998 42 ANGELO VESCOVI
CELLULE STAMINALI CEREBRALI: STABILITÀ FUNZIONALE, PLASTICITÀ E POTENZIALE TERAPEUTICO La recente scoperta che il sistema nervoso centrale (SNC) contiene regioni neurogeneticamente attive che sono ricche di cellule staminali cerebrali (NSCs) ha stimolato una plethora di nuovi studi finalizzati ad investigare sia gli aspetti prominenti della fisiologiadi base delleNSCs che la loro applicazione potenziale nell’ ambito della terapia delle malattie neurologiche. Le NSCs sono precursori neurali multipotenziali che si moltiplicano ed autorinnovano in coltura per periodi di tempo significativi in risposta alla loro esposizione a fattori di crescita specifici. Recentemente, é stato suggerito che le NSCs siano soggette a rapida trasformazione in coltura e che questo fatto rappresenterebbe un ostacolo al loro utilizzo in ambito terapeutico per le malattie neurodegenerative. Inoltre,é stato proposto che questo fenomeno di rapida trasformazione sarebbe alla base della capacità delle NSCs di transdifferenziare, una proprietà che non sarebbe quindi intrinseca alle NSCs . Questa presentazione é tesa a discutere dati recenti del nostro gruppo di lavoro che descrivono il comportamento delle NSCs durante la loro coltivazione per lunghi periodi di tempo , dimostrando come queste cellule non sono assolutamente soggette a trasformazione e come esse siano di fatto dotate della capacità di dare origine a cellule di origine non-­‐neurale, e cioé di transdifferenziare. In questo contesto, le NSCs non mostrano alcun segno di trasformazione a passaggi di coltura sia precoci che molto tardivi.La capacità di autorinnovamento delle NSCs – vale a dire la loro capacità di riprodurre nuove NSCs continuativamente – non cambia nel tempo e non si osservano anomalie cromosomiche fino a 30 passaggi in vitro. Le NSCs mostrano un potenziale di crescita stabile per molti mesi e, dopo la rimozione dei mitogeni dal terreno di coltura, smettono di dividersi mitoticamente e, prontamente, differenziano in neuroni e glia con frequenze del tutto stabili e riproducibili. Inoltre, una analisi della loro risposta a citochine di varia identità, dimostra come sia possible influenzare il differenziamento delle NSCs in modo che almeno il 50%della loro progenia matura sia composta da neuroni. Inoltre, verrà discusso il risultato di studi recenti che confermano che le NSCs possiedono la capacità di dare origine a cellule non-­‐neurali e cioé mesodermiche, dimostrando che il fenomeno del transdifferenziamento non dipende dalla trasformazione delle NSCs in coltura. Infine, verranno presentate evidenze sperimentali che dimostrano l’assenza di un potenziale tumorigenico delle NSCs e la loro impressionante capacitàdi integrazione nel SNC a supporto di una elevata potenzialità di queste cellule in ambito terapeutico per le cura delle malattie del cervello. Dopo anni di acceso dibattito, si é ormai finalmente affermato il concetto che alcune sottopopolazioni di neuroni siano soggette a ricambi nell’ ambito della vita adulta. Questo concetto fornisce chiaro supporto all’ idea che il processo neurogenetico si continui per tutta la vita, implicando quindi la presenza di NSCs nell’ambito di alcune regioni cerebrali. Nel cervello dei mammiferi adulti la genesi di nuovi neuroni é stata evidenziata nell ippocampo e nel bulbo olfattivo. In particolare, nel bulbo olfattivo, nuove cellule neurali vengono continuamente prodotte da NSCs che sono localizzate nella regione subventricolare dei ventricoli telencefalici (SVZ) e raggiungono la loro destinazione nel bulbo dopo una migazione di alcuni millimetri (Lois and Alvarez-­‐Buylla, 1994). In relazione alla novità sottesa al concetto di neurogenesi adulta ed alle ovvie e stimolanti potenzialità terapeutiche che sacturiscono dall’ esistenza di cellule staminali cerebrali adulte, questo settore di studio é andato espandondosi in modo esponenziale. 43 Tuttavia, lavorando con un tessuto così complesso come quello del sistema nervoso centrale (SNC), sisono incontrate alcune serie difficoltà tecniche e ad oggi alcuni aspetti riguardanti la fisiologia delle cellule staminali neurali rimangono ancora da chiarire. Alcuni dati recentemente pubblicati in letteratura suggeriscono che è possibile utilizzare alcuni marcatori proteici quali l’agglutina delle arachidi, l’antigene stabile del calore, l’antigene SSA1 per identificare le cellule staminali neurali isolate in acuto (Rietze et al., 2001; Capela and Temple, 2002); nonostante cio’, l’identificazione univoca di cellule staminali neurali risulta essere ancora difficoltosa.Inizialmente, le cellule staminali neurali sono state studiate e caratterizzate come modelli cellulari cresciuti in sistemi in vitro ben definiti.Questo approccio sperimentale ha permesso di identificare l’esistenza di cellule di derivazione nervosa in grado di auto-­‐rinnovarsi e di dare origine a diversitipi di cellule altamente differenziate, tutte caratteristiche tipiche delle cellule staminali bona fide (Gritti et al., 2002). Sebbene le cellule staminali neurali condividano con le cellule staminali di altri tessuti la capacità di rifornire continuamente l’organismo di nuove cellule differenziate, esse posseggono anche alcune caratteristiche peculiari che le differenziano delle altre cellule staminali.Per esempio, a differenza delle cellule staminali ematopoietiche, le cellule staminali neurali posseggono una capacità proliferativa illimitata se cresciute in un terreno di coltura abbastanza semplice, come quello senza siero.Questa caratteristica ha permesso l’isolamento di linee di cellule staminali neurali – anche di origine umana – che sono utilizzate nello studio del potenziale terapeutico delle cellule staminali stesse nella cura delle malattie neurodegenerative.Inoltre i modelli sperimentali di colture cellulari di staminali neurali hanno suggerito l’idea che queste celllulepotrebbero non sviluppare tutte le loro potenzialità di differenziamento negli organi in vivo. Infatti molte evidenze sperimentali hanno dimostrato che le cellule staminali neurali cresciute in terreno di coltura, posseggono ungrado di plasticità più elevato di quello riscontrato in vivo, probabilmente a causa di un effetto “di silenziamento” a cui sono sottoposte le cellulenel micro-­‐ambiente cerebrale. Un esempio di questa elevata plasticità è stata evidenziata con studi in cui cellule staminali neurali erano in grado di dare non solo di dare origine a cellule ematopoietiche o muscolari , ma anche di integrarsi in qualsiasi tessuto se trapiantate in sistemi ematopoietici rigeneranti, o in muscoli danneggiati o in blastocisti murine in via di sviluppo (Frisen, 2002). Questo suggerisce che nell’elevata potenzialità di sviluppo delle cellule staminali neurali potrebbe essere compresa anche capacità di trans-­‐differenziare per dare origine a cellule che appartengono a tessuti di origine embrionale diversa. Nel 1999, alcune evidenze sperimentali del nostro laboratorio hanno confermato le capacità di transdifferenziamento delle staminali, dimostrando che cellule staminali neurali clonali sono in grado di dare origine a cellule ematopoietiche quando vengono trapiantate in vivo in un modello murino adulto (Bjornson et al, 1999). In questi esperimenti, una progenie di cellule staminali neurali che costitutivamente esprimevano la galactosidasi (il prodotto del gene batterico lacZ) sono state iniettate in topi recipienti irradiati con dose sub-­‐letali. Non solo le cellule staminali neurali iniettate si sono integrate nei tessuti ematopoietici quali milza, timo e midollo osseo dei topi recipienti, ma hanno anche dato origine a molti dei precursori ematopoietici che sono stati in grado di differenziare in quasi tutti i tipi cellulari presenti nel sangue, inclusi megacariociti, granulociti, macrofagi, linfociti B e T: Non sono stati invece identificatiglobuli rossi originati dalle cellule neurali transdifferenziate. Sebbene non descritti nel lavoro iniziale,il trapianto di cellule staminali neurali ha aumentato la vitalità degli animali recipienti suggerendo che le cellule staminali neurali trandifferenziate nei precursori ematopoietici sono capaci di ricostituire parzialmente l’ematopoiesi dell’animalericevente irradiato con dose letale (dati non pubblicati). 44 Bisogna inolte sottolinare come ad oggi la conversione neuro-­‐ematopoietica è stata elegantemente documentata anche utilizzando cellule staminali neurali di origine umana. Queste cellule sono state iniettate in animali riceventi SCID-­‐Hu, precedentemente trapiantati con midollo osseo e frammenti timici umani, al fine di fornire dei microambientimidollari e timici sufficientemente fisiologici per ricevere le cellule trapiantate.In queste condizioni, le cellule staminali neurali umane sono state in grado di contribuire all’ematopoiesi dell’animale ricevente, come dimostrato da esperimenti di ricostituzione (Shih et al., 2001). Un ulteriore affascinante approfondimento delle scoperte appena descritte, deriva dall’osservazione di come le cellule staminali neurali iniettate in blastocisti murine siano capaci di integrarsi in molti tessuti derivati dai tre foglietti germinativi embrionali (Clarke et al., 2000). Curiosamente, in questo lavoro non è stato osservato un contributo delle cellule staminali neurali iniettate in certi tessuti di origine mesodermica, quali il sangue e i muscoli scheletrici.Tuttavia, successivamente è stato dimostrato che le cellule staminali neurali umane e murine, sono in grado di transdifferenziare in cellule muscolari scheletrici, sia in vivo che in vitro (Galli et al., 2000). Alcune peculiari circostanze sembrano essere necessarie per l’espressione di cio’che costituisce un latente, ma generalizzato potenziale di sviluppo delle cellule staminali neurali. Due principali fattori sembrano essere necessari per il transdifferenziamento neuro-­‐mesodermico. Inanzittutto, solamente le cellule staminali neurali bona fide sono in grado di transdifferenziare. Come descritto in Galli et al. (2000), possono transdifferenziare solo cellule staminali derivate dalla zona subventricolare del cervello (SVZ), ma non quelle derivate da altre aree che non contengono cellule staminali, come per esempio lo striato e la corteccia celebrale. Questo dato è stato confermato anche da esperimenti di Rietze et al. (2001), in cui si evidenzia che arricchendo le colture cellulari con cellule staminali neurali che esprimono alcuni marcatori di superficie (PNAlo /HSAlo), il fenomeno del transdifferenziamento può essere incrementato da un 2.5% ad un incredibile 57%.Non solo, anche quando le progenie differenziate di cellule staminali neurali sono sottoposte agli stessi segnali capaci di indurre il fenotipo miogenico in colture arricchite con cellule staminali neurali indifferenziate, non si osserva alcun fenomeno di transdifferenziamento. Questi risultati sono ulteriormente confermati da dati recenti che evidenziano come la totipotenza delle cellule staminali diminuisca sempre più con l’aumentare del differenziamento. E’ possibile speculare che per intraprendere il transdifferenziamento, le cellule staminali neurali devono essere esposte ad un microambiente che possiede segnali istruttivi alquanto peculiari. Considerando che è stato dimostrato che le cellule staminali del sistema nervoso sono in grado di colonizzare i foglietti germinativi durante i primi stadi della gastrulazioine (Clarke et al., 2000), di rigenerare sia il tessuto ematopoietico (Bjornson et al., 1999) che quello muscolare (Galli et al., 2000), che le cellule staminali del midollo osseo possono ricostituire tessuti muscolari ed epatici danneggiati (Ferrari et al., 1998; Theise et al., 2000), è possibile postulare che i segnali istruttivi possono manifestarsi specificamente durante la fase rigenerativa che segue un danno tissutale o alternativamente che accompagna lo sviluppo embrionale. Purtroppo si conosce molto poco sull’identità e sulla natura di questi segnali responsabili del cambiamento del destino delle cellule staminali neurali.Uno degli ostacoli più importanti nell’identificazione di questi segnali dipende dal fatto che la maggior parte dei modelli sperimentali usati sono basati su saggi in vivo. Ad oggi sono finalmente disponibili alcuni modelli in vitro per studiare la conversione neuro-­‐
mesodermica al fine di interpretare e comprendere meglio i meccanismi molecolari sottesi al fenomeno del trensdifferenziamento.Utilizzando questi modelli, è emerso che la conversione neuro-­‐mesodermicapuò essere osservata solo quando cellule staminali neurali sono cresciute in sistemi di co-­‐colture, in presenza cioè di cellule miogenichedella linea C2C12 o di mioblasti primari, ma mai quando sono cresciute in presenza di cellule non-­‐miogeniche.Di notevole 45 importanza il fatto che la conversione neuro-­‐miogenicarichiedail contatto diretto cellula-­‐cellulae non avvenga quando le cellule neurali e quelle miogeniche sono separate fisicamente per mezzo di una membrana porosa, né quando le cellule staminali neurali sono cresciute con terreno condizionato da cellule muscolari. Inoltre, è evidente che durante il fenomeno della conversione neuro-­‐miogenica si realizza una fine orchestrazione di segnali antagonisti. Infatti l’induzione del fenotipo muscolare esercitato sulle cellule neurali è controbilanciato da alcuni segnali “neutralizzanti” che vengono trasmessi dalle cellule neurali stesse, un fenomeno che può essere interpretato come un classico “effetto comunità” (Gurdon et al., 1993). Si puo’ concludere quindi che un insieme di segnali istruttivi piuttosto che un unico segnale effettore sembra controllare il passaggio da un destino neurale ad uno mesodermico. In vivo, questi segnali possono essere contenuti sia nel microambiente extracellulare che viene perturbato e alterato durante un danno tissutale e sia possono essere indotti e rilasciati in seguito ad un contatto diretto cellula-­‐cellula che avviene tra le cellule riceventi e quelle donatrici. Un dubbio legittimo su gli studi di transdifferenziamento riguarda la seguente domanda: le cellule transdifferenziate acquistano veramente un fenotipo differenziato e funzionale o piuttosto limitano l’espressione di alcuni geni e di alcuni tratti antigenici specifici per la morfologia di un foglietto germinativo (Weissman et al., 2001). Indubbiamente l’ argomento richiede studi più approfonditi, ma ad oggi sono disponibili esempi di conversione bona fide di cellule staminali neurali in cellule mesodermiche funzionalmente mature. Infatti è stato dimostrato con studi di ultrastruttura che i miotubi derivati da cellule staminali neurali sono dei sincitia polinucleati, chiara indicazione di differenziamento terminale. Inoltre questi miotubi contengono strutture sarcomeriche che presentano sia bande M che bande Z (Galli et al., 2000). Se il concetto che cellule di un dato tessuto possono dare origine a cellule di un altro tessuto di diversa derivazione embrionale è stato esteso a molti tipi cellulari adulti (Frisen, 2002), questo fenomeno è stato messo in discussione da alcuni recenti dati presentati in letteratura (referenze). In particolare studi condotti da Morshead et al. (2002) evidenziano l’impossibilità di generare progenie ematopoietiche da cellule staminali neurali iniettate in topi irradiati. Sebbene questi studi siano stati descritti come identici ai nostri esperimenti iniziali, le caratteristiche funzionali delle cellule staminali neurali descritte da questi autori sottolineano chiaramente che le colture cellulari usate erano prive di cellule staminali ed erano costituite prevalentemente da cellule giàdifferenziate. Il lavoro di Morshead è in aperta contraddizione con una sovrabbondanza di lavori pubblicati precedentemente che dimostrano come né le cellule staminali neurali umane né quelle murine si trasformano in coltura, ma piuttosto conservano una stretta dipendenza dai fattori di crescita presenti nel terreno, mantengono costante la cinetica di crescita e differenziano velocemente quando sono rimossi i fattori di crescita (Reynolds et al., 1996; Gritti et al., 1999; Vescovi et al., 1999; Galli et al., 2002). Come già ricordato in precedenza, la percentuale di cellue staminali neurali, definita per mezzo di un classico saggio clonogenico, era inferiore di almeno 20 volte nel lavoro di Morshead se confrontato con i nostri dati. Quindi, la combinazione della presenza di un basso numero di cellule staminali neurali e di un significativo grado di trasformazione delle cellule utilizzate ha portato al trapianto di un numero insignificante di cellule staminali neurali e di per sé spiega il fallimento di questi esperimenti nel coneguire esempi di conversione neuro-­‐ematopoietica, che sono invece stai dimostrati ad oggi da tre gruppi indipendenti (Bartlett, 1982; Bjornson et al., 1999; . Shih et al., 2002) Recentemente, è stato dimostrato che sia le cellule staminali neurali che quelle del midollo osseo posseggono la capacità di fondere con altre cellule ed originare delle cellule tetraploidi che esprimono molti dei marcatori caratteristici di cellule di derivazione embrionale diversa da quella neurale o ematopoietica (Ying et al., 2002; Terada et al., 2002). A questo proposito deve 46 essere tenuto in considerazione il fatto che in entrambi gli studi la fusione cellulare è stata osservata in celllule staminali embrionali, che non sono tuttavia presenti nella vita adulta di un organismo. Inoltre, la frequenza riscontrata degli eventi di fusione è significativamentebassa, compresacioè tra 10-­‐5 e 10-­‐6. E’ possibile postulare che l’acquisizione di un fenotipo non-­‐neurale da parte di cellule staminali neurali possa essere il risultato di una fusione cellulare? Considerando che la frequenza di transdifferrenziamento riportata nei vari lavori è più elevata di due ordini logaritmici di quella osservata per i fenomeni di fusione cellulare, e considerando che la fusione cellulare non è un prerequisito per la conversione neuromiogenica (Galli et al., 2000), è alquanto improbabile che il fenomeno del transdifferenziamento possa essere spiegato solo con la formazione di cellule tetraploidi. Per concludere, è evidente che il campo di studi delle cellule staminali adulte e la loro affascinante biologia costituisce ad oggi un’area di ricerca in espansione che ci porta a riconsiderare alcuni dogmi fondamentali della biologia.Se queste importanti sfide biologichepossano essere ostacolate dalle crescenti erigorose indaginirimane argomento per discussioni future. 47 BARTLETT P.F., Pluripotential hemopoietic stem cells in adult mouse brain. Proc Natl Acad Sci U S A 79, 2722-­‐5 (1982). CAPELA A. and TEMPLES., lex/SSEA-­‐1 is expressed by adult mouse CNS stem cells, identifying them as non pendymal.Neuron 2002; 35:865-­‐875. CLARKE DL, JOHANSSON CB, WILBERTZ J, et al. Generalized potential of adult neural stem cells. Science. 2000; 288(5471): 1660-­‐3. FERRARI G., et al., Regeneration by bone marrow-­‐derived myogenic progenitors. Science 1998; 279(5356): 1528-­‐30. FRISEN J., Stem Cell Plasticity? Neuron 2002; 35:415-­‐418. 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ETICA DELLA RICERCA BIOMEDICA: PER UNA VISIONE CRISTIANA INTRODUZIONE La ricerca è componente integrante dell’impegno professionale dei medici e, quindi, del progresso scientifico. I progressi in campo medico, soprattutto quelli raggiunti negli ultimi anni a seguito delle nuove scoperte nel campo dell’ingegneria genetica e della biotecnologia, aprono la strada a terapie e pratiche che spesso mettono in discussione principi fondamentali della medicina tradizionale e sollevano annose questioni etiche. La valutazione della condotta umana in ambito medico e scientifico alla luce di valori e principi morali si è resa sempre più necessaria negli ultimi decenni, parallelamente all’avvento di scoperte e ricerche che hanno rivoluzionato la posizione stessa dell’uomo (medico e paziente) nei confronti della natura, della vita e della morte. Non a caso il termine “bioetica” viene coniato all’inizio degli anni ’70 negli Stati Uniti dall’oncologo Van Rensselaer Potter, quando l’esigenza di coniugare approccio umanistico e sapere scientifico diventa urgente in seguito ai prodigiosi progressi ottenuti, ad esempio, nel campo dello studio del DNA, della medicina dei trapianti d’organo e della terapia genetica. Potter sosteneva che la bioetica doveva essere una disciplina che combinasse la conoscenza biologica con la conoscenza del sistema dei valori umani. Egli era preoccupato della divisione tra i due saperi, quello umanistico e quello scientifico; nella sua analisi tale separazione aveva le potenzialità di distruggere il nostro ecosistema. Vi era, quindi, l’esigenza di unire in una nuova disciplina, la bioetica, i valori etici con la biologia e tale scienza doveva estendersi a tutto ciò che riguardava la vita dell’uomo (“global bioethics”)[1]. L’iniziativa di istituzioni quali l’Hastings Center (sorto ad opera del filosofo cattolico Daniel Callahan e dello psichiatra Willard Gaylin nel 1969) e il Kennedy Institute of Ethics (fondato nel 1971 da André Hellegers, un famoso ostetrico di origine olandese) ha portato alla definizione di un ambito di indagine prima inesplorato o, forse, non consapevolmente sollecitato o talvolta solo spontaneamente inserito nella pratica scientifica. Nel 1978, con la pubblicazione della Encyclopedia of Bioethics, questa nuova disciplina viene introdotta nelle università. Oggi è impensabile ignorare gli innumerevoli quesiti morali emersi come conseguenza dell’inarrestabile progresso scientifico. La ricchezza e al tempo stesso complessità della riflessione bioetica nasce dalla sua stessa natura interdisciplinare. Come confermato dall’impegno della Pontificia Academia Pro Vita, un concreto contributo agli interrogativi morali posti dalla ricerca biomedica può derivare soltanto dal confronto continuo fra studiosi e operatori di diversa formazione e background: medici, biologi, teologi, giuristi, psicologi, sociologi, economisti. Questa caratteristica ribadisce e mina il ruolo (al tempo stesso centrale e marginale) della ragione nell’etica, un ambito in cui l’inconciliabilità di posizioni e scelte diventa non impasse argomentativo ma, piuttosto, il motivo stesso per dare avvio al dibattito pubblico. E per “pubblico” non dovremmo intendere semplicemente la cerchia multidisciplinare a cui si è accennato poco sopra ma il ben più ampio pubblico dei non-­‐tecnici, dell’opinione pubblica. Nelle prossime pagine verrà sottolineato come tale allargamento del dibattito etico dovrebbe essere gestito con maggiore preparazione, onestà e senso di responsabilità di quanto fatto finora. Da un lato, infatti, i tecnici devono possedere un bagaglio formativo adeguato che non solo permetta loro di discutere del problema ma anche di porlo e presentarlo ai non addetti ai lavori in maniera adeguata. Dall’altro, dobbiamo auspicare che il dibattito su tali questioni diventi pratica comune fra l’opinione pubblica e adoperarci 49 affinchè acquisisca strumenti e sensibilità adatte alla valutazione ragionata e non sensazionalistica. A monte, naturalmente, è imperativo l’impegno del ricercatore o del medico ed il suo “dovere di compiere scelte coraggiose”[2], il che comporta talvolta anche la difficile assunzione di responsabilità qualora una scoperta o una terapia non venga illustrata pubblicamente se ritenuta in coscienza di difficile interpretazione etica. Probabilmente, l’unica via percorribile è proprio quella della responsabilizzazione dell’uomo, dello scienziato come del paziente/cittadino che, di fronte a quesiti morali così profondi che influiscono o minacciano di influire sul futuro stesso dell’intera umanità, sappia fermarsi e decidere in coscienza.Questo (il concetto a-­‐culturale e a-­‐religioso di assunzione di responsabilità personale) potrebbe costituire anche un primo passo fondamentale per la difficile definizione delle caratteristiche di una bioetica universale e per la mitigazione delle differenze fra bioetica cattolica, bioetica protestante, ortodossa ecc. Tutto questo è oggi assolutamente necessario dal momento che la medicina non è più solo assistenza ma è anche un modo di intervenire sulla vita stessa: si può creare la vita in provetta o posporre la morte oltre i limiti naturali, utilizzando la straordinaria tecnologia raggiunta e disponibile nei reparti di rianimazione e terapia intensiva. BIOETICA E DIBATTITO PUBBLICO Come anticipato, l’apertura al pubblico del dibattito bioetico è un requisito fondamentale anche se necessita di modalità, tempi e strumenti appropriati. Ripercorrendo la storia del rapporto fra medico e paziente è interessante notare la lentezza con cui questo concetto ha preso piede e, di conseguenza, la permanenza, all’interno del rapporto stesso, di pregiudizi e sfiducia. Un esempio particolamente calzante riguarda il concetto di consenso informato. Questo argomento offre spunti interessanti per due motivi: innanzitutto, per sottolineare che l’ambito della bioetica è quello di maggiore interesse per il paziente e quello che oggi, più che mai, necessita il suo intervento diretto. In secondo luogo, la storia dello sviluppo del concetto di consenso informato ribadisce l’arida predominanza delle ragioni legali sopra quelle morali. Un argomento spesso sfruttato per giustificare pratiche e prese di posizione più o meno “tradizionali” nel campo della professione medica è il giuramento di Ippocrate. Dal punto di vista storico è facile individuare un recupero del rapporto gerarchico medico-­‐paziente riproposto in epoca medioevale con il giuramento di Ippocrate. Dopo l’isolato tentativo platonico di instaurare un dialogo più aperto fra medico e ammalato e la fase paleocristiana della medicina, in cui il medico è visto come guaritore dell’anima, non solo del corpo, il ruolo del paziente torna ad essere pressoché ininfluente di fronte al carisma indiscusso di un medico che è al tempo stesso tecnico e sacerdote. Ciò che manca del tutto è il rispetto dell’autonomia del paziente; in breve, il concetto di libera scelta, recentemente elaborato anche in termini giuridico-­‐legali nell’idea di consenso informato. Il concetto di responsabilità inizia ad emergere durante il Rinascimento e si fa definitivamente spazio, in ambiti diversi, con l’Illuminismo e pensatori quali Locke, Kant, Stuart-­‐
Mill. La partecipazione all’informazione da parte del paziente va di pari passo ma è una lenta conquista, basti pensare che nel 1847 il primo codice di etica medica dell’American Medical Association (AMA)-­‐ la principale società medica statunitense -­‐ contempla ancora l’idea di inganno paternalistico a fin di bene. Nell’edizione del 1980 viene sottolineata la necessità di rispettare le richieste legali sul consenso informato. Importante e indicativo, quindi, il fatto che il concetto e la pratica del consenso informato prenda il sopravvento inizialmente non per ragioni etiche ma strettamente legali. Solo in tempi recenti il consenso informato è stato visto come diritto morale del paziente, permettendo all’ammalato di partecipare (o sottrarsi consapevolmente) al trattamento o al progetto di ricerca terapeutica proposta dal medico-­‐professionista. 50 Questo è un esempio di come una pratica oggi accettata e rispettata universalmente come diritto morale si sia inizialmente affermata come puro requisito legale. La stessa vicenda, analizzando l’evolversi del rapporto medico-­‐paziente (da “medico sacerdote”-­‐“paziente ignorante” a “medico professionista”-­‐“paziente informato”), prova quanto sia fondamentale il coinvolgimento diretto del singolo individuo. In altre parole, il dibattito bioetico deve coinvolgere ogni cittadino e non un ristretto gruppo di addetti ai lavori. Questo, per non ripetere e recuperare il pericoloso modello paternalistico degli esordi dell’arte medica. UNA MORALE, TANTE BIO-­‐ETICHE? UNA “MODEST PROPOSAL” PER IL SUPERAMENTO DEL PARTICOLARISMO ETICO I più cogenti interrogativi morali vengono posti oggi dal fatto che la ricerca permette all’uomo non solo di intervenire in modo sempre più (onni)potente sulla cura e prevenzione di malattie ma sulla stessa vita, sulla sua origine e fine. Si va così ad intaccare il tabù, non solo cristiano, della tentazione di dominare la natura e la vita. Sempre più frequentemente i rischi conseguenti da tale atteggiamento vengono offuscati in nome del progresso scientifico e la cosiddetta neutralità morale della ricerca è diventata sempre più tristemente illusoria. E’ quindi necessario ribadire, oggi più che mai, che scienza e tecnica devono rispettare i criteri fondamentali dell’etica. Il vero dibattito si apre sulla individuazione e delimitazione universale (o internazionale, più semplicemente) di tali criteri. La difficoltà di definire un unico ed universale codice deontologico, considerata la delicatezza dei quesiti posti e le diverse personali e culturali interpretazioni di uno stesso problema etico, è il motivo stesso della nostra convocazione in seno alla Pontificia Academia Pro Vita. Da un lato avvertiamo la necessità di stabilire linee guida universalmente valide, dall’altro sembra che il campo stesso di indagine lo impedisca. La conseguenza diretta di questo impasse o, meglio, la sua soluzione abituale (purtroppo assai limitata) è molto spesso di tipo puramente legale-­‐giuridico (vedi paragrafo su “Bioetica e dibattito pubblico”). Inutile dire quanto questa scelta sia spesso influenzata – se non guidata – da argomenti politici ed economici. Ci troviamo a confrontarci con quello che il Sommo Pontefice nel capitolo III della Enciclica Evangelium Vitae definisce “relativismo etico”, spesso sancito da una maggioranza parlamentare o sociale il cui carattere morale non è mai assolutamente automatico. Il compito della legge civile resta diverso e più limitato rispetto a quello della legge morale, tanto che in alcune circostanze possiamo addirittura parlare di abdicazione dell’etica. Lo stesso Mons. Sgreccia, nella più recente edizione della seconda parte del suo Manuale dedicata agli Aspetti medico-­‐sociali[3], si dimostra consapevole della necessaria specificità dei valori etici. Non per niente parliamo di Bio-­‐etica e non di Bio-­‐morale. Le problematiche affrontate nel volume delineano un percorso eziologico carico di malessere per il disagio sociale e il vuoto dei valori che indeboliscono la capacità etica delle persone e delle stesse istituzioni. Per rompere questo cerchio si richiede una ripresa vigorosa della volontà di bene, di un anelito sincero verso la verità della persona e della società che è chiamata a costruire, mediante la ritessitura dell'ordine dei valori e un appello rivolto alla coscienza di tutti, anche dei legislatori, e proponendo il sostegno della medicina, soprattutto preventiva, e delle forze educative. Come accennato nelle note di introduzione la scienza deve necessariamente passare attraverso una “coscientizzazione” delle diverse discipline. Fermo restando che la valutazione razionale è prerequisito indispensabile a quella morale, dobbiamo riconoscere l’ingannevolezza di quella che Giovanni Berlinguer definisce “bioetica giustificativa”[4] ossia la falsa morale del dettame per il quale tutto ciò che è tecnicamente possibile diventa automaticamente ammissibile e praticabile. L’arbitrio del ricercatore deve essere disciplinato dal senso di responsabilità, sempre bilanciato dalla valutazione lungimirante non solo dei rischi ma anche delle conseguenze. Ciò è possibile su 51 base razionale, tecnica e non solo sulla spinta di una coscienza morale particolarmente sviluppata, né della fede religiosa. Si tratta quindi di una concreta finalità che ogni uomo di scienza (credente o meno) può e deve rispettare. Anche in questo modo, anzi soprattutto esercitando questo tipo di auto-­‐regolamentazione ragionata e responsabile, l’uomo di scienza dimostra di comprendere e di saper gestire l’enorme potere che le recenti innovazioni tecnologiche mettono a sua disposizione. E questo non per recuperare in chiave semplicistica la classica figura paternalistica del medico/sacerdote, ma piuttosto quella dell’individuo consapevole, capace, responsabile e padrone dei propri strumenti cognitivi. Questa può affermarsi come una nuova visione antropologica che esula da categorizzazioni religiose e culturali e che può davvero costituire la chiave di accesso alla soluzione del problema della specificità di etiche particolari: la forza ed il potere di fermarsi, di evitare, di non spingersi troppo oltre, di non valicare il punto di non ritorno. Ciò non deve essere frainteso con una volontà bigotta di arrestare il progresso scientifico, bensì con quella di preservare il bene più prezioso: la vita umana e l’amore verso di essa – valori che nessuna cultura potrà mai arrivare a negare. Il ruolo dello scienziato ne esce perfino potenziato, investito di una responsabilità che si estende al di fuori del laboratorio o dell’ospedale, che non si limita più alla scoperta ma alla sua valutazione lungimirante, in maniera responsabile e sempre aperta al dibattito, non più sterilmente ristretto alla comunità di tecnici. Non si tratta più, in questo caso, di ciò che il Sommo Pontefice definisce “atteggiamento prometeico dell’uomo che ... si illude di potersi impadronire della vita e della morte perchè decide di esse”[5]. La scelta responsabile e lungimirante dello scienziato avrà pienezza morale indipendentemente dal fatto che essa scaturisca e sia alimentata dalla fede in Cristo. “Il dovere di compiere scelte coraggiose”[2] non può essere limitato ai responsabili della cosa pubblica ma deve essere avvertito fortemente anche da ogni singolo componente della comunità scientifica. E comunque, che il professionista assolva o meno al suo compito di monitorizzazione ragionata, il singolo cittadino dovrebbe poter valutare coscienziosamente, con gli strumenti, le nozioni e la pratica che la società e lo Stato gli avranno fornito. In quest’ottica assume importanza fondamentale l’inserimento ufficiale e riconosciuto della bioetica, da un lato nel curriculum formativo obbligatorio di professionisti in campo medico, dall’altro nel ventaglio di argomenti con cui il grande pubblico si confronta regolarmente. Questa operazione aumenterebbe la consapevolezza delle problematiche morali connesse alla ricerca biomedica, rendendo il dibattito più consapevole e fruttuoso non solo fra gli addetti ai lavori ma anche fra quanti sono solitamente esclusi dalla fase decisionale sebbene direttamente coinvolti nelle sue conseguenze pratiche. PER UNA BIOETICA CRISTIANA Un problema potenzialmente tipico per la definizione di una bio-­‐etica cristiana appare quello di doversi confrontare con discipline e tecnici storicamente laici, da un lato, e con bio-­‐etiche ispirate da diversi credo, dall’altro (bioetica protestante, bioetica ortodossa, ecc.). L’approccio cristiano parte dall’assunto fondamentale che la vera natura della persona umana è al tempo stesso corporale e spirituale e che tale persona fa riferimento ad una legge morale naturale. La prima conseguenza è che qualsiasi intervento sulla persona coinvolge sia corpo, sia spirito. Da qui, un aumento di responsabilità morale da parte del medico o ricercatore. Tale responsabilità aumenta anche considerando la persona come creazione e incarnazione divina. L’uomo è “corpore et anima unus”[6]: questa è la cosiddetta visione antropologica a cui fare riferimento quando cerchiamo risposte ai quesiti posti dalle nuove scoperte biomediche. Questo può aiutare la cristianità a prendere decisioni etiche anche in presenza di valori e significati di ordine personale che spesso determinano il senso (o l’assenza di senso) morale degli interventi biomedici 52 sull’uomo. Il ruolo della Chiesa può e deve essere riconosciuto non solo dai fedeli ma da quanti vedono in essa un magistero comunque posto al servizio del bene ultimo, la vita. E’ la missione evangelica della Chiesa ed il suo dovere apostolico che la autorizzano a giocare un ruolo fondamentale nella ricerca e valutazione di risposte etiche di fronte ai quesiti posti dalla ricerca biomedica. Il superamento del pericoloso particolarismo etico all’interno di una visione morale universalmente accettabile diventa allora compito della Chiesa che può vivere tale missione non come annullamento della fertile pluralità di spunti e opinioni, bensì come occasione di nuova “evangelizzazione”. Il ruolo chiave di sensibilizzazione alla “cultura della vita” si concretizza proprio nell’importante chiarimento della complessità dell’equilibrio tra responsabilità sociale ed autonomia individuale. Questo avviene ribadendo il valore di una coscienza intatta e proiettata verso quella che il Sommo Pontefice contrappone alla “cultura di morte”[7] imperante e anzi promossa da alcune pratiche mediche recenti (vedi oltre: “Dalla compravendita degli organi alle cliniche per il suicidio”); ma questi valori non possono essere estranei ai non fedeli, facendo comunque appello al concetto di responsabilità ragionata e lungimirante, del tecnico così come del singolo cittadino – entrambi resi consapevoli della possibilità di un coraggioso atto di rinuncia in nome dell’amore per la vita. Lo svolgimento pratico di tale rinnovata missione da parte della Chiesa richiede certamente la collaborazione e l’appoggio di quanti, singoli uomini e istituzioni pubbliche, non possono che condividerne la finalità universale: la loro stessa preziosa sopravvivenza e la possibilità di giocare un ruolo chiave nella sua difesa. IL CASO DELLE GEMELLINE SIAMESI E LA DONAZIONE D’ORGANO DA VIVENTE Dibattito pubblico, relativismo e particolarismo etico, bioetica giustificativa e bioetica cristiana, sono tutti argomenti che possono essere chiaramente discussi alla luce di un fatto realmente accaduto e delle sue implicazioni generali. L’esempio è fornito dalla drammatica vicenda che nel maggio 2000 in Italia ha coinvolto due gemelline siamesi neonate, entrambe vigili e cerebralmente intatte, per una delle quali si è ipotizzata la possibilità di sopravvivenza attraverso il “prelievo” di tessuto cardiaco dell’altra. Una sorta di “donazione da vivente” che implicava il “sacrificio” della vita di una delle due bambine, quest’ultima scelta sulla base della sua più debole fisiologia. Il ripercorrere analiticamente tale vicenda non solo ci consente di ragionare su quali pratiche oggi “tecnicamente” possibili siano anche “eticamente” lecite, ma ci permette anche di considerare il valore del dibattito pubblico ed il peso in esso della bioetica giustificativa. L’episodio ed il dibattito si incentrarono sulla liceità di “sopprimere” in sala operatoria una delle due bambine, separarne il corpo dalla sorella ed utilizzare parte del suo cuore per “donarlo”, come in un trapianto, all’altra bambina che avrebbe così potuto sopravvivere.Un cardiochirurgo si rese disponibile ad eseguire l’intervento e, personalmente, si cercò invano di coinvolgermi come potenziale chirurgo specialista nella chirurgia del fegato e dei trapianti. Infatti, si ipotizzava la necessità di dover dividere anche il fegato delle due sfortunate gemelline. L’intervento, al di là degli aspetti tecnici, poneva un unico importante quesito di bioetica. E’ lecito condurre in sala operatoria due individui con attività cerebrale integra avendo scelto che uno di essi dovrà essere ucciso per prelevare organi e/o tessuti necessari alla sopravvivenza dell’altro? E’ lecito sacrificare una vita umana per salvarne un’altra, entrare in sala operatoria con due infermi avendo già deciso di uscirne con un potenziale convalescente ed un cadavere? Oltre agli aspetti tecnici e all’eventuale fede religiosa credo che la risposta non possa che essere un fermo “no”. Se la risposta fosse “si” come si potrebbe dire “no” ad uno scenario (questa volta immaginario) del seguente tipo. Due fratelli gemelli monocoriali di 45 anni, uno malato gravemente di cuore al 53 punto di richiedere con urgenza un trapianto cardiaco senza il quale morirà con certezza, l’altro con un apparato cardiovascolare sanissimo ma affetto da un tumore cerebrale che oltre a provocargli molto dolore non gli concederà più di 60 giorni di vita. Perché non utilizzare il paziente con il tumore cerebrale, che non preclude la donazione degli organi, come donatore “vivente” per suo fratello? Perché non portarli entrambi in sala operatoria, prelevare il cuore del paziente neoplastico, sopprimendolo – mettendo così fine alle sofferenze legate al tumore cerebrale -­‐ e, al tempo stesso, restituire la vita al gemello cardiopatico con il trapianto di cuore? Dal punto di vista del trapianto non solo ciò è tecnicamente possibile ma, essendo gemelli monocoriali, non sarà neanche necessaria la terapia immunosoppressiva, non essendoci rischio di rigetto e, quindi, alcun ostacolo per assicurare un’ottima qualità di vita al trapiantato. Il fratello terminerà la sua vita solo 60 giorni prima, mettendo fine alla propria sofferenza fisica e felice di regalare la vita a chi ama. Perché quindi non farlo? Ritornando all’esempio reale delle gemelline siamesi, dibattito pubblico, una sorta di bioetica giustificativa sollevata dai media e, infine, l’approvazione del Comitato Etico dell’Ospedale Civico di Palermo portarono ad eseguire l’intervento che si concluse con la morte di entrambe le piccole pazienti. Tuttavia questo tragico risultato è irrilevante nella valutazione bioetica necessaria qui e nella scelta di coscienza che motivò la mia personale decisione di non partecipare né alla preparazione, né all’intervento stesso. Dal punto di vista pratico si tratta di un atto tecnicamente possibile e, quindi, ripetibile con successo in futuro. Ma è accettabile sacrificare una vita, uccidere per salvarne un’altra? Se sappiamo interpretare l’Enciclica Evangelium Vitae ci sembra che la risposta sia chiara. “La vita umana è sacra e inviolabile in ogni momento della sua esistenza”. Questa sacralità della vita non è un concetto riconducibile all’esclusiva visione cristiana, ma è certamente condivisibile e condivisa anche da una bioetica a-­‐religiosa, che si riconduce al valore della vita senza attribuzioni di sacralità e/o sopprannaturalità. Ed ecco quindi l’importanza della bioetica come materia non di esclusivo possesso di scienziati o dotti che ne discutano in convegni specializzati. Ecco il valore del coinvolgimento diretto dei singoli individui, dei cittadini non addetti ai lavori. Al tempo stesso questo coinvolgimento richiede uno straordinario impegno da parte degli addetti ai lavori che devono spiegare il significato e le implicazioni di un gesto chirurgico o di un farmaco in modo che tutti possano comprenderli e pervenire ad un’opinione “informata”. Nella società attuale, largamente influenzata dai media, questo si realizza molto raramente a causa di un giornalismo divulgativo-­‐scientifico spesso gestito da professionisti privi della necessaria preparazione e che in simili circostanze favorisce una “bioetica giustificativa”, quasi di consumo. La responsabilità sia degli scienziati che dei professionisti della comunicazione è altissima: una condotta superficiale da parte di entrambi può determinare aspettative irreali nella popolazione in generale e nei singoli pazienti. Gli uomini di scienza hanno il compito di spiegare: questa attività oggi non può essere più considerata semplicemente secondaria o complementare. D’altra parte chi si occupa di comunicazione dovrebbe avere il rigore di comprendere e verificare il senso dell’informazione che fornisce. Probabilmente entrambe le categorie (scienziati e giornalisti) dovrebbero partecipare a corsi di bioetica che li rendano responsabilmente consapevoli del valore dell’informazione nel contribuire alla costruzione di una società pluralista preparata a decidere come utilizzare le innovazioni tecniche. L’esempio delle gemelline siamesi può essere integrato da una realtà che pone problemi di bioetica gravi e spesso ignorati: la compravendita degli organi nella “donazione” da vivente. Premesso che il prelievo di un organo da un donatore vivente, che faccia liberamente questa generosissima scelta, è oggi un intervento molto sicuro nel trapianto di rene e relativamente sicuro nel trapianto di fegato, è necessario che questa tipologia di intervento e la metodologia con 54 la quale viene praticato siano costantemente valutati dal punto di vista bioetico[8] affinché il semplice fatto della eseguibilità dell’intervento non divenga la motivazione ad eseguirlo. Si tratta, infatti, di una prestazione chirurgica che prevede, in modo unico, l’esecuzione di un intervento, con rischi di morbilità e mortalità, su un soggetto, il donatore, che proprio in quanto tale è assolutamente sano e non necessita di alcun intervento chirurgico. Per questo il meccanismo di consenso informato e la procedura di selezione della coppia donatore-­‐ricevente devono essere particolarmente rigidi e controllati. In questo modo si può con un atto di amore e generosità consentire ad un altro essere umano di recuperare la pienezza della sua vita. Con preoccupazione si assiste, però, alla diffusione di questa pratica non solo come atto d’amore ma come opportunità di organizzare un vero traffico d’organi come di recente documentato in un articolo scientifico che ha valutato l’impatto economico e sanitario della compravendita degli organi in India[9]. Su un totale di 305 cittadini di Chennai (una città di 6 milioni di abitanti, precedentemente nota con il nome di Madras) intervistati dopo aver venduto un rene, ben il 96% ha riconosciuto di aver accettato per pagare i debiti dai quali era onerato. Dopo la vendita le condizioni economiche del “donatore” sono peggiorate e così anche le sue condizioni di salute. In particolare, il reddito annuo familiare dell’individuo che ha venduto un proprio rene è passato da 660 dollari a 420 dollari, rendendone ancora più grave l’indigenza. Negli ultimi anni si è assistito ad un fiorire di proposte ed articoli su riviste scientifiche occidentali che tendono a giustificare la compravendita degli organi, seppure in maniera regolamentata, e ne teorizzano l’applicabilità anche in paesi come l’Inghilterra[10]. Inoltre, l’American Medical Association ha proposto di avviare una ricerca su campioni di cittadini americani con lo scopo di testare in quale misura l’introduzione di incentivi economici potrebbe influire sulla decisione di diventare donatore di organi. La comunità scientifica si chiede dunque se sia eticamente ammissibile il pagamento degli organi destinati al trapianto. Il quesito è rapidamente rimbalzato dai comitati etici alle prime pagine di quotidiani come TheWall Street Journal innescando un dibattito che deve suscitare un’analisi bioetica. Infatti, il passo compiuto dall’American Medical Association, seppur con grande e dichiarata cautela, conferma il generale rafforzarsi del rapporto fra sanità ed economia, salute e denaro, bene fisico e (im)mobile, bioetica e benessere fisico. Ritornando alla questione iniziale, sull’ammissibilità dal punto di vista etico del pagamento degli organi destinati al trapianto, il quesito nasce da un’esigenza concreta, quella di sperimentare nuove strade per incrementare la donazione degli organi e salvare la vita di molti ammalati che ogni giorno muoiono in attesa di un trapianto. Di fronte a dati sconfortanti (15 pazienti in attesa di un organo muoiono ogni giorno negli Stati Uniti ed almeno 3 in Italia) i comitati etici dell’American Medical Association e, più di recente, quello dell’American Society of Transplant Surgeons hanno voluto affrontare l’enorme discrepanza tra la “domanda” (pazienti in lista di attesa) e l’“offerta” (numero di donatori) ipotizzando anche di ricorrere al pagamento degli organi. Tutto questo offre l’opportunità di valutare la medicina dei trapianti come paradigma del rapporto sempre più complesso fra sanità, bioetica, politica, economia e religione. Del resto la medicina, pur nella sua complessità, si presta a rappresentare lo specchio di un’epoca dal momento che in nessun altro ambito il singolo cittadino è il vero protagonista. Inserito nel panorama moderno di una sanità inevitabilmente legata all’economia e al profitto, il trapianto si presta bene a definire l’individuo in termini di “commodity”, di materia (prima e/o derivata). La disponibilità di chirurghi senza scrupoli in alcuni paesi del mondo (come Turchia, India, Perù, ecc.) ha consentito il nascere di un traffico illecito di organi, probabilmente limitato ai reni, che infanga sia la professione medica sia i paesi che lo tollerano. Questo traffico di reni sfrutta individui indigenti e disperati ridotti a cedere a costi irrisori (mille dollari a Bombay, due mila a Manila, tre mila in Moldavia, dieci mila in America Latina) un proprio organo che viene rivenduto insieme all’intervento chirurgico, eseguito clandestinamente, a cifre che oscillano fra 55 cento e duecento mila dollari. Questo fenomeno dovrebbe essere considerato come un vero e proprio crimine verso l’umanità e come tale punibile e perseguibile in ogni paese del mondo. Chiunque decida, anche se sofferente, di sfruttare la povertà altrui acquistando un organo a proprio beneficio, si rende colpevole di un gravissimo reato. Bioetica e legislazioni non possono rimanere estranee a questi problemi solo perché avvengono in “altrove”.Viaggi di questo tipo, documentati recentemente da una popolare trasmissione televisiva americana (CBS “48 Hours”, 11 febbraio 2002), non possono essere confinati nell’area delle leggende metropolitane ma devono essere fermati. La legislazione federale americana (National Organ Transplant Act) afferma con chiarezza che“nulla di valore può essere scambiato per un organo (…)”, escludendo qualunque forma di compenso diretta o indiretta, comprese quindi le ipotesi appena citate. Tuttavia, va osservato che questa norma federale, se analizzata dal punto di vista strettamente etico, viene già infranta nei casi di vendita di cellule o tessuti. Il caso più chiaro è forse quello degli ovociti umani, venduti regolarmente a scopo riproduttivo negli Stati Uniti, dove raggiungono un valore di mercato di circa settanta mila dollari. Un altro esempio è rappresentato dalla Pennsylvania dove è stata approvata una legge che prevede un contributo per le spese del funerale di una persona deceduta nel caso in cui la famiglia acconsenta alla donazione degli organi. Da qui il passo è breve verso meccanismi che inducano alla riduzione delle tasse della famiglia, al pagamento della retta scolastica di un bambino, oppure a staccare direttamente un assegno permettendo che i parenti del donatore utilizzino il denaro nel modo che ritengono più opportuno. E se si accetta il concetto di “denaro contro organi”, che differenza fa che provengano da una persona deceduta oppure da un essere umano vivo e in piena salute? Potrebbe anzi essere ancora più giusto ricompensare una persona in vita che, vendendo una parte di sè, rende possibile la guarigione di un suo simile. Oppure indicare come “miglioramento della qualità di vita” delle aberrazioni come i recenti trapianti di ovaio (Arabia Saudita) ed utero (Cina) a scopo riproduttivo, con organi prelevati da donatori viventi, che non sono stati eseguiti clandestinamente ma hanno addirittura ricevuto spazio su prestigiose riviste scientifiche ed il plauso di alcuni ricercatori. Insomma, l’apoteosi dell’egoismo individuale che infrange ogni regola etica. Il ragionamento porta lontano e alimenta un dibattito che va ben oltre la problematica del trapianto dove, da una parte si sostiene che non sia moralmente accettabile lasciare che i pazienti muoiano in lista di attesa, per cui se gli incentivi economici possono contribuire a far aumentare le donazioni ben vengano; dall’altra, invece, si pensa che esistano dei limiti invalicabili e che il corpo umano non possa essere considerato come una merce, con un prezzo fissato per la vendita. Potremmo allora considerare etico e moralmente accettabile un sistema in cui le donazioni aumentano ma dove, a conti fatti, sono i poveri a “donare” mentre i più ricchi si possono accontentare di ricevere? La verità è che qualunque strada che preveda una forma di compenso economico deve essere evitata perché porta ad una allocazione iniqua degli organi, basata sulla possibilità di pagare e non sulla reale urgenza medica o priorità in lista di attesa. Idee di questo tipo mettono in discussione la dignità di ognuno di noi e rischiano di affrancare una pericolosa sovrapposizione tra sanità e mercato[11-­‐13]. Evitiamo tuttavia inutili ingenuità, è indubbio che il legame tra sanità e regole di mercato esiste e non si può negare che le leggi dell’economia debbano integrare la gestione sanitaria ma questo deve avvenire senza sorvolare sui confini di bioetica che la sanità deve rispettare. DALLA COMPRAVENDITA DEGLI ORGANI ALLE CLINICHE PER IL SUICIDIO Un ben documentato e recentissimo articolo[14] descrive in modo agghiacciante le ultime ore di vita di una signora, Marie Hascoet,che si è recata da Parigi a Zurigo per essere sottoposta alla pratica (ovviamente a pagamento) di suicidio assistito. L’organizzazione svizzera “Dignitas” dal 56 1998 ad oggi ha assistito circa 140 individui che si sono recati a Zurigo per mettere fine alla propria esistenza in maniera legale. Si tratta di cittadini americani, inglesi, egiziani, israeliani, tedeschi e di altri paesi ancora che giungono in Svizzera, firmano un consenso informato (chiamato “Declaration of Suicide”) e vengono aiutati a suicidarsi in una clinica specializzata. Richieste motivate da malattie terminali ma anche sulla base di invalidità come il caso di un musicista sofferente di sordità. Il suicidio assistito viene eseguito utilizzando una combinazione di farmaci (antiemetici e barbiturici) secondo un preciso protocollo farmacologico coordinato da personale medico ed infermieristico specializzato. Il tutto viene gestito con l’accuratezza che potrebbe essere tipica di una struttura di eccellenza che accoglie pazienti che si affidano alle risorse più avanzate della ricerca medica per potersi curare e salvare la propria vita. Le cartelle cliniche vengono preventivamente inviate ed esaminate a Zurigo; successivamente si convoca il “paziente” per una accurata visita medica che confermi “l’indicazione al suicidio”; questi, infine, ritorna nella propria città per “sistemare le proprie cose” ed acquistare il biglietto di sola andata per il proprio ultimo viaggio. CONCLUSIONI Possono la ricerca medica e la tecnologia oggi a nostra disposizione essere utilizzate allo scopo di mutilare soggetti perché altri ne possano acquistare gli organi oppure per assistere chi ha deciso di porre fine alla propria esistenzao, addirittura,per sopprimere un individuo in sala operatoria per salvarne un altro, o per pratiche come il trapianto di utero e/o ovaio, che mettono a rischio la vita di una donna, solo perché forme di bioetica giustificativa insieme a pressioni sociali ed economiche sembrano suggerirlo? Quale è il limite che dobbiamo porci come individui, membri di una società pluralista, nell’utilizzare gli strumenti che la scienza ci pone a disposizione e quali sono invece le caratteristiche di una visione cristiana di questi complessi problemi? E’ difficile conciliare integralmente entrambe le esigenze ma è sicuramente possibile individuare un denominatore comune. Chi crede nella vita eterna e vive nella fede ha indubbiamente una visione diversa ed anche un conforto differente nel valutare le situazioni che l’esistenza pone a ciascuno. Tuttavia, il rispetto della sacralità della vita e della dignità degli individui non è patrimonio esclusivo dei cristiani. Se per chi crede in Cristo “l’uomo è chiamato a una pienezza di vita che va ben oltre le dimensioni della sua esistenza terrena, poiché consiste nella partecipazione alla vita stessa di Dio”[15], il valore incomparabile della persona umana è certamente patrimonio comune di tutti gli appartenenti alla società, o almeno dovrebbe esserlo, al di là di qualunque fede. A questo elemento è forse più opportuno ricondursi perché si possano studiare ed applicare nella società principi e leggi che proteggano la vita umana ed impediscano la sua soppressione, mercificazione o la sua riduzione ad un bene di consumo. Questo obiettivo può essere raggiunto da tutti coloro che in una società pluralista abbiano a cuore i valori essenziali della vita. Vi sono certamente aree dove la ricerca medica pone quesiti bioetici nei quali è difficile trovare pieno accordo tra tutte le componenti sociali, ma anche in queste aree deve esservi un costante impegno a seguire i progressi della ricerca ed a regolamentarne l’uso. Non dovrebbe accadere (come, invece, assai spesso si verifica anche nei paesi più avanzati) che la scienza individui nuovi percorsi che vengono lasciati senza normative per anni. L’impegno in questo settore richiede investimento intellettuale con apposite commissioni di esperti e di risorse affinché cittadini e parlamenti possano in maniera informata partecipare al dibattito e decidere quale percorso seguire. Probabilmente, il percorso più sciocco e pericoloso, per laici e cristiani è quello di dimenticare queste esigenze etiche come parte essenziale della nostra esistenza. 57 RINGRAZIAMENTI Si ringraziano il Prof. Karl Golser dello Studio Teologico Accademico di Bressanone e il Prof. Howard R. Doyle dell’Universita` di Pittsburgh per l’aiuto nella revisione critica del testo. Un sentito ringraziamento alla Dott.ssa Claudia Cirillo ed alla Dott.ssa Alessandra Cattoi per l’aiuto ricevuto nella stesura del testo. [1] POTTER V.R., Global Bioethics, Michigan State University Press, 1988. [2] Lettera Enciclica Evangelium Vitae del Sommo Pontefice Giovanni Paolo II ai vescovi, ai presbiteri e ai diaconi, ai religiosi e alle religiose, ai fedeli laici e a tutte le persone di buona volontà sul valore e l’inviolabilità della vita umana, Città del Vaticano, 25 maggio 1995, 2, 90. [3] SGRECCIA E., Manuale di bioetica. II Aspetti medico-­‐sociali, Vita e Pensiero, Milano, 1996, seconda edizione. [4] BERLINGUER G., Evangelium Vitae: una sfida da raccogliere, Bioetica, 3,1995. [5] Lettera Enciclica Evangelium Vitae, 1, 15. [6] Concilio Vaticano II, Cost. Gaudium Spes, 14, 1. [7] Lettera Enciclica Evangelium Vitae, 3. [8] MARINO I.R., DOYLE H.R. Living donor in urgent cases: ethical hazard?, Liver Transplantation 2002,8(9):859-­‐860. [9] GOYAL M., MEHTA R.L., SCHNEIDERMAN L.J., SEHGAL A.R. Economic and health consequences of selling a kidney in India, JAMA 2002, 288(13):1589-­‐1593. [10] HARRIS J, ERIN C. An ethically defensible market in organs, BMJ 2002, 325: 114-­‐115. [11] MARINO I.R., CIRILLO C., CATTOI A. Market of organs: unethical under any circumstances, British Medical Journal, (Electronic letters published) 2002, http://bmj.com/cgi/eletters/325/7356/114 [12] MARINO I.R. Nessuno compri quegli organi. Il trapianto nasce da un dono. Va’ Pensiero, 93 (Electronic Paper), Il Pensiero Scientifico Editore Online, 18 September 2002. [13] MARINO I.R. Health at any price, Italianieuropei 2002, 2(3):170-­‐180. [14] NAIK G. Assisted-­‐suicide group makes more final exits go through Switzerland,The Wall Street Journal Europe, Vol. XX, No. 206, 1, November 22-­‐24, 2002. [15] Lettera Enciclica Evangelium Vitae, 2. 58 ANTONIO BATTRO
LE NUOVE FRONTIERE NELLA NEUROEDUCAZIONE ALLA SCOPERTA DEL CERVELLO La rivoluzione digitale ha “messo a nudo” il cervello umano permettendone lo studio e nuovi interventi su di esso. Infatti, le nuove tecnologie di “brain immagining” sono il risultato diretto delle potenzialità sempre maggiori dei computer che permettono non solo una visione dettagliata dell’anatomia del cervello in vivo, ma anche della sua composizione chimica così come l’identificazione dei cambiamenti funzionali a carico della complessa rete neuronale durante le più svariate funzioni percettive, motorie e cognitive (Posner & Raichle, 1994; Spelke, 2002). Inoltre è oggi possibile, grazie ad alcune sperimentazioni molto ben controllate, “dedurre i comportamenti dalle immagini funzionali del cervello” (Dehaene et al, 1998). Queste potenzialità si potrebbero un giorno estendere a contesti più ampi, dando così luogo a questioni etiche rispetto al problema della privacy (“lettura della mente”). In analogia con il “world wide web” (www), potremmo parlare del “brain wide web” (bww) formato dall'insieme molteplice di comparti corticali e sottocorticali (Battro, 2002), alcuni dei quali sono molto stabili e modulari mentre altri più flessibili e plastici, geneticamente programmati attraverso l’evoluzione biologica della nostra specie, o strutturati epigeneticamente nell’evoluzione culturale e nel percorso educativo del singolo individuo (Huttenlocher, 2002). Le nuove neuroscienze cognitive ci permettono quindi di mettere a punto nuovi strumenti per conoscere meglio e migliorare le nostre capacità di apprendimento. Questo è lo scopo e l’obiettivo della “neuroeducazione”. NEURO-­‐PLASTICITÀ La scoperta forse più importante della neuroscienza contemporanea è legata alla sorprendente plasticità neuronale del cervello umano (Buonmano & Merzenich, 1998, Grafman & Litvan, 1999). Sappiamo che il cervello umano di un individuo adulto produce costantemente neuroni. Come afferma Fiona Doetsch “rimaniamo con l’idea di un cervello dinamico, in cui i ricordi si formano probabilmente dalla formazione di nuove cellule, e con una latente potenzialità autorigenerativa” (Doetsch, 2002, Doetsch, F & Sharff, C. 2001). Una prova di questa affermazione è la straordinaria riabilitazione di alcuni bambini che hanno subito l'emisferectomia, i quali dimostrano come “metà cervello sia abbastanza” per avere una buona qualità di vita nel quotidiano e a scuola (Vargha-­‐Khadem et al,1997, Battro, 2000). Non conosciamo ancora bene i meccanismi compensatori coinvolti in questo processo e questi casi notevoli costituiscono una sfida per la costruzione di modelli standard di mente/cervello. NEURO-­‐IMPIANTI E NEURO-­‐TRAPIANTI Il primo neuro-­‐impianto ottenuto con successo della medicina moderna è stato l’impianto cocleare, una protesi digitale connessa al nervo uditivo, che ha cambiato la vita e l’educazione di migliaia di bambini con problemi di udito (Giraud et al, 2001). Questo è un buon esempio di come 59 la neuroeducazione può essere applicata in campo umanitario grazie all’utilizzazione della più avanzata biotecnologia. Nel futuro vedremo più interventi diretti non solo di neuroimpianti di questo tipo ma anche di neurotrapianti sul cervello danneggiato. In un recente libro che prende in esame l’argomento (Freed, 2000) si mostra come l’impianto di cellule staminali possa essere una valida alternativa all’impianto di tessuti fetali, ad esempio nel cervello di pazienti con morbo di Parkinson, ma dobbiamo ancora comprendere meglio il meccanismo di differenziazione delle cellule staminali per produrre nuovi neuroni dopaminergici.Sono stati anche studiati altri casi di possibile intervento sul cervello trapiantando cellule di animali ed esseri umani, creando così grandi aspettative nell'ambito della prevenzione e cura delle malattie degenerative. NEUROINFORMATICA Il cervello è un insieme di processi analogici e digitali in costante interazione. Ci possiamo aspettareche un giorno la “neuroinformatica” fornirà uno strumento per il controllo centrale diretto di un "mouse virtuale" nel cervello, una sorta di “strumento per tradurre il pensiero” (Kubler et al, 1999). Alcuni ricercatori hanno impiantato degli speciali elettrodi nella corteccia di tre pazienti, affetti da sindrome di Locked-­‐ in; questi individui sonocoscienti e con funzioni cognitive intatte manon possono muoversi o parlare. Un’interfaccia computer -­‐ cervello, BCI, permette ai pazienti di muovere un cursore nello schermo di un computer quando stanno pensando di muovere il cursore verso un obiettivo (Kennedy et al., 2000). L’aumento del tasso di eccitazione dei neuroni impiantati muove il cursore da sinistra a destra nello schermo e la velocità del movimento è proporzionale al tasso di eccitazione dei neuroni. Per “controllare con la mente” questo spostamento (per dirigere il cursore) il paziente deve sviluppare una specifica capacità analogica per raggiungere le differenti icone che produrranno l’emissione di una parola sintetizzata, o per indicare la lettera target che si vuole scrivere. La capacità digitale, “the clic option” è automaticamente attivata da un differente treno d'impulsi dalla corteccia (che inoltre fornisce un chiaro feedback uditivo al paziente). Gli autori si propongono ora di fornire ai pazienti l’accesso ad alcuni “controllers” ambientali e ad Internet. Questo compito umanitario apre anche nuove prospettive per lo studio dei cambiamenti plastici che induce la “corteccia cursore”, come riferiscono gli autori, in questi casi così gravi e drammatici (vedi anche Taylor et al. 2002, Koning & Verschure, 2002). IL LINGUAGGIO ED IL CERVELLO In un mondo globalizzato la possibilità di raggiungere milioni di persone che parlano centinaia di lingue è una delle più grandi sfide dell’educazione contemporanea. La traduzione automatica diventerà uno strumento sempre più importante nella società digitale che collega il nostro pianeta. D’altra parte, ci sono chiare evidenze che il cervello bilingue mostra differenze strutturali e funzionali rispetto al cervello monolingue, fatto che può giustificare alcuni tipi d’interventi precoci nell’insegnamento del linguaggio in una società globale (Perani et al. 1996, Paulesu et al., 2000). Il linguaggio umano può anche essere indipendente dal discorso orale e sappiamo che il linguaggio scritto, per esempio, che è una nuova modalità di comunicazione, è organizzato nel cervello in modi che sono simili a quelli del linguaggio parlato ( Hickok, Beluggi & Klima, 2002; Newman et al., 2002; Petitto et al., 2001). Il Bimodalismo (linguaggio orale /scritto) ha oggi un ruolo importante nella vita di molti individui sordi. L’attuale tendenza nella neuroeducazione è di fornire un “piano universale” per gli strumenti educativi (digitali) e di utilizzare diverse strade parallele per superare i più frequenti 60 ostacoli nei processi di apprendimento, come la dislessia, malattie di deficit nell’attenzione, ecc. (Rose & Meyer, 2002). Riassumendo, la crescente di interazione dei neuroni con gli strumenti di trattamento delle informazioni, in un ampio spettrodi casi apre nuovi campi d'indagine e dà speranza a molti esseri umani di tutte le età e condizioni, dotati o handicappati, ma implica anche l’insorgere di sempre più numerosi problemi etici riguardanti le procedure, gli interventi, e gli obiettivi delle nuove tecnologie. 61 Battro, A. M. (2000) Half a brain is enough: The story of Nico.Cambridge: CambridgeUniversity Press. Battro, A. M. (2002). The computer in the school: A tool for the brain. In The challenges of sciences: Education for the twenty-­‐first century. The PontificalAcademy of Sciences. Scripta Varia, 104. Buonmano, D. V. & Merzenich, M. M. (1998) Cortical plasticity: From synapses to maps. Annual Review of Neurosciences, 21: 149-­‐186. Dehaene, S., Le Clec'H, G., Cohen, L., Poline, J. B., van de Moortele, P. F., & Le Bihan, D. (1998). Inferring behaviour from functional brain images. Nature Neuroscience, 1, 549-­‐550. Doetsch, F (2002) Reconstructing the brain. Journal of the AmericanAcademy of Child and Adolescent Psychiatry. 41:5, 622-­‐624. Doetsch, F. & Sharff, C. (2001) Challenges for brain repair: insights from adult neurogenesis in birds and mammals. Brain, behavior and evolution. 58; 306-­‐322. Freed, B. (2000). Neural Transplantation. (2000). Cambridge, MA: MIT Press. Giraud, A. L., Price, C. J., Graham, J.M & Frackowiack, R.S.J. (2001). Functional plasticity of language-­‐related brain areas after cochlear implantation. Brain, 124, 7, 1307-­‐1316 Grafman, J. & Litvan, I. Evidence for four forms of neuroplasticity. In Grafman, J. & Christen (Eds) (1999). 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Onset of speech after hemispherectomy in a nine-­‐year-­‐old boy. Brain, 120, 159-­‐182. 62 ADRIANO BOMPIANI
LA RICERCA SPERIMENTALE IN AMBITO BIOMEDICO AMBITI, METODOLOGIE, CRITERI DI VALIDITÀ DEI PROGETTI DI RICERCA PREMESSA Il contributo che viene presentato al Convegno “Etica della ricerca biomedica: per una visione cristiana” -­‐ IX Assemblea Generale della Pontificia Accademia Pro Vita -­‐ ha per titolo LA RICERCA SPERIMENTALE IN AMBITO BIOMEDICO: AMBITI, METODOLOGIE, CRITERI DI VALIDITA’ DEI PROGETTI DI RICERCA. Sembra quasi pleonastico iniziare sottolineando che il mondo contemporaneo avverte come “necessaria” una sempre più avanzata ricerca biomedica, intesa come fattore di progresso sia culturale che sociale, per conseguire anzitutto migliori possibilità diagnostiche e terapeutiche. La finalità pratica di questo sforzo di ricerca, centrato sulla “cura”-­‐scopo fondamentale della medicina -­‐è universalmente condivisa, anche se non è l’unica. Che sia “aspirazione di ogni malato l’essere curato efficacemente e tempestivamente, senza effetti collaterali” è un’osservazione di C. Foster [1] assolutamente veritiera, come del resto ciò che segue: “Ogni medico dovrebbe realizzare questo preciso obiettivo: ciò che può verificarsi talvolta, ma raramente in modo così soddisfacente”. Certamente non è lecito disarmare in questo sforzo. Anche se non si ottengono guarigioni definitive oggi si possono praticare terapie molto efficaci per alleviare la condizione del paziente pur ammettendo che lo specifico scopo della ricerca medica dovrebbe essere la sempre più perfetta “prevenzione delle malattie”, oltre che la“guarigione degli stati morbosi”. Obiettivo fondante quello “pratico”, si diceva, ma non unico. La ricerca biomedica produce un aumento delle conoscenze, che ha valore in sé stesso e caratterizza quella progressiva, inarrestabile ma anche infinita (non delimitabile) conquista di nozioni e di dati che contraddistingue la scienza moderna e ne caratterizza la espansione. Viene subito messa in evidenza la particolare “responsabilità” del ricercatore in questa dinamica, sulla quale si ritornerà brevemente nelle conclusioni. In chiave di sociologia della scienza, si dovrebbe infine collegare la cultura tecnico-­‐metodologica delle pratiche della ricerca scientifica in medicina al concetto (sociologico) di interesse, come avviene in tutti i settori della scienza. Infatti – si afferma -­‐ poiché la conoscenza nel mondo reale è destinata, in larga misura, all’uso, e non alla semplice contemplazione, in questo concetto confluiscono non solo i già accennati interessi degli utenti (reali o potenziali) ad essere meglio curati, ma anche gli interessi propri dei ricercatori (economici, di prestigio, di carriera, ma anche i sentimenti di altruismo od all’opposto di egoismo, ecc..), ed anche quelli di coloro che forniscono loro i mezzi e gli strumenti della ricerca (interessi economici, potere di mercato, ecc..). In questo lavoro, si cercherà di puntualizzare alcuni di questi obiettivi, nel momento in cui confluiscono in “progetti di ricerca”. 1. Scienze biomediche, comunità scientifica, comunità civile Come è noto, il processo evolutivo della scienza è affidato alla comunità scientifica, cioè a quell’insieme di operatori che a vario livello di preparazione, azione e responsabilità lavorano nelle strutture della ricerca e per gli obiettivi della ricerca. Processo evolutivo della conoscenza e ricerca sono fra loro solidali; soprattutto nelle scienze applicate, la ricerca sostenuta da una 63 appropriata tecnologia è il motore indispensabile dell’evoluzione della conoscenza, e in definitiva della scienza. La medicina, pur con la suapeculiarità, condivide questa dinamica. Il binomio indicato, in cui il termine “scienza” nel significato costitutivo della parola allude alla pienezza della conoscenza esperibile in un determinato momento storico, costituisce con l’altro termine – la “ricerca” – una alleanza che vale, sia che si accetti una progressiva definizione del rapporto fra una realtà oggettivamente esistente e la conoscenza a noi possibile della stessa realtà – secondo il quale le strutture logiche riflettono aristoteliche strutture ontologiche – sia che si accolgano rinnovate, di recente, concezioni costruttivistiche e soggettivistiche di ispirazione platonica, secondo le qualila realtà è un’astrazione, la scienza è un’insieme di paradigmi mutevoli, elaborati dagli scienziati nel tentativo di dare progressiva consistenza al processo mentale della conoscenza. Ciò premesso, il rapporto che intendiamo approfondire in questo breve contributo potrebbe proporsi – genericamente -­‐ come relazione fra il ricercatore biomedico da un lato e la società nel suo complesso dall’altro; tuttavia è subito necessario – nel campo che esaminiamo -­‐ operare una distinzione fra quei ricercatori che lavorano per la salute in strutture che non hanno diretto rapporto con il paziente, ed i ricercatori che operano sul paziente o meglio (come oggi si preferisce) con il paziente (ricercatore biomedico-­‐clinico)[2]. Soprattutto in ques’ultimo caso, il rapporto fra scienza-­‐sperimentazione biomedica da un lato e persona umana, dall’altro, si configura come “dialogo” fra un esperto, dotato di propri diritti professionali ma anche di doveri ed un essere umano, titolare di diritti inalienabili fra cui anche l’omnicomprensivo “diritto alla tutela della salute”. Per evidenti motivi, le considerazioni che presenterò in questa circostanza saranno limitate a tale secondo contesto. In definitiva: nel mondo contemporaneo ed in quello futuro dobbiamo attendere sempre più ricerca biomedica, e sempre più ricerca avanzata, tecnologicamente progredita, con espansioni sempre più ardimentose verso le strutture fondamentali della vita: geni e molecole, delle quali si vuole non solo conoscere la funzione naturale, ma – talvolta – modificare l’azione per desideri e scopi sostenuti dalla volontà personale. Ma la società non ha accettato del tutto passivamente questa evoluzione. Sempre più allarmata da episodi che travalicano il sentimento etico comune ed offendono la dignità dell’uomo, aumenta la pressione emotiva dell’opinione pubblica, ma anche la vigilanza giurisprudenziale e legislativa (soprattutto in sede internazionale) delle autorità sanitarie per disciplinare le attività di ricerca, soprattutto ove queste recano rischio di danno od offesa alla persona umana, con risultati peraltro non del tutto soddisfacenti. [3] Sono state individuate nuove “strutture”, più vicine alla realtà operativa rispetto ai tribunali ed ai Parlamenti, per dare consistenza preventiva alla tutela del soggetto umano sottoposto a sperimentazione. I Comitati Etici (C.E.) si presentano in questo contesto come luogo di dibattito necessario, punto di valutazione “esterna”, di garanzia e di armonizzazione fra le azioni progettate dal ricercatore biomedico-­‐clinico e le esigenze di salvaguardia dei diritti del paziente. 2. Libertà della scienza, libertà della ricerca e “progetti di ricerca biomedica” I Comitati etici, per loro principale e naturale funzione, si trovano di fatto a decidere su “progetti di ricerca”, e cioè sul concreto esercizio della libertà di ricerca in un definito e per lo più ristretto ambito delle scienze biomediche, di fronte a domande che il ricercatore si è posto e che presenta alla comunità scientifica come degne per essere affrontate.Si offre, subito, un quesito generale: 64 la libertà della scienza – di cui parla anche la nostra Costituzione (come del resto alcune delle altre costituzioni coeve) –sino a che punto coincide con la libertà della ricerca? Domanda importante, alla quale si può subito rispondere in termini etici generali affermando la necessità che anche la ricerca condivida l’esigenza di una integrazione antropologica (v. ad es. Sgreccia, 1994)[4] ed in termini giuridici, affermando che ogni principio costituzionale deve accordarsi con altri principi costituzionali. Domanda intrinsecamente fondamentale nel caso delle ricerche biomediche, essendo queste rivolte non alla natura inanimata ma ad un essere vivente caratterizzato da particolare dignità. Appare evidente già all’intuizione etico-­‐giuridica di senso comune che non possono considerarsi equivalenti fra loro progetti di ricerca che portino giovamento e progetti che arrechino danno o grave rischio di danno al soggetto umano (vale l’antico aforisma “primum non nocere”). Ciò crea una limitazione alla libertà della ricerca? La libertà scientifica è , oggi, interpretata (come peraltro altre libertà) nella proiezione dei principi di individualismo, pluralismo e universalismo – che (come è noto) – presentano significati diversi nei diversi contesti in cui essi vengono esaminati ed in rapporto all’orientamento culturale e morale dello stesso valutante[5]. Coltivare i valori della libertà scientifica non esonera lo scienziato-­‐sperimentatore biomedico dai doveri generali di appartenente alla comunità morale degli uomini; se mai ne esalta la responsabilità e dovrebbe portare a gradi elevati di prudenza ed all’autocontrollo nell’esercizio del proprio lavoro specialistico. Il fatto che quasi tutte le Costituzioni dei Paesi più avanzati conferiscano singolare rilievo in termini di protezione giuridica alle attività della ricerca scientifica è indice non di privilegio, ma della particolare dignità riconosciuta a chil’esercita con responsabilità[6]. E’ ben noto, peraltro, che al di là di questi principi etici che si applicano al lavoro del ricercatore, esistono ormai ben chiare norme di tutela giuridica del soggetto sottoposto alla ricerca[7]. Una seconda domanda (la risposta alla quale già a prima vista sembra “scontata”) consiste nel chiedersi il perché anche nella ricerca e sperimentazione biomedica si adottino progetti basati su espressi, specifici “protocolli”. Questo criterio risponde al preciso requisito della metodologia scientifica che – in generale – si è sviluppata nel corso dell’ ‘800 ed affermata nella prima metà del secolo XX, quanto meno per il grande raggruppamento delle cosidette “scienze sperimentali”, fra le quali – sia pure con le sue specificità – si è posta anche la medicina. Metodologia che, in sintesi, si svolge nella direzione: problemi-­‐ teorie-­‐critiche nel binomio congettura-­‐confutazione. Di recente, D. ANTISERI(2001)[8],e G.FEDERSPIEL e coll. (1999 e 2001)[9] hanno richiamato questa evoluzione, con i riferimenti all’applicazione in campo medico, ed a questi interessanti articoli si rinvia il lettore unitamente all’insieme della pregevole letteratura epistemologica medica italiana. I C.E. con l’esame accurato dei “protocolli di ricerca” che vengono presentati dai ricercatori, agiscono come partecipi al giudizio preventivo della qualità intrinseca della ricerca, e in ultima analisi operano a beneficio dello stesso ricercatore, allorché si esprimano con giustizia, serenità ed obiettività, non solamente scartando (o chiedendo la revisione dei) protocolli che offrano rischi eccessivi per il soggetto che si sottopone alla sperimentazione ma anche separando i protocolli dotati di razionalità scientifica da quelli sospetti di improvvisazione o – peggio – di frode.[10] Si è molto discusso, in sede nazionale ed internazionale, se il giudizio della qualità scientifica del protocollo spetti ad un unico organismo che assicuri anche il giudizio etico dello stesso, o sia preferibile mantenere distinti i titolari delle due funzioni. 65 Anche la recente convenzione del Consiglio d’Europa sui diritti umani e la biomedicina (Convenzione di Oviedo, 1997) non prende posizione al riguardo, lasciando comunque al diritto interno la facoltà di scelta fra modello unico e modello duplice. Un giudizio sulla validità scientifica e sull’apporto innovativo del proposto protocollo di ricerca è in ogni caso ribadito, come condizione necessaria per l’approvazione del protocollo stesso,anche nel testo del Protocollo addizionale sulla ricerca alla Convezione di Oviedo – in via avanzata di redazione -­‐ secondo il dettato ben noto che “nessuna ricerca è eticamente valida se non presenta in ogni caso intrinseche qualità scientifiche”. Naturalmente, l’esame della praticabilità scientifica ed etica della ricerca proposta è molto più complesso, come verrà chiarito proseguendo il discorso sul tema che mi è stato affidato. 3. Ricerca e sperimentazione. Nel campo che ci interessa, queste due parole – dal significato polisemantico – vengono spesso utilizzate in modo intercambiabile. Secondo l’Enciclopedia Italiana, per ricerca – con significato più circoscritto rispetto alla generica “attività di ricercare, trovare, scoprire qualcuno o qualcosa” – si dovrebbe intendere “l’insieme degli studi e delle indagini che si svolgono nell’ambito delle discipline scientifiche o umanistiche per individuare documenti o fonti, ricostruire eventi o situazioni, scoprire fenomeni, processi, regolarità, leggi etc.”. Ricerca, più esattamente, è ogni attività di studio che si svolga in modo sistematico e non casuale proponendosi come fine l’acquisizione di nuove conoscenze: si dice scientifica, allorchè è svolta con intendimenti e metodi scientifici. La medesima Enciclopedia definisce il termine “sperimentazione” come l’attività dello sperimentare (derivazione dal tardo latino experimentum): e cioè “applicare, usare, mettere alla prova qualche cosa per accertare e verificarne le capacità funzionali, la validità, l’efficacia, il rendimento ecc…”.Nell’ambito della ricerca scientifica significa“il procedere secondo le norme del metodo sperimentale”. A rigor di termini, anche nella ricerca biomedica si dovrebbe, nell’usare i termini in esame, distinguere fra la genericità e la onnicomprensività della voce ricerca esercitata dalla medicina biologica, consistente nell’osservazione delle caratteristiche fisiologiche e patologiche dell’organismo umano e la voce sperimentazione, più adeguata ad esprimere modificazioni indotte ad arte sull’organismo (sano o malato) per derivarne informazioni sia valide alla “conoscenza in se stessa” della reattività organica, sia utili all’attività applicativa diagnostica e terapeutica. E’ evidente, altresì, che in rapporto alla possibile generizzabilità delle informazioni [11], il loro significato può non rimanere circoscritto al singolo individuo dal quale esse sono derivate, ma può estendersi ad una serie di individui costituenti una categoria, nella quale si inserisce – per le sue caratteristiche – anche il soggetto che ha fornito le informazioni. Un’ultima notazione generale: si è discusso, nel passato, fra natura induttiva o deduttiva del ragionamento medico e del valore intrinseco dell’ “osservazione”[12] . L’osservazione – considerata come “metodologia” -­‐ si applica nella ricerca biomedica a qualsiasi significato si voglia dare ai termini “ricerca” e “sperimentazione” e la tecnologia biomedica non fa altro che amplificare gli ambiti ultrasensoriali e consente molte volte di quantificarla. In realtà, ribadendo la necessità della corretta ed accurata “base empirica osservativa”, si ritiene oggi che la mente del medico – tanto più se sperimentatore – operi nella ricerca diagnostica ed in quella terapeutica attraverso una esplorazione graduale e progressiva che procede per congetture e confutazioni. Dunque, applicando il “paradigma” scientifico di modello Popperiano, oggi prevalente. Questa lunga premessa mi consente, ormai, di passare all’analisi delle singole modalità con le quali viene in generale classificata la ricerca biomedica. 66 METODOLOGIE DELLA RICERCA BIOMEDICA Sono molteplici, ed loro uso preferenziale dovrebbe essere calibrato sull’obiettivo da raggiungere, attraverso il modo migliore per conferire validità scientifica al protocollo e valore scientifico al progetto di studio considerato. Ciò non rappresenta solo un requisito di “buona scienza”, ma anche requisito “etico”[13]. La scelta richiede “competenza” da parte del ricercatore ed un forte impegno etico (v. oltre). Tre sono le principali modalità con le quali, in generale, si svolge la ricerca biomedica clinica,denominate: • i trials randomizzati controllati • la ricerca osservazionale • la ricerca cosiddetta “di qualità” Tali modalità possono essere applicate in ambito prenatale, neonatale, pediatrico, adolescenziale, nella vita adulta, nell’anziano , ecc.. in rapporto ai particolari “obiettivi” che si intendono raggiungere: diagnostico, terapeutico, epidemiologico ecc…[14] In generale si afferma: I trials randomizzati controllati rappresentano i metodi più indicati per escludere dalla valutazione dei risultati le interferenze dovute a preferenze e ad errori. La ricerca osservazionale è particolarmente indicata in campo epidemiologico, caratterizzandosi in senso narrativo(descrivendo i fenomeni senza individuarne le cause o gli effetti) o in senso analitico (ricercando le cause ed effetti dei fenomeni osservati e loro interconnessioni, mediante alcune varietà: gli studi di coorte, gli studi caso-­‐controllo, ecc…) Le ricerche di qualità cercano di interpretare il pensiero della gente, a proposito di determinati fenomeni o problemi, ed hanno una vasta articolazione: metodi puramente osservativi dei comportamenti da parte del ricercatore, interviste qualitative strutturate in questionari più o meno elaborati, riflessioni operative di esperti (“consensus methods”), gruppi di interazione su problemi particolari (“focus groups); esame di casistiche, ecc.. 1. Revisioni sistematiche e ricerca Ogni ricercatore si inserisce, in generale, in filoni di ricerca già coltivati e dei quali è necessario che il soggetto agente, prima di iniziare la stesura del protocollo e la precisazione dell’ipotesi di lavoro, ne conosca al massimo livello possibile i contenuti[15]. Sono disponibili in moltissimi settori della medicina riassunti ed analisi dei risultati di studi precedentemente pubblicati, e sempre di più si diffondono “revisioni sistematiche e linee guida pratiche”, che costituiscono la base della cosiddetta “medicina delle prove di efficacia” (Evidence based medecine). Questa deriverebbe da una vasta analisi critica, possibile quando i lavori esaminati sono fra loro confrontabili e rispondono a precise esigenze per la soluzione di espliciti problemi[16]. Le revisioni sistematiche, denominate anche “metanalisi”, hanno la finalità di costituire una base consistente di studi paragonabili, al fine di aumentare la precisione delle stime riguardanti ad es. l’effetto di un fattore etiologico, la predittività di un test, o l’efficacia di un trattamento ecc., di accrescere il numero dei pazienti considerati in sottogruppi clinicamente rilevanti, di favorire la soluzione di problemi relativi a risultati contrastanti ed anche di indicare l’opportunità di nuovi studi. La metodologia per arrivare a tali revisioni sistematiche è piuttosto complessa (e si rinvia pertanto alle pubblicazioni specializzate); val la pena però di segnalare che l’intuizione di ARCHIE COCHRANE (1972)[17] sul valore euristico e pratico delle revisioni sistematiche e delle 67 metanalisi è stata (e continua sempre di più ad essere) feconda di risultati ai fini della impostazione della ricerca clinica non meno che della prassi, cioè delle decisioni cliniche di ogni medico, caratterizzandosi – peraltro – in molti casi – come una vera e propria “ricerca autonoma”. 2. Le metologie della ricerca nella diagnosi Il tentativo di predisporre metodi sempre più affinati per scoprire, con facilità di procedure, rapidità, sicurezza di risultato, comodità di impiego e basso costo patologie, o condizioni predisponenti, nel soggetto umano è uno degli scopi perenni della ricerca biomedica e della relativa sperimentazione, oggi particolarmente sensibile alle esigenze della cosiddetta medicina basata su dati forniti – in alcune circostanze – dalla indagine genetica (divenuta per alcuni l’attuale “paradigma di sviluppo” della ricerca biomedica nel senso di Kuhn)[18] Le procedure per valutare un nuovo test diagnostico o di screening[19] si basano fondamentalmente nel sottoporre un gruppo di persone – che si ritenga adeguato per caratteristiche – sia alla somministrazione di uno standard diagnostico già comprovato (il cosiddetto gold standard) che al nuovo test. L’interpretazione, o la lettura, del test standard dovrebbe essere fatta senza conoscere i risultati del nuovo test e viceversa. Si tratta di stabilire anzitutto la sensibilità e la specificità del nuovo test nei confronti anche del gold standard. Altre misure del “valore” di un test consistono nell’apprezzamento del potere predittivo positivo e del potere predittivo negativo.[20] Si incontrano, nella ricerca sui nuovi test, varie questioni di carattere etico: oltre a quelle relative all’accertamento corretto delle proporzioni di falsi positivi e la proporzione di falsi negativi che il nuovo test può offrire in confronto con le procedure standard (valutazioni errate possono influenzare notevolmente la condotta dell’agente, e/o la decisione del paziente), si debbono considerare anche i rischi connessi alla “invasività” di alcune procedure diagnostiche invasive (sia quelle “gold standard”, sia quelle in sperimentazione). Valgono, ovviamente, le norme di “buona pratica clinica” in questi casi e ad esse, per brevità, si rinvia. 3. Qualche indicazione sugli studi clinici controllati (controlled clinical trials; randomized controlled trials) e loro impiego soprattutto nella sperimentazione terapeutica Gran parte della sperimentazione clinica si riferisce al settore farmaceutico, come è ben noto (studi clinici). Definizione e fasi degli studi clinici farmacologici Gli studi clinici vengono generalmente classificati in fasi I,II,III,IV. E’ difficile tracciare confini precisi fra le singole fasi, in quanto esistono posizioni divergenti (talvolta non corrette e/o non eticamente accettabili). La Fase I riguarda l’interazione farmaco-­‐volontario sano e ha lo scopo di fornire un profilo della farmacocinetica (Assorbimento, Distribuzione, Metabolismo e Eliminazione: ADME) e di avere, se possibile trattandosi di soggetto sano, una conferma delle risposte verificate negli animali (attività farmacodinamica). Non rappresenta uno scopo di questa fase – in quanto eticamente inaccettabile – effettuare ricerche sulla tossicità/tollerabilità del farmaco; è possibile solo acquisire alcuni dati preliminari di tollerabilità osservando la comparsa o meno di sintomatologie soggettive (nausea, cefalea, ecc.) non verificabili nell’animale da laboratorio. Gli studi sull’ADME servono per confrontare i dati relativi verificati nell’uomo con quelli accertati negli animali di laboratorio e potere così tracciare un primo profilo sulla sicurezza del farmaco: gli effetti tossici verificati in animali (non collegabili all’attività farmacodinamica del principio 68 attivo) possono ritenersi possibili, quando le due ADME risultano identiche o molto vicine, anche nell’uomo, per determinati livelli di dose e/o in particolari condizioni (iperattività); al contrario possono ritenersi non possibili quando i dati dell’ADME risultano diversi. In questa fase, la sperimentazione non viene generalmente condotta in cieco, ma in “aperto” vale a dire che sia i ricercatori sia i soggetti conoscono che cosa viene loro somministrato. La fase II riguarda l’interazione farmaco-­‐paziente (effetti del farmaco sull’organismo: farmacodinamica) ha lo scopo di dimostrare l’attività di un principio attivo in pazienti affetti da una malattia o da una condizione clinica per la quale il principio attivo è proposto. In questa fase vengono anche asquisiti elementi per la sicurezza a breve termine. Gli studi vengono condotti su numero relativamente limitato di soggetti, spesso secondo uno schema comparativo (farmaco confronto, placebo). E’ possibile in questa fase riuscire a determinare un appropriato intervallo di dosi, la dose tollerabile (in base alla comparsa di effetti collaterali, legati cioè all’attività farmacodinamica) e di identificare un rapporto dose/risposta. La fase II può non avere lo scopo di accertare un’attività terapeutica, ma soltanto l’attività farmcodinamica. La fase III riguarda l’interazione farmaco-­‐paziente (effetti del farmaco sulla malattia: farmaco-­‐
terapia) e ha lo scopo di determinare, su un numero elevato di pazienti, arruolati in diversi centri, l’efficacia terapeutica e la sicurezza (limitatamente alla numerosità del campione) del medicamento in esame. Il disegno sperimentale è quasi sempre a doppio cieco, randomizzato, in confronto con un placebo o con un farmaco di efficacia accertata. In questa fase si possono rilevare molti degli effetti avversi, in particolare gli effetti più manifesti che insorgono dopo un trattamento di tre/sei mesi dopo la somministrazione del farmaco, a patto che questi peò ricorrano con una frequenza maggiore di 1 volta ogni 100 somministrazioni. Effetti tossici importanti sotto l’aspetto medico che si manifestano con un certo ritardo o ricorrono con una frequenza minore di una volta ogni mille somministrazioni possono quindi non venire rilevati prima dell’Autorizzazione all’Immissione in Commercio (AIC). La fase IV della sperimentazione clinica prende l’avvio dopo che il farmaco ha ottenuto il permesso per la commercializzazione. Questa fase riguarda principalmente l’interazione medicamento-­‐pazienti, effetti del farmaco nelle reali condizioni d’impiego, eventuale comparsa di effetti indesiderati (farmacovigilanza) e in linea secondaria l’osservazione di possibili effetti terapeutici non indicati all’atto della commercializzazione del prodotto. Studi clinici aventi lo scopo di confermare o accertare nuove indicazioni vanno considerati come studi su nuovi prodotti medicinali e quindi ricadere su studi di fase II/III. Occorre segnalare che sulla definizione di questa fase non vi è un completo accordo. Le caratteristiche dei “controlled clinical trials” Nel 1998, in occasione del 50° anniversario del primo studio clinico randomizzato controllato pubblicato in Gran Bretagna sull’impiego della streptomicina nella tubercolosi, è stata organizzata una grande conferenza internazionale dal titolo: "50 anni di trials clinici”, i temi della quale indicano molto significativamente il percorso svolto e la complessità che ha assunto tale tecnica sperimentale[21]: Non è certamente negli scopi di questa trattazione offrire una esaustiva analisi di questa complessa materia; tuttavia, qualche sommario richiamo servirà a far intravedere soprattutto la responsabilità che caratterizza i promotori, i programmatori, e gli stessi esecutori di tali metodologie, le quali hanno l’obiettivo di valutare qualsiasi trattamento potenzialmente innovativo con criteri per quanto è possibile rigorosi [22] . 69 J.P. BOISSEL e A.LEIZOROVICZ (2000)[23] sottolineano la “natura” degli studi clinici controllati, considerati un progresso fondamentale nella storia dello sviluppo e delle terapie efficaci con le seguenti espressioni: “Essi sono esperimenti scientifici e per questo motivo possono essere universalmente compresi e i loro risultati possono essere universalmente applicati, sempre che siano stati disegnati e condotti in accordo a principi oggi ben codificati….”. “Il concetto di studio clinico controllato è essenzialmente lo stesso per ogni branca della medicina. Si applica sia alla valutazione dei farmaci che delle procedure chirurgiche, delle terapie fisiche e delle terapie psichiche. Può essere esteso alla valutazione dei test diagnostici. Infine, gli studi clinici controllati possono essere utilizzati (e lo saranno sempre di più) per valutare diverse strategie mediche. Una strategia è un insieme di interventi, possibilmente in combinazione con procedure diagnostiche differenti. Sono stati pubblicati diversi esempi di valutazione di differenti strategie in medicina: per esempio, un approccio di tipo invasivo rispetto ad un approccio conservativo, o un trattamento farmacologico pre-­‐ospedaliero rispetto a quello ospedaliero” (pag.1). E riprendono: “Uno studio clinico controllato è un esperimento nel corso del quale vengono raccolti dei dati. La loro analisi, in accordo con il disegno dello studio, produce informazioni che sono di natura scientifica. Uno studio clinico deve pertanto soddisfare i requisiti fondamentali di un esperimento scientifico. La metodologia degli studi clinici è basata sui principi del metodo sperimentale, come già inizialmente identificato nel XIX secolo ed oggi codificato. Tali principi possono essere così riassunti: L’ipotesi da valutare deve essere proposta per iscritto prima dell’inizio della raccolta dei dati; l’ipotesi viene verificata attraverso le modificazioni registrate nel sistema oggetto di indagine (per esempio il paziente, l’unità che fornisce la terapia, ecc..). Il sistema oggetto di indagine è l’unità sperimentale. Il disegno sperimentale deve essere tale per cui la verifica dell’ipotesi dipende dal confronto tra un gruppo di unità sperimentali modificate e un gruppo di unità di controllo non modificate; questo paragone è per il ricercatore la chiave di accesso ai risultati dell’esperimento. Il numero di unità sperimentali deve essere sufficientemente grande da minimizzare il rischio che singole reazioni idiosincratiche delle unità sperimentali abbiano un peso eccessivo sui risultati. Allo scopo di stabilire una relazione di causalità tra la modifica del sistema e il risultato, i due gruppi, fatta eccezione per l’intervento, devono essere gestiti in modo identico, prima, durante e dopo l’intervento che determina la modifica, fino al completamento della raccolta dei dati”. Nei primi tempi di sviluppo del metodo sperimentale questi principi non potevano essere direttamente applicati al campo della ricerca con piena efficienza. Successivamente sono stati affinati con l’adozione del modello statistico e con il concetto dei “fattori di confondimento” . Seguendo questi AA., la “costruzione” di uno studio clinico controllato, in estrema sintesi, deve prevedere: l’ipotesi a priori che deve essere testata. Questa di solito è relativa all’efficacia di un certo intervento su un evento, un sintomo, o sulla qualità della vita di pazienti con una patologia specifica e un profilo peculiare di eleggibilità. Tale ipotesi rappresenta il prodotto di un processo lungo e complesso ed è costruita gradualmente intorno ad un ragionamento basato sulle conoscenze disponibili, su intuizioni, su relazioni funzionali osservate o presunte, e su un’accurata analisi del problema di salute al quale è interessato lo sperimentatore. La stima dei cosiddetti “fattori di confondimento”, necessaria per il fatto che numerosi fattori possono interferire con l’evoluzione delle condizioni di un paziente dopo la somministrazione di 70 una terapia. L’effetto dell’intervento terapeutico è solo uno dei fattori, e non può essere separato dagli altri solamente osservando il decorso del paziente. Altri fattori in gioco sono la cosidetta regressione verso la media, il miglioramento o il peggioramento spontaneo della malattia, gli effetti delle terapie concomitanti e l’effetto placebo. Gli effetti di tutti questi fattori sono correlati con il tempo[24]. Circa l’effetto placebo, è noto che tale fattore interferisce con l’evoluzionedella malattia di un paziente, nella maggior parte dei casi in modo positivo. E’ una componente inevitabile di tutte le terapie. Per quanto sia difficile precisare le modalità secondo le quali opera “l’effetto placebo”, nessuno negherebbe la sua esistenza [vedi anche G. Folli (1994); L.Candia (1994)]. La sua intensità e il peso delle sue componenti più verosimili (la fiducia del paziente nel medico o nel farmaco, le aspettative positive del malato e le proprie convinzioni rispetto al “miracolismo” della medicina, ecc..) non sono prevedibili. Si suppone che molti siano i farmaci che funzionano solo attraverso l’effetto placebo. La randomizzazione, criterio con il quale i soggetti che accettano di partecipare all’esperimento sono collocati in ogni gruppo di studio utilizzando un metodo di assegnazione che non è soggetto a influenze esterne (e cioè non è permessa alcuna preferenza personale né da parte dei ricercatori, né dei pazienti). E’ provato che in generale l’assegnazione casuale (random) rappresenta il metodo migliore per raggiungere questo obiettivo, ma il criterio si presta a varie obiezioni etiche (che di seguito verranno precisate). Il mascheramento dell’appartenenza ai diversi gruppi (blinding, o “cieco”). Così si esprimono ANN MC KIBBON, A. EADY e S.MARKS[25]: “Negli studi relativi a trattamenti, oltre all’assegnazione casuale, i pazienti, gli operatori sanitari ed il personale che partecipa allo studio non dovrebbero conoscere, per quanto possibile, il gruppo al quale il paziente è assegnato. Questo metodo è definito blinding o mascheramento o cieco, ed evita quello che comunemente viene definitomeasurement bias (errore di misurazione). Considerando la realtà della natura umana, le aspettative dei pazienti e degli operatori sanitari sono forti, e spesso inconsciamente possono influenzare la rappresentazione dei risultati. Fin troppo spesso, e con le migliori intenzioni, le persone considerano come veritiero ciò che pensano debba accadere o ciò che pensano che gli altri si aspettano debba accadere. Per ridurre al minimo queste percezioni errate, né gli operatori sanitari né i pazienti dovrebbero sapere quale trattamento i pazienti stanno ricevendo” (pag.46). A giudizio di molti autori, da noi condiviso, le procedure di mascheramentosono complicate e presentano spesso gravi riserve etiche (in seguito richiamate), soprattutto nelle formule del “doppio” o “triplo cieco”, pur non mancando in linea di principio di una loro razionalità [26]. Il controllo in corso d’opera e a distanza (follow-­‐up). E’ evidente l’importanza di questo fattore per la valutazione dei risultati degli studi randomizzati controllati, non solo durante e al termine degli studi (momento previsto correttamente nel protocollo originale; ma che per varie ragioni viene spesso modificato nel senso di anticipazione o ritardo nella chiusura della fase sperimentale) ma anche per quanto riguarda la valutazione degli effetti a distanza di tempo. Un tempo troppo breve di osservazione può mascherare effetti perversi emergenti a lungo termine. Si ritiene che almeno l’80% di tutti i partecipanti che sono stati arruolati e randomizzati all’inizio dello studio debbano essere analizzati alla fine di esso perché i risultati siano considerati validi o “veri”, al 90% di probabilità.Questo significa tener conto di tutti i partecipanti che interrompono il trattamento (i quali dovrebbero essere nel minor numero possibile) o che sono in qualche modo persi. Giustamente A. MC KIBBON et al. affermano che mantenere un buon follow-­‐up può essere facile o difficile, a seconda dello studio[27] e S. Galbraith e I. Marshner (2002) – mettendo in evidenza anche l’aumento dei costi che si determina con la riduzione dei dati “in corso d’opera” hanno elaborato criteri statistici atti ad affrontare le varie situazioni [28] . 71 In ogni caso, è necessario (tecnicamente) e doveroso (giuridicamente e moralmente) seguire il trattamento e “monitorarlo” durante tutto lo stesso svolgimento, allo scopo di chiarire se il protocollo approvato deve essere mantenuto inalterato o modificato. Ciò comporta l’adesione a regole di appropriata osservazione della casistica, basata sulla tempestività delle segnalazioni degli effetti avversi, la completezza delle stesse, la competenza e l’esperienza professionale di chi effettua il monitoraggio e la sua libertà di giudizio nei confronti di possibili indebite interferenze [29]. Il corretto impiego di metodologie statistiche. Secondo B.PITT e altri (2000), “l’utilizzo del modello statistico ha lo scopo di risolvere tre problemi correlati: la variabilità tra un osservatore e l’altro, o nello stesso paziente a tempi diversi (variabilità intrapaziente) o in pazienti diversi allo stesso tempo (variabilità tra pazienti); la variazione casuale nei risultati dello stesso esperimento ripetuto più volte; e la previsione di eventi successivi basata su una serie di dati osservati in precedenza. I due strumenti statistici che forniscono una soluzione a questi problemi sono il test di significatività e la stima puntuale con i suoi limiti fiduciari. Il test di significatività fornisce regole arbitrarie, ma ragionevoli, per decidere se il risultato di uno studio, ossia la differenza osservata tra il comportamento e cambiamenti nei due gruppi, è dovuto al caso o può essere accettato come frutto di una reale differenza[30]. Una volta che la differenza tra i cambiamenti nei pazienti trattati e quelli di controllo è stata calcolata e la significatività statistica è stata valutata, il punto successivo che il ricercatore deve prendere in considerazione è la dimensione dell’effetto del trattamento, specialmente se il valore di P è piccolo[31]. Come sottolineano Calamo-­‐Specchia e coll (1994) [32] indagini compiute da Meinert e coll. (1984) hanno posto in evidenza che molti lavori pubblicati nella letteratura internazionale a quell’epoca non calcolavano previamente la grandezza del campione necessario, né pianificavano la valutazione dei risultati con criteri di significatività statistica: oggi, ovviamente, molto è cambiato a riguardo [33]. Concludendo: le indicazioni (ovviamente non completamente esaustive) fornite in questo paragrafo dimostrano la complessità, metodologica e interpretativa, dei trials clinici: questa complessità mette alla prova non solo sperimentatore , lo sponsor ed in generale i “tecnici” della ricerca clinica, ma anche i divulgatori (la stampa) e la comprensione esatta dei risultati da parte dell’opinione pubblica (R. Morton, 2001).[34] 4. Ricerca sull’eziologia, sulle cause e sul danno Sono ricerche molto importanti di carattere sanitario, oltreché di carattere clinico (in quest’ultimo caso, è frequente l’impiego del concetto di “danno”, anche in senso iatrogeno). Questi studi, che hanno per obiettivo anche quello di valutare il rischio prodotto per un determinato soggetto, o per una popolazione determinata, dall’esposizione a cause singole (o associate) di cui si conosce (o si suppone) l’effetto patogeno, sono molto complicati ed hanno una diversa capacità di raggiungere un obiettivo di verosimiglianza secondo l’ordine decrescente di efficacia: studi controllati randomizzati; studi coorte; studi caso-­‐controllo; studi trasversali con gruppi aggiustati statisticamente. Non è possibile, in questa sede, approfondire ulteriormente gli aspetti “tecnici”: basterà dire che vengono attualmente ritenuti “validi” gli studi di coorte (cohort study), sebbene non siano quelli più specifici nei risultati (ma anche per alcuni aspetti eticamente discutibili) come lo sono i “prospettici” studi clinici randomizzati. Peraltro, anche gli studi di coorte sono difficili da eseguire e richiedono tempi lunghi e costi relativamente elevati, caratteristiche molto pronunciate negli studi prospettici randomizzati. Gli studi di caso-­‐controllo sono considerati “deboli” dal punto di vista metodologico, ma in clinica vengono spesso usati per studiare ad es. effetti collaterali rari dei trattamenti perché hanno il 72 pregio di poter essere realizzati con relativa rapidità e minori costi. Gli studi caso-­‐controllo si basano sull’anamnesi circa l’esposizione degli individui oggetto di valutazione rispetto all’agente causale (noto o previsto) per la malattia. Gli studi trasversali con gruppi aggiustati statisticamente sono rapidi e facili da completare come “indicazione” di una causa eziologica, ma vengono ritenuti “non validi” per costituire una base attendibile per le decisioni cliniche. 5. La ricerca riguardante la “storia naturale” e l’individuazione della prognosi Come abbiamo già accennato costituisce un capitolo particolare, anche sotto l’aspetto etico, l’osservazione della “storia naturale” intesa come progressione della malattia non trattata. Se questa è invece sottoposta a cure si parla di prognosi, in generale a partire dal momento dell’avvenuta diagnosi. Giustamente, si fa rilevare che “i clinici hanno bisogno di avere un rapido accesso alle informazioni riguardanti la storia naturale e la prognosi per rispondere alle domande dei propri pazienti. Una delle prime domande poste dai pazienti quando vengono messi al corrente di una nuova diagnosi è “Cosa mi succederà adesso?”. Essi vogliono conoscere le implicazioni della malattia o condizione appena diagnosticata in termini di sopravvivenza, progressione della patologia e stile di vita, ancor prima di cominciare a valutare le opzioni ed i problemi di un trattamento o di una terapia palliativa” (ANN MC KIBBON et al. (2000); pag.131)[35]. Seguire la malattia astenendosi da un trattamento che si conosca come valido, per osservare cosa avviene nel tempo (come è avvenuto ad es. nel notissimo caso del Tuskegee Study of Untreated Syphilis in the Negro Male (Studio Tuskegee sulla sifilide non trattata nel maschio afro-­‐americano (BRAWLEY, 1998)[36], è palesemente immorale se ciò avviene all’insaputa del paziente perché tradisce la fiducia di questiriposta nel medico (dal quale si attende una cura). Valutare la “prognosi” nell’ambito di una ricerca è concetto del tutto diverso;ciò può essere fatto raggruppando pazienti di una determinata malattia in un campione per quanto è possibile omogeneo per caratteristiche di inserimento e ad uno stadio precoce di malattia (cosiddetta coorte incipiente o inception cohort), seguendo poi nel tempo e nel decorso in presenza di determinati trattamenti almeno l’80% dei pazienti inizialmente arruolati [37]. CONSIDERAZIONI FINALI 1. Correnti etiche e sperimentazione clinica Al termine di questa esposizione, mi sembra importante svolgere qualche considerazione, richiamando anzitutto i termini con i quali viene “vissuta” l’attività di ricerca da parte dello sperimentatore, in rapportoalle correnti etiche alle quali prevalentemente egli si ispira. Si conviene, largamente, che la sperimentazione clinica costituisca una tematica densa di implicazioni culturali, morali e giuridiche[38]. Essa mette alla prova sia la preparazione professionale che il senso di responsabilità etica del medico-­‐sperimentatore, sia il sentimento di solidarietà sociale del partecipante alla ricerca. Si conviene che ricerca e sperimentazione in medicina (biomedicina) siano fondate sull’uso della ragione e sull’uso dei sensi (vanno ricomprese nel concetto le tecnologie che implementano o sostituiscono l’uso dei sensi), così come in ogni ramo della scienza naturale applicata. La descrizione e la misurazione adeguata dei fenomeni biologici che si osservano spontaneamente o di quelli che vengono indotti con varie tecniche, debbono necessariamente essere condotte secondo procedure ben definite e secondo regole che – nell’esperienza – guidano 73 il ricercatore verso affermazioni giustificate dall’evidenza, ancorché in futuro “falsificabili” in rapporto a successive differenti evidenze. Tali affermazioni costituiscono il concetto di “oggettività”, al quale si riferiscono anche le ricerche terapeutiche condotte con le metodologie che abbiamo ricordato[39]. La riflessione etica sul singolare “rapporto” che si instaura nella sperimentazione fra motivazioni, valori ed interessi diversi può essere svolta in chiave utilitaristica-­‐consequenzialista, deontologica tuzioristica, autonomista e personalista. L’utilitarismo apporta alla discussione il criterio del “vantaggio dei molti” (attuali o futuri) che beneficieranno del progresso diagnostico o terapeutico contro il rischio e la sofferenza dei pochi sui quali si sperimenta, privilegiando il conseguimento del risultato rispetto alle modalità di realizzazione. In questa estrema, schematica forma l’utilitarismo ovviamente non è accettabile; il suo apporto positivo sta nel fatto che invita a riflettere sulla giustificazione morale del “progetto di ricerca”, sulla entità del beneficio che se ne può conseguire e sulle conseguenze dell’azione. Il criterio deontologico, o etica dei doveri, è rivolto non tanto all’analisi dell’obiettivo, quanto all’apprezzamento della moralità dei metodi con i quali di esperimenta nell’ambito delle caratteristiche proprie dell’attività medica, che deve sempre privilegiare il migliore interesse dell’assistito. In caso di conflitto fra interessi della ricerca e tutela del paziente, è quest’ultimo obiettivo che deve prevalere . Il deontologismo – che si ispira all’etica del “dover essere” di derivazione Kantiana – dà un apporto positivo alla valutazione del rischio nei confronti della duplice condizione in cui può presentarsi la ricerca: interesse diretto per la salute del paziente, nessun interesse immediato per lo stesso. Come è noto, la valutazione del rischio rappresenta la formula “moderna” per affrontare il problema nell’evoluzione subita dal primo documento di Helsinki che vietava la ricerca non terapeutica allorché priva di consenso, includendo nel divieto coloro che non fossero in grado di consentire. L’evoluzione ha portato alle attuali formulazioni del “consenso delegato”, associato a particolari norme di tutela per i soggetti che non possono consentire. In ogni caso, questo problema (che viene affrontato da altri Relatori in questo Congresso) costituisce uno degli argomenti più controversi della bioetica della sperimentazione (Della Torre, 1994 [40]) Lo “sdoppiamento” potenziale del ricercatore medico fra il suo ruolo di curante e quello di sperimentatoreobbliga in ogni caso ad un bilanciamento che faccia pendere l’ago dal lato dell’interesse del paziente, piuttosto che da quello della scienza e della società (World Medical Association, 1996; concetto accolto nella Convezione di Oviedo, 1997). L’etica dell’autonomia è basata sui “diritti della persona” (prima ancora che “del paziente”, come si suol dire in campo sanitario) e si presenta – nel caso della sperimentazione medica – come applicazione delle teorie “della scelta” e “dell’interesse”. La prima, al di là del richiamo al diritto fondamentale alla libertà, circoscrive i diritti della scelta a quelle condizioni in cui altri hanno doveri morali da rispettare. Waldron [41] applica questo criterio, ad es., alla delicata questione delle ricerche non terapeutiche, ove il bilanciamento è fra i doveri etici dello sperimentatore di non far correre rischi al soggetto, e la facoltà del soggetto consenziente di scegliere per il rischio. La seconda, che risale J. Bentham, circoscrive la tutela degli interessi del soggetto alle condizioni in cui è possibile in anticipo definire in sede pubblica chi sia beneficiario del dovere altrui, e si applica – ad es. – ai cosiddetti diritti sociali della persona, fra cui (con le particolari modalità stabilite dello Stato) la “tutela della salute”. 74 Comunque si voglia argomentare, il risultato porta alla “autodeterminazione” di chi è chiamato a partecipare alla ricerca, autodeterminazione che – in letteratura – vieneinquadrata nel principio kantiano della libertà della ragione. Se la questione è più semplice da derimere con il principio dell’interesse nel caso della ricerca terapeutica che abbia diretto potenziale vantaggio per il malato, la decisione è ovviamente più delicata, e richiede l’accoglimento del “principio della autodeterminazione”, nel caso della ricerca non terapeutica e priva di interesse diretto per la persona . La autodeterminazione consapevole di correre un rischio, che si esprime nelle note procedure dell’informazione veritiera e nella volontarietà del consenso in persona competente, farebbe da contrappeso nella relazione duale alla supremazia di conoscenza che caratterizza lo sperimentatore rispetto al soggetto che accetta “fiduciosamente” (cioè credendo nell’informazione) di partecipare alla ricerca, giustificandola. Ciò non toglie che – giuridicamente – ove manchi l’interesse terapeutico diretto, la scelta del soggetto vada inquadrata nell’ambito delle attività rischiose. Concludendo: appare evidente che – nel concreto -­‐tutte le teorie etiche sin qui richiamate possono essere chiamate in causa, sebbene in diversa misura – nelle varie modalità della ricerca che abbiamo illustrato, non sottraendosi, soprattutto nel caso dell’utilitarismo, ad alcune assolute limitazioni. Fermo restando che, sull’argomento, ha grande importanza quanto è stabilito dalla copiosa normazione che in sede nazionale ed internazionale è stata gradualmente elaborata per la protezione giuridica del soggetto partecipante alla sperimentazione, ora desideriamo offrire qualche esempio delle limitazioni indicate [42]. 2. Alcune doverose limitazioni metodologiche nella sperimentazione clinica e l’apporto dell’etica personalista Le questioni di maggiore impegno etico ruotano (limitandosi in questa sede alle sole considerazioni sulle metodologie) attorno ai criteri di randomizzazione (con la questione del cieco) ed all’uso del placebo negli studi clinici controllati. Prescindendo da segnalazioni pioneristiche rimaste isolate (ad es. P. Martini “Methodulehereder Therapeutischen Untersuchung “verlag von J. Springer, Berlin, 1932) la tematica degli studi clinici controllati si è sviluppata fra gli ultimi anni ’70 e gli anni ’90 del XX secolo anche a riguardo degli aspetti etici con numerosi contributi, che è impossibile in questa sede esaminare analiticamente. Si rinvia, pertanto, ai già citati studi di A.G. Spagnolo (1994), Folli (1994), L.Candia (1994), Foster (2001), B.Pitt et al (2000); A. Mc Kibbon et al. (2000) ecc.. Una linea estremamente rigorosa della sperimentazione clinica, come quella basata sull’ “etica del risultato” ampiamente sostenuta dall’utilitarismo ed espressa da alcuni AA., fra cuiRAPAPORT (2001), afferma l’esclusivo valore degli studi clinici randomizzati controllati con placebo nelle questioni terapeutiche più controverseperché unici in grado di eliminare gran parte deibias [43] . Ottenuta l’evidenza, si potranno derivare “linee guida” che opportunamente diffuse fra i medici, porteranno a migliori risultati (soprattutto nei tassi di sopravvivenza) sia per il singolo paziente, che per la salute pubblica. Cosa pensare di questa strategia? Che si debba fare ogni sforzo per eliminare quei fattori che distorcono la valutazione dell’efficacia clinica di un trattamento è intuitivo. Che “linee-­‐guida” basate su questo sforzo possano assumere un ruolo di riferimento per la medicina corrente, ed anche per futuri ulteriori studi è verosimile, e tutto ciò rappresenterebbe un’acquisizione favorevole nell’evolversi del sapere medico. E’ un dato di fatto, però, che la randomizzazione e l’uso del placebo con doppio o triplo cieco incontrano molte difficoltà ad essere poste in atto, e crescente contrarietà nei medici e nei pazienti [44]. 75 Peraltro, non v’è dubbio che il “paradigma” oggi dominante del consenso pienamente informato è difficilmente compatibile con i criteri di “mascheramento” sin qui adottati. Rimane – con la sua forza etica non contestabile – la necessità di valutare caso per caso il “potenziale contrasto” che gli studi clinici randomizzati potrebbero assumere con gli interessi di quel determinato paziente. Questo contrasto potrebbe derivare sostanzialmente da due motivi: che il rischio a cui viene sottoposto il paziente sia per lo stesso troppo elevato rispetto al rischio generico medio previsto per la categoria di randomizzazione in cui il paziente risulterebbe inserito. che il paziente sia privato di terapie efficaci – di cui abbia reale bisogno -­‐ se, nella randomizzazione, cade ciecamente nel gruppo del “placebo” puro (senza alcun trattamento). Entrambe le evenienze, da considerarsi negative, comportano un’attenta riflessione da parte dello sperimentatore ed una consapevole maturità professionale e morale dello stesso. In merito alla prima (omissione della valutazione personalizzata del rischio), si può osservare che affidarsi al caso, o a sistemi automatizzati e centralizzati di assegnazione del singolo paziente all’uno o all’altro gruppo di randomizzazione può confliggere in modo palese e psicologicamente intollerabile con quel “migliore interesse” che – si afferma – la medicina dovrebbe offrire nella tutela della salute e che il paziente, che al medico si affida con fiducia, si aspetta di ricevere[45]. Affidarsi a forme di“consenso parzialmente informato” – e senza un’esauriente discussione orale -­‐ per dirimere la questione sul piano “formale” non offre la garanzia che il singolo paziente comprenda veramente la natura delle informazioni contenute nel modulo che lo impegna ed i rischi associati alla partecipazione allo studio. Al paziente, comunque, dovrebbe essere lasciato il tempo per riflettere sui rischi ed i benefici connessi alla partecipazione allo studio randomizzato prima di decidere, ed il Comitato etico dovrebbe attentamente vigilare sulla comprensibilità delle informazioni da fornire e della esaustività delle stesse. Il secondo motivo sopra accennato è altrettanto importante, e spiega la crescente disaffezione dimostrata dai clinici verso l’uso del “placebo” in senso puro quando esiste una terapia standard già efficace con la quale trattare i pazienti che non rientrano nel gruppo sperimentale (TAUBES, 1995[46]; LILFORD e JACKSON, 1995[47]; ROTHMAN e MICHELS, 1993[48]; ecc.). Sebbene si sostenga che senza l’aiuto di studi clinici randomizzati controllati con il placebo e condotti su un numero elevato di pazienti sia difficile – se non impossibile – determinare i rischi reali ed i benefici di una determinata strategia terapeutica, si riconosce da parte di numerosi autori che tale criterio può potenzialmente sacrificare il bene del singolo soggetto. Ciò che, a nostro parere, è inaccettabile sotto il profilo dell’etica personalista. La priorità da assegnare all’interesse del singolo, in termini di salute, rispetto ad ogni altro interesse della scienza è riconosciuto – del resto – come “valore” da preservare anche dai recenti documenti internazionali sulla sperimentazione in medicina (v. ad es. CONVENZIONE sui diritti dell’uomo e la biomedicina: OVIEDO, 1997; Dichiarazione sui diritti dell’uomo ed il genoma umano dell’UNESCO, New York, 1996) [49] e per questo motivo appare “ragionevole” non privare il gruppo di controllo di una forma di terapia tradizionale scelta fra quelle comunemente usate per la specifica forma morbosa (Candia, 1994) [50]. Nel caso della ricerca terapeutica, in definitiva, una strategia ottimale è quella di impostare il protocollo in modo da ottenere le informazioni circa l’efficacia del trattamento così da promuovere le migliori decisioni per i pazienti futuri, ma nello stesso tempo massimizzando le opportunità di cura attuali dei pazienti in esame. Questa strategia è – di per sé – portata più alla versione “adaptive clinical trials (ACTs)” che non alla classica versione “randomized clinical trials” (RCTs)[51] 76 3-­‐ Vi sono altri aspetti di carattere etico generale che meritano attenzione e richiamo in questa breve analisi conclusiva. Rinviando alla relazione generale sulla eticità della ricerca biomedica che verrà svolta in questa sede da S.E. Rev.ma Mons. E. SGRECCIA[52], vorrei considerare solo alcuni punti più strettamente correlati al tema a me affidato. Considero, con brevità, solo i seguenti: Obiettivi della ricerca Uno degli aspetti critici si riferisce alla oculata scelta dell’argomento di ricerca sperimentale: soprattutto per chi segue un’etica di impostazione personalista d’ispirazione cattolica sono da considerare non solamente la qualità scientifica del protocollo e le metodologie atte a ridurre al minimo il rischio del soggetto, ma anche“l’obiettivo” al quale la ricerca è rivolta. Comprendiamo che questo è argomento scabroso, che non si limita al caso degli abortivi precoci od a metodi di sterilizzazione od all’uso di cellule staminali embrionali umane, ecc.. (per fare alcuni esempi di viva attualità), ma potrebbe estendersi (sebbene con altri profili) anche a sperimentazioni ove intervengano pesantemente il profitto e gli investimenti per farmaci a larga diffusione commerciale, ma che verrebbero ad aggiungersi ad un arsenale già largamente disponibile di opzioni a discapito di sperimentazioni per settori “orfani”, che sarebbero più urgenti [53], o per sperimentazioni condotte in paesi in via di sviluppo o ad altissimo tasso di povertà, ove né l’informazione, né il consenso della persona arruolata corrisponde ai principi validi nei paesi sanitariamente ed economicamente sviluppati e la volontà dei singoli può essere facilmente manipolata da mediatori interessati [54]. In questo contesto si inquadra anche la necessità che la sperimentazione clinica – sia essa nell’interesse terapeutico diretto che priva di tale interesse sia sempre “caritatevole” (cioè dotata di sentimenti di empatia umana) verso il soggetto, soprattutto se malato e particolarmente nelle condizioni cliniche di emergenza o nelle fasi terminali [55]. Per superare i ricorrenti contrasti di opinione su tali argomenti, che hanno contenuti etici indubbi, è stato da taluno proposto anche una partecipazione più ampia della società alle strategie dell’innovazione terapeutica, ben oltre il ruolo già attualmente esercitato dai Comitati Etici ospedalieri. Ciò che appare di difficile realizzazione ma non impossibile per definiti progetti di ricerca[56]. Gli effetti salutogenici e la “compliance” del soggetto partecipante alla sperimentazione Rappresentano, questi, aspetti ulteriormente da chiarire nell’ambito della sperimentazione (in particolare farmaco-­‐terapeutica), allorché si tratta di giudicare sull’effetto “reale” di un determinato trattamento. La funzione esercitata dal binomio cervello-­‐mente nel mantenimento della salute è, oggi, sempre di più oggetto della ricerca delle neuroscienze, anche sulla base del concetto proposto da Antonovsky nel 1979 [57] di “salutogenesi”, che sottolinea le diversità di reazione delle diverse persone verso i medesimi traumi dell’esistenza: alcuni dimostrando una coerenza interna globale di comportamenti orientati alla salute ed all’ottimismo, altri alla depressione e alla malattia. Varie ricerche hanno dimostrato l’effetto “coping” – e cioè che la capacità delle varie persone di superare condizioni potenzialmente stressanti si correla con la visione che tali persone hanno delle situazioni stesse; le capacità salutogeniche del supporto sociale ed infine – ciò che è di notevole interesse in questa sede – l’effetto salutogenico della fede religiosa [ Strang S. e Strang P. (2001)[58]; Murphy et al. (2000)[59]; Cinà (1998)[60], A. Bompiani (2000)[61], D. Smith (2002)[62]]. Che tali reazioni abbiano una base neurobiologica appare sempre più evidente da alcune ricerche sulla localizzazione nelle aree cerebrali delle funzioni di regolazione delle emozioni in soggetti 77 normali e patologici; tuttavia rimane da chiarire quale effetto queste differenze individuali nei meccanismi di “salutogenesi” abbiano nelle ricerche farmacologiche e nei “trials” clinici. Un altro aspetto degno di considerazione nell’ambito delle metodologie di sperimentazione clinica è quello tecnicamente indicato come “compliance” del paziente, e cioè la “qualità” della partecipazione del paziente al suo trattamento, valutata come misura del comportamento della persona interessata nei confronti degli orientamenti medico-­‐sanitari ritenuti dal professionista sanitario utili per la di lui salute (M. La Rosa, 1995)[63]. Molti sono i fattori che intervengono in questo fenomeno (che riguarda da vicino anche la “relazionalità” che si è creata fra paziente e curante) e che si riflettono nella (eventuale) sperimentazione terapeutica. Infatti, il protocollo di studio presuppone una perfetta compliance del paziente (assunzione del trattamento alle dosi e per la durata prevista), mentre una cattiva compliance passata inavvertita aumenta la variabilità dei dati e porta ad un errato apprezzamento dell’entità del risultato (soprattutto nei trials clinici di limitate estensioni (P.E. Lucchelli, 1995)[64]. Vari metodi sono stati individuati per misurare la “compliance” (v. ad es. R. Novellini, 1995 [65]. Dal punto di vista etico, la questione si riconnette al “senso di responsabilità” che il paziente dimostra nell’aderire, con convinzione, alla sperimentazione che gli viene proposta. Ma più ancora si deve sottolineare il valore morale di una partecipazione volontaria ad una sperimentazione priva di interesse terapeutico per chi vi si sottopone, nel significato di una consapevole oblazione della propria corporeità ai pur limitati (ma entro certi limiti imprevedibili) margini di rischio, ove questa partecipazione è decisa nell’interesse del “prossimo”. Si tratta di una forma di “carità” che identifica una originalità della morale cristiana rispetto alle morali puramente razionali, nel senso sviluppato ad es. da F.BOCKLE [66]. L’integrità del ricercatore Un ultimo aspetto da considerare riguarda quel complesso di comportamenti che nel gergo è indicato come “integrità”dello sperimentatore. Una prima questione inerisce al possibile conflitto di interessi economici[67], una seconda si riferisce al suo grado di rispetto del “protocollo” concordato e approvato dal Comitato etico, una terza alla falsificazione dei dati. Già la mancanza di un coscienzioso attenersi – salvo i casi di palesi eventi avversi e condizioni di urgenza insorti nel corso del trials clinico – a quanto richiede il protocollo può comportare distorsioni più o meno apprezzabili dei risultati [68]; ma ben più gravi sono i casi di falsificazione dei dati, che compromettono – allorché vengono riconosciuti – la fiducia dell’opinione pubblica e influiscono negativamente sulla disposizione dei pazienti a partecipare a studi clinici. Nel rinviare l’ulteriore trattazione di questo argomento agli ottimi contributi di F. DI TROCCHIO (1993)[69], di PORTIGLIATTI-­‐BARBOS e coll. (1993)[70], di J. RANSTAM et al. (2000)[71] segnaliamo anche – in taluni ambienti ad alta “competitività” scientifica – la caduta di quel fondamentale comportamento collaborativo tradizionale del ricercatore, basato sullo scambio di informazioni e di materiale fra pari [72]. Vogliamo chiudere queste brevi note sottolineando l’attuale, notevole carenza di processi “specifici” di formazione dei ricercatori in medicina e – per converso – il grande significato morale che rivestono i rari esempi in cui questa formazione viene affrontata con serietà e metodo. 78 [1] C. FOSTER, The ethics of medical research on humans, Cambridge University Press 2001, p.1. [2] Uso l’espressione “paziente” nel senso indicato dal documento “Diritti del paziente” dell’O.M.S.-­‐Regione Europea (Copenhagen , 1994), nel quale è paziente qualunque persona che ha diritto ad un’assistenza sanitaria e viene a contatto con una struttura sanitaria. Per maggiori informazioni sull’argomento, si rinvia a A. BOMPIANI, L’Italia e la Dichiarazione di Amsterdam sui diritti del paziente, Medicina e Morale 1998/1, 47-­‐90. [3] E’ opportuno avvertire che questo contributo non si occupa delle questioni relative alla ricerca embrionale, che è trattata da altra relazione (v.Roberto Colombo). [4] SGRECCIA E. [ in SGRECCIA E., Autonomia e responsabilità della scienza, in SPAGNOLO A., SGRECCIA E., (a cura di ), Lineamenti di etica della sperimentazione clinica, Vita e Pensiero, Milano, 1994, p.39] scrive:” la scienza dovrà riferirsi all’uomo singolo e alla società, perché è l’uomo che pone in essere la ricerca, perché il bene dell’uomo è il fine della ricerca scientifica e sperimentale sia pura che applicata e perché il campo stesso esplorato dalle scienza sperimentali rappresenta una dimensione vera ma settoriale della realtà” (p.46) [5] Vorrei sottolineare quanto a me sembra opportuno accogliere anche nel campo biomedico dei significati attribuiti a questi principi: • Individualismo, inteso come sottolineatura delle capacità e delle volontà del ricercatore a svolgere una funzione di promozione personale con l’esercizio della ricerca e della scienza che – lo si ricordi – spesso le Costituzioni accomunano nelle libertà di scelte e d’esercizio assieme all’arte ed in stretta correlazione con la libertà di pensiero e di pratica religiosa. Non v’è dubbio che – sotto questo profilo – l’esercizio della scienza diviene esperienza di una “ricerca di senso” della propria vita, fatta ovviamente in quell’ambito che è storicamente determinato dal contesto esistenziale di ciascuno; ma in questo percorso personale si incontra inevitabilmente “il volto dell’altro” e la dimensione sociale dell’esistere, realtà verso le quali si hanno diritti ma soprattutto doveri, affinché si possa accordare l’individualismo con il rispetto degli altri, la collaborazione ed il “bene comune”. • Pluralismo, inteso come ammissione di concezioni diverse nel percorrere le vie della ricerca, essendo ognuno consapevole del dovere di documentare con sinceritàla propria attività e la scelta del proprio percorso, esercitando il rispetto che è dovuto ad ogni altro serio ricercatore. • Universalismo, inteso come proiezione della propria esperienza di senso – nell’esercizio della ricerca – nel contesto della comunità internazionale dei ricercatori e non come orgogliosa ed utilitaristica appartenenza ad una “lobby” circoscritta di potere. [6] LABRIOLA richiama, con riferimento alla Costituzione italiana, questa tematica che si complementa nella lettura coordinata dell’art.33, comma 1 Cost. “l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento” con l’art.9, comma 1 Cost. “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnica”, abbracciando in tal modo la nozione di “attività scientifica” (v.pag.8 di LABRIOLA S., Libertà di scienza e promozione della ricerca, Cedam Ed., Padova, 1979). Una trattazione più recente e maggiormente finalizzata alle applicazioni biomediche dei principi costituzionali italiani può leggersi in L. CHIEFFI, Ricerca scientifica e tutela della persona, Ed. Sci.Ital., Napoli, 1993. [7] L’argomento, amplissimo, non viene trattato in questa relazione, perché forma oggetto d’analisi di altri contributi al Convegno. [8] ANTISERI D., Epistemiologia contemporaneae logica della diagnosi clinica, in SGRECCIA E., (a cura di), Storia della medicina e storia dell’etica medica verso il terzo millennio, Rubettino Ed., Soveria Mannelli (Ct) Edit. 2000. 79 [9] G. FEDERSPIEL, La conoscenza scientifica e il problema metodologico del dolore in medicina, Minerva Anestesiologica, 1999,65,679-­‐87. G. FEDERSPIEL, R. VETTOR, N. SICOLO, C. SCANDELLARI, L’analisi decisionale clinica, in Atti del 102 Congresso Nazionale della Società Italiana di Medicina Interna, 23-­‐26 ottobre 2001, CEPI Ed., Roma in Annali diMedicina Interna 16 (suppl. 1), 2001 [10] La questione delle frodi nella ricerca scientifica è di grande interesse, come capitolo delle “trasgressioni” etiche del ricercatore, ma non può essere nella sua complessità affrontata in questa circostanza. Si rinvia alla monografia di DI TROCCHIO F., Le bugie della scienza, A. Mondadori Ed., Milano, 1993,ed all’ottimo studio di PORTIGLATTI BARBOS M., MAGGIONA B., I comportamenti illeciti nella pubblicazione dei risultati della ricerca medica e loro aspetti etico-­‐
deontologici, in Rassegna di criminologia IV/1 (1993), pp 117-­‐166. [11] La questione della generalizzabilità delle informazioni nasce quando è possibile constatare il verificarsi della stessa informazione nelle medesime condizioni di stimolazione in un numero appropriato di casi. Tuttavia, è problema epistemiologicamente complesso e da affrontarsi in sede clinica con molta prudenza (v. ad es.FEDERSPIEL G., I limitidella medicina: rischio, probabilità e linee guida, Congresso: La fibbrillazione atriale, Verbania Pallanza, 4-­‐6 maggio 2000. [12] L’osservazione non va intesa, come nel passato, quale unico passivo criterio “longitudinale”, non interventistico, per conoscere l’evoluzione naturale della malattia. E’ necessario però che l’osservazione sia condotta con metodologia analitica ineccepibile, cogliendo quegli elementi che sono significativi per l’ipotesi proposta dal ricercatore ed il relativo giudizio di verificabilità-­‐
falsificabilità. Di conseguenza, l’osservazione come procedimento scientifico della biomedicina comporta la precisa “codificazione” dei fenomeni percepiti dal ricercatore (sensoriali) o rilevati (strumentalmente) a carico del soggetto sottoposto alla sperimentazione e la loro esatta descrizione/memorizzazione. Si tratta del “linguaggio-­‐base” della ricerca (che si esprime in proposizioni descrittive nel senso di Wittgenstein). Il complesso delle osservazioni costituiscono la “base empirica”, delle proposizioni che caratterizzano il protocollo, e consentono la costruzione della “sovrastruttura teorica” dallo stesso, compiuta in modo logicamente valido e coerente sopra la base empirica. [13] Di proposito, si è usata l’espressione vaga di “modo migliore”. Il giudizio complessivo prende in carico vari elementi, da rapportarsi alla specificità del “protocollo”, come costruito e articolato. Come è noto, B. Freedman elaborò alcune considerazioni ad uso dei membri degli Institutional Review Boards (IRBS) distinguendo fra validità scientifica e valore scientifico dello studio. La validità scientifica si identificherebbe nella seguente serie di elementi: • possibilità di avere informazioni attendibili dall’ipotesi che intende valutare; • l’essere condizione prioritaria e necessaria per la ricerca; • non poter prescindere da conoscenze note, dal protocollo proposto e dall’ipotesi fatta; • l’avere valore in sé mentre irrilevanti sono i fattori presuntivi (capacità del ricercaotre, laboratori, documentazione possibile; • non poter sempre tenere conto di altri elementi (come ad es. il consenso). Come elementi di giudizio per il CdE dovrebbero essere presi in considerazione il disegno, la statistica, il background clinico e delle scienze di base. Il valore dello studio si affiderebbe ai seguenti elementi: • l’avere un’ipotesi utile o interessante; • il presupporre la validità scientifica; • l’aver valore in sé ma anche in relazione a quanto già noto o al tipo di protocollo; • il dover tener conto di fattori presuntivi (ricercatore, laboratorio, documentazione) • il dipendere da fattori esogeni (costi, priorità, abusi) 80 B. FREEDMAN, Scientific Value and Validity as Ethical Requirements for Research: a Proposed Explication, IRIB, 9,6 (1987), pp.7-­‐10. Ulteriore trattazione può trovarsi in : • SPAGNOLO A.G., Principi etici e metodologie di sperimentazione clinica, in SPAGNOLO A.G., SGRECCIA E., (a cura di), Lineamenti di etica della sperimentazione clinica, Vita e Pensiero Ed., Milano, 1994 (pp. 51-­‐70). • BIGNAMINI A., Costruzione di un protocollo di sperimentazione clinica conforme alla G.C.P. in SPAGNOLO A.G., SGRECCIA E. (a cura di), Lineamenti di etica della sperimentazione clinica, Vita e Pensiero, Milano, 1994 (pp 227-­‐242). [14] Esula dagli scopi (e dalla possibilità) di questatrattazione compiere una analisi degli aspetti applicativi specifici delle modalitàdella ricerca nelle varie condizioni di vita del soggetto umano. [15] Si sostiene che ciò serva ad evitare duplicazione di ricerche i cui risultati sono da tempo consolidati, evitando dispersione di risorse. Questa giustificazione è validissima, ma è opportuno riconoscere che la conoscenza approfondita di ciò che è stato fatto in precedenza può valere anche per individuare dubbi e lacune residue, ed anche errori che – in taluni casi – hanno portato “fuori strada” il progresso medico. Pertanto, quando gli elementi a disposizione appaiano insufficienti, o dubbi, è chiaramente “scientifico” e nell’etica del ricercatore corretto ripetere gli esperimenti. [16] Questa relazione, per evidenti motivi, non può affrontare il complesso dibattito che si è aperto sulla “medicina delle prove di efficacia” in sede clinica, ma si limita alle questioni della sperimentazione che servono a fondarne i presupposti. Si rinvia alle pubblicazioni di LIBERTI A. (a cura di ), La Medicina delle prove di efficacia, Pensiero Scientifico Ed., Roma, 1997, all’editoriale di M. BARNI, Medicina della scelta o medicina delle evidenze?, in Riv. Ital. Med. Legale XXIV/3-­‐
8/2002); ed al lavoro di FEDERSPIEL G. E VETTOR R., La evidence based medicine: unariflessione critica sul concetto di evidenza in medicina, in Ital. Heart J., Suppl. Vol 2, Giugno 2001. [17] COCHRANE A., Effectiveness and efficacy., Nuffield Provincial Hosp.Trust, London, 1972 (Efficienza ed efficacia.Il Pensiero Scientifico Ed., Roma, 1999). [18] KUHN T.S., The structure of scientific revolutions, Chicago Univ. Press, 1962. [19] Si impiega la denominazione di test diagnostico quando, applicata al singolo individuo, la tecnica usata è in grado di rivelare una condizione morbosa (malattia in atto, o disordine di funzione, ecc..) e – nel caso dei test genetici – indicare se quella determinata persona possiede uno o più tratti genetici che possono predisporre, o determinare in futuro, lo sviluppo di malattie o disordini funzionali della stessa, ovvero dar luogo a malattie o disordini funzionali. [20] Secondo Ann MC KIBBON e coll. (2000), la sensibilità misura la proporzione di pazienti affetti dalla patologia o condizione in esame che hanno un risultato positivo. La specificità del test misura la proporzione di pazienti non affetti dalla patologia o condizione in esame che hanno un risultato negativo al test. Sia la sensibilità che la specificità devono essere elevate perché un test diagnostico sia di vera utilità in ambito clinico. Nella pratica, entrambe dovrebbero superare l’80% perché il test sia clinicamente utile. Per i test di screening, la performance dovrebbe essere prossima alla perfezione (100%) per evitare di diagnosticare erroneamente soggetti non affetti dalla patologia in esame; i test diagnostici invece possono funzionare bene con una sensibilità ed una specificità minori. Nessun test ha una sensibilità ed una specificità del 100%. Spesso, se il livello di risultato del test viene aggiustato per massimizzare la sensibilità, la specificità diminuisce, mentre se il livello di risultato del test viene aggiustato per massimizzare la specificità, diminuirà la sensibilità. Il potere predittivo positivo è la proporzione di pazienti risultati positivi al test che hanno la malattia o condizione in esame. Il potere predittivo negativo è la proporzione di pazienti risultati negativi al test che non hanno la malattia o condizione in esame. 81 I valori predittivi vengono influenzati dalla prevalenza della condizione in esame nella popolazione oggetto di studio. Per la valutazione di un test diagnostico, la prevalenza è la proporzione di pazienti affetti da una data condizione su tutti i pazienti testati. La prevalenza viene anche talvolta definita probabilità pre-­‐test o verosimiglianza pre-­‐test di una malattia o condizione [21] I temi erano i seguenti: • sviluppo storico dei sistemi di valutazione in medicina; • differenze internazionali nell’approccio alla valutazione in medicina; • differenze interdisciplinari nella valutazione; • politica degli studi randomizzati controllati; • partecipazione dei consumatori negli studi randomizzati controllati; • industria, regole governative e studi clinici; • qualità degli studi randomizzati controllati; • il lavoro quotidiano della conduzione di studi randomizzati controllati; • studi di particolare significato storico o metodologico; • come gli studi clinici influenzano la pratica clinica; • studi clinici e politica sanitaria – priorità e studi clinici; • il futuro della valutazione nelle scienze sanitarie [22] B. PITT E COLL., così si esprimono nella prefazione alla monografia “La sperimentazione clinica” (Il Pensiero Scientifico Ed., Roma, 2000): “E’ di importanza cruciale che tale valutazione sia oggettiva e imparziale, e che venga attuata ogni possibile strategia per evitare errori sistematici e distorsioni (bias) nella selezione dei pazienti, nella gestione, nel follow-­‐up e nella valutazione dei risultati. Lo studio clinico controllato randomizzato è l’unico strumento affidabile per ottenere risultati di alto livello nella ricerca clinica. [23] BOISSEL J.P., LEIZOROVIEZ A., Disegno e condizione di uno studio clinico, in B. PITT E COLL., La sperimentazione clinica, Il Pensiero Scientifico Ed., Roma, 2000 (pp 1-­‐44). [24] La regressione verso la media si osserva quando un soggetto viene selezionato sulla base di un valore alto o basso di un parametro fisiologico. E’ un fenomeno puramente statistico, la cui estensione dipende dal processo di reclutamento dei pazienti. Dato che lo stesso parametro viene misurato anche successivamente nel corso dello studio, il nuovo valore osservato sarà – in generale – più vicino a quello della media della popolazione. Il risultato è che, dopo qualche tempo, il valore anormale di selezione si è spostato verso il valore medio della popolazione e se l’evoluzione della malattia viene valutata utilizzando il cambiamento osservato nel parametro, un cambiamento puramente statistico potrebbe essere visto come cambiamento dello stato di malattia. La definizione di placebo si applica “a qualsiasi trattamento che non ha un’azione specifica sui sintomi soggettivi e sui segni obiettivi di un processo morboso” (G.Folli, 1994, p.87); dunque può essere una “sostanza priva di qualsiasi attività farmacologica” (sostanza inerte, definita come placebo puro) o – quanto meno non fornita di attività specifica per la condizione morbosa o alle dosi in cui viene impiegata (placebo impuro) (L. Candia, 1994, p. 21). FOLLI G., L’uso del placebo in trials clinici: significato scientifico e valore sperimentale, in SPAGNOLO A.G., SGRECCIA E., (a cura),Lineamenti di etica della sperimentazione clinica, Vita e Pensiero Ed., Milano, 1994, pp. 85-­‐
90. CANDIA L., L’uso del placebo nei trial clinici: considerazioni etico deontologiche, in SPAGNOLO A.G., SGRECCIA E.(a cura di), Lineamenti di etica della sperimentazione clinica, Vita e Pensiero Ed., Milano, 1994, pp. 85-­‐90. [25] ANN MCIBBONet al., Guida alla evidence-­‐based medicine, Il Pensiero scientifico Ed., Roma, 2000. 82 [26] A. MC KIBBON e coll. (l.c.), così descrivono il criterio in esame: “Tre sono i gruppi di persone solitamente coinvolti in studi clinici: i pazienti, gli operatori sanitari ed il personale che lavora alloallo studio. Ilprocesso di blindingdenominato “cieco” si riferisce in genere alla non conoscenza del gruppo diassegnazione o delpaziente oppure dell’operatore sanitario. Il “doppio cieco” si riferisce in genere al fatto che né il paziente né l’operatore sanitario sanno quale trattamento medico o altro tipo di intervento il paziente stia ricevendo. Il “triplo cieco” comporta che né l’operatore sanitario né il paziente né il personale che lavora allo studio, compreso il personale che gestisce i dati, sanno quale dei trattamenti sia quello attivo e quale il placebo o il trattamento standard fino al completamento dell’analisi finale dei dati” (pag.47). Secondo questi AA., il triplo cieco è molto importante per gli studi sponsorizzati dall’industria farmaceutica. Le case farmaceutiche sono spesso criticate per il fatto di anteporre i loro profitti alla corretta pubblicazione dei dati negativi relativi ai loro prodotti, e questo sistema di triplo cieco esteso a tutti i livelli aiuta tutti i fruitori della ricerca medica a poter fare affidamento sui risultati finali che vengono pubblicati. Il doppio cieco è la forma più comune di procedura diblinding” (pag.48). [27] “Un esempio di follow-­‐up facile è uno studio a breve termine disegnato per valutare i benefici relativi di un trattamento antidolorifico standard per via endovenosa con uno strumento controllato dal paziente tramite un sistema di iniezione a pompa, nelle prime 24 ore dopo un intervento di cardiochirurgia. In questo tipo di studio è facile avere un follow-­‐up del 100%. Il follow-­‐up è molto più difficile quando lo studio dura più a lungo, i pazienti sono più mobili ed esistono minori incentivi per mantenere l’interesse dei pazienti. Esempi di follow-­‐up difficile sono un programma di cura e prevenzione della diffusione della tubercolosi nei senzatetto o studi poliennali di trattamento con metadone e colloqui periodici di pazienti con problemi di tossicodipendenza” (pag.49). [28] GALBRAITH S., STAT M; MARSCHNER I, Guidelines for the design of clinical trials with longitudinal outcomes, Controlled Clinicaltrials 23, 257-­‐273, 2002. [29] Perunapiù ampia rassegna delle condizioni di monitoraggio si legga: CURTIS L. MEINERT,Clinical trials andtreatementEffects Monitoring, Controlled Clinical Trials 19, 515-­‐522, 1998 [30] “Il principio consiste nello stabilire un’ipotesi nulla, che indica cioè che il valore della differenza tra i cambiamenti è zero, e calcolare la probabilità (valore di P) della differenza osservata rispetto all'ipotesi nulla. Se il valore di P è alto, l’esperimento non è stato in grado di dimostrare una differenza, o perché questa non esiste realmente, o perché i dati non erano sufficienti. Ciò può essere dovuto o a una dimensione dell’effetto minore, o a una variabilità nei risultati maggiore rispetto al previsto. In entrambi i casi il numero di pazienti arruolati nello studio era troppo bassa (per scoprire un effetto). E’ importante sottolineare che il test di significatività non è in grado di distinguere tra queste due alternative. Se il valore di P è piccolo, di norma inferiore a 0.05, si può concludere che non è probabile che la differenza sia un effetto del caso. Il test di per sé non dice nulla a proposito di qualsiasi relazione di causalità tra la differenza osservata e il trattamento valutato. Questo problema si collega all’assenza di bias nel disegno e nell’esecuzione di uno studio clinico” (pag.14). [31] Si ottiene la risposta con una procedura in due fasi, secondo PITT e altri (2000). “Per prima cosa si dovrebbe dimostrare che la differenza tra i due gruppi è stata causata dall’intervento, e che pertanto la dimensione osservata dell’effetto è un valore reale, dato l’ambito sperimentale… In secondo luogo, stabilito che la prima fase si sia conclusa con un sostegno soddisfacente alla relazione di causalità, si vorrebbe conoscere il valore della dimensione dell’effetto. La teoria statistica della stima dimostra che il valore più probabile dell’effetto vero è la differenza osservata, ma che altri valori, sebbene meno probabili, sono perfettamente coerenti con i dati 83 raccolti. Allo scopo di fornire al ricercatore uno spettro di tali valori, si calcolano i limiti fiduciari, che costituiscono l’intervallo dei veri valori che non sono significativamente diversi dalla differenza osservata a un livello di X%. Dato che X è di norma fissato al 5% di significatività, i limiti fiduciari sono di conseguenza al 95%”. [32] CALAMO SPECCHIA F.P., FUSCO A., LOJUDICE M.T., Etica e statistica nella gestione dei dati sperimentali in SPAGNOLO AG., SGRECCIA E. (a cura di), Lineamenti di etica della sperimentazione clinica, Vita e Pensiero, Milano 1994 (pp. 211-­‐226). [33] MEINERT C.L., TONASCIA S., HIGGINS K., Contents of reports on clinical trials: a critical review, Controlled Clinical Trials 5 (1984), pp 328-­‐347. [34] R. MORTON, The clinicaltrials: deceitful , disputable, unbelievable, unhelpful, shameful : what next?, ControlledClinical Trials, 22, 593-­‐604, 2001. [35] MC KIBBON A. ET AL., Storia naturale e prognosi, in MC KIBBON A. ET AL., Guida alla evidence basedmedecine,Il Pensiero Scientifico, Roma, 2000. [36] BRAWLEY OW, A study of untreated syphilis in Negro male, Int.J. Radiat.Oncol.Bio.Phys-­‐40, 5-­‐
8, 1998. [37] Pertanto, valgono le indicazioni dell’Evidence-­‐Based Medicine Working Group per gli studi di storia naturale e di prognosi in ordine all’importanza per i clinici (LAUPACIS A. et al., User’s guides to medical literature: how to use and article about prognosis,JAMA, 1994; 272: 234-­‐7): • campione ben definito di pazienti ad uno stesso punto del decorso della malattia; • lunghezza e completezza del follow-­‐up; • criteri di esito oggettivi e non soggetti a bias; • aggiustamento per i fattori prognostici importanti [38] Anche il Comitato Nazionale per la Bioetica (CNB) non ha mancato, in più occasioni, di trattare l’argomento. Si vedano, ad es., i “Pareri” seguenti: • I comitati etici (27 febbraio 1992) • Informazione e consenso all’atto medico (20 giugno 1992) • La sperimentazione dei farmaci (17 novembre 1992) • Sperimentazione sugli animali e salute dei viventi (8 luglio 1997) [39] Scrivono FIEDERSPIL e VETTOR: “Oggi, quindi, la conoscenza scientifica non è più considerata come una conoscenza “vera” né tanto meno come una conoscenza “certa”, ma solo come una conoscenza “fondata ed oggettiva”. Il termine oggettività può avere però due sensi diversi che è opportuno distinguere. Da un lato esso può essere inteso sia in senso forte, per il quale è “oggettivo” ciò che è “proprio” di un oggetto ovvero ciò che inerisce a quell’oggetto, sia in senso debole, per cui “oggettivo” è ciò che prescinde dai gusti, dalle preferenze personali, dai sentimenti, dalle speranze del soggetto. Come ha sottolineato Michael Dummett, “la scienza (….) cerca delle descrizioni della realtà che prescindano dalla nostra collocazione specifica nell’universo e dai nostri mezzi per percepire le cose”. Fra i metodologi della scienza prevale oggi il secondo senso della parola per cui l’oggettività viene identificata con l’intersoggettività. Le “cose” – molecole, specie animali, pianeti, farmaci, fiumi, catene montuose, raggi luminosi, ecc. – che fanno parte della scienza sono in realtà concetti, ovvero oggetti “costruiti” mediante l’uso di alcuni criteri operativi che sono stati preliminarmente accettati dalla comunità scientifica. Ciò vuol dire che nella costruzione del loro sapere i membri della comunità scientifica stipulano fin dall’inizio un accordo che li vincola ad accettare alcuni criteri per definire gli “oggetti” che costituiranno l’ambito di una certa disciplina scientifica”. L’accordo sul significato di un termine non è però sufficiente a fondare l’oggettività scientifica. Affinché si possa parlare di oggettività è infatti necessario che le operazioni da effettuare e i risultati siano osservabili e registrabili, almeno in via di principio, da tutti e alla stessa maniera. Così, non basta che tutti gli immunologi siano d’accordo sul fatto che un antigene 84 sia una sostanza che provoca la produzione di anticorpi ma è necessario che la presenza degli anticorpi possa essere messa in luce mediante una serie di tecniche effettuabili da tutti e sia osservabile da tutti. “La determinazione oggettiva (..) – ha scritto Agazzi – è quella che deve valere per tutti i soggetti che si occupano di quel determinatooggetto”. Ciò significa “semplicemente che chiunque si metta in grado di usare certi strumenti e di compiere certe operazioni, deve ritrovare lo stesso risultato”. Quel che si è detto finora riguarda l’oggettività delle osservazioni e dei concetti scientifici, tuttavia, è anche necessario considerare l’oggettività delle ipotesi e delle teorie scientifiche. Di fronte ad un certo numero di risultati sperimentali un ricercatore può sempre proporre diverse ipotesi esplicative, ma è possibile sostenere che tutte le congetture possibili sono ipotesi oggettive? Ad una simile domanda appare naturale rispondere negativamente, tuttavia una simile risposta solleva immediatamente il problema della distinzione fra le ipotesi oggettive e quelle non-­‐oggettive. Al problema dell’oggettività Karl Popper ha trovato una soluzione che è divenuta ormai classica: “Dirò soltanto – ha scritto nella sua “Logica della scoperta scientifica” – che l’oggettività delle asserzioni della scienza risiede nel fatto che esse possono essere controllate intersoggettivamente”. (FEDERSPIEL G., VETTOR R., l.c., p. 681) [40] DELLA TORRE G., La protezione dei soggetti di sperimentazione: il consenso informato e il consenso di chi non può consentire, in SPAGNOLO AG, SGRECCIA E. (a cura di), Lineamenti di etica della sperimentazione clinica, Vita e Pensiero Ed., Milano, 1994 , pp141-­‐170. [41] WALDRON J. (Ed.), Theories of Rights, OxfordUniv.Press, Oxford, 1995 [42] Si rinvia , in questa sede, alle relazioni dei Prof.ri MAY e soprattutto A. LORETI BEGHÉ e A. SPAGNOLO per gli aspettigiuridici e operativi. [43] E. RAPAPORT (2001), scrive: “Gli studi clinici randomizzati controllati con placebo forniscono l’approccio scientifico più valido attualmente disponibile per stabilire se una particolare scelta diagnostica, preventiva o terapeutica può modificare uno specifico risultato. Stabilita la correttezza del disegno, questa tipologia di studi clinici fornisce non solo la possibilità di verificare se esiste un beneficio, ma aiuta anche a quantificare il livello di efficacia che può essere raggiunto in relazione a uno o più obiettivi primari o secondari predefiniti. Le scelte dei medici in merito alla cura dei pazienti dipendono sempre più spesso dai risultati forniti dagli studi clinici randomizzati. Sebbene l’esperienza accumulata nella cura di una particolare malattia sia importante, gli studi clinici randomizzati forniscono una dimostrazione obiettiva sulla quale ogni medico dovrebbe basare le proprie decisioni. Se gli studi clinici randomizzati nonvengono realizzati su vasta scala per valutare terapie importanti, il clinico potrebbe trovarsi in una posizione difficile, incapace di stabilire quale sia la cura migliore per un particolare paziente. [44] S. D. HALPERN (in HALPERN S.D., Prospective preference assessment: a method to enhance the ethics and efficiencyofrandomizedcontrolled trials, Controlled Trials 23, 274-­‐288 (2002)) ha sottolineato queste difficoltà, che portano spesso ad uno scarso arruolamento, a limitazione dell’efficienza dello studio ed hanno indotto a varie proposte per risolvere la questione. Peraltro, si va diffondendo il principio dell’adattamento personallizzato alla ricerca clinica (adattive clinical trials: ACTs), con il quale il singolo paziente viene immesso in un braccio di trattamento in rapporto alle informazioni disponibili. Questo criterio è tuttora limitato , almeno in USA, per vari motivi logistici e statistici e per il peso considerevole che rivestono i bias, ma – secondo PULLMAN D. e WANG X.[ in D.PULLMAN, WANG X., Adaptive design, informed consent and the ethics of research, Controlled Clinical Trials 22, 203-­‐210 (2001) ] dovrebbe essere il criterio di scelta di fronte alle situazioni cliniche più difficili. [45] Molti autori hanno insistito su questo aspetto. Fra gli altri, BEAUCHAMP, CHILDRESS J.F., Principles of medical ethics, 4a ed., Oxford University Press, New York, 1994; DAUGHERTY 85 CK, Hope and the limits of research, Hastings Center Rep. 26, 20-­‐21, 1996; KASS NE. ET AL., The fragile foundation of contemporary biomedical research, Hastings Center Rep. 26, 25-­‐29, 1996. [46] TAUBES G., Use of placebo controls in clinical trials disputed, Science 257, 25-­‐6, 1995 [47] LILFORD RJ, JACKSON J., Equiposis and the ethics of randomization, J. Royson. Med. 88, 532-­‐9, 1995 [48] ROTHMAN K.J, MICHELS KB, The continuing unethical use of placebo controls, New Engl. J.Med. 331, 394/8, 1993 [49] Si rinvia, per la trattazione di questi argomenti, allarelazione di A.Loreti-­‐Begué in questa stessa sede congressuale [50] CANDIA L. (l. cit.) [51] Si veda, oltre al citato contributo di D.PULLMAN E X. WANG (2001), anche BERRY D.A., EICK SG., Adaptive assignement versus balanced randomization in clinical trials, Stat. Med. 14, 231-­‐246 (1995). [52] SGRECCIA E., La politica della ricerca biomedica: valori e priorità (in questa sede). [53] Spesso – è stato segnalato – le ricerche su vasta scala di trials clinici randomizzati cercano di strappare pochi punti di vantaggio percentuali sul “golden standard” attuale, e pertanto necessitano di amplissime casistiche e tempi lunghi di realizzazione, a scapito degli investimenti su settori trascurati e di bassa frequenza nei paesi economicamente vantaggiosi ai fini economici ma di altissima frequenza in altri paesi economicamente svantaggiati (questione delle cosiddette malattie orfane, e dei farmaci orfani). In ogni caso, non è affatto garantito che i “vantaggi” assicurati da tali trials si diffondano realmente, con sufficiente ampiezza e rapidità, nell’ambito della medicina pratica, così da apportare benefici concreti al miglioramento dell’assistenza. [54] Sull’argomento, vedesi D. ROTHMAN, The Shame of medical research, New York Review, Nov. 30, 60-­‐64, 2000; National Bioethics Advisory Commission: “Ethical and political issues in international research”, Bethesda NBAC 2001. [55] Esempi dell’utilizzazione per attività sperimentali di malati terminali (preagonici, ma con coscienza conservata) o di soggetti in stato vegetativo permanente, per quanto rare, ci vengono anche di recente dalla letteratura americana (v. J. COUZIN, Study of brain dead, Science 295 , 1210/11, 2002). Nel primo caso si suggerisce il rispetto delle volontà del paziente, nel secondo il “consenso indiretto” dei famigliari. Si rinvia alla relazione di A. Spagnolo per ulteriori approfondimenti in questa sede. [56] PITT (2001) ricorda la raccomandazione di LEVIN e coll. (1991) a proposito di una “consultazione sociale” che coinvolga i potenziali soggetti, le organizzazioni sociali, le agenzie che erogano finanziamenti, e tutte le parti che possono avere un ruolo nella preparazione di uno studio clinico. Sutherland et al., citati da Pitt (2001), sottolineano l’importanza del contesto sociale nella progettazione di uno studio. Essi enfatizzano i potenziali benefici di una consultazione sociale e suggeriscono perfino una più ampia partecipazione nel disegno di uno studio. Hanno individuato una lista di punti che comprende le considerazioni generali, quelle scientifiche e quelle etiche che potrebbero essere utili allo sperimentatore per pianificare uno studio, al comitato etico locale per la sua approvazione, e alle riviste per decidere sulla sua pubblicazione. Di recente S. HALPERN (in S. HALPERN, Prospective preference assessment: a method to enhance the ethics and efficiency of randomized controlled trials, Controlled Clinical Trials 23, 2002, 274-­‐
288) di fronte alle dimostrate, crescenti difficoltà di arruolamento riscontrate per i clinical trials in USA, documenta il vantaggio di una discussione preliminare con gli arruolandi, capace di aumentare il loro interesse a partecipare alla ricerca e modulare le metodologie sulla compliance degli stessi, senza sacrificare l’efficienza della ricerca. Esiste, ormai, una discreta letteratura su 86 queste esigenze [v. anche P. PEDUZZI ET AL., Research on informed consent: investigator-­‐
developped versus focus group-­‐developped consent documents, a VA cooperative study, in Controlled Clinical Trials 23 (2002) 178-­‐197] [57] ANTONOVSKY A., Health, stress and coping. New perspectives on mental and physical wellbeing, Jossey-­‐Bass Publ., S.Francisco, 1979. [58] STRANG S.,STRANG P., Spiritual thoughts, coping and sense of coherence in brain tumor patients and theirs spouses, Palliat. Med. 152, 127-­‐134, 2001. [59] MURPHY P.E. ET AL., The relation of religious belief and practices, depression and hopeleness in persons with clinical depression, J.Counsult. Clin. Phsychol. 68(6), 1102-­‐6, 2000. [60] CINÀ G., Introduzione, in CINÀ G. (a cura di), Medicina e spiritualità: un rapporto antico e moderno per la cura della persona, Ed. Camilliane, Roma, 1998. [61] BOMPIANI A., Medecine and man: human ecology, in AA.VV., The human search for truth: philosophy, science, theology, Intern. Conf. Sc.Faith, Vatican, 23-­‐25 May, 2000, Saint Joseph’s University Press, Philadelphia, 2002. [62] SMITH D., Functional salutogenic mechanism of the brain, Perspectives in biology and medecine, 45(3), 319-­‐328, 2002. [63] LA ROSA M., Salute, relazionalità e compliance, in V. GHETTI (a cura di), La partecipazione del paziente al suotrattamento, Fondazione Smith-­‐Kline, F. Angeli Ed., Milano, 1995 (pp. 7-­‐14). [64] LUCCHELLI P.E., Compliance e sperimentazione clinica dei farmaci, in V. GHETTI ( a cura di), La partecipazione del paziente al suo trattamento, Fondazione Smith-­‐Kline, F. Angeli, Ed. Milano, 1995 , pp 45-­‐48. [65] NOVELLINI R., Strumenti emisurazione della compliance negli studi clinici, in GHETTI V. (a cura di), La partecipazione del paziente al suo trattamento, Fondazione Smith-­‐Kline, F. Angeli Ed., Milano, 1995, pp 67-­‐68. [66] BOCKLE F., I concetti fondamentali della morale, Queriniana Ed., Brescia, 1991. [67] Che vi siano condizioni di potenziale conflitto in quella “difficile alleanza” che caratterizza l’incontro fra il ricercatore universitario e l’industria farmaceutica è opinione sostenuta da molti [v. ad es. R. MORTON, The clinical trial: deceitful, disputable, unbelievable, unhelpful, and shameful: what next?, Controlled Clinical Trials 22, 593-­‐604 (2001); T. BODENHENMER, Uneasy alliance: clinical investigators and the pahrmaceutical industry, New Engl. J. Med. 342, 1539-­‐1544 (2000)]. L’American Medical College (AAMC) ha, di recente, emanato linee guida dirette ad impedire lo svolgimento di trials clinici da parte di ricercatori che abbiano interessi economici nelle industrie farmaceutiche proponenti [Protecting subjects, Preserving Trust, Promoting progress: policy and guidelines for the oversight of individual financial interest in Human Subjects Research, www.aamc.org/member/coitf] (v. J. Kaiser, Science 295, 246/247, 2002). [68] Gli sperimentatori, come affermato nei recenti studi sul cancro, potrebbero non seguire i criteri di inclusione ed esclusione di un protocollo randomizzato, mentre l’inclusione di pazienti ineleggibili potrebbe compromettere la validità e l’interpretazione dei risultati. D’altra parte se ci si accorge che pazienti non eleggibili sono stati inclusi nello studio, non si può facilmente escluderli dall’analisi senza compromettere i presupposti di una randomizzazione bilanciata. Una analisi intention-­‐to-­‐treat, che rappresenta l’approccio meno esposto ai potenziali errori sistematici, richiede che tutti i pazienti randomizzati siano inclusi nell’analisi finale. L’inserimento in uno studio randomizzato di pazienti ineleggibili allo scopo di aumentare la numerosità o perché lo sperimentatore desidera fornire una terapia nuova e potenzialmente salvavita a un dato paziente, minaccia l’interpretazione dei risultati dello studio, ed è quindi un atto non etico. Il rischio a cui il paziente viene esposto, lo sforzo dello sperimentatore, l’impiego di fondi sia pubblici che privati, potrebbero essere stati sprecati qualora i risultati di uno studio clinico randomizzato fossero non interpretabili o interpretati erroneamente a causa 87 dell’inserimento di pazienti ineleggibili. Questo raggiro da parte degli sperimentatori è sempre stato trascurato o minimizzato, sebbene non sia meno pericoloso della falsificazione dei dati. La raccolta incompleta dei dati può a sua volta mettere in pericolo la capacità di uno studio randomizzato di dimostrare la sicurezza o l’efficacia di una data strategia terapeutica. La mancata aderenza al protocollo e la raccolta incompleta dei dati sulle apposite schede, sono motivazioni che dovrebbero essere utilizzate per impedire la partecipazione di uno sperimentatore a successivi studi. La partecipazione di uno sperimentatore a uno studio clinico dovrebbe essere considerata un privilegio piuttosto che un diritto, e implica delleresponsabilità che vanno prese molto seriamente se si vuole che i rischi dei pazienti siano giustificati” (PITT, 2001, pag.112-­‐113). [69] DI TROCCHI F., (l.cit.). [70] PORTIGLIATTI-­‐BARBOS M., MAGGIONA B. (l.cit.). [71] J. RANSTAM et al. (2000), Fraud in medical research: an international survey of biostatisticians, Control Clinical Trials 21 (2000); 415-­‐427. [72] E. STOKSTAD (in STOKSTAD E., Data Hoarding blocks progress in genetics, Science 295, 599, 2002) segnala i risultati di una richiesta condotta dall’Institute for Health Policy, USA su 1240 genetisti e altri 60 ricercatori di 100 Università che ricevono fondi pubblici dal NIM, ben l’84% riferisce di aver chiesto informazioni o materiale ad altro collega, ma il 47% denuncia di non aver avuto risposta nei tre anni considerati; provocando il 28% di rinuncia alla collaborazione ed il 21% di abbandono di promettenti linee di ricerca. I motivi della mancata risposta/collaborazione sono addotti per il 90% all’impegno necessario a produrre il materiale o l’informazione richiesta, per il 64% alla protezione del lavoro dei collaboratori; al 50% alla protezione della propria capacità di pubblicazione dei dati; il 28% alla sfiducia di poter godere di reciprocità di trattamento; il 27% alla tutela degli interessi dello sponsor, ecc.. 88 GONZALO HERRANZ
ALCUNI CONTRIBUTI CRISTIANI ALL’ETICA DELLA RICERCA BIOMEDICA. UNA PROSPETTIVA STORICA INTRODUZIONE Gli studi sulla breve ma intensa storia dell’etica della ricerca biomedica (erbm)[1] non sono pochi. È interessante rilevare come, al di là delle ovvie differenze di vedute e di approccio, molti fra questi studi mostrano una spiccata propensione in favore di un’interpretazione convergente sul tema, se non uniforme. La coincidenza è sufficientemente evidente da far sospettare che si sia ottenuto un accordo informale fra gli autori non solo relativamente ai fatti principali da includere e sottolineare nelle loro riflessioni, ma anche riguardo alla prospettiva secolarizzata e scientista con cui interpretare e ricostruire la storia . Sembra che sia stato ottenuto un consenso generale sul luogo e sul tempo di nascita dell’erbm, sui capisaldi che scandiscono la sua evoluzione, sulle questioni dominanti che la caratterizzano e, soprattutto, sulle forze interne che ne sospingono i progressi[2]. Risultato di tale interpretazione dominante è la grande diffusione di una storia che tende ad illuminare alcuni eventi come significativi, cruciali e nello stesso tempo ad eclissarne altri come banali e irrilevanti. Fra gli elementi svalutati o cancellati dalla storia standard dell’erbm vi sono alcuni pionieristici contributi dell’etica cristiana, che, in conseguenza di ciò, non vengono mai citati. Il presente articolo vuole rappresentare un primo sforzo per identificare e raccogliere i contributi cristiani all’erbm nella sua fase iniziale, al fine di farli riemergere dall’oblio e di offrirli alla discussione. LA VERSIONE DOMINANTE DELLA STORIA DELL’ERBM Non sarà qui fuori luogo una breve caratterizzazione dell’approccio nei confronti della storia dell’etica della ricerca biomedica. Solo su tale sfondo si può capire e apprezzare adeguatamente la significatività e il valore degli aspetti che l’etica cristiana ha apportato alla costruzione dell’erbm. Fra i tratti caratteristici della versione standard che domina la storia dell’erbm, i seguenti risultano particolarmente attinenti al nostro discorso: • Il merito attribuito al Codice di Norimberga di aver costituito il punto di partenza della storia dell’erbm. • L’aver etichettato il periodo precedente Norimberga come età buia. • La convinzione che solo dopo la pubblicazione della Dichiarazione di Helsinki ed il Rapporto Belmont sia stato possibile riconosce all’erbm un’autonomia, emancipandola dalla generica etica medica. • Il ruolo esclusivo ed eminente assegnato all’etica laicista nello sviluppo dell’erbm. Il Codice di Norimberga, un evento epocale Si afferma spesso che l’erbm nasce a Norimberga il 20 agosto 1947, quando viene pronunciata la sentenza al processo contro i medici nazisti, colpevoli di aver compiuto esperimenti disumani sui prigionieri di guerra. Come è ben noto, la sentenza del Tribunale Militare Americano conteneva una sezione, chiamata successivamente Codice di Norimberga, in cui erano enumerate dieci 89 proposizioni, quali principi etici fondamentali da rispettare al fine di soddisfare i requisiti morali, etici e giuridici comunemente accettati sulle pratiche di sperimentazione su soggetti umani. La promulgazione dei Dieci Punti del Codice di Norimberga viene considerato l’evento che segna in germe il passaggio da una preistoria antica e scura ad un nuovo tempo illuminato. Una simile esaltazione di Norimberga non appare pienamente giustificata. Essa rappresenta piuttosto l’esito di una riscrittura artificiale e politicamente interessata della storia. A ben vedere, la legittimità del Codice, sia nei contenuti etici di alcuni articoli che come punto di riferimento giuridico per la condanna dei medici nazisti al processo medico di Norimberga, è stata oggetto di fondate critiche[3]. Ma un altro fatto è assai più importante: il Codice di Norimberga non esercitò alcuna influenza immediata sul comportamento etico nella ricerca medica. Il messaggio di Norimberga non ebbe alcun impatto sulla professione medica perché era specificamente destinato a punire i perpetratori dei crimini di guerra, e pertanto non aveva implicazioni per i medici che, con buone intenzioni, lavoravano nei paesi liberi e democratici. Solo due decenni più tardi, allorché il Codice fu riscoperto, fu riconosciuta apertamente la portata del suo contenuto etico. In particolare, la dottrina sul consenso volontario e libero ebbe il riconoscimento quando comparve in due influenti documenti successivi, la dichiarazione di Helsinki (1964) e il Rapporto Belmont (1979). Il recepimento dei principi di Norimberga da parte dei Codici di Etica delle associazioni mediche nazionali seguì pure un corso lento, fortuito, quasi letargico. Ebbe impulso solo dopo il 1975, quando l’Associazione Medica Mondiale pubblicò la seconda versione della Dichiarazione di Helsinki[4]. Prima di Norimberga, un tempo buio Non è giusto relegare il periodo precedente Norimberga nella categoria di epoca buia. Fu un periodo che per molti aspetti contrasta con il nostro. Non si avvertiva alcun bisogno di regolamentare formalmente l’erbm, e questo per svariate ragioni, fra cui il mancato riconoscimento di una chiara separazione fra pratica ordinaria e sperimentazione clinica: la maggior parte della ricerca era di tipo descrittivo e osservativo, e la ricerca non alterava il comune rapporto medico-­‐paziente; pertanto, la riflessione etica poteva essere lasciata in disparte senza rimorsi. È vero che prima di Norimberga veniva attribuita da parte degli scienziati più considerazione all’ethos della ricerca (la professione e le virtù specifiche del ricercatore, la selezione e l’istruzione dei giovani ricercatori, il rigore metodologico, le responsabilità sociali, il ruolo di consulenza, i modelli di comportamento) che all’etica vera e propria[5]. Ma è pure vero, come mostreremo più avanti, che vi furono alcuni medici appartenenti al circolo francese della Morale Mèdicale che presero in considerazione alcune questioni fondamentali dell’erbm e riuscirono a portare avanti alcuni concetti etici pionieristici e sorprendentemente moderni. L’oscurità ingiustamente attribuita al tempo che precede Norimberga consegue più ad una disattenzione, forse involontaria, per alcune fonti storiche che all’assenza di autori e di contributi significativi. La convinzione che solo dopo la Dichiarazione di Helisinki ed il Rapporto Belmont fu identificabile una vera erbm Solo di recente fu ,essa a punto una normativa specifica ed esplicita riguardante l’erbm. Prima del 1947, erano stati pubblicati sull’erbm soltanto alcuni documenti normativi formali, che erano stati praticamente ignorati[6]. 90 La carenza di documenti etico-­‐normativi durante questo periodo è dovuta soprattutto al fatto che fino a tempi relativamente recenti la separazione fra pratica medica quotidiana e sperimentazione era poco percepibile o non riconosciuta. Claude Bernard, figura dominate della medicina sperimentale, volendo fornire giustificazione morale alla sperimentazione umana, attribuisce carattere sperimentale a qualunque intervento medico o chirurgico, oscurando qualunque separazione setta fra le due. Riassumendo l’opinione generale del suo tempo, Bernard scrive: “I medici compiono quotidianamente esperimenti terapeutici sui loro pazienti, mentre il chirurgo pratica ogni giorno vivisezioni sui suoi soggetti. […] Esiste pertanto il dovere di sottomettersi alla sperimentazione e il diritto corrispondente ad effettuarla qualora tale procedura sia in grado di salvare una vita, curare una malattia, o portare benefici personali”[7]. Tale prospettiva ci appare oggi tipica di un’epoca da tempo superata. Eppure, è opportuno ricordare che, un secolo più tardi, era divenuta opinione medica comune ritenere che, poiché tutto ciò che il medico decide di compiere a favore del suo paziente si basa su una conoscenza parziale e confusa, ogni atto clinico condivide molti tratti dell’esperimento clinico[8]. Il ruolo dominante ed esclusivo assegnato all’etica laicista nello sviluppo dell’erbm Si possono invocare due fattori per spiegare il ruolo subordinato del contributo cristiano all’erbm. Da un lato, prima del 1950, le fonti bibliografiche di origine cristiana prestarono attenzione quasi esclusivamente a questioni legate ai problemi morali e ai bisogni spirituali dei malati. Gli autori cattolici, più che sull’etica medica, si occuparono della medicina pastorale. Il loro interesse principale riguardava gli effetti delle cure mediche sull’osservanza dei comandamenti divini e sull’amministrazione dei sacramenti della Chiesa, questioni come la sacralità della vita umana e la trasmissione della vita, come l’aborto e l’eutanasia, la contraccezione e la sterilizzazione, la cura dei morenti, il segreto professionale, la cooperazione al male, il matrimonio. L’interesse per l’erbm era secondario, al punto che la maggior parte dei manuali non ne parlavano affatto, o vi alludevano in maniera superficiale[9]. Dall’altro lato, i profondi mutamenti avvenuti nel campo della bioetica contemporanea hanno determinato, come effetto collaterale, la progressiva riduzione al silenzio e l’esclusione dei contributi cristiani all’erbm. Durante gli anni Cinquanta e Sessanta, i principi e gli standard cristiani costituivano una parte integrante degli articoli e delle direttive riguardanti l’erbm[10]. Nei decenni seguenti, sotto l’influenza di molteplici fattori (la ribellione nei confronti dell’autorità, l’aperto dibattito pubblico su alcuni illustri esempi di abusi e di comportamento scorretto nella ricerca, il ruolo sempre più intenso dell’elemento giudiziario delle questioni bioetiche, la crescente influenza teorica e pratica dell’etica situazionista e utilitarista, le rivendicazioni di gruppi di attivisti assai critici verso la religione), la bioetica ricevette un’impronta marcatamente laicista[11]. Oggi, l’etica dell’assistenza sanitaria è sottomessa ai famosi quattro principi, che derivano direttamente dai tre principi contenuti nel Rapporto Belmont[12]. Molte disposizioni etiche e giuridiche della ricerca medica furono costruite sul fondamento di quei principi, e conseguentemente le deliberazioni dei comitati istituzionali di revisione ruotarono attorno ad alcuni argomenti fissi e ricorrenti, come la tutela dell’autonomia del soggetto, la garanzia del consenso libero e informato in conformità alla legge, la comparazione fra rischi e benefici, l’equa distribuzione dell’onere etico della ricerca fra i membri della società, la tutela degli interessi dei soggetti di ricerca, dei ricercatori, degli sponsor e della società. In effetti, i principi della bioetica monopolizzano di fatto l’attività di molti Comitati. Nessuna alternativa è al momento ritenuta 91 soddisfacente[13]. In questo modo, l’influenza pratica dei valori cristiani nell’erbm è andata indebolendosi e dimenticandosi anche il suo significato storico. LA GENESI DELLA VERSIONE STANDARD Come vedremo nella prossima sezione, la tradizione morale cristiana ha mantenuto una posizione chiara e forte riguardo alla partecipazione degli esseri umani alla sperimentazione biomedica. Tale partecipazione è un’azione umana, che richiede, da un lato, che lo sperimentatore abbia previamente l’indispensabile consenso del soggetto; dall’altro, che il soggetto goda delle informazioni e della libertà necessarie per dare il suo consenso in modo veramente umano e moralmente responsabile. Come già osservato, questa tradizione è assente nella versione standard della storia dell’erbm. A cancellare la memoria di questa tradizione hanno contribuito due fattori. Il primo è il restringimento dello spazio e del tempo di indagine, comune fra gli storici della bioetica, i quali si limitano normalmente nei loro studi ai fatti statunitensi successivi alla prima guerra mondiale, così che spesso la storia dell’erbm non presta la dovuta attenzione agli eventi accaduti fuori dagli Stati Uniti prima di Norimberga[14]. Il secondo fattore è l’applicazione di specifici indicatori che accertino che cosa sia e che cosa non sia il consenso alla ricerca secondo i bioeticisti americani o i casi giudiziari forniti unicamente da americani. L’espressione “consenso informato” diviene così una specie di marchio registrato, di cui si può fare solo un uso ristretto e autorizzato. Non è un comune termine descrittivo, ma un termine qualificato, differente nella sostanza e superiore nella qualità ad altri concetti utilizzati in diversi tempi e luoghi. Nulla più della distinzione che Faden e Beuchamp fecero fra due diversi tipi di consenso informato rivela maggiormente l’intento di trasferire l’erbm all’interno del patrimonio culturale americano[15]. Il primo tipo, chiamato effettivo, si riferisce alla mera procedura formale richiesta dalla legge o dalle politiche istituzionali per dare informazioni e documentazioni sull’autorizzazione del paziente a partecipazione alla ricerca, procedura attraverso cui il consenso diviene formalmente valido. Si tratta semplicemente di riempire un modulo, in virtù del quale il soggetto accetta la ricerca proposta. Questo tipo di consenso implica una procedura effettiva, burocratica e formale, che soddisfa materialmente i requisiti minimi prescritti dalla legge, dal codice professionale o dalle regole istituzionali. Il secondo tipo, chiamato “dell’autorizzazione autonoma”, definisce il consenso informato come una sottocategoria dell’atto autonomo con cui un soggetto autorizza il ricercatore ad intraprendere un determinato intervento di ricerca. È proprio il suo carattere di autonoma autorizzazione che rende tale consenso sostanziale ed eticamente autentico, in quanto manifesta il valore centrale del rispetto per la persona. Questo genere di consenso fa onore alla sovranità dei soggetti, ai loro valori e alle loro convinzioni, ed equivale di fatto ad un trasferimento di autorità e responsabilità che viene compiuto attivamente dal soggetto in favore del ricercatore. I due tipi di consenso corrispondono da vicino ai due modelli della beneficenza e dell’autonomia, che Beuchamp e McCullough hanno tratteggiato ideato nella loro descrizione della responsabilità morale del medico[16]. Nella sua recensione al libro di Faden e Beauchamp[17], Caplan afferma che soltanto il tipo sostanziale di consenso informato è, a differenza di quello effettivo, un vero consenso, e che tale consenso è un prodotto tipicamente e necessariamente americano. Caplan accosta Faden e Beuchamp commettendo un errore madornale, e cioè ritenendo che gli autori, nonostante la loro attenta analisi storica, omettano un fatto decisivo, di estrema importanza: la nozione di consenso informato orientata all’autonomia non è solo nata e cresciuta negli Stati Uniti, ma si radica nel valore dell’autonomia che rappresenta un’intuizione tipicamente americana. Al contrario, negli altri luoghi e tempi, la pratica e gli scritti sul consenso informato riguarderebbero esclusivamente 92 gli aspetti formali e procedurali, secondo la variante effettiva. Il consenso autentico sarebbe un fenomeno moderno e radicalmente americano, come proverebbe lo stupore che i non americani provano di fronte al ruolo che l’autonomia gioca nella pratica medica americana[18]. Si insinua così una nuova visione del consenso informato, una visione che rompe con il passato: è originale ed esclusiva della mentalità americana, è “il risultato dei cambiamenti culturali avvenuti negli ultimi decenni nell’etica, nel diritto, nell’economia e nell’atteggiamento culturale nei confronti dell’individualismo e della scelta personale, che si estendono ben oltre i confini della moralità medica”[19]. Di contro alla visione moderata di Faden e Beuchamp sulla difficoltà di valutare le pratiche di consenso del passato[20], Caplan adotta un metro di valutazione del presente e del passato più radicale, basato sul criterio del consenso come autonoma autorizzazione, e ciò implica un forte rischio di imperialismo assiologico. Il nuovo concetto di consenso come autorizzazione autonoma poggia su criteri di giudizio sorti in seno al diritto americano, presuppone che il soggetto sia di norma dotato di un solido intelletto e di un’autonomia formata. Di più: questo nuovo concetto è stato elevato alla condizione di modello universale. Inoltre, il nuovo paradigma rompe tutti i legami dell’erbm con l’etica cristiana. Tutto ciò che la tradizione medica e cristiana aveva affermato sui diritti morali dei soggetti di ricerca, sulle loro responsabilità e libertà, sul potere di gestione della propria vita e del proprio corpo, sulle capacità e sulle azioni umane è venuto ad avere cattiva reputazione o ad essere ridotto alla condizione di precedente rudimentale ed obsoleto. Di fronte ad una simile spavalda auto-­‐attribuzione di importanza storica e di superiorità ideologica, è dovere di tutti chiedersi se questa versione della storia del consenso informato tenga conto di tutti i dati disponibili e li analizzi correttamente. A mio avviso non è così, dato che tale interpretazione non considera una parte importante della storia dell’erbm[21]. Di seguito presenterò alcuni dati che mostrano come la versione standard della storia dell’erbm tralasci l’esplorazione di autori e di opere che hanno proposto con sorprendente maturità e lungimiranza, molto prima di Norimberga, idee molto avanzate sui criteri etici per il consenso informato e sulla posizione che la ricerca biomedica ricopre nella società. ALCUNI CONTRIBUTI ORIGINALI DELL’ETICA CRISTIANA ALL’ERBM Non si tratta di un argomento semplice. Per di più, una buona percentuale di pubblicazioni non è facilmente reperibile e, come già notato, molte di esse non trattano di erbm. Nonostante queste difficoltà, il periodo pre-­‐Norimberga appare un’età interessante e pacifica, in cui i problemi erano relativamente semplici e l’etica medica era coltivata soprattutto dalle persone che avevano profonde convinzioni religiose. Molti di essi erano cattolici. Per i teologi morali, come pure per i medici, le questioni di maggior interesse erano in gran parte quelle legate alla medicina pastorale, e in specifico quelle relative ai sacramenti della Chiesa, ai comandamenti o la sessualità umana. D’altra parte, i medici, i teologi e i moralisti, in quanto uomini del loro tempo, erano imbevuti di incertezza riguardo ai confini di separazione fra pratica e ricerca medica. Mostrerò ora due interessanti scoperte, finora sconosciute alla letteratura bioetica. Una riguarda il rispetto per la persona dei soggetti di ricerca, nel contesto specifico della ricerca psicologica (non terapeutica), quale luogo di energico richiamo alla pratica del consenso informato. L’altra scoperta, che concerne la relazione fra scienza, società e individuo, è all’origine di un significativo argomento attualmente presente in molti documenti sull’erbm. 93 Un primo richiamo al consenso libero e informato Nella tradizione cattolica, i medici e i pazienti, i ricercatori e i soggetti devono essere guidati da uno spirito di rettitudine morale, di amore fraterno, di sincerità e di libertà. Tutti sono ugualmente esseri umani ad immagine di Dio, dotati del medesimo valore, resi capaci dalla grazia divina di intessere una relazione con Dio diretta, personale e filiale. Pertanto, si può dedurre che, nelle circostanze specifiche della sperimentazione biomedica, esistono alcune particolari relazioni del ricercatore e dei soggetti con Dio, relazioni plasmate sul rispetto per la dignità e la libertà delle persone che sono contemporaneamente fratelli e creature appartenenti a Dio. Privare l’essere umano della libertà e della responsabilità di decidere della propria salute e del proprio corpo, oppure accogliere o negare il suo consenso alla ricerca non rappresentano solo ripugnanti abusi, ma peccati, perché schiavizzano il prossimo e lo privano del merito morale di aiutare consapevolmente la scienza e l’umanità. Il consenso libero e informato costituisce una parte integrante della relazione ricercatore-­‐
soggetto all’interno della tradizione cattolica[22]. Ciò emerge come requisito radicale e obbligato, chiaramente delineato da autori appartenenti alla scuola francese, praticamente ignorati, dalla Morale médicale del XIX secolo[23], ne è un esempio Georges Surbled. Quando Surbled discute la sperimentazione psicologica, protesta energicamente contro l’insensibilità di certi colleghi che non riconoscono i limiti imposti alla ricerca dai principi morali. Per Surbled, “l’amore caritatevole rappresenta la prima e l’ultima parola della scienza”. Egli rimpiange il fatto che molti scienziati, che non credono in Dio e sono perciò incapaci di amare in Dio il loro prossimo, dimentichino il dovere di giustizia richiesto a tutti. Surbled è convinto che ci sia un modo per ripudiare le sperimentazioni abusive o immorali: affermare senza possibilità di errore i “diritti dell’uomo e, perciò, dei diritti del paziente. […] Ogni uomo ha il diritto di essere rispettato nel corpo […], ha il diritto assoluto di non essere offeso o torturato. Così, al dottore non è permesso sperimentare sull’uomo senza il suo consenso formale. E non si è mai saputo di pazienti che hanno autorizzato la pratica degli esperimenti dannosi e rischiosi registrati poi dalla storia e condannati dalla coscienza retta. Tali esperimenti sono stati eseguiti surrettiziamente, su soggetti iganri, con il pretesto perverso di praticare trattamenti medici. Il paziente non può mai essere usato come oggetto di sperimentazione a buon mercato”[24]. Parlando del consenso negli avvenimenti clinici ordinari, Surbled non si mostra molto energico, ma ha idee estremamente importanti sul punto, in quanto adotta un atteggiamento che si discosta per alcuni versi dall’approccio beneficialista e paternalista dei suoi contemporanei. Certamente segue prima di tutto “l’antica e suprema regola infusa nella coscienza del medico e regolatrice di tutta la sua attività: primum non nocere”, una regola attiva nella sperimentazione così come nella terapia clinica. Tuttavia, in entrambi i casi, Surbled sostiene che il paziente ha il diritto di rifiutare qualunque sperimentazione o terapia, “poiché gli basta barricarsi dietro il suo volere, senza alcun obbligo di fornire spiegazioni per la sua decisione […]. Egli è l’unico padrone del corpo, che può usare liberamente. Soltanto, deve sottomettersi alla volontà di Dio”. Surbled non ha dubbi nel definire criminale e mostruoso il comportamento di quei ricercatori che ingannano i soggetti, sani o malati, iniettando nelle loro ignare vittime microrganismi patogeni. Il concetto che Surbled ha del consenso informato, con la sua profondità etica, non si piega alla nozione di consenso che vediamo gelosamente custodita da molti documenti odierni. Il suo concetto include quei requisiti di rispetto per l’autonomia dei soggetti che Faden e Beuchamp considerano indispensabili per un consenso informato eticamente impeccabile: l’assenso a partecipare alla ricerca basato sulla piena comprensione delle informazioni rilevanti; l’autorizzazione deliberata e consapevole accordata all’intervento di ricerca; l’assenza di coercizione o di incentivi esterni che possano viziare o predeterminare la scelta del soggetto[25]. 94 C’è tuttavia una differenza significativa fra i due concetti, una differenza che rivela la grande distanza che intercorre fra la visione cristiana e quella laicista dell’uomo. Infatti, al posto dell’assoluta autonomia del soggetto propria dell’etica laica/secolarizzata, che conduce il soggetto ad una decisione isolata, immanente e individualistica, l’autonomia del soggetto cristiano, cioè di un uomo che vive alla presenza di Dio e fruisce dell’aiuto della grazia, capisce lucidamente che l’uomo non è il padrone assoluto di se stesso, ma piuttosto un amministratore prudente e responsabile della propria vita e del proprio corpo, che sono doni elargiti (“in prestito”) e che devono essere trattati con saggezza e responsabilità. Si può dire esattamente lo stesso dei doni ricevuti, e dei doveri subiti, dal ricercatore, il quale conserva una relazione viva e attiva con Dio e con i soggetti[26]. La padronanza dell’uomo su se stesso equivale ad un dominio d’uso, e non ad una proprietà, equivale ad un ruolo direttivo subordinato a Dio, che ognuno deve esercitare in libertà e nel servizio agli altri[27]. L’umanesimo cristiano crede fermamente nel valore e nella libertà dell’uomo, nei diritti umani, e nel compito, assegnato da Dio all’uomo nel giardino dell’Eden, di governare e migliorare il mondo[28]. L’idea di consenso libero e informato coniata da Surbled appare, in scritti successivi che fanno capo alla scuola francese della Morale médicale, sotto differenti aspetti, spesso curiosamente inclusi nel principio dominante del non fare male[29]. Altre volte viene enunciata chiaramente: Bon[30], ad esempio, inserisce fra i requisiti per una ricerca legittima il fatto che “Il soggetto, dopo essere stato pienamente informato dei rischi in cui incorrerà, si presti al ricercatore in modo assolutamente libero e di sua volontà”. Scienza, società e individuo: la relazione etica La Dichiarazione di Helsinki, non nelle parole originali del 1962 ma nelle versioni successive dal 1975 in poi, contiene una proposizione di profondo significato morale: afferma la superiorità etica degli interessi dell’individuo sugli interessi della scienza e della società. Nei venticinque anni fra il 1975 e il 2000, questo nobile concetto è stato ripetuto. “La preoccupazione per gli interessi dei soggetti deve sempre avere la prevalenza sugli interessi della scienza e della società”, recita la clausola I, 5, riecheggiata dalla clausola III, 4. Nella versione attuale, aggiornata ad Edimburgo nel 2000, la clausola 5 dell’introduzione insiste dicendo: “Nella ricerca medica sui soggetti umani, le considerazioni relative al benessere dei soggetti umani deve avere la precedenza sugli interessi della scienza e della società”. Lo sfondo dominante del valore della persona, rispetto ad altri valori umani, è un punto costante nell’etica medica cattolica. Surbled afferma senza ambiguità che il migliore interesse del paziente si impone con una tale forza alla coscienza del medico da determinare il suo comportamento. “L’amore per la scienza, per quanto profondo e potente possa essere, non può mai prevalere nel nostro cuore sull’amoreper i fratelli sofferenti che necessitano del nostro aiuto”: Eppure, molti anni prima di Surbled, Max Simon affermava con determinazione e chiarezza lo stesso principio della superiorità delle persone sui più stimati valori della scienza. Non più tardi del 1845, scriveva: “Né la preoccupazione per la scienza, né la determinazione a risolvere un importante problema teorico, né il desiderio di aggiungere un nuovo agente chimico al corredo farmacologico dei medici possono portare gli sperimentatori a perdere il contatto con l’interesse immediato dell’individuo che costituisce il soggetto dei loro studi. Niente può affrancare i medici dal loro compito umanitario di assicurare al paziente sofferente tutti i benefici della loro arte”[31]. E alcuni anni più tardi, Simon aggiunge: “Infine non è possibile sottolineare maggiormente questo principio, e cioè che il paziente più indigente e privo di valore, il più inutile 95 per la società, non può essere soggetto di esperimenti rischiosi o pericolosi. Muoia piuttosto la scienza che questo principio!”[32]. Simon si batte per la concentrazione della ricerca medica all’interno dei grandi ospedali e sotto la guida di rappresentanti del mondo accademico eminenti e altamente capaci, poiché solo così diventa possibile eseguire numerose serie di osservazioni e, soprattutto, assicurare che i medici non usino mai dei loro privilegi per sacrificare l’interesse dell’individuo agli interessi della società, e ancor meno al successo personale[33]. Sarebbe molto interessante ricercare il percorso che lega Simon ad Helsinki, e scoprire come un libro scritto nella Francia del XIX secolo nell’ambito della Morale médicale si sia fatto strada fino alla Dichiarazione di Helsinki del 1975, che è un prodotto dell’etica medica secolarizzata del dopoguerra. Si possono invero identificare alcuni punti di raccordo. Uno è il ben noto discorso che Pio XII pronunciò il 14 settembre 1952. In esso, il papa analizza l’etica della ricerca biomedica sulla scorta di tre principi: gli interessi della scienza medica, gli interessi dei soggetti individuali e gli interessi della comunità. Sostiene, fra l’altro, che la scienza non è il valore più alto, a cui tutti gli altri valori devono essere subordinati, e che la persona umana non può essere utilizzata dalla comunità come un oggetto; infine, sostiene che il paziente non è il padrone assoluto di sé, e pertanto non può disporre liberamente di sé come più gli pare[34]. Queste idee furono probabilmente portate all’interno della Dichiarazione di Helsinki attraverso il simposio sulle prospettive religiose nei riguardi della sperimentazione medica, organizzato dall’Associazione Medica Mondiale durante la sua protratta incubazione della Dichiarazione di Helsinki, pubblicata poi nel 1960. Il rappresentante delle confessioni protestanti, Jacques de Senarclens, dopo avere affermato che né l’interesse della scienza né l’interesse della società bastano a giustificare gli esperimenti sull’uomo che contrastano con i principi dell’etica medica, che feriscono la dignità degli esseri umani o che infrangono i precetti più elementari della fede cristiana, invoca l’autorità morale del papa proprio attraverso le parole del discorso del 1952: l’uomo “non deve essere subordinato alla comunità nel suo essere personale; al contrario, è la comunità che esiste per l’uomo”[35]. È evidente che l’attuale Dichiarazione di Helsinki mantiene il prezioso legame con Simon nella sua integrità, anche se certamente con enfasi ridotta rispetto alle versioni precedenti. L’impegno a dare la precedenza in ogni occasione al benessere dei soggetti umani rispetto agli interessi della scienza e della società merita il posto d’onore che occupa nella Dichiarazione, addirittura nella forma di un’ingiunzione. Il suo significato, non facile da definire con precisione, è aperto ad interpretazioni divergenti[36]. Nella sua vaghezza, può essere inteso come valido strumento per accertare i limiti di rischio accettabile in situazioni di ricerca molto specifiche, o come disapprovazione preventiva degli esperimenti pericolosi. Tuttavia, può anche essere compreso come esortazione parenetica ad affinare la nostra sensibilità etica a favore della difesa dei soggetti di ricerca, o come atteggiamento morale fondamentale che conferisce un’accorata preferenza all’integrità dell’essere umano rispetto a considerazioni consequenzialiste. Questo argomento è stato sviluppato in modo approfondito da Jonas, in uno studio che è divenuto un classico[37]. 96 [1] La bibliografia sull’argomento è consistente. Diamo qui soltanto alcuni riferimenti che offrono una panoramica della storia dell’erbm: Beecher H.K., Research and the individual. Human Studies, Boston: Little, Brown, 1970:5-­‐15. Brieger G.,History of human experimentation, in Reich W.T. (ed.), Encyclopedia of Bioethics, New York: The Free Press, 1978:684-­‐92. Bynum W., Reflections on the history of the use of human subjects in research, in Spicker S.F., Alon I., de Vries A., Engelhardt H.T. Jr, (eds.), The use of human beings in research. Dordrecht: Kluwer; 1988:29-­‐46. Howard-­‐Jones N., Human experimentation in historical and ethical perspectives, in Bankowski Z., Howard-­‐Jones N, (eds.), Human experimentation and medical ethics. Geneva: C.I.O.M.S.; 1982:453-­‐95. Ivy A.C., The history and ethics of the use of human subjects in medical experiments, Science 1948;108:1-­‐5. Jonsen A.R., The Birth of Bioethics. New York: OxfordUniversity Press; 1998:125-­‐
165. Katz J., Experimentation with Human Beings, New York: Russell Sage Foundation;1972. LadimerI., Newman R.W. (eds.), Clinical Investigation in Medicine: Legal, Ethical and Moral Aspects. An Anthology and Bibliography, Boston: Law-­‐Medicine Research Institute, BostonUniversity; 1963. Lock S., Research Ethics – a Brief Historical Review to 1965. J Intern Med 1995;238:513-­‐520.Rothman D.J., Strangers at the Bedside. A History of how Law and Bioethics Transformed Medical Decision Making, New York: Basic Books; 1991:15-­‐100. Rothman D.J., Research, Human: Historical Aspects, in Reich W.T. (ed.), Encyclopedia of Bioethics. Revised edition. New York: MacMillan; 1995: 2248-­‐2258. Vaux K., Schade S.G., The Search for Universality in the Ethics of Human Research: Andrew C. Ivy, Henry K. Beecher, and the Legacy of Nuremberg, in Spicker S.F., Alon I., de Vries A., Engelhardt H.T. jr (eds.), The Use of Human Beings in Research, Dordrecht: Kluwer; 1988:3-­‐16. [2] Con qualche differenza, questa versione standard della storia dell’erbm si ritrova non nei testi di ricerca accademica o nei capitoli di monografie e di libri, ma nei brevi editoriali, nelle enciclopedie e nelle pubblicazioni per il vasto pubblico. Un tipico esempio è Booth C.C., Clinical Research. In: Bynum W.F., Porter R., eds. Companion Encyclopedia of the History of Medicine. Vol. 1. London: Routledge, 1993:205-­‐229. La troviamo anche in molti manuali che hanno esercitano vasta influenza in quanto usati in internet per la prima istruzione dei futuri membri di Comitati Internazionali di Revisione. In questo modo, il messaggio continua a persistere e ad essere diffuso. [3] Sull’origine artificiale di Norimberga e sul suo carattere improvvisato come riferimento giuridico, si vedano: Grodin M. E., Historical Origins of the Nuremberg Code.In Annas G. J., Grodin M. E., The Nazi Doctors and the Nuremberg Code. Human Rights and Human Experimentation. New York: OxfordUniversity Press, 1992:121-­‐144. sull’incoerenza interna del Codice, si veda: Deutsch E., Der Nürnberger Kodex. Das Strafverfahren gegen Mediziner, die zehn Principien von Nürnberg un die bleibende Bedeutung der Nürnberger Kodex, in Tröhler U., Reiter-­‐Theil S., Ethik und Medizin 1947-­‐1997. Was leistet die Kodifizierung von Ethik, Göttingen: Wallstein, 1997:103-­‐114. [4] Herranz G., The Inclusion of the Ten Principles of Nuremberg in Professional Codes of Ethics: An International Comparison, in Tröhler U., Reiter-­‐Theil S., Ethics Codes in Medicine. Foundations and Achievements of Codification since 1947. Aldershot: Ashgate, 1998: 127-­‐139. [5] Come esempi della letteratura antica sull’ethos della ricerca biomedica, si vedano: Cannon W. B., The Way of an Investigator, A Scientist’s Experiences in Medical Research.New York: W.W. Norton & Co, 1945: Gregg A. The Furtherance of Medical Research, New Haven: Yale University Press, 1941; Albareda J.M., Consideraciones sobre la Investigación Científica, Madrid: C.S.I.C., 1951; Ramón y Cajal S., Reglas y Consejos sobre Investigación Biológica (Los Tónicos de la Voluntad), 6th ed. Madrid: Imprenta Pueyo, 1923. [6] Ad esempio, negli Stati Uniti (Cannon W.B., The Right and Wrong of Making Experiments on Human Beings, Journal of the American Medical Association 1916;67:1372;1373) o in Germania 97 (Volmann J., Winau R., The Prussian Regulation of 1900: Early Human Experimentation in Germany. IRB: a Review of Human Subjects Research, 1996;18(4):9;11; Reich Minister of the Interior, Regulation on the New Therapy and Human Experimentation, February 28, 1931. In: Annas G.J., Grodin M.A., The Nazi Doctors and the Nuremberg Code: Human Rights in Human Experimentation. New York: Oxford University Press, 1992:129-­‐132). Il caso più eclatante fu probabilmente la Risoluzione dell’Associazione Medica Mondiale del 1946, che dopo una frettolosa approvazione al fine di fungere da riferimento etico durante il Processo di Norimberga, iniziò a non essere considerata e scivolò nell’oblio (American Medical Association, Requirements for Experiments on Human Beings, Journal of the American Medical Association 1946;132:1090). [7] Bernard C., Introduction à l’étude de la médecine expérimentale, Paris: Garnier-­‐Flammarion, 1966: 151-­‐152. [8] Prima dell’inizio degli studi clinici controllati e dell’assunzione della mentalità dell’evidence based medicine(medicina delle prove di efficacia, n.d.t.), il buon senso induceva a sostenere che praticamente ogni intervento medico fosse in un certo senso sperimentale. Ivy, ad esempio, affermava che “anche dopo aver trovato la terapia adatta ad una malattia, le sue applicazioni al paziente restano in parte sperimentali. A causa delle variazioni fisiologiche nella risposta di diversi pazienti allo stesso trattamento, la terapia delle malattie è e sarà sempre un aspetto sperimentale della medicina” (Ivy A. C., The History and Ethics of the Use of Human Subjects in Medical Experiments, Science 1948;108:1-­‐5).E Shimkin, alcuni anni più tardi, osservò che “la sperimentazine medica sui soggetti umani, nel suo significato più ampio e per il bene del singolo paziente, si verifica continuamente in ogni ambulatorio medico” (Shimkin M.B., The Problem of Experimentation on Human Beings, Science 1953;117:205-­‐207). [9] Una parte consistente dei manuali più utilizzati non include fra le materie trattate l’erbm; si vedano ad esempio: Bonnar A., The Catholic Doctor, 4th ed., London: Burns Oates & Washburne, 1944; Marshall J., The Ethics of Medical Practice, Darton, Longman & Todd, London, 1960; Peyró F.J., Deontología médica, 5a edición, Madrid: Marbán editor, 1954. Pazzini A., Il Medico di Fronte alla Morale, Brescia: Editoriale Morcelliana, 1950. [10] In quegli anni, era consuetudine invitare i teologi cristiani a partecipare ai dibattiti o ai lavoro collettivi sull’erbm. Nel 1960, l’Associazione medica Mondiale sponsorizzò un simposio dei rappresentanti delle maggiori religioni, come passo necessario verso lo sviluppo della futura Dichiarazione di Helsinki (Human Experimentation. A World Problem from the Standpoint of Spiritual Leaders, World Medical Journal 1960;7:80-­‐83, 86). Nelle monografie e nelle antologie pubblicate successivamente sono regolarmente inclusi articoli scritti da teologi morali, come pure direttive sulle ricerca emanate da istituzioni cattolicahe si assistenza sanitaria, e anche pronunciamenti del magistero, soprattutto di papa Pio XII (Beecher H.K., Research and the Individual. Human Studies, Boston: Little, Brown and Co, 1970; LadimerI., Newman R.W., eds., Clinical Investigation in Medicine: Legal, Ethical, and Moral Aspects. An Anthology and Bibliography, Boston: Law-­‐Medicine Research Institute, 1963; Katz J. Experimentation with Human Beings. The Authority of the Investigator, Subject, Professions, and State in the Human Experimentation Process,New York: Russell Sage Foundation, 1972). [11] Callahan D., Religion and the Secularization of Bioethics, HastingsCenter Report 1990;20(4 Suppl):2;4. [12] National Commission for the Protection of Research Subjects of Biomedical and Behavioral Research (Commissione Nazionale per la Difesa dei Soggetti di Ricerca della Sperimentazione Biomedica e Comportamentale, n.d.t.), The Belmont Report: Ethical Principles and Guidelines for the Protection of Human Subjects of Research, Washington, D.C.: Government Printing Office, 1979. 98 [13] Come afferma Veatch, “l’autonomia sta fra noi e l’abisso morale”. Veatch R. M., From Nuremberg through the 1990s: The Priority of Autonomy. In: Vanderpool H. Y., The Ethics of Research Involving Human Subjects. Facing the 21th Century. Frederick, MD: University Publishing Group, 1996: 44-­‐58. [14] Faden e Beauchamp, trattando l’evoluzione storica dei requisiti per il consenso nel campo della ricerca biomedica, dichiarò che il loro scopo principale era mostrare come il consenso fosse emerso e maturato negli Stati Uniti. Affermano inoltre che, a differenza di quel che accadde nel fertile campo dell’assistenza clinica ordinaria, nel contesto dell’etica della ricerca prima della seconda guerra mondiale furono pochissimi i fatti che richiesero l’apporto della morale. Una ricerca scientifica e rigorosa sugli esseri umani si verifica negli Stati Uniti solo dopo la guerra, mentre il criticismo morale relativamente alla ricerca biomedica inizia ivi a crescere verso la metà degli anni Sessanta. Si veda Faden R.R., Beauchamp T.L., A History and Theory of Informed Consent. New York: OxfordUniversity Press, 1986:150-­‐151. [15] Faden R.R., Beauchamp T.L., O. c. : 274-­‐297. [16] Beauchamp T.L., McCullough L.B. Medical Ethics: The Moral Responsibilities of Physicians. Englewood Cliffs, N.J.: Prentice Hall, 1984. [17] Caplan A. L.,A History and Theory of Informed Consent, by Ruth R. Faden and Tom L. Beauchamp. Book Review. JAMA 1987;257:386-­‐387. [18] La riaffermazione da parte di Caplan della cittadinanza esclusivamente americana della comprensione sostanziale, e non meramente formale, delle ragioni per il consenso informato raggiunge un tono di esultanza quando l’autore parla del “totale sconcerto manifestato da europei, asiatici, mediorientali e sudamericani al vedere la nostra apparente ossessione per l’autonomia”, caratteristica, questa, che era passata inosservata ed era stata trascurata da Faden e Beauchamp. Caplan A.L., A History and Theory of Informed Consent, by Ruth R. Faden and Tom L. Beauchamp (Book review). Journal of the American Medical Association 1987;257:386-­‐387. [19] Caplan, o.c.: 387. [20] Faden R.R., Beauchamp T.L., A History and Theory …: 55. [21] Ha suscitato frequentemente critiche l’atteggiamento di alcuni bioeticisti americani che, per giustificare la loro rivendicazione del titolo di fondatori della moderna etica medica, tendono ad ignorare i contributi vecchi e nuovi di autori appartenenti ad altri luoghi e tempi. L’irritazione che provano a riguardo alcuni europei è sincera e, secondo me, in parte giustificata. Scriveva Serres alcuni anni or sono in maniera retorica: “le novità sono spesso fatte di cose che abbiamo dimenticato. Importiamo, con grandi spese di traduzione, libri sull’etica fatti di plastica friabile, mentre dimentichiamo che la nostra tradizione europea scolpisce l’etica da due millenni nel granito e nell’oro”. Serres M., Préface, in Testard J.,L’Œuf Transparent, Paris: Flammarion, 1986:11-­‐12. [22] Soane B., Consent and Practice in the Catholic Tradition, in Dunstan G.R., Seller M.J., Consent in Medicine. Convergence and Divergence in Tradition, London: King Edward’s Hospital Fund, 1983:37-­‐44. [23] È sorprendente verificare come né in Francia né in altri Paesi siano stati studiati gli autori di libri sull’etica e sulla deontologia medica esistenti in Francia nel XIX secolo. Non si trova alcuna citazione negli articoli e nei libri dedicati alla storia dell’erbm in Francia ai contributi di Surbled e di Simon, i due autori considerati più avanti. Si vedano, ad esempio, Ambroselli, C. L’Éthique Médicale, 2nd ed, Paris: Presses Universitaires de France, 1988. Fagot-­‐Largeault A., L’Homme Bio-­‐
éthique. Pour une Déontologie de la Recherche sur le Vivant, Paris: Maloine, 1985. Hoerni, B. L’Autonomie en Médecine. Nouvelles Relations entre les Personnes Malades et les Personnes Soignantes.Paris: Payot, 1991. Moulin, A.-­‐M., Medical Science and Ethics before 1947, in TröhlerU., Reiter-­‐Theil, S., Herych, E. eds. Ethics Codes in Medicine. Foundations and Achievements of 99 Codification since 1947. Aldershot: Ashgate, 1998. Moulin, A.-­‐M., Medical Ethics in France, Theoret Med1989,9:271-­‐285. [24] Questa proclamazione dei diritti umani del paziente nella situazione specifica di soggetto di un esperimento è tratta dall’edizione del 1905 di Surbled G., La Morale dans ses Rapports Avec la Médecine et l’ Hygiène, Paris: V. Retaux et fils, 1905, Vol. 3 : 216-­‐217. Non è stato possibile oggi recuperare le edizioni precedenti del lavoro, in particolare la prima, del 1891. le parole di Surbled riportate precedono di almeno un decennio quelle così frequentemente citate di B. Cardozo, che comprende la famosa frase: “Ogni essere umano adulto e mentalmente capace ha il diritto di determinare che cosa deve essere fatto con il suo corpo; un chirurgo che esegue un’operazione senza il consenso del paziente commette un atto di violenza per il quale è imputabile di risarcimento dei danni”. Schloendorf v. Society of New York Hospitals (1914), as appears in Katz J., ed., Experimentation…:526. [25] Faden R. R., Beauchamp T. L., O. c. : 241-­‐262. [26] Il consiglio di Witts al ricercatore è pieno di arguzia e di fede religiosa: “[…] non ci sono formule standard che il medico coinvolto in uno studio clinico posa usare per dirigere le sue azioni. Egli deve piuttosto avere una coscienza sveglia e accorta, e deve essere preparato a giustificare ogni sua azione davanti al Creatore. Dovrebbe inoltre essere pronto a difenderle, prima, nei tribunali”. Witts L.J., The Ethics of Controlled ClinicalTrials, in Hill A.B., ed., Controlled Clinical Trials, Oxford: Blackwell Scientific Publications, 1960:13. [27] Sulla visione cristiana del dominio dell’uomo sulla sua vita e sul suo corpo, da una prospettiva personalista, si veda Sgreccia E., Manuale di Bioetica. I. Fondamenti ed Etica Biomedica, 2ª ed, Roma: Vita e Pensiero, 1994:153-­‐199. Di grande interesse sono anche le idee sul personalismo pruidenziale in Ashley B.M., O’Rourke K.D., Health Care Ethics. A Theological Analysis, 4th ed., Washington, D.C.: GeorgetownUniversity Press, 1997:166-­‐169. [28] Sul profondo valore umano e cristiano dell’atteggiamento di intelligente e fedele accettazione della volontà di Dio, così come viene manifestata dalla rivelazione divina e specificata dal magistero della Chiesa, si veda Smith J.E., The Introduction to the Vatican Instruction, in McCarthy D.G., ed., Reproductive Technologies, Marriage and the Church, Braintree, Mass: The Pope John Center, 1988:13-­‐28. [29] Payen G., Deontología médica según el Derecho Natural, Deberes de Estado y Derechos Profesionales, Barcelona: Sucesores de Juan Gili, 1944:164-­‐183. [30] Bon H., Précis de Médecine Catholique, Paris: Félix Alcan, 1936. [31] Simon M., Déontologie Médicale ou des Devoirs et des Droits des Médecins dans l’Etat Actuel de la Civilisation, Paris: J.B. Baillière, 1845:335. [32] Simon M., O. c., 337. [33] Simon M., O. c., 334. [34] Il discorso sui limiti etici della sperimentazione umana e degli interventi medici, tenuto al primo convegno internazionale di istopatologia del sistema nervoso il 14 settembre 1952, fu pubblicato negli Acta Apostolicae Sedis (AAS 1952, 44:779; 789). Fu anche riportato e commentato da molte riviste mediche. Una traduzione inglese si può trovare in Linacee Quart. 1952;19:98-­‐107, e pure, in versione quasi completa, in Ladimer I., Newman RW., O. c.: 276-­‐286. Some select fragments appear in Katz J. Experimentation with Human Beings: 731-­‐733 y 549-­‐551. Il discorso è stato dettagliatamente recensito da Beecher H.K., O. c.: 189-­‐200. Commenti più o meno estesi sono inseriti in President’s Advisory Committee, Final Report, The Human Radiation Experiments, New York: Oxford University Press, 1996: 88; Ford J., Human Experimentation in Medicine: Moral Aspects. Clin Pharmacol Therap 1960;1:396-­‐400; Jonsen A.R., O. c.: 149; O’Donnell T.J., Medicine and Christian Morality, New York: Alba House, 1976:91-­‐93. and in: Vallery-­‐Radot, j., Lenègre, J., Milliez, P., Étude des conditions Morales d’Exploration Clinique en 100 Médecine. I Congrès International de Moral Médicale, Vol. 1, Rapports. Paris: Ordre National des Médecins, 1955: 123. [35] Giuseppe B.M., De Senarclens, J., Groen J. J., Human Experimentation. A World Problem from the Standpoint of Spiritual Leaders. World Med J 1960; 7:80-­‐83, 96. The three contributions are reproduced in LadimerI., Newman R.W., O. c. : 267-­‐270. [36] Schaupp W., Der etische Gehalt der Helsinki Deklaration. Eine historisch-­‐systematische Untersuchung der Richtlinien des Weltärztebunds über biomedizinische Forschung am Menschen.Frankfurt am Main: Peter Lang, 1993:243-­‐245. [37] Jonas H., Philosophical Reflections on Experimenting with Human Subjects, en Shannon T.A., ed., Bioethics, 3rd ed, Mahwah, New Jersey: Paulist Press, 1987:253-­‐279. Di particolare interesse per questo nesso sono le sezioniche esaminano la polarità individuo-­‐società, cioè fra benessere privato e benessere pubblico, da un lato, e, dall’altro, la suggestiva analisi delle contrastanti componenti di sacrificio e di contreatto sociale insiti nella sperimentazione umana. 101 ADRIANO PESSINA
La relazione tra la ricerca biomedica, l'antropologia e l'etica filosofiche. Appunti per una riflessione metodologica Premessa L'interdisciplinarità è diventata oggi un'esigenza diffusa: essa esprime una richiesta di unità di fronte all’ eccessiva frammentazione e parcellizzazione dei saperi, resi possibili dalla progressiva suddivisione del lavoro, delle competenze, delle aree di studio. Si tratta, per certi aspetti, di un movimento inverso rispetto a quello innestato nell’epoca moderna con la nascita delle scienze sperimentali, quando il problema era proprio quello di salvaguardare l’autonomia delle singole discipline. Nell’ambito della biomedicina, questa necessità di stabilire una prospettiva unitaria (anche se non univoca) è riconducibile alla nascita stessa della bioetica. Sebbene di interdisciplinarità si parli spesso, occorre però riconoscere che non è sempre facile comprendere in che cosa consista realmente, quali siano le premesse teoriche che la rendano possibile, quale tipo di interazione si intende promuovere. Ci sembra, infatti, che si possa parlare di interdisciplinarità in diversi modi, o a diversi livelli. Da una partel'interdisciplinarità può essere pensata come mezzo per una determinata finalitàpratica o conoscitiva, che non può essere perseguita attraverso un solo approccio disciplinare. Per esempio, questo avviene nella prassi medica quando la formulazione di una diagnosi è il risultato di differenti dati conoscitivi, ottenuti con strumenti conoscitivi differenti. Spesso l'interdisciplinarità è, quindi, più "vissuta", "praticata" che adeguatamente teorizzata (e questo fatto è facilmente documentabile nella biomedicina, dove si intrecciano conoscenze e metodologie che si radicano in discipline che hanno anche una loro autonomia, come, a titolo di esempio, la chimica, la matematica, la biologia, la statistica, la fisica e via dicendo). L'interdisciplinarità può essere intesa anche soltanto come interazione comunicativa, che permetta di integrare diverse informazioni per meglio definire l’oggetto di cui si parla. Facendo un esempio banale, il paziente di cui si occupa il medico è anche l'uomo di cui parla la filosofia ed è anche il contribuente di cui si interessa l’economia o il padre di famigliala cui funzione è oggetto di studio della sociologia, ma è inoltre il depresso in cura dallo psicanalista e, soprattutto è Carlo, cioè un individuo unico ed irripetibile, che nessuna scienza può mai esprimere adeguatamente. Il convergere delle definizioni per meglio denotare ciò di cui si sta parlando, permette una visione olistica che può essere utile anche all'esercizio della singola disciplina. Ma l’esigenza maggiore, quando si parla di interdisciplinarità, è quella di trovare una prospettiva unificante in grado di coordinare le varie attività umane, comprese quelle conoscitive, in vista di finalità moralmente buone. In questo caso, l’ interdisciplinarità risulta necessaria perché fornisce alla morale le conoscenze necessarie alla determinazione della valutazione. Per usare un linguaggio classico, potremmo dire che l’interdisciplinarità è necessaria per formulare la premessa minore di un eventuale sillogismo pratico. Tutti questi aspetti non possono essere trascurati quando ci chiediamo a che proposito si può parlare della bioetica come disciplina interdisciplinare. Ma prima di entrare in merito a questo tema, è necessario accennare brevemente all'origine della scienza moderna per comprendere alcuni problemi, ereditati dal passato, che rendono arduo soddisfare l' esigenza di interdisciplinarità. 102 Autonomia ed eteronomia Come è noto, la nascita delle scienze sperimentali, e la progressiva determinazione delle identità metodologiche che le caratterizzano, avviene attraverso processi storici complessi, articolati[1], che non si prestano a facili sintesi né a schemi di comodo. Le interpretazioni che tendono a polarizzare questa storia sulla base delle polemiche e delle dispute che contrapposero, per lungo tempo, umanisti e scienziati[2], rischiano certamente di essere riduttive, ma possono servire almeno ad illuminare alcune "categorie" che rendono difficile "pensare" oggi in termini corretti all'interdisciplinarità, specie laddove è in gioco la questione "morale". Il riferimento all’etica sembra, infatti, minare alcune nozioni meta-­‐scientifiche che hanno accompagnato la nascita delle scienze, e in particolare le tesi riguardanti l'autonomia, la libertà di ricerca e la neutralità assiologica proprie di ogni scienza. Il timore di una indebita ingerenza della morale all’interno della stessa pratica multidisciplinare ha delle motivazioni teoriche e delle radici storiche. Dal punto di vista storico, possiamo ricordare che le scienze si sono progressivamente costituite proprio attraverso un processo di "emancipazione" dalla teologia e dalla filosofia, dai loro contenuti e dai loro metodi e che, in tempi recenti, esse hanno dovuto "liberarsi" dalle ideologie politiche ed economiche. Dal punto di vista teorico, l'interdisciplinarità sembra mettere alla prova proprio le nozioni cardine sulle quali si radica la scienza come tale, dalla teologia (che i medioevali chiamavano scienza sacra), alla filosofia, dalle cosiddette scienze esatte a quelle sperimentali (discipline che i medioevali accorpavano nelle scienze profane). Può essere interessante ricordare che già Tommaso d'Aquino stabiliva con chiarezza la distinzione tra le varie forme del sapere, basata sull'autonomia dei loro procedimenti specifici e sulla fiducia nell'uso del "lume naturale": "La dottrina sacra è scienza; ma occorre sapere che vi è una duplice classe di scienze. Alcune infatti procedono da principi noti col lume naturale dell'intelletto, come l'artimetica, la geometria e simili: altre invece procedono da principi noti col lume di una conoscenza superiore. In quest'ultima maniera la sacra dottrina è scienza, perché procede da principi noti col lume di una conoscenza superiore, la quale è la conoscenza di Dio e dei beati. Onde, come la musica crede ai principi che le offre l'aritmetico, così la sacra dottrina crede ai principi rivelati da Dio".[3] Questa citazione ci ricorda che per Tommaso l'intelletto può correttamente operare in base ai principi che può apprendere da solo e che la dottrina sacra non si sostituisce alla scienza profana nel suo campo, né serve per far funzionare correttamente l'intelletto, ma per fornire quella visione superiore che è necessaria all'uomo per ben condurre la sua vita e realizzare adeguatamente il fine per cui è stato creato. Questo passo ci fa comprendere come la scienza (e per Tommaso era allora in questione soprattutto l'autonomia della filosofia) non è subordinata in quanto scienza ad altre forme di sapere, neppure alla dottrina sacra, che pure è giudicata indispensabile per avere una visione adeguata della finalità dell'uomo. Possiamo trarre un'indicazione da queste osservazioni: l'interdisciplinarità, se non è pura giustapposizione di saperi, necessita di una chiarificazione del significato specifico di "scienza" e di "autonomia". Già in Tommaso emerge un uso analogo del concetto di scienza, che rimanda all'idea, oggi spesso trascurata o negata, del significato analogo del termine "ragione" umana.[4] Se rileggiamo la lunga e travagliata storia del rapporto tra le scienze nascenti, il loro legame con la tecnica, e i loro rapporti, spesso problematici, con la filosofia e con la teologia dell’epoca moderna, possiamo comprendere il "timore" (oggi spesso evocato) di far cadere la ricerca scientifica in una sorta di "eteronomia" disciplinare. Questo "timore" esprime anche l’esigenza di 103 salvaguardare un "valore": si tratta, infatti, del timore che le scienze, qualora perdano la loro autonomia, tradiscano la loro vocazione specifica, sebbene circoscritta, alla "verità", che passa attraverso la ricerca delle "cause" dei fenomeni che studiano. Il riferimento al "vero" è, in fondo, ma su questo torneremo, il terreno di incontro e di scontro tra le diverse forme del conoscere, sia perché spesse volte si dimentica che anche la nozione di verità è analoga e non univoca, sia perché le vie per determinare la verità intorno allo specifico oggetto di indagine sono diversificate proprio dai principi di riferimento e dagli scopi ultimi che si prefiggono le varie scienze. Per stabilire quale debba essere la relazione tra la biomedicina, l’antropologia e l’etica filosofiche occorre però tenere conto che la stessa medicina tende oggi a pensarsi in termini di "scienza naturale" e, quindi, a rendere problematica quella connessione con l'etica che per lungo tempo era data come evidente. A ciò si deve aggiungere un’altra considerazione. Mentre risulta facile parlare di una biomedicina, oggi sembra impossibile parlare di una antropologia e di una etica filosofiche. Dallo stesso versante della filosofia, infatti, è teorizzata l’idea che sia impossibile non soltanto di fatto, ma in linea di principio, affermarne una unitarietà di metodo e di contenuto a proposito dell’etica e dell’antropologia. La frantumazione della filosofia in "filosofie",resa evidente sia dall'ormai consueto discorso sul pluralismo etico (nell'accezione dell'incommensurabilità delle etiche), sia dal dibattito intorno alla nozione di "persona", contribuisce a complicare l’attuazione dell’interdisciplinarità. Scienza medica e arte medica In ciò che noi chiamiamo "medicina" possiamo distinguere diversi livelli: da una parte c'è l'insieme delle conoscenze scientifiche che, acquisite attraverso differenti strumenti e con l'apporto di discipline specialistiche (dalla biologia alla statistica) costituiscono ciò che si chiama la "scienza medica"; dall'altra esiste la prassi medica che, nell'epoca contemporanea, ha esteso le proprie finalità al di là dello scopo terapeutico, includendo prassi di stampo diagnostico e preventivo, nonché attività sperimentali che si situano tra il piano terapeutico e quello della ricerca scientifica. Questi due "macrolivelli" possono essere distinti in ordine alla differente finalità che di per sé perseguono: la medicina come "scienza" ha come scopo primario la conoscenza, mentre la medicina come "arte" o professione medica ha come scopo primario la cura, la guarigione o il "prendersi cura" della persona, in quanto "paziente" reale o in quanto "paziente" possibile[5]. Esula dallo scopo di questa riflessione articolare ulteriormente questa distinzione, che peraltro contiene già in sé alcuni elementi che possono farci comprendere quanto sia complessa una riflessione sulla medicina nella sua veste contemporanea. Non tutti, però, sono disposti a riconoscere questa distinzione di piani. H. Jonas, per esempio, scrive: "Alla scienza medica, come scienza generale del corpo sia malato che sano, non si adatta quindi -­‐già il nome lo dice-­‐ ciò che altrimenti è valido per la scienza, e cioè avere il suo scopo nella conoscenza: con tale conoscenza essa intende fin dall'inizio aiutare il medico nella sua capacità di guarire. Non è perciò priva di scopi né neutrale. E ancora una volta ciò che distingue l'arte medica dalle antiche arti dell'umanità è che fin dall'antichità -­‐da Ippocrate-­‐ essa è intimamente legata a una scienza che ne costituisce il fondamento"[6]. Jonas pretende di negare questa distinzione sia per evidenziare la peculiarità del rapporto che intercorre tra la scienza medica e l'arte medica (rapporto che sarebbe totalmente differente rispetto a quello che può intercorrere tra una scienza -­‐per es. la fisica-­‐ e le sue possibili applicazioni pratiche), sia per segnalare il fatto che nella medicina come scienza e come arte l'oggetto non è un corpo qualsiasi, ma il corpo della persona umana. 104 L'esigenza di Jonas è condivisibile, ma si può conservare questa sua esigenza senza giungere all'eliminazione della distinzione che abbiamo posto. Lo scopo conoscitivo di una scienza, infatti, non può essere ricavato guardando all'intenzione del soggetto che fa scienza[7]. Il ricercatore che studia il corpo umano può avere come scopo l'applicazione pratica del suo sapere, ma lo scopo della sua ricerca non è l'applicazione stessa, ma la scoperta, per esempio, del come avvengano i processi fisiologici del corpo umano. In questo senso possiamo perciò distinguere la scienza medica dall'arte medica. Solo la seconda è in sé determinata alla guarigione e alla cura: la prima, infatti, potrebbe sussistere anche in assenza della possibilità di applicazione. Così, per esempio, le conoscenze anatomiche sono condizioni necessarie, ma non sufficienti per l'esercizio della chirurgia e sussisterebbero anche qualora mancassero gli strumenti tecnici per operare. Ciò che, infatti, determina la non neutralità assiologica di una scienza (la sua rilevanza morale) non è il suo carattere di scienza, ma il suo modo di ottenere la conoscenza. Le scienze sperimentali, infatti, non sono "neutre" soltanto perché il loro modo di ottenere i risultati, a differenza di quanto avviene in altre scienze speculative (come, per es. le matematiche o la stessa filosofia) è "pratico", cioè comporta una trasformazione e un intervento sull'oggetto di studio. La medicina come scienza richiede una valutazione etica non perché avrebbe, come dice Jonas, il medesimo scopo dell'arte medica, ma perché (e questo è evidente nel suo lato sperimentale, dove si coniuga sia l'esigenza di dare beneficio ad un paziente, sia il desiderio di conoscere l'effetto, poniamo, di un farmaco) per ottenere la conoscenza deve intervenire quasi sempre (ci sono anche aspetti di pura osservazione nella stessa scienza medica) sul suo "oggetto di studio". Ed è in riferimento all' "oggetto di studio" della medicina che emerge la peculiarità di questa "scienza". Infatti, sia la scienza sia l'arte medica hanno a che fare con il corpo umano, che è il corpo della persona umana. Va subito detto che, a motivo della struttura multidisciplinare della scienza medica, molte volte la ricerca si svolge su parti del corpo (su cellule o su organi) e non sempre sul corpo vivente della persona (come avviene, per esempio, nell'ambito della sperimentazione farmacologica nella sua fase finale). Pertanto, sul versante della scienza medica possiamo affermare che essa può a giusto titolo rivendicare una "neutralità" assiologica e una sua autonomia dalle considerazioni etiche soltanto in quanto ha come scopo la conoscenza.. Per neutralità intendiamo affermare che, quando consideriamo una scienza come tale, l'etica riguarda l'attività del ricercatore (che deve essere onesto, deve rispettare i metodi propri della ricerca stessa, deve essere veritiero e via dicendo), e non la scienza stessa. Questa osservazionevale per ogni attività di ricerca dell'uomo, ma non è più sufficiente laddove il modo del conoscere si attua attraverso un intervento pratico su una realtà che è in sé dotata già di valore intrinseco, come è appunto la corporeità vivente della persona umana. Scienza medica e arte medica si trovano a condividere la medesima responsabilità morale laddove la ricerca si svolge inmodo pratico sull'uomo concreto, che è unico ed irripetibile. Questa rilevanza etica diventa più chiara se prendiamo in esame l'arte medica. A questo proposito vale la pena di citare ancora Jonas, e per esteso, perché ci sembra che le sue considerazioni siano estremamente pertinenti. "Un tratto essenziale dell'arte medica è dunque che il medico ha ogni volta a che fare con il suo simile e ogni volta tipicamente al singolare. Il paziente si aspetta e deve confidare sul fatto che la cura sia finalizzata a lui solo. Più specificamente, però, se prescindiamo dalla psichiatria, l'arte medica è volta al corpo tramite cui l'uomo appartiene al regno degli organismi animali, è cosa di natura tra cose di natura e in questo senso rientra nella scienza della natura. Ma si tratta di un corpo di una persona (…) Per consentire a una persona di vivere, il corpo deve essere aiutato. Il corpo è l'elemento oggettivo, ma è il soggetto ad essere in gioco. " [8] 105 Il corpo (sia esso sano o malato) è l’oggetto della considerazione medica, ma si tratta di un “oggetto” particolare, poiché il corpo umano vivente è sempre il segno della persona umana, cioè della soggettività. Il corpo umano vivente esprime bene il significato originario del termine “persona”, cioè di quella “maschera” che mentre permette di identificare un soggetto ne nasconde l’identità profonda, la sua “personalità” umana. Da questo punto di vista, è abbastanza evidente il fatto che non ci si preoccupa di una persona malata senza passare attraverso la sua corporeità: il corpo vivente è “segno”, più o meno opaco, della persona umana che, pur eccedendo la corporeità, non è mai senza il corpo. Ogni violenza fatta al corpo umano è anche una violenza fatta alla persona umana. Il corpo umano vivente si colloca, per così dire, come il luogo di confine tra la pura materialità e la pura spiritualità: situazione-­‐limite ben espressa dalla possibilità di considerarlo soltanto alla luce deiprocessi biochimici che lo connotano o attraverso l'eccedenza delle attività umane (che non sono soltanto attività mentali) che lo qualificano. Proprio questa struttura dell'umano fa sì che l’arte medica si costituisca sempre nei termini di una relazionalità interpersonale anche quando l'esercizio della professione si svolga sopra il corpo e verso il corpo. Ma anche il “corpo” studiato dalla scienza medica e dall’anatomia non è mai, in ultima analisi, soltanto “un corpo”, anche se la sua struttura può essere considerata a partire da discipline differenti, che lo “dissezionano” secondo la logica conoscitiva di diverse forme di sapere (dalla biochimica alla fisiologia), come se fosse un corpo qualsiasi. Proprio a questo livello si pone, ci sembra, l'intrinseca necessità tanto per la medicina quanto per l'arte medica di instaurare una chiara relazione con le conoscenze antropologiche ed etiche. La medicina, infatti, richiede anche una competenza di stampo antropologico e filosofico proprio perché il suo oggetto è il corpo umano e le conoscenze "oggettive" del corpo trascurano quella componente "soggettiva" che specifica il corpo come corpo umano. Non solo: ma la stessa "malattia" porta con sé il duplice livello del dolore corporeo e della sofferenza psicologica ed esistenziale. Non si dà comprensione del fenomeno "malattia" senza un riferimento al "vissuto" del malato e senza quindi fare i conti con gli aspetti della soggettività. L’unità psicofisica dell’uomo concreto impedisce alla medicina di stabilire un confine netto, un punto di demarcazione tra dove inizia lo spirito e dove finisce il corpo e impone al medico una consapevolezza antropologica che trascende quanto ha appreso sull'uomo in termini di scienza "naturale". In base a questa consapevolezza, la medicina può considerare il corpo vivente umano in tutte le sue fasi, dalla generazione alla morte, come segno della persona umana. Ma non solo sul versante, per così dire, dell'"oggetto" della scienza e dell'arte medica si impone la questione antropologica (il "chi è"? l'uomo) e morale (che cosa è bene o lecito fare per conoscere meglio il corpo umano e per prendersi cura di questo uomo?), ma anche sul versante del "soggetto" della ricerca e dell'arte medica si impongono delle considerazioni morali. E questo per almeno due motivi di fondo. Il primo, perché è necessario riconoscere come “bene” morale la dedizione per la salute concreta dell’uomo vivente per dedicarsi alla cura degli altri; il secondo, perché non c’è cura o studio del corpo che non sia anche interazione con la persona umana e, quindi, non tutti i modi del conoscere e del curare sono rispettosi della persona umana vivente. Da questo punto divista, possiamo inoltre affermare che la fonte specifica dell’arte medica è sempre di stampo extrascientifico. L'arte medica non si attua in nome del sapere sperimentale sulle strutture della corporeità umana, ma in nome del riconoscimento del valore intrinseco dell’uomo vivente e, quindi, del valore della salute come condizione che contribuisce all’espressione della personalità umana.. In fondo, a ben vedere, la medicina è il maggior progetto anti-­‐darwiniano della storia, poiché opera contro la pretesa selezione "naturale" che privilegia l'avvento del più forte e del più sano. Sarebbe interessante, ma esula dallo scopo di questa riflessione, mostrare come sia difficilmente 106 conciliabile una lettura "naturalistica" dell'umano di stampo darwiniano o neodarwiniano con lo scopo dell'arte medica. Possiamo anzi dire, a conclusione di questa prima analisi, che il rapporto tra arte medica e scienza medica è, dal punto di vista cronologico, inverso rispetto a quello metodologico: è stato uno scopo pratico a rendere sempre più necessario un approccio scientifico all'uomo, anche se è oggi evidente che nessuno scopo pratico può avvenire senza premesse scientifiche. In termini generali possiamo allora fare questa osservazione: lo scopo della ricerca è la conoscenza; la conoscenza è un valore morale in sè, ma la conoscenza è sempre conoscenza di qualcosa: il valore della conoscenza perciò, non può collidere o eliminare il valore del “conosciuto” senza eliminare anche il valore morale della stessa conoscenza. Il valore del conosciuto impone che i mezzi per conoscerlo adeguatamente ne rispettino i caratteri. Tutto ciò risulta evidente quando questo "conosciuto" e "conoscibile" si identifica con il corpo personale, cioè con il corpo umano. La medicina, come scienza e non soltanto come arte, quindi, implica che si sappia chi è l'uomo di cui si studia il corpo. Il metodo della bioetica, tra descrittivo e prescrittivo Il carattere interdisciplinare della bioetica è stato espresso fin dall’inizio dalla ormai celebre definizione proposta nel 1978 dall’ Encyclopedia of Bioethics: "studio sistematico del comportamento umano nel campo delle scienze della vita e della salute, in quanto questo comportamento è esaminato alla luce di valori e principi morali"[9]. La definizione della bioetica, come è noto, resta ancora un problema aperto, in quanto resta ancora da definire con chiarezza quale sia il suo statuto epistemologico[10]: in particolare resta aperta la questione se la bioetica possa o no assolvere ad un compito prescrittivo, o si debba limitare all’aspetto descrittivo o di chiarificazione dei problemi che affronta. Decidere per una bioetica soltanto descrittiva o anche prescrittiva significa, in ultima istanza, decidere se l’etica della bioetica riesce a superare l’impasse in cui si è trovata gran parte della filosofia morale contemporanea che ha assunto come proprio modello teorico l’impianto analitico. Resta comunque il fatto che, mentre sul piano della scienza medica l’interdisciplinarità può assolvere ad un compito descrittivo, quando si entra nell’ambito dell’arte medica emerge come inevitabile il problema del che cosa si deve fare.L’arte medica, per sua stessa natura, richiede un momento prescrittivo. Ed è proprio quando la bioetica è chiamata a gestire dei contenuti problematici che emerge l’esigenza di stabilire un metodo che permetta di indicare ciò che si deve fare, e non soltanto ciò che di fatto si fa. Per quanto riguarda il metodo della bioetica, vale la pena prendere in esame la proposta di E. Sgreccia, che si è imposta come punto di riferimento delle ricerche del Centro di Bioetica dell’Università Cattolica (e non soltanto di questo). Questo metodo è stato presentato attraverso la figura della triangolazione: esposizione del fatto biomedico, approfondimento del significato antropologico, individuazione dei valori in gioco. La figura del triangolo[11], nella sua geometrica chiarezza permette di individuare ciò che possiamo definire le “emergenze” teoriche della questione bioetica: rappresentata appunto dai tre vertici del triangolo. La figura, peraltro, esprime la necessità che siano presenti tutti e tre i vertici teorici: se ne venisse a mancare uno, verrebbe a mancare la figura stessa. Se abbiamo ben inteso la proposta di Sgreccia, il significato simbolico del metodo della triangolazione ci permette di affermare che la bioetica non è definita soltanto dalla presenza di questi “vertici” tematici, ma dalla loro connessione, che permette appunto di tracciare un itinerario. Se leggiamo la proposta metodologica di Sgreccia, rappresentata da questa figura, alla luce delle concrete tesi che egli ha svolto nel suo Manuale, emergono diversi aspetti dell’interdisciplinarità, sui quali è opportuno riflettere. La relazione “triangolare” tra bio-­‐medicina, antropologia, etica, 107 infatti, si assesta su due piani: dapprima permette una chiarificazione del tema (momento descrittivo) che è fatto oggetto della riflessione bioetica, poi segue un momento prescrittivo, in cui, però le conclusioni sono guadagnate discutendo quelle prospettive metaempiriche che di fatto sono presenti nei due dei lati della figura triangolare. In questo modo la bioetica si presenta secondo una connotazione tanto valutativa quanto critica. Valutativa, perché lo scopo della bioetica non è quello semplicemente di descrivere l’insieme dei dati che entrano in una relazione che si presenta più o meno problematica, ma di proporre delle soluzioni a questi stessi problemi: e si tratta di soluzioni di natura etica, e perciò prescrittivi. La connotazione etica della bioetica, pertanto, non si mostra secondo una improponibile logica deduttiva, ma grazie ad un’interazione sistematica delle diverse forme del sapere che trovano la loro conclusione in un giudizio di coscienza (premessa del giudizio ultimo pratico, cioè dell’azione vera e propria), cioè in una valutazione di ciò che è bene fare qui ed ora. Ora, questo metodo si distingue dal proceduralismo di altre prospettive sia per la sua connotazione contenutistica, che ha il suo perno in una concezione sostanzialistica della persona umana, sia per la sua struttura critica o, se si preferisce, dialettica. Non va, infatti, trascurato che, se abbiamo ben inteso l’itinerario argomentativo di Sgreccia, la concezione etica ed antropologica che egli propone è chiaramente di stampo cognitivista, e pertanto si muove nella convinzione che si possano guadagnare alcune verità intorno all’uomo e alla sua prassi, riconoscibili in linea di principio da tutti. In questa figura “triangolare” emerge, peraltro, il significato analogo della verità, che resta il terreno sul quale costruire una valutazione morale. I tre lati del triangolo possono essere tracciati perché c’è qualcosa che accomuna i tre vertici e li rende comunicanti pur nella differenza: ed è appunto il significato analogo della verità. Se l’immagine dell’umano e del valore della sua esistenza e della sua prassi (cioè l’antropologia e l’etica) fossero soltanto il frutto storico culturale delleopzioni del singolo e delle comunità, allora non si comprenderebbe in base a che cosa si potrebbero avanzare delle pretese nei confronti dell’attività scientifica, che resterebbe l’unica ancorata al criterio del vero e del falso.Ma proprio perché tutte e tre le discipline, secondo i metodi che le caratterizzano, hanno a che fare con la verità, sono in grado di comprendersi ed interagire nell’itinerario di valutazione di ciò che è in gioco nella prassi umana. Nella prospettiva di Sgreccia, infatti, la bioetica non sorge dalla somma delle competenze, ma emerge come disciplina nella costruzione di un itinerario (il triangolo) che ha la sua realizzazione laddove il giudizio di coscienza è formulato in base alle verità acquisite ed integrate. Il momento prescrittivo, che indica indubbiamente come l’oggetto formale della bioetica sia di stampo etico, non è pertanto frutto di una pura deduzione dai principi morali, ma sorge dentro un complesso itinerario teorico che tiene conto dei diversi approcci alla realtà, resi possibili dall’attività conoscitiva dell’uomo. Questo riferimento alla prassi conoscitiva che accomuna queste discipline è il fondamento della legittimità della valutazione etica. L’etica, infatti, ha sempre come oggetto le azioni umane e, quindi, non si trova “fuori luogo” laddove interviene per individuare i beni che sono in gioco: beni che riguardano anche la scienza dal suo interno, perché essa è sempre e comunque espressione dell’umano e della verità della sua condizione. Il carattere dinamico di questo processo ci permette di evidenziarne anche la portata dialettica: la stessa verità sull’uomo, nelle sue molteplici dimensioni, è, infatti, anche un guadagno teoretico, e non soltanto un’eredità del pensiero classico. In questa prospettiva, allora, si comprende lo sforzo per ritrovare le ragioni che fanno dell’antropologia e dell’etica un sapere, che si assesta discutendo ed argomentando, prendendo sul serio le tesi che a questo itinerario si contrappongono. Questo modello teorico rende la bioetica un’impresa teoreticamente dinamica non soltanto perché ha a che fare con le scoperte scientifiche che vengono di volta in volta riproposte, ma perché tiene anche conto delle diverse modalità con le quali l’uomo 108 contemporaneo percepisce, in modo più o meno adeguato, la propria identità e l’insieme dei valori che lo connotano come uomo. Ora, è importante sottolineare che questo impianto argomentativo è metodologicamente caratterizzato dalla capacità di confrontarsi sia con le istanze dell’ateismo e della secolarizzazione, sia con le proposte della fede e della teologia, cattolica e non. Si tratta dell’ impianto metodologico e non semplicemente della volontà dell’Autore: è, infatti, proprio della struttura dialettica ed argomentativa della ragione la capacità di considerare tutto ciò che le si presenta come in grado di contribuire alla scoperta della verità. Questa capacità metodologica di non escludere a-­‐priori nessun interlocutore, e di saper distinguere la fonte di una tesi dal valore in sé della tesi stessa, permette di fornire un’indicazione precisa alla vexata quaestio del pluralismo etico, che vorrebbe ricondurre anche la bioetica ad una provincia dei singoli territori nei quali si dividerebbe la mappa dell’etica. Nessun dubbio sul fatto che l’etica sia terreno di scontro e di differenze: ma questo fatto non può pretendere alcuna normatività, anzi ne richiede proprio il superamento. Superamento richiesto dal fatto che quando si mette a tema il bene morale si mette a tema l’umano che c’è in ognuno di noi: quando si agisce in nome della morale si agisce in nome dell’umanità e perciò si interpella ogni uomo come soggetto morale. Da qui deriva la spinta al confronto e alla discussione, animata dallo spirito della ricerca della verità e non dall’esigenza del dominio e del puro consenso. A chi ha una formazione scientifica, empirica, potrà sembrare che questa impostazione rischi di essere conflittuale, a fronte delle modalità assertorie con le quali le quali si trasmettono i risultati scientifici: ma è un’impressione erronea, che non tiene conto della specificità metodologica del sapere filosofico e dimentica che questa dimensione dialettica è analoga alla logica dell’ipotesi e della verifica con la quale si costruisce il sapere sperimentale. Mantenere questa consapevolezza metodologica potrebbe essere un ottimo antidoto anche nei confronti di possibili derive ideologiche che potrebbero condizionare la trasmissione di alcuni contenuti bioetici: nella trasmissione dei contenuti, infatti, è necessario aver cura di indicare anche le ragioni che li supportano e le tappe dialettiche che ne hanno permesso la formulazione. Certo, questa impresa non è di facile attuazione in un contesto culturale che sembra oggi privilegiare una linea ermeneutica che, in nome di un inventario delle possibili ed indefinite letture della realtà, rifiuta di pensare la stessa possibilità della soluzione ai problemi etici. Ma questo è un tema che qui non possiamo affrontare. Linee conclusive Per prima cosa è opportuno ricordare che c’è un nesso intrinseco tra tutte le attività umane e la questione morale: per usare l’espressione tomistica idem sunt actus morales et actus umani. Come è noto, per Tommaso, gli atti umani sono quelli liberi e consapevoli, dei quali possiamo “rispondere”, che determinano progressivamente la nostra personalità morale e la nostra capacità non soltanto di fare il bene e il male, ma di essere buoni o cattivi. Da qui deriva un fatto: tutte le attività umane, considerate dal lato del soggetto, hanno a che fare con la morale. Su questo aspetto si fonda l’esistenza della deontologia sia come mezzo per ottenere risultati confacenti allo scopo specifico della ricerca medica (valore dell’onestà intellettuale, della precisione, e via dicendo), sia come mezzo perché il singolo agente, attraverso le sue opere, rispetti e promuova la propria identità morale. Questo aspetto “immanente”, deontologico,non può però essere né l’unico né il fondamentale tema da affrontare laddove si parla di interdisciplinarità. In termini paradossali potremmo esprimere il limite della riduzione dell’etica a deontologia professionale ricordando che anche per ottenere scopi cattivi possono essere richieste virtù (cioè abilità) morali: così occorre serietà, impegno, precisione anche per 109 costruire un’arma letale, ma questa profusione di virtù non rende lo scopo in sé buono e apre la questione delle responsabilità del soggetto agente e della loro estensione. L’interdisciplinarità emerge con un’altra esigenza, quella della valutazione sia dei mezzi sia degli scopi dell’attività biomedica: qui la questione etica trascendela ricerca stessa, e si costituisce secondo una valenza “architettonica”. La valutazione morale non mina l’autonomia disciplinare in quanto tale, ma la considera in funzione di un’altra prospettiva disciplinare. Questa impostazione è già sottesa, per esempio, al convincimento diffuso checiò che si può concretamente fare non coincide di per sé con ciò che è moralmente bene fare. Si noti che è possibile anche un rapporto differente, cioè si può dare una valutazione medica di una prassi morale, come valutazione estrinseca e non per questo lesiva dell’autonomia della morale stessa. Poniamo, a titolo di esempio, la legittimità di interrogarsi circa la salubrità o no di un digiuno prolungato, dettato da criteri religiosi, o di portare a termine una gravidanza rischiosa. Un’azione può così essere “buona” moralmente, ma anche “nociva” dal punto di vista della salute: a livello conoscitivo è così possibile invertire le relazioni tra le varie discipline. Il carattere della interdisciplinarità, infatti, permette lo scambio delle parti, senza che per questo venga determinata (in linea di principio) una violazione dell’autonomia delle singole discipline correlate. La necessità della valutazione morale, come abbiamo cercato di provare, deriva dalla caratterizzazione pratica della scienza e dell’arte medica. Le considerazioni finora svolte sul versante della morale possono essere facilmente estese sul piano antropologico, distinguendo, anche in questo caso, una relazione intrinseca ed una relazione estrinseca. Da una parte, infatti, la ricerca sul corpo dell’uomo richiede una concezione dell’uomo e non soltanto una conoscenza della sua struttura biologica, anatomica, chimica e fisica per il semplice motivo che queste strutture non esistono in astratto, ma sono qualificate dalla condizione umana stessa. La peculiarità umana è anche la peculiarità qualificata della corporeità umana. Un’ultima annotazione, di tipo storico, si impone. Per lungo tempo la medicina, come arte e come scienza, non ha avvertito la necessità di una connessione strutturale con le discipline filosofiche semplicemente perché essa assumeva dall’ambiente culturale nel quale operava le categorie antropologiche ed etiche. Per molto tempo la medicina è stata “naturalmente” cristiana semplicemente perché si era formata e sviluppata in una Weltanschauung cristiana. Oggi la situazione è profondamente diversa, perché il contesto culturale è contrassegnato da diverse forme di secolarizzazione e perché non si può più parlare, a livello sociologico, di un indiscusso primato dell’umanesimo di stampo cristiano. Non esiste più, a livello sociologico, una concezione omogenea alla quale fare riferimento: il “buon senso” non è in grado di supplire alle specifiche conoscenze antropologiche ed etiche. Da questa situazione storico-­‐ambientale deriva le necessità di guadagnare a livello teorico molte delle categorie che, per lungo tempo, hanno fatto da “sfondo” naturale e non conflittuale alla biomedicina occidentale. Il futuro della scienza e dell’arte medica richiede una nuova consapevolezza sul piano delle conoscenze e delle competenze etiche ed antropologiche. 110 1] Tra i numerosissimi studi dedicati alla storia delle scienze e al loro rapporto con la filosofia, ci limitiamo a ricordare qualche testo: A. Koyré, Dal mondo Chiuso all'universo infinito, Feltrinelli, Milano 1970; A.C. Crombie, Da S. Agostino a Galileo. Storia della scienza dal Val XVII secolo, Feltrinelli, Milano, 1970; P. Rossi, I filosofi e le macchine (1400-­‐1700), Feltrinelli, Milano 1972. [2] Una riedizione di questa polemica, nel nostro secolo, si è realizzata a partire dalla riflessione intorno alla tecnica e al rapporto che essa intrattiene con la cultura umanistica. [3] Tommaso d’Aquino, Summa Teologiae, I. q.1, a 2. [4] Può essere utile rileggere il sintetico ed interessante contributo di M. Lenoci, La ragione umana tra scienza e filosofia, in S. Zaninelli, Scienza, tecnica e rispetto dell'uomo. Il caso delle cellule staminali, Vita e Pensiero, Milano 2001, pp. 27-­‐38. [5] Su questi temi cfr. D. Callahan, La medicina impossibile, trad. it., Baldini & Castaldi, Milano 2002e il recente Pareredel Comitato Nazionale per la Bioetica dal titolo Scopi, limiti e rischi della medicina, 14 dicembre 2001. [6] H. Jonas, Tecnica, medicina, etica, trad. it., Einaudi, Torino 1997, p. 110. [7] Se guardiamo alle intenzioni del soggetto conoscente non possiamo a distinguere tra scienze pratiche e scienze speculative: dal fatto, per esempio, che l’intenzione di un matematico sia quella di ottenere il premio Nobel con le sue ricerche non si può evincere nulla sulla natura della matematica. [8] H. Jonas, op. cit., p. 111. [9] Cfr. W. T. Reich (a cura di) Encyclopedia of Bioethics, 4 voll., The Free Press, Ney York, 1978, Introduction, p. XIX. [10] Per una sintetica analisi del problema mi permetto di rinviare a A. Pessina, Bioetica. L’uomo sperimentale, B. Mondadori, Milano 1999. [11] Cfr. E. Sgreccia, Manuale di Bioetica, vol I, Vita e Pensiero 1999(3° ed), pp. 63-­‐64. La stessa figura metodologica è utilizzata nell’analisi della relazione tra i diritti del malato e quelli del medico (cfr. p. 244 e ss.). 111 ROBERT SPAEMANN
ARS LONGA, VITA BREVIS Quello che noi oggi indichiamo con la parola "scienza" non è la stessa cosa che era chiamata con questo nome fino al sedicesimo secolo. E' bene essere consapevoli di questa differenza se ci si vuole fare un'idea adeguata di quello che fa la scienza moderna. Episteme o scientia erano sostantivi derivati dal verbo "sapere". Sapere è uno stato relazionale dell'anima, è l'habitus di un uomo. Un habitus: che qualcuno sa qualcosa non significa che debba pensare attualmente a quello che sa, ma significa invece che, se ci pensa, lo pensa correttamente e con certezza e più precisamente con una certezza che conosce le proprie ragioni come ragioni definitive. Questo differenzia il sapere dall'opinare e dal credere. In quanto concetto relazionale il sapere non è un fenomeno puramente psicologico. Dal punto di vista psicologico il sapere non è distinguibile da una convinzione sbagliata. Vi sono convinzioni sbagliate, opinioni sbagliate, credenze sbagliate. Non vi è invece sapere sbagliato, perché la verità, l'"adaequatio rei et intellectus", fa parte della definizione del sapere. Se io credevo di sapere qualcosa e in seguito arrivo a una convinzione diversa, questa nuova convinzione implica che la convinzione precedente era pure una convinzione ma non era sapere. Il sapere viene attualizzato quando pensiamo coscientemente a quello che sappiamo, ma viene attualizzato anche senza che noi ci pensiamo attraverso il nostro comportamento. Andiamo in un posto passando da una certa strada perché sappiamo che questa strada porta in quel posto. Se percorriamo spesso quella strada non abbiamo bisogno ogni volta di rendere cosciente questo sapere. In generale il sapere ci dà la possibilità di raggiungere quello che vogliamo, posto che sappiamo che cosa vogliamo davvero. Il sapere pratico nel senso classico della parola non era soltanto e neppure innanzi tutto know how, ma sapere di ciò che l'uomo vuole davvero e soprattutto. E poiché ogni uomo in fondo desidera essere felice, quello che deve sapere è in che cosa consista la felicità, l'eudaimonia, la beatitudo. Aristotele ha insegnato che la più alta forma di felicità consiste essa stessa nell'attualizzazione del sapere teoretico più elevato, nella theoria, ovvero nella contemplazione delle realtà eterne, necessarie e immutabili e non di quelle terrene, contingenti e mutevoli. La theoria non serve alla praxis ma ne è essa stessa la forma più alta. Per Platone questo sapere supremo è la conoscenza del Bene. Alla fin fine ogni sapere è sapere soltanto se è fondato sulla conoscenza del Bene in quanto questo è "la causa della conoscenza e della realtà" di tutte le cose. Che cosa sia un coccodrillo lo si sa soltanto se si sa che cosa distingue un coccodrillo ben riuscito da uno mal riuscito, un coccodrillo sano da uno malato. E chi dicesse di sapere che cosa è un coltello, ma non fosse in grado di distinguere un coltello affilato da uno che non taglia, in realtà non sa che cosa è un coltello. Il concetto classico di sapere presuppone una visione teleologica della realtà. Sapere veramente significa comprendere una struttura teleologica. E abbiamo davvero compreso che cosa sia l'indefinibile "Bene in sé" quando questo determina il nostro comportamento. Chi fa il male, dice Platone, evidentemente non conosce veramente il bene. E così ancora san Tommaso insegna che nessuno fa volontariamente il male ovvero ciò che non è desiderabile. La colpa dell'azione cattiva è sempre preceduta da un errore colpevole rispetto a ciò che è desiderabile qui e ora ovvero rispetto al bene. Ancora Dante scrive che l'inferno è il luogo di coloro "c'hanno perduto il ben dell'intelletto". Per questo la tradizione della filosofia classica sostiene che la prudentia è la più alta delle virtù cardinali. Ciò che più importa in questa caratterizzazione della scienza è che il sapere è sempre e soltanto lo stato di un singolo uomo reale. Non è possibile che qualcosa "si" sappia. Vi è la convinzione 112 comune di più uomini. Ma una tale convinzione può diventare sapere sempre e soltanto in un uomo concreto. Soltanto un uomo concreto può essere sapiente. Ma il sapere nel senso tradizionale culmina appunto nella sapienza. Il desiderio di sapere è un tratto fondamentale dell'uomo. "Tutti gli uomini per natura tendono al sapere": con queste parole inizia la Metafisica di Aristotele. Come prova empirica di questa caratteristica degli esseri umani Aristotele cita il fatto che essi provano piacere nel vedere, anche indipendentemente da ogni utilità pratica e da ogni riferimento all'azione. Questo desiderio di sapere fine a sé stesso è stato considerato criticamente dai dottori cristiani. L'influenza maggiore la ebbe la critica della curiositas di Agostino. Si può leggere questa critica come una radicalizzazione della dottrina platonica della conoscenza del "Bene in sé" ovvero del Bene supremo. Per Platone si può parlare di sapere in senso stretto soltanto se ciò che è saputo viene fondato fino ad arrivare al fondamento ultimo che è il Bene in sé. Solo pochi sono in grado di farlo, i filosofi. Affinché lo Stato sia ordinato, negli altri devono essere coltivate opinioni corrette cui essi si adeguino senza comprenderle più profondamente. Il cristianesimo ha democratizzato la filosofia platonica: tutti sono chiamati ad arrivare alla conoscenza della verità, cioè alla conoscenza di Dio. La fede non è doxa, opinione nel senso che l'Antichità dava a questa parola, ma sapere che poggia sulla rivelazione che Dio ha fatto di sé e che ha una certezza tale da superare il sapere acquisito dall'uomo con i propri mezzi. Infatti nei confronti di noi stessi possiamo e dobbiamo diffidare. Ma nel caso della fede vale il detto dell'Apostolo: "Scio cui credidi". Perciò, a differenza che per Platone, per Agostino il desiderio terreno di sapere fine a sé stesso va condannato come curiositas. Il desiderio di sapere è giustificato soltanto quando il sapere è utile per la vita degli esseri umani oppure come mezzo per la conoscenza di Dio. La conoscenza di Dio è fine a sé stessa in quanto Dio è lui stesso il fine e la conoscenza sfocia nel "frui Deo", nella dedizione amorosa a lui. La conoscenza del finito, invece, quando non sia utile nel senso che si è detto, termina nell'autocompiacimento, nell'"amor sui usque ad contemptum Dei". Tommaso cerca di conciliare Aristotele e Agostino, non soltanto riconoscendo il desiderio di sapere come costante antropologica, ma vedendo in esso la realizzazione del fatto che l'uomo è immagine di Dio. In questo senso ogni sapere in quanto tale contiene già di per sé un riferimento a Dio in quanto origine della verità. Il vizio della curiositas consiste perciò soltanto nel recidere questo riferimento ovvero nella ricerca di un sapere che pregiudizialmente rifiuti ogni riferimento a questa origine. Ciò che muove il ricercatore è allora soprattutto la superbia, vanità e ambizione, e non l'amore della verità. E' interessante il fatto che in un passo Tommaso definisce la curiositas come una forma di acedia, la pigrizia spirituale. Per perseguire il suo fine ultimo l'uomo deve mettere in gioco le sue energie più profonde. Quando, in conseguenza della "fuga finis",questo non accade, l'uomo si trascina per così dire senza meta tra la massa infinita dello scibile. Hans Blumenberg, nel suo libro La legittimità dell'età moderna, ha indicato la riabilitazione della curiosità teorica come una caratteristica fondamentale di tale epoca. Questa tesi appare corretta soltanto a patto che teniamo presente che il concetto di scienza si è al tempo stesso profondamente trasformato. Voglio caratterizzare questa trasformazione evidenziandone quattro fattori. 1) Oggetto della scienza non sono più le strutture teleologiche della realtà ma nessi causali regolari. 2) Il sapere non è né sapere pratico né theoria nel senso di contemplazione di ciò che è conosciuto; ciò che è conosciuto teoricamente è il presupposto su cui si basano delle applicazioni pratiche oppure è uno stadio nel progredire infinito della ricerca. 3) Il sapere scientifico non è affatto sapere nel senso classico della parola ma ipotesi, opinione più o meno ben fondata, sempre falsificabile in linea di principio, giacché poggia non sull'intuizione di essenze, ma sul tentativo di ordinare da un punto di vista teorico i dati empirici. 4) La scienza non è il sapere di uomini concreti ma un'impresa collettiva che offre informazioni che a seconda delle 113 necessità possono essere acquisite parzialmente da uomini concreti al fine di ulteriori ricerche o di applicazioni pratiche. 1) L'ontologia classica è biomorfa. La realtà è fatta di cose con le loro proprietà e relazioni. Il caso paradigmatico di che cosa sia una cosa è il vivente. Il caso paradigmatico dell'essere nel senso dell'esistenza è il vivere. "Vivere viventibus est esse", si legge in Aristotele. Però che cosa sia un essere vivente e che cosa sia vivere, noi lo sappiamo innanzi tutto perché conosciamo noi stessi. Il caso paradigmatico del vivente è l'uomo e così questa ontologia in ultima analisi è antropomorfa. "Essere" non significa innanzi tutto essere oggetto, ma essere in sé. Ma è proprio del vivente l'"essere in cerca di qualcosa". Fintanto che viviamo, ci interessa qualcosa, foss'anche soltanto la sopravvivenza. Conoscere il vivente significa perciò conoscerne la struttura teleologica. Chi non sa a che cosa serve un polmone e come mai gli uccelli in inverno volino verso sud, non sa nulla dell'organismo dei mammiferi e non sa nulla degli uccelli migratori. La scienza moderna comincia con un rifiuto programmatico della considerazione teleologica della realtà. Questa, come scrive Francis Bacon, "sterilis est, et tanquam virgo Deo consecrata nihil parit", è sterile e non genera nulla come una vergine consacrata a Dio. L'Illuminismo ha poi realmente cacciato dai monasteri tutte le vergini consacrate a Dio a meno che non facessero qualcosa di utile come fare scuola ai bambini o curare i malati. Ma vediamo già in queste parole di Bacon il nuovo ideale di scienza: la scienza deve essere utile. Il sapere deve avere una utilità pratica oppure deve essere tale da generare nuovo sapere. Il sapere teleologico suscita il sospetto di essere un "asylum ignorantiae", una scusa per la "ignava ratio", la ragion pigra. Che i polmoni siano necessari per l'assunzione di ossigeno è una constatazione di per sé priva di interesse. Al massimo può avere un qualche valore euristico per un programma di ricerca che indaghi i processi microbiologici attraverso i quali i polmoni si formano e funzionano. Lo stesso vale per le migrazioni degli uccelli. La conoscenza di nessi causali regolari, però, a differenza della considerazione teleologica, porta all'apeiron, va all'infinito. E' interminabile. Per questo non può offrire alcun orientamento per l'azione, ma soltanto renderla più efficiente. 2) Per questo motivo la scienza moderna non è contemplazione ma ricerca. In quanto tale, però, essa non è come la theoria dell'Antichità, forma suprema della prassi, ma è al servizio di una prassi che mira alla progressiva sottomissione della natura. Il sapere teleologico è privo di ogni utilità ai fini del dominio della natura, anzi è piuttosto un ostacolo. Si possono condurre esperimenti sugli animali con meno remore se si ignora che gli animali soffrono. Il sapere causale ci insegna però come noi possiamo intervenire sulla natura. E questo sapere viene acquisito di solito soltanto attraverso tali interventi, cioè attraverso degli esperimenti. Conoscere una cosa ora non significa più comprenderla per così dire dall'interno, ma, come scrive Thomas Hobbes, "to know what we can do with it when we have it". Aristotele credeva -­‐-­‐ e questo è quello che io intendo sottolineare parlando di "ontologia biomorfa" -­‐-­‐ di poter comprendere perché le pietre cadono verso il basso. La scienza moderna si limita a constatare quali connessioni regolari vi siano dietro la caduta delle pietre, ma rinuncia a intendere il vivente in modo biomorfo e l'uomo in modo antropomorfo. La considerazione antropomorfa dell'uomo viene lasciata all'ermeneutica delle scienze umane, la considerazione biomorfa del vivente non ha più luogo. La vita non viene più compresa a partire dal vissuto umano, ma come un caso particolare di processo fisico, perché soltanto in processi fisici così intesi noi possiamo intervenire. Per questo, soltanto questa forma di sapere è utile. Possiamo chiarire questo passaggio da una scienza "comprendente" a una scienza "calcolante" considerando un esempio che consentì già a Leibniz di vedere chiaramente come stiano le cose. E' l'esempio del movimento. Nella tradizione classica il movimento in quanto continuo si sottraeva alla trattazione matematica. Appunto per questa ragione la fisica non poteva essere matematizzata, a differenza dell'ottica, nel cui caso si fa astrazione dal movimento e che può 114 essere trattata in modo puramente geometrico. La fisica matematizzata moderna divenne possibile soltanto grazie al calcolo differenziale e integrale che fu inventato contemporaneamente da Leibniz e da Newton. Questo permette di scomporre il movimento in stati stazionari con intervalli sempre più piccoli la cui sequenza è ora calcolabile. Il prezzo da pagare per la calcolabilità, tuttavia, è la scomparsa del movimento in quanto movimento ovvero in quanto continuo. A differenza di tanti scienziati moderni, Leibniz questo lo ha visto chiaramente e ha perciò introdotto il concetto di conatus che prende il posto del concetto aristotelico di dynamis e cerca di comprendere il movimento per così dire dall'interno. Tale comprensione non può fare a meno dell'idea di anticipazione. Il corpo in movimento nell'istante t1 si differenzia dal corpo immobile nello stesso istante per il fatto che il suo trovarsi in un altro luogo nell'istante t2 è già contenuto nella definizione del suo stato presente. Questo suona come un paradosso. Ma questa affermazione ha un fondamento nell'esperienza e più precisamente nell'esperienza che noi abbiamo delle nostre azioni. Si può definire un'azione soltanto caratterizzandone l'inizio attraverso il fine a cui si tende. Ogni definizione del movimento in quanto movimento contiene perciò un antropomorfismo occulto. Chi vuole evitarlo deve negare che vi sia una realtà quale quella del movimento e definire il movimento come ciò che il calcolo infinitesimale rende calcolabile: una successione di stati stazionari con una distanza minima l'uno dall'altro. Avendo compreso questo, Leibniz concepì due forme di scienza della natura che potremmo chiamare una "fisica dall'esterno" e una "fisica dall'interno", cioè una filosofia della natura che non tratta della realtà sotto l'aspetto della sua oggettivabilità, ma tratta della realtà in quanto tale. Questo può voler dire soltanto che ne tratta dal punto di vista della sua somiglianza con noi. Questa scienza non è antropocentrica come la scienza moderna, ma è antropomorfa. Né antropocentriche né antropomorfe sono soltanto due forme di sapere che per questo motivo secondo Platone devono essere strettamente legate tra loro: la matematica pura e la metafisica. La matematica tuttavia ha trovato nella conoscenza della natura un campo di applicazione che ha del prodigioso. Per la metafisica, invece, lo spazio si è ristretto. L'opera metafisica più significativa del ventesimo secolo è quella di un matematico, Alfred North Whitehead. E' un'opera rimasta solitaria. Dov'è nello scientismo moderno il posto per speculazioni metafisiche rigorose e degne di rispetto? Descartes si è espresso con chiarezza a tale proposito. Lo scopo della scienza è la sua applicazione finalizzata alla crescita della felicità umana. I campi di applicazione sono la meccanica, la medicina e la psicologia. Sono questi i frutti dell'albero del sapere. Il tronco dell'albero è la fisica. La radice è la metafisica. E' un cambiamento significativo. La metafisica classica vedeva sé stessa come il vertice degli sforzi teoretici dell'uomo. La theoria, scrive Aristotele, in realtà è qualcosa di più divino che umano. Per i dottori cristiani essa era un anticipo della visio beatifica. Per Descartes invece la metafisica è il mezzo con cui raggiungere in sé stessi la certezza e la stabilità che occorre avere nel momento in cui si intraprende l'avventura della scienza. Senza idee ontologiche a fare da fondamento tutto quello che facciamo resta campato per aria. Ma queste questioni non sono tali da occuparci per tutta la vita. Bisogna sbrigare questa faccenda una volta per tutte e eventualmente richiamare alla mente per poche ore ogni anno quello che abbiamo così compreso per dedicarsi nel tempo che resta alla "vita", di cui fa parte, per chi ne è ha la capacità, la scienza. Praticare la scienza diventa però per Descartes un dovere morale. Infatti ci possiamo permettere il dubbio metodico soltanto se con la scienza cerchiamo poi di rimuovere sistematicamente ogni dubbio e ci adoperiamo per promuovere la felicità dell'umanità. 3) Su questo punto tuttavia il cammino della scienza europea si è allontanato da Descartes. L'ideale di Descartes era di sostituire con la certezza il sapere soltanto probabile e plausibile. La scienza doveva progredire di certezza in certezza fino a divenire un sistema deduttivo completo. 115 In realtà la scienza europea ha fatto sua piuttosto la concezione degli empiristi. Ha rinunciato alla fondazione metafisica. Ha rinunciato all'ideale della certezza e ha rinunciato all'idea di compiutezza. Non conosce alcun sapere assoluto e perciò definitivo, ma soltanto ipotesi che vengono fondate sempre meglio e meritano una fiducia crescente a mano a mano che falliscono i tentativi fatti di falsificarle, sebbene non siano mai definitivamente sottratte al rischio di essere ridimensionate o rivoluzionate. 4) La rinuncia al sapere nel senso di certezza è una conseguenza necessaria del fatto che la scienza diventa una impresa collettiva in cui vale il principio della divisione del lavoro. Sapere o essere certi possono esserlo soltanto uomini concreti. Sapere è una condizione della ragione. Ma la ragione esiste soltanto come ragione individuale. Heidegger ha scritto: "La scienza non pensa". Si potrebbe anche dire: "La scienza non sa". La scienza, infatti, è un'astrazione ricavata dall'attività di tanti uomini diversi. Questi uomini possono arrivare a mettersi d'accordo in gran numero. Ma quello su cui sono d'accordo può anche essere un errore. Il consenso fonda una presunzione di verità. Ma l'atto per cui dal consenso deriva la certezza di una verità può essere soltanto un atto individuale. (J. H. Newman ha affrontato la questione del passaggio dalla probabilità oggettiva alla certezza soggettiva nella sua Grammar of Assent.) Si trovano qui peraltro le radici di un conflitto sempre latente nella scienza. Quello che dal punto di vista scientifico è a rigore una ipotesi falsificabile può diventare una certezza per il singolo scienziato. In questo caso lo scienziato difenderà questa ipotesi con una parzialità che contraddice l'ideale scientifico di Popper. E dai lavori di Kuhn e Lakatos abbiamo pure appreso che il processo secondo cui la scienza si sviluppa, in particolare il processo di sostituzione dei paradigmi non si svolge secondo l'ideale popperiano ma piuttosto in modo darwiniano. Le ipotesi di solito non vengono semplicemente confutate. Grazie al ricorso a ipotesi supplementari esse vengono puntellate da parte di coloro che le hanno care e rimangono così al sicuro finché non arriva una nuova generazione che ha nuove idee e per la quale, considerata l'efficacia del vecchio paradigma, non vale più la pena difenderlo. I paradigmi hanno del resto uno status diverso dalle teorie. Essi rappresentano un quadro teoretico normativo all'interno del quale devono muoversi le teorie che aspirino a essere prese seriamente in considerazione. Così la teoria dell'evoluzione ha oggi lo status di un paradigma. Lacune empiriche, obiezioni teoriche da parte della biochimica ecc. non portano a ripensare il paradigma e a sviluppare possibili alternative. Si dà per scontato in linea di principio che alle questioni aperte si troverà un giorno una risposta nel quadro di questo paradigma. La maggiore forza del paradigma sta nel fatto che dietro alle obiezioni che vengono sollevate non stanno teorie alternative che potrebbero rivendicare una analoga capacità esplicativa. La storia della scienza mostra però che le teorie che sono arrivate ad assumere lo status di paradigmi possono essere costrette alla resa soltanto da teorie alternative che possano vantare una capacità esplicativa dello stesso livello o più elevata e non da un "ignoramus". Gli argomenti contro la pretesa da parte della teoria dell'evoluzione di spiegare l'origine della vita e l'emergere della coscienza non hanno da offrire nessuna alternativa sullo stesso piano ma soltanto un "ignoramus". Per questo hanno scarse possibilità di successo. Nel caso della psicoanalisi di Freud le cose stanno diversamente. Certamente essa dispone di una strategia perfetta per immunizzarsi contro le obiezioni teoriche. Tuttavia essa è risultata impotente di fronte ai risultati di ricerche statistiche empiriche sul suo successo dal punto di vista terapeutico. Poiché i casi di guarigione di pazienti trattati con la psicoanalisi non sono più frequenti dei casi di guarigione spontanea, la psicoanalisi appare squalificata come terapia, quale che sia il parziale valore conoscitivo che resta ancora associato al suo studio. Il caso Galilei è una bella esemplificazione di quanto detto. L'Inquisizione dimostrò di aver compreso il principio della scienza moderna meglio di Galilei quando gli chiese di qualificare la 116 sua teoria come ipotesi. Qualsiasi astronomo moderno accetterebbe immediatamente di farlo, limitandosi ad affermare che le formule che si ricavano quando si faccia girare la terra intorno al sole sono molto più semplici e più "belle" di quelle che si ricavano nel caso contrario. Ammettere che il sole giri intorno alla terra comporta il ricorso a una quantità tale di costruzioni teoriche che ne vale la pena soltanto se è in gioco la verità della Rivelazione. Che questa non fosse in gioco i cardinali lo ritenevano possibile. Ma per considerare come davvero realizzata questa possibilità occorreva rivedere una serie di convinzioni condivise fino a quel momento. Si sarebbe voluto prendere in considerazione la possibilità di farlo soltanto se le idee di Galilei si fossero imposte con una necessità assoluta. Partita patta, insomma. Galilei vinse perché di fronte all'enorme valore esplicativo della sua teoria venne meno l'interesse a continuare a sostenere la teoria opposta accettando l'ipotesi estremamente artificiosa degli epicicli. La "nuova scienza" è diventata nel fattempo lo strumento più importante del dominio dell'uomo sulla natura. Ha facilitato il lavoro umano, migliorato la salute, prolungato la vita terrena, reso più comoda la vita e aumentato a dismisura la produzione di beni materiali. A causa del suo carattere non teleologico essa deve tuttavia rinunciare a offrire all'uomo un orientamento per il suo agire. Il sapere che essa mette a disposizione dà potere, non sapienza. E' chiaro perciò che accanto a questa scienza che permette di scoprire e di ordinare sistematicamente fatti e connessioni regolari tra fatti si afferma un'altra forma di ricerca scientifica che si occupa di quei fatti che senza una comprensione "dall'interno", senza comprensione del loro significato, non possono neppure essere percepiti ovvero i discorsi e le azioni degli uomini. In tedesco si parla di Geisteswissenschaften, in inglese di human o moral sciences, in francese di sciences sociales. La descrizione fisicalistica di una azione umana non la renderebbe neppure identificabile come azione e avrebbe piuttosto un effetto comico. Pascal parlò a questo proposito di "esprit de finesse" contrapponendolo all'"esprit de géométrie". Oggi parliamo di "ermeneutica", laddove tuttavia si dovrebbe parlare anche di una "ermeneutica della natura". La nozione di "informazione" sembra presentarsi oggi come un ponte tra human science e biologia. Non voglio adesso approfondire questa questione. La questione che desidero affrontare è quella delle implicazioni morali dell'idea moderna di scienza. Innanzi tutto è chiaro che una scienza non teleologica non può sicuramente essere quella guida nella vita che essa doveva essere stando ai proclami del Positivismo di un tempo. Ma ancora oggi gli scienziati vengono continuamente consultati pubblicamente in merito a questioni di carattere etico o politico. A questo proposito bisogna capire che la scienza moderna non è ipotetica soltanto nel senso che le sue risposte sono provvisorie e falsificabili, ma anche nel senso che nel migliore dei casi può essa dirci come raggiungere un obiettivo che noi vogliamo raggiungere e quali costi questo comporta. Quando la scienza ci voglia insegnare quale obiettivo noi dobbiamo perseguire e quale prezzo dobbiamo pagare per il suo conseguimento, la prudenza è d'obbligo. Pensiamo soltanto a quanti consigli ha già dato la pedagogia scientifica soltanto per poi constatare di essersi sbagliata. Emerge qui un problema di fondo che ha a che fare con il detto "ars longa, vita brevis". La scienza non "sa" perché non è una persona individuale. La scienza è un'impresa collettiva non limitata nel tempo. Per lei gli errori non sono qualcosa di negativo. Al contrario, essa può imparare dagli errori più che da verità ovvie. Il suo cammino significa "trial and error". Le cose stanno però in tutt'altro modo per le persone reali, finite e mortali, che subiscono le conseguenze di questi errori. Mi ricordo l'esclamazione di una infermiera di fronte al fatto che mi era stata diagnosticata una psittacosi: "Il dottore sarà contento di poter finalmente vedere una psittacosi!". Io non ero altrettanto contento. Una diagnosi sbagliata per la scienza non è una disgrazia, ma lo è per il paziente e per il medico ovvero per il medico in quanto medico, non in quanto ricercatore in campo medico. Gli interessi della scienza medica, infatti, non coincidono 117 con quelli della pratica medica che si regola sui bisogni del paziente. La consapevolezza di questa discrepanza fa parte naturalmente dell'ethos del medico. II E' importante rendersi bene conto che la scienza non ha un ethos e non può avercelo. Solo il singolo scienziato o una comunità concreta di scienziati costituita di persone singole può essere morale. E questo ethos dello scienziato si mostra sia nel servizio leale alla scienza sia nei limiti che sono posti a questo servizio. Questi limiti non sono i limiti del desiderio di sapere. La brama di sapere sembra essere una forza primitiva che cerca di sfondare tutti i limiti contro i quali si scontra. Non ci si deve fare un'idea troppo elevata di questa forza. Di per sé essa è moralmente indifferente. Il dominio della natura fa parte dell'affermazione di sé da parte dell'uomo. Ma i cristiani sanno bene che il potere dell'uomo dopo il peccato originale è ambivalente. La scienza moderna però dà potere. Il suo intreccio con la tecnica è sempre più inestricabile. Lo stato della tecnica prescrive in buona parte alla scienza le prospettive della sua ricerca e spesso la verifica di una teoria scientifica consiste in un grande evento come l'esplosione di una bomba atomica. La prima reazione alla bomba di Hiroshima da parte dei fisici nucleari tedeschi, come racconta Carl Friedrich von Weizsäcker, fu di stupore e di ammirazione: "Ma allora è possibile!". Quando oggi si chiede la disponibilità di embrioni a fini di ricerca, questo avviene perché altrimenti certe conoscenze non potrebbero essere acquisite. "La scienza" non può rinunciare a tali conoscenze, perché non può rinunciare a alcunché. Ma l'uomo che pratica la scienza può e deve rinunciarvi. Vi sono tuttavia conoscenze la cui acquisizione è come tale immorale. Non si tratta in questo caso di conoscenze scientifiche teoriche ma tecnico-­‐pratiche ovvero quelle conoscenze che chiamiamo know how. I fondamenti teorici della produzione di armi di distruzione di massa di per sé sono moralmente indifferenti. Ma l'"arte" di produrre tali armi non è un oggetto di conoscenza che sia lecito a qualcuno studiare. Tuttavia anche qui vi è una eccezione. Una volta che tale sapere già esista, può essere necessario acquisirlo per sapere come ci si può proteggere da questo nuovo male. Alle virtù della vita brevis nel rapporto con l'ars longa appartiene anche e soprattutto la consapevolezza di una certa incommensurabilità tra le due. Il presidente francese Pompidou era solito dire che ci si può rovinare in tre modi, con il gioco, con le donne e con i consigli degli esperti. L'esperto scientifico si muove nell'ambito di condizioni ideali. Egli deve necessariamente ridurre la complessità del caso singolo. Le sue informazioni sono importanti per prendere una decisione in un caso concreto, i suoi consigli possono essere sbagliati. L'esperto in quanto scienziato non deve essere infastidito da questo fatto. Egli, infatti, trova la sua soddisfazione nel poter dire a cose fatte perché i suoi consigli erano sbagliati e perché le cose sono andate in tutt'altro modo rispetto a quanto prognosticato. La scienza che osserva e ordina i fatti è incommensurabile con l'unicità di ogni singolo evento. Finora ho parlato soprattutto dei limiti etici e cognitivi della scienza. L'etica tratta soprattutto dei limiti delle nostre azioni. In linea di principio non vi sono limiti etici del sapere teorico. Nel racconto biblico del Paradiso terrestre Dio non ordina di rinunciare a una conoscenza ma di rinunciare a un'azione. La trasgressione del comandamento ha però come conseguenza una conoscenza che senza tale esperienza non sarebbe possibile, la conoscenza della differenza di bene e di male. Il sapere scientifico nel senso moderno, come ho cercato di mostrare, è per sua natura senza fine. Non ha limiti immanenti, soltanto gli restano inaccessibili certe dimensioni del reale, come i colori al daltonico o certe qualità musicali a chi non ha orecchio. I limiti etici del sapere con i quali la scienza deve confrontarsi in realtà non sono limiti del sapere, ma limiti dell'agire, che di fatto indirettamente mettono dei limiti anche al desiderio di sapere. Si tratta per un verso dei limiti di 118 ciò che possiamo fare per acquisire il sapere e per un altro verso dei limiti di ciò che possiamo fare per applicare il sapere acquisito. Sempre di più, peraltro, questi due tipi di limiti tendono a confondersi. Oggi come oggi è sempre più la tecnica che decide della possibilità di acquisire ulteriore sapere scientifico, perché questo sapere può essere acquisito solo con il dispiegamento di grandi mezzi tecnici. In medicina, del resto, è sempre stato vero che soltanto l'applicazione di quello che si ritiene essere un sapere verifica o falsifica l'ipotesi. E qui si può immediatamente vedere qualche caso esemplificativo delle limitazioni etiche di cui stiamo parlando. Le limitazioni a cui mi riferisco dipendono dal carattere della persona come fine a sé stessa. Kant ha formulato l'imperativo categorico affermando che non si devono mai usare gli uomini soltanto come mezzi. La parola "soltanto" è importante, perché ovviamente noi ci usiamo continuamente gli uni gli altri come mezzi per raggiungere i nostri fini. E ogni persona su cui vengano condotti degli esperimenti viene strumentalizzata, cioè usata come mezzo per un fine. Ma ciò che è decisivo sono i limiti di questo uso. Essi esigono innanzi tutto che nessuno sia usato senza il suo consenso. Questo implica per esempio che generalmente bambini e handicappati psichici non possano essere usati come cavie in un esperimento se questo comporta un qualche danno per loro. Questo implica naturalmente che la vita e la salute di qualcuno non possono essere sacrificate a vantaggio della vita e della salute di altri, come fecero i medici nazisti che nei lager condussero sui prigioneri esperimenti di congelamento i cui risultati avrebbero dovuto servire ai soldati che combattevano nell'inverno russo. I limiti all'uso delle persone come mezzi vietano anche ogni acquisizione di conoscenze che derivi da esperimenti che comportano la distruzione di embrioni. Ma anche nella prassi sperimentale quotidiana questo problema emerge a proposito della sperimentazione di nuovi farmaci. Talvolta succede che prima che finisca la serie degli esperimenti previsti il medico arrivi a convincersi che il medicinale in questione è effettivamente molto efficace nella cura di una malattia. Nel momento in cui se ne convince deve interrompere la sperimentazione e somministrare a tutti i pazienti quel farmaco, anche al gruppo di controllo che fino a quel momento aveva ricevuto un placebo. "Salus aegroti suprema lex": quello di cui qui si parla è un concreto paziente di un concreto medico, che non può essere sacrificato alla salus di una massa indistinta di futuri pazienti. A questo punto bisogna anche dire una parola in merito ai cosiddetti comitati etici che da qualche anno spuntano ovunque come funghi. E' il sintomo di una crisi. Mostra che l'ethos professionale dei medici, che è quasi identico a una lex artis, non adempie più la sua funzione di garantire che ci sia una qualche normalità etica liberando chi agisce dal peso della riflessione. Si sono aperte troppe nuove possibilità per affrontare le quali le semplici regole di questo ethos non bastano più. I medici non erano preparati a riflettere sulle loro scelte risalendo ai principi su cui esse si basano e hanno ceduto il compito di condurre questa riflessione ai comitati etici. Ma è una illusione credere che moralisti di professione diano qualche garanzia di decisioni buone e giuste. Al contrario, i più radicali oppositori della tradizione etica europea sono di professione professori di Etica, come per esempio Peter Singer. Fidarsi di loro perché sono professori di Etica sarebbe più o meno come se si volesse lasciare decidere che cosa è giusto a degli avvocati professionisti soltanto perché questi sono capaci di formulare una qualunque decisione in linguaggio giuridico professionistico e di giustificarla con argomenti giuridici. Il medico oggi, in presenza di problemi complicati, ha bisogno dell'aiuto di gente con una preparazione specifica nel campo della riflessione etica. Ma non deve mai sospendere il proprio giudizio rimettendosi al giudizio di una commissione e tali commissioni devono essere sempre soltanto organi consultivi e mai organi deliberativi. Non affiderei il mio destino a un medico che non sia disposto a ascoltare i consigli di persone competenti. Egli deve prendere le proprie decisioni conoscendo il punto di vista di altre persone competenti. Ma può seguire i loro consigli soltanto se è convinto lui stesso che siano giusti. E sicuramente non avrei fiducia in un medico 119 che in una situazione difficile rinuncia a dare il proprio giudizio rimettendosi al parere di una commissione. Vi sono norme morali obiettive. Ma è morale soltanto una persona che agisce avendo fatto di queste norme obiettive un proprio convincimento. Del resto anche il discorso scientifico è soggetto a norme morali. Esso deve servire a scoprire la verità. Questo può essere ostacolato da diversi fattori. Uno di questi è l'ambizione personale che, come è noto, ha portato in diversi casi a falsificare i risultati delle ricerche. Ma vi sono anche fattori di disturbo meno evidenti. Uno di questi non può probabilmente essere eliminato: l'interesse del ricercatore a ottenere un determinato risultato. Questo interesse può essere di natura ideologica. Il caso più clamoroso è forse la biologia di Lysenko con la sua teoria dell'ereditarietà dei caratteri acquisiti. Quello che vi stava dietro era l'ideologia stalinista. Ma vi sono esempi di political correctness più vicini a noi. Si veda ad esempio il tentativo di mettere a tacere lo psicologo inglese Eysenk che aveva presentato i risultati di ricerche empiriche sulla relazione tra la razza e certe capacità cognitive. La scienza moderna proprio a causa del suo carattere non teleologico non dà mai giudizi di valore. I suoi risultati consentono reazioni e applicazioni diverse. Se ci viene detto che i giapponesi mediamente hanno un quoziente di intelligenza più alto che gli europei, dobbiamo prenderne atto, posto che questo risultato sia stato ottenuto lege artis. Se poi da questo noi traiamo la conclusione di far immigrare più giapponesi in Europa o al contrario di cercare di limitarne l'immigrazione, questo non viene suggerito in alcun modo dalla constatazione di fatto. Gli interessi hanno spesso un grosso peso nel caso delle scienze umane, soprattutto nella ricerca storica, i cui risultati vengono usati per legittimare o discriminare persone e gruppi. Fa parte perciò dell'ethos del discorso scientifico che l'interesse a ottenere un determinato risultato venga dichiarato apertamente e che per quanto possibile i portatori di tale interesse si astengano dall'intervenire nella discussione riconoscendo di non essere imparziali. Un esempio di questo è la discussione in merito alla cosiddetta morte cerebrale. Vi è un interesse enorme e del resto rispettabile da parte dei medici che praticano i trapianti a ottenere gli organi viventi da trapiantare. Riconoscere il venir meno delle funzioni cerebrali come morte dell'uomo è in linea con questo interesse. Il riconoscimento della morte cerebrale in Germania non si sarebbe mai avuto senza il grande peso dei medici impegnati nel trapianto di organi. Troppi fenomeni suggeriscono il contrario. Anestesisti e infermiere spesso cercano inutilmente di convincersi che è morto un uomo che respira, che distende il braccio, che suda e le cui ghiandole secernono ormoni se gli si fa un taglio nella pelle e che perciò viene sottoposto ad anestesia prima che gli organi siano prelevati. La constatazione della morte era sempre stata una questione che riguardava i parenti che vedevano che il morire era terminato e che il morente era morto. Un medico veniva chiamato per confermare il giudizio dato così prima facie oppure per constatare invece che la persona era ancora viva. Se adesso l'onere della prova viene invertito e in nome della scienza viene dichiarato morto un uomo di cui tutti gli astanti vedono che è vivo, quello che vi sta dietro, come ho detto, è un interesse in sé legittimo della trapiantologia. Ma non è bene che sia così. Questo rende più difficile la ricerca della verità. Gli studi nel neurologo americano Shewmon e di altri scienziati hanno mostrato che l'integrazione delle diverse parti nell'organismo vivo non dipende né soltanto dal cervello né soltanto dal cuore. Quando un ragazzo le cui funzioni cerebrali sono completamente estinte sopravvive ancora per diversi anni e in questo periodo compaiono i cambiamenti puberali, definire questo ragazzo un cadavere è inconciliabile con la sana ragione. Lo stesso vale per la donna ricoverata nella clinica universitaria di Erlangen che secondo il criterio di Harvard era morta ma dopo mesi ha ancora dato alla luce un bambino. E' vero che questi uomini sarebbero morti ben prima se non li si fosse tenuti in vita artificialmente. E non voglio discutere la questione se non sarebbe stato meglio lasciarli morire in pace. Ma, dato che non li si è lasciati morire, non erano appunto morti ma vivi. Pio XII ha dichiarato espressamente che "la vita umana continua fintanto che le sue funzioni vitali 120 -­‐-­‐ a differenza della semplice vita degli organi -­‐-­‐ si manifestano spontaneamente o anche con l'aiuto di procedimenti artificiali" ("la vie humaine continue aussi longtemps que ses fonctions vitales -­‐-­‐ à la difference de la simple vie des organes -­‐-­‐ se manifestent spontanément ou même à l'aide de procédés artificiels"). Sarebbe contro l'esperienza comune delle cose umane affermare che è solo un caso se il momento in cui è stata proposta la nuova definizione della morte coincide con il momento in cui si sono aperte nuove possibilità nel trapianto di organi. I medici che praticano i trapianti e vogliano lavorare con la coscienza a posto dovrebbero perciò rifiutarsi di entrare nel processo con cui si forma il giudizio in merito alla morte cerebrale. Proprio perché il loro interesse coincide obiettivamente in modo così immediato con l'amore del prossimo -­‐-­‐ che cosa vi può essere di più nobile che donare i propri organi per salvare la vita di un altro? -­‐-­‐ esso tende a indebolire pregiudizialmente tutti gli argomenti in contrario. Vi è ancora un altro interesse che ostacola la scoperta della verità nel processo della ricerca scientifica e che non può essere eliminato, ma può però essere neutralizzato: l'interesse del ricercatore alla conferma della sua teoria. Popper ha espresso l'esigenza che la scienza sostenga soprattutto le teorie improbabili dalla cui falsificazione può imparare di più che da conferme che sono sempre soltanto provvisorie. In realtà il ricercatore ha l'interesse opposto a vedere confermata la propria teoria. Questo non è preoccupante in quanto di solito vi sono altri ricercatori pronti a fare i necessari tentativi di falsificazione. Soltanto là dove la scientific community nel suo insieme è d'accordo su una determinata teoria, diventa difficile e spesso impossibile per il singolo outsider farsi ascoltare e trovare una rivista in cui presentare i suoi argomenti in contrario. L'ethos della ricerca esige che ci si opponga a questo meccanismo. Da ultimo desidero menzionare in questo contesto il problema della rilevanza. "Ars longa, vita brevis". Ma senza la "vita brevis" l'"ars longa" è soltanto virtuale. Essa è reale soltanto come attività di uomini che sono esseri finiti. La finitezza umana non riguarda soltanto la durata della vita, ma anche la limitatezza materiale delle risorse. In ambito medico questa limitatezza fa sì che la società, nonostante l'incommensurabilità di ogni persona, debba negare a alcune persone una terapia che concede a altre, scegliendo in base a criteri che in qualche modo rendono paragonabile ciò che paragonabile non è. In questa sede non devo affrontare questo problema, ma voglio soltanto menzionarlo. Per la ricerca si presenta un problema analogo. Non possiamo studiare tutto, perché la vita è breve e perché i mezzi sono limitati e la ricerca diventa sempre più costosa. I soldi che vengono spesi nella ricerca non vengono spesi altrove. E i soldi che vengono spesi nella ricerca in una disciplina non vengono spesi in un'altra. Il problema di fissare delle priorità è un problema politico e perciò sempre anche un problema morale, sebbene l'etica lasci qui un ampio spazio di libertà. Verso la fine degli anni Sessanta vi furono accese discussioni sul problema della rilevanza della ricerca. Secondo qualcuno ogni ricerca avrebbe dovuto dimostrare la propria utilità sociale, laddove peraltro i criteri in base ai quali stabilire che cosa fosse utile apparivano pesantemente ideologizzati. Per fortuna questa è acqua passata. Ma naturalmente il problema rimane. Per quanto riguarda la ricerca nell'ambito delle scienze naturali, si tratta in buona parte di un aspetto del problema più ampio del rapporto tra interessi di breve e di lungo periodo. La cosiddetta ricerca di base spesso porta vantaggi soltanto a lungo termine e non è neppure sicuro che li porti. Ma tutti i progressi tecnici e medici degli ultimi secoli si devono a ricerche che quando furono fatte non potevano promettere con sicurezza tali vantaggi e anzi spesso non miravano affatto a risultati di quel tipo. Una politica saggia si distingue per un verso da una politica populistica e per l'altro verso da una politica stalinista per il fatto che cerca di trovare un equilibrio tra gli interessi di coloro che vivono adesso e i probabili interessi delle generazioni future. Il nostro primo dovere nei loro confronti è di non vivere a loro spese, 121 consumandone le risorse e facendo debiti che loro dovranno pagare. Non vi è invece un dovere ugualmente assoluto di fare per loro investimenti smisurati. Il problema della rilevanza della ricerca, soprattutto in ambito medico, ha anche un altro aspetto ancora più evidente. Vi sono in medicina interrogativi rispondere ai quali ha un'importanza enorme dal punto di vista terapeutico e può essere fatto con un impegno finanziario relativamente modesto. Ma proprio perché le cose sono così semplici tali ricerche non comportano un grande prestigio scientifico. Non ci si può fare un nome lavorando in quel campo. E istituzioni di ricerca non sono disposte a spendere soldi in quelle aree, sebbene in tal modo molti pazienti potrebbero essere aiutati. Ha un valore simbolico il fatto che la prima fecondazione in vitro sia stata eseguita a Calcutta, una città in cui neonati abbandonati muoiono sulla strada. Chi avesse aiutato uno di questi bambini a trovare dei genitori adottivi sarebbe rimasto sconosciuto. Il dottore che in un quartiere elegante lì vicino ha eseguito questo intervento spettacolare è entrato per sempre nella storia della medicina. Mi pare che Tommaso d'Aquino abbia colto nel segno là dove dice che il movente che corrompe il desiderio di sapere è la superbia, ambizione e vanità. Anche qui è di nuovo chiaro che la moralità e l'immoralità consistono innanzi tutto e soprattutto nelle virtù e nei vizi di persone individuali. Queste virtù e questi vizi hanno conseguenze più o meno vaste per altri uomini e per il mondo. Ma è importante ricordare che la Chiesa non è interessata innanzi tutto alle conseguenze terrene di un'azione, ma alle anime di chi la compie e di chi la subisce. Quello che accade dipende da noi solo in minima parte. Ma noi possiamo evitare di commettere azioni ingiuste. 122 WILLIAM MAY
DIGNITÀ UMANA E RICERCA BIOMEDICA: LE RISPETTIVE POSIZIONI DELL'OGGETTO DELLA RICERCA E DEL RICERCATORE INTRODUZIONE Dopo alcune riflessioni iniziali sul significato della dignità umana, prenderò in considerazione il significato della ricerca biomedica su soggetti umani, la sua necessità, la natura e la tipologia di tale ricerca. Successivamente, prenderò in esame i criteri scientifici di tale ricerca e quindi mi occuperò più in dettaglio di principi e di norme etiche o morali di base, che regolano ricerche di questo tipo, tentando di correlare tali principi e norme alle rispettive posizioni del soggetto della ricerca e del ricercatore. In conclusione, focalizzerò l'attenzione sulla legittimità del "consenso per delega" in situazioni non terapeutiche, soggetto di un impegnativo dibattito. DIGNITÀ UMANA La tradizione Cattolica, 1 riconosce, per quanto riguarda la persona umana, una dignità di tre tipi: la prima è intrinseca, naturale, inalienabile, ed è una donazione o dono; la seconda èugualmente intrinseca, ma è una conquista, non un dono; una conquista resa possibile, data la realtà del peccato originale e i suoi effetti, soltanto dall'inesauribile grazia di Dio; la terza è ancora una dignità intrinseca, ma è allo stesso tempo un dono, non una conquista, ma un dono, che di gran lunga trascendela natura umana e che, letteralmente, la rende divina; inoltre, gli è concesso come fosse un bene molto prezioso, che deve saper custodire e coltivare e che egli può perdere, qualora scelga in piena libertà di commettere peccati gravi. Il primo tipo di dignità, proprio degli esseri umani, è quella dignità che appartiene ad essi semplicemente in virtù del fatto che fanno parte della specie umana , che Dio ha chiamato alla vita quando, in principio, Egli "creòl'uomo a sua immagine e somiglianza…maschio e femmina li creò" (Genesi 1,27). Ogni essere umano è un'immagine vivente di Dio santissimo e, quindi, può essere giustamente definito come una "parola creata" di Dio, la "parola creata" in cui si è trasformato il suo Mondo non Creato ed esiste proprio per rivelarci quanto Dio ci ama. La prima, inalienabile dignità della persona umana, è importante sia per il soggetto della ricerca che per il ricercatore, ma è della massima importanza per il soggetto della ricerca. È, come vedremo, il fondamento essenziale che sottende i principi morali di base della ricerca biomedica sulle persone umane. D'ora innanzi, io chiamerò questa nostra dignità proprio in quanto persone. Quando entriamo nell’esistenza noi siamo, in virtù di tale dignità intrinseca, persone che superano in dignità e valore l'intero creato. La persona umana è in verità la " sola creatura che Dio abbia voluto fortemente proprio per se stesso" (Gaudium et Spes, 24). In quanto persone, siamo dotati della capacità di conoscere la verità e di decidere della nostra vita scegliendo liberamente di conformare la nostra esistenza e le nostre azioni alla verità. Tuttavia, al momento della nascita noi non siamo ancora del tutto gli esseri che Dio desidera che noi diventiamo. 123 Ciò porta a considerare il secondo tipo di dignità propria delle persone umane, una dignità intrinseca ma che è una conquista (resa possibile soltanto in virtù dell'inesauribile grazia di Dio) e non un dono. Questo secondo tipo di dignità è quella alla quale siamo chiamati in quanto persone intelligenti e libere, capaci di decidere delle nostre vite, con le proprie libere scelte. Questa è la dignità che siamo invitati a dare a noi stessi, scegliendo liberamente di attuare le nostre scelte e le nostre azioni secondo la verità, ossia in accordo con la legge eterna di Dio, alla quale noi prendiamo parte attraverso la legge naturale. Come ha affermato il Concilio Vaticano II, "l'uomo scopre nel suo cuore una legge scritta da Dio [la legge naturale]; la sua dignità sta nell'obbedire a questa legge e secondo questa egli sarà giudicato". (Gaudium et Spes, 16). Tale dignità, come vedremo, è della massima importanza sia per il soggetto della ricerca che per il ricercatore, ma è, ritengo, di importanza ancora maggiore per il ricercatore. D'ora in poi,io farò riferimento a questo tipo di dignità come alla nostra dignità proprio in quanto agenti morali. Il terzo tipo di dignità, è nostra in quanto "figli di Dio", fratelli e sorelle di Gesù, membri della famiglia divina. Questo tipo di dignità è un dono puramente gratuito datoci dallo stesso Dio, che ce lo concede quando, per mezzo del battesimo, noi siamo "rigenerati" come veri e propri figli di Dio e ci viene data la vocazione per diventare santi, proprio come lo è il Padre celeste, e di diventare colleghi di Cristo, suoi collaboratori per la redenzione del mondo. Questa dignità, che possiamo definire la nostra dignità proprio in quanto figli di Dio, è un bene prezioso che ci viene affidato e che possiamo perdere scegliendo liberamente di compiere delle azioni molto gravi. Esiste uno stretto legame tra questo tipo di dignità e la nostra dignità proprio in quanto agenti morali. Nella parte che segue, tuttavia, focalizzerò l’attenzione sui primi due tipi di dignità, ossia, la nostra dignità propria in quanto persone e la nostra dignità in quanto agenti morali. RICERCA BIOMEDICA SU SOGGETTI UMANI: LA SUA NECESSITÀ, LA SUA NATURA E LA TIPOLOGIA La necessità della ricerca biomedica su soggetti umani, è ampiamente riconosciuta dalla comunità medica 2e dal Magistero.3 Tale ricerca è necessaria se la scienza medica deve acquisire ed ampliare la conoscenza e le tecniche necessarie e/o utili per la diagnosi, la prevenzione e la cura delle persone umane, che necessitano di assistenza sanitaria e hanno bisogno di alleviare la loro sofferenza. La sperimentazione umana, nella pratica della medicina, è antica quanto la stessa pratica medica, anche se è stato soltanto nel secolo scorso o giù di lì, dai tempi di Louis Pasteur e di Claude Bernard, che i medici, nell’esercizio della attività professionale, sono diventati fortemente consapevoli della necessità di una sperimentazione e di una ricerca condotte con prudenza, scientificamente valide e programmate. 4L'Associazione Medica Mondiale, individua brevemente il fine di tale ricerca: essa " deve migliorare le procedure diagnostiche, terapeutiche o di profilassi e la comprensione dell'eziologia e della patogenesi della malattia ". 5 La ricerca può essere definita come " un'attività sistematica, intrapresa allo scopo di acquisire una nuova conoscenza e una comprensione o per confermare la conoscenza che già si possiede ".6 Nonostante alcuni Autori facciano una netta distinzione tra ricerca sperimentale su soggetti umani e terapia, in quanto l'obiettivo principale della ricerca non è quello di curare ma di imparare, 7 è diventata ormai una consuetudine classificare la ricerca come terapeutica o nonterapeutica. 124 La prima, studia gli effetti derivanti dall'impiego di metodi diagnostici, preventivi o terapeutici, che si discostano dalla prassi medica abituale, ma che hanno delle ragionevoli prospettive di successo, mentre la seconda non viene effettuata a vantaggio del soggetto della ricerca, ma allo scopo di acquisire una conoscenza o per sviluppare delle tecniche, dalle quali possano trarre beneficio altre persone. 8 CRITERI SCIENTIFICI PER LA RICERCA BIOMEDICA SU SOGGETTI UMANI Le domande alle quali la ricerca biomedica, su soggetti umani, cerca di dare una risposta devono essere poste in modo tale che possano essere accettate come sufficientemente fondate, dal punto di vista scientifico. Questa è fondamentalmente una questione di buona scienza, ma è anche una questione etica o morale. 9 Diversi articoli del Codice di Norimberga, forniscono delle indicazioni sui criteri scientifici per la ricerca su soggetti umani. I principi enunciati nel Codice sono della seguente natura: L'esperimento dovrebbe essere tale da fornire dei risultati proficui per il bene della società, risultati che non si potrebbero ottenere con altri metodi di studio e che non siano, per la loro natura, casuali e superflui. 3. I risultati dovrebbero essere progettati e fondati sui dati ottenuti con la sperimentazione sugli animali e su una conoscenza della storia naturale della malattia o di altri problemi facenti parte dello studio, in modo tale che i risultati previsti giustifichino l’esecuzione dell'esperimento. L'esperimento dovrebbe essere condotto esclusivamente da persone qualificate, da un punto di vista scientifico. È necessario che vi sia, in tutte le varie fasi dell’esperimento, il massimo livello di abilità e di attenzione , da parte di tutti coloro che lo conducono o che vi sono in qualche modo coinvolti. 10 L'Associazione Medica Mondiale, ha formulato molti criteri analoghi nella Dichiarazione di Helsinki. Tra i " Principi di base ", che regolano la ricerca su soggetti umani, enunciati nel 1975, nella edizione riveduta della Dichiarazione, vi sono i seguenti: 1. La ricerca biomedica, che coinvolge soggetti umani, deve attenersi ai principi scientifici generalmente accettati e dovrebbe essere basata su una sperimentazione di laboratorio e su animali, condotta in modo corretto e su una profonda conoscenza della letteratura scientifica. 2. Il progetto e l'esecuzione di ogni procedura sperimentale, che coinvolge soggetti umani, dovrebbero essere formulati con chiarezza in un protocollo sperimentale, che dovrebbe essere trasmesso ad un comitato indipendente, nominato appositamente a tale scopo per averne una valutazione, un commento ed un orientamento. 11 3. La ricerca biomedica, che coinvolge soggetti umani, dovrebbe essere condotta esclusivamente da persone qualificate, da un punto di vista scientifico e sotto la supervisione di un medico competente, dal punto di vista clinico. La responsabilità per i soggetti umani, deve sempre spettare ad una persona qualificata, dalpunto di vista medico e mai al soggetto della ricerca…. 4. La ricerca biomedica che coinvolge soggetti umani non può essere portata avanti legittimamente se l'importanza attribuita all'obiettivo da raggiungere non è proporzionale al rischio intrinseco per il soggetto. 5. Ogni progetto di ricerca biomedica, che coinvolge soggetti umani dovrebbe essere preceduto da un'attenta valutazione dei rischi prevedibili rispetto ai benefici, sia per il soggetto che per le altre persone. La preoccupazione per gli interessidel soggetto deve sempre prevalere sugli interessi della scienza e della società. 12 Ho riportato in corsivo un passaggio del quinto principio di Helsinki che, per la sua natura, è principalmente etico o morale e non scientifico. Ma anche i criteri "scientifici" di questo 125 documento e del Codice di Norimberga hanno delle implicazioni morali, nella misura in cui i medici e gli scienziati, coinvolti nella ricerca, sono moralmente obbligati ad osservare tali requisiti scientifici. In questo documento stiamo prendendo in esame la ricerca su soggetti umani principalmente dal punto di vista del ricercatore. È, inoltre, evidente che il tipo di dignità umana qui principalmente in gioco è la dignità proprio in quanto agente moraledel ricercatore. PRINCIPI E NORME ETICHE PER LA RICERCA BIOMEDICA SU SOGGETTI UMANI La dignità degli esseri umani proprio in quanto persone è il principio cardine che regola la ricerca biomedica su soggetti umani. Come ha affermato Papa Giovanni Paolo, " la norma etica, fondata sul rispetto della dignità della persona umana, dovrebbe illuminare e disciplinare sia la fase della ricerca che l'applicazione dei risultati ottenuti grazie ad essa ". 13 Prima di essere eletto Papa, Karol Wojtyla aveva formulato, nel suo libro "Amore e responsabilità", quello che egli definiva il "principio" o la "norma" personalistica che, " nel suo aspetto negativo afferma che la persona è quel tipo di bene che non ammette di essere usato, così come di essere trattato come ilmezzo per il raggiungimento di un fine " e " nel suo aspetto positivo…conferma questo: la persona è un bene verso il quale l'unico atteggiamento corretto e adeguato è l'amore ". 14 Il principio del consenso libero e informato Il principio/norma fondamentale, che serve da fondamento per il più importante principio di base che regola la sperimentazione biomedica sulle persone umane, è il "principio del consenso libero e informato". Come ha sottolineato Gonzalo Herranz, questo principio è stato chiaramente riconosciuto ed affermato dagli autori cattolici nel diciannovesimo secolo molto prima che fosse espresso proprio nel primo articolo del Codice di Norimberga del 1949. G. Herranz richiama l'attenzione sul lavoro del medico cattolico francese George Surbled, che ha espresso chiaramente questo principio, nella prima edizione (1891) del suo libro "La morale nei suoi rapporti con la medicina e l'igiene", e nella forte affermazione, del suo predecessore Max Simon, del principio della supremazia della persona umana sulla ricerca scientifica, nel suo volume del 1845, " Deontologia medica o dei doveri dei medici allo stato attuale della civiltà ". 15 Questo principio, come è stato notato, è stato chiaramente affermato nel primo articolo del Codice di Norimberga ed è importante ricordare che tale codice è stato formulato quando il ricordo delle atrocità compiute dal Terzo Reich, in nome della ricerca scientifica, era ancora vivissimo nelle menti degli uomini. Il magistero della Chiesa è molto chiaro riguardo alla necessità di un consenso libero ed informato nel caso in cui la ricerca biomedica abbia bisogno di una giustificazione. Papa Pio XII ha fatto numerose dichiarazioni sulla necessità del consenso libero ed informato. 16 Come ha affermato Papa Giovanni Paolo II, "il medico ha soltanto quel potere e quei diritti che lo stesso paziente gli concede ". 17 Il Codice di Norimberga enuncia le caratteristiche di questo principio, dichiarando quanto segue: " Ciò significa che la persona coinvolta dovrebbe avere la capacità legale di dare il consenso; se si trovasse nella condizione tale da poter esercitare il potere della libera scelta, senza l'intervento di alcuna componente di forza, frode, inganno, violenza, imbroglio o forme ulteriori di costrizione o coercizione, e che dovrebbe avere sufficiente conoscenza e comprensione degli elementi dell'argomento in questione tanto da consentirgli di prendere una decisione intelligente ed illuminata. Quest'ultimo elemento richiede che prima di prendere una decisione affermativa, il 126 soggetto che si sottopone ad un esperimento dovrebbe essere informato della natura, della durata e dell’obiettivo dell'esperimento; del metodo e dei mezzi con cui dovrà essere condotto; di tutti gli inconvenienti e i rischi che si potrebbero ragionevolmente prevedere; e degli effetti sulla sua salute o persona, che potrebbero eventualmente derivare dalla sua partecipazione all'esperimento. Il dovere e la responsabilità di accertarsi della qualità del consenso dipendono da ogni individuo che avvia, dirige o si impegna in un esperimento. Si tratta di un dovere e una responsabilità personali, che nonpossono essere delegati impunemente ad un altro ". 18 Ho riportato in corsivo le ultime due frasi di questo articolo del Codice di Norimberga, in quantodimostrano che la responsabilità principale di un consenso libero ed informato è attribuibile al ricercatore ed è connessa direttamente alla sua dignità proprio in quanto agente morale ed al suo obbligo di rispettare la dignità del soggetto proprio in quanto persona. Il soggetto dell'esperimento ha, inoltre, la responsabilità, ben radicata nella dignità proprio in quanto agente morale, di formare la propria coscienza in modo adeguato e di rifiutare di prendere parte ad esperimenti di natura immorale o progettati per raggiungere ulteriori fini immorali. La dignità del soggetto in quanto agente morale gli richiede questo. In quanto agente morale, il soggetto deve rifiutare la sperimentazione nel caso in cui, come afferma il Catechismo della Chiesa Cattolica, "questa esponga la vita o l'integrità fisica o biologica del soggetto a rischi eccessivi o evitabili". (n. 2295). Molte autorità, tra cui Henry K. Beecher, 19 famoso per i suoi studi sulla ricerca medica, hanno notato che è molto difficile, a volte quasi impossibile, garantire un consenso interamente libero ed informato. Ciò che il principio richiede è un consenso "ragionevolmente" libero e "adeguatamente" informato. Fondamentalmente, qui la posta in gioco è la fiduciatra il ricercatore ed il soggetto, la certezza che il ricercatore non proporrà alcun esperimento senza comunicare al soggetto informazioni sufficienti, per consentirgli di prendere una decisione informata e consapevole. 20 Tale requisito è assolutamente fondamentale, in quanto è radicato nella dignità del soggetto proprio in quanto persona, ed è in relazione direttamente con la dignità del ricercatorein quanto agente morale. Il principio del consenso libero ed informato è necessario in ogni tipo di ricerca biomedica, terapeutica e non terapeutica, che sia effettuata su soggetti capaci (in grado di dare un consenso libero ed informato per se stessi), su soggetti non capaci quali i bambini, nati o non ancora nati o su pazienti "senza voce". Parlerò più approfonditamente del consenso "per delega" più avanti. Prima di farlo, tuttavia, è importante notare un'"eccezione" relativa al requisito di consenso libero ed informato e quindi altre norme di base che regolano la ricerca biomedica su soggetti umani. Una "eccezione" al principio del consenso libero ed informato Se prendiamo in considerazione le trattamenti terapeutici medici, notiamo che esiste una chiara eccezione alla richiesta del consenso espresso; una eccezione, tuttavia, che in nessun modo indebolisce l'esigenza normativa, che richiede il consenso personale del paziente alle cure mediche. Questo è il tipo di situazione in cui il consenso è ragionevolmente presunto o implicito, quando una persona si trova in una situazione di estremo pericolo e non può dare il proprio consenso esplicitamente o implicitamente, né quando vi è l'opportunità di un consenso "per delega". Come sostiene la Carta degli operatori sanitari, in casi estremi di questo tipo, "se vi è una perdita temporanea di conoscenza e volontà, l'operatore sanitario può agire in virtù del principio della fiducia terapeutica… Nel caso in cui dovesse verificarsi una perdita permanente di conoscenza e volontà, l'operatore sanitario può agire in virtù del principio di responsabilità sanitaria, che obbliga l'operatore sanitario ad assumersi la responsabilità, nell'interesse del 127 paziente ". 21Ritornerò a quello che la Cartadefinisce il "principio di responsabilità sanitaria" più avanti, quando prenderò in considerazione i problemi del "consenso per delega". La dignità qui principalmente in gioco è la dignitàdel ricercatoreproprio in quanto agente morale, che ha il dovere di prendersi cura della vita e della salute del soggetto, la cui dignità proprio in quanto persona gli dà il diritto di ricevere le cure necessarie per tutelare la sua vita e la sua salute, qualora esse siano in pericolo. Altri principi/norme etiche che regolano la ricerca biomedica su soggetti umani Il consenso libero e informato, non è soltanto il principio morale specifico che giustifica la ricerca biomedica su soggetti umani. Un altro principio/norma chiave è noto come il "principio dell'ordine discendente". Il filosofo Hans Jonas, ha suggerito tale principio nel selezionare i soggetti della ricerca. Esso richiede, da parte dei ricercatori, una scelta dei soggetti tra le persone meno vulnerabili.22 L’obbligo primario, è quello di proteggere le persone vulnerabili e di impedire che si approfitti di loro nella "scelta" dei soggetti della sperimentazione. Tali soggetti, naturalmente, devono dare il proprio consenso libero e informato al progetto di ricerca per il quale sono stati "scelti" e per il quale essi si offrono spontaneamente. Ci sono due principali categorie di "persone vulnerabili"; la prima include le persone che non sono in grado di dare il consenso alla sperimentazione; i bambini, nati o non ancora nati, e gli anziani che sono mentalmente incapaci; il secondo gruppo include persone vulnerabili alla manipolazione o alla coercizione (magari di tipo sottile) da parte di altri, ad esempio prigionieri, persone residenti in istituti, poveri, studenti che frequentano istituti che svolgono delle ricerche, ecc. Il criterio dell'ordine discendente, non significa che le persone vulnerabili non possano essere mai scelte a buon diritto o non possano mai offrirsi spontaneamente come soggetti della ricerca biomedica; richiede semplicemente che i soggetti della ricerca siano scelti sulla base di un principio di giustizia. Benedict Ashley, O.P. e Kevin O’Rourke, O.P., propongono il seguente criterio generale, relativo a tale principio: " i soggetti dovrebbero essere scelti in modo tale che i rischi e i vantaggi non ricadano in maniera diseguale su uno stesso gruppo della società ". 23 Tale esigenza ricade sul ricercatore e, in quanto tale, è direttamente correlato alla sua dignità proprio in quanto agente morale. Negli Articoli 9 e 10 del Codice di Norimberga, vengono formulati altri due validi principi. Nell'Articolo 9, si afferma che: " nel corso dell'esperimento, il soggetto umano dovrebbe essere libero di portare a termine l'esperimento nel caso in cui questi abbia raggiunto quello stato fisico o mentale tale da fargli apparire impossibile la continuazione dell’esperimento ". Nell'Articolo 10, si dichiara: " Nel corso dell'esperimento, lo scienziato che se ne sta occupando deve essere preparato a concludere l'esperimento stesso, in qualunque fase, se ha ragionevoli elementi per ritenere (nell'esercizio della buona fede, di capacità superiori e di un attento discernimento chegli è richiesto), che la continuazione dell'esperimento potrebbe avere come conseguenza delle lesioni, l'invalidità o la morte del soggetto implicato nell'esperimento".24 In questo caso sono importanti sia la dignità del soggetto proprio in quanto persona e la dignità del ricercatore proprio in quanto agente morale. Consenso volontario in una situazione non terapeutica: potrà mai essere moralmente obbligatorio ? Prima di passare a considerare il consenso "per delega" alla sperimentazione, sia terapeutica che non terapeutica, è necessario porsi la domanda se possa esistere un obbligo o una responsabilità morale per le personein grado di offrirsi spontaneamente come soggetti in tali esperimenti. Per anni ho pensato che non potesse sussistere tale obbligo morale e che l'offrirsi spontaneamente 128 per partecipare a tale sperimentazione fosse un atto di pietà, come una specie di dono. Ma nel preparare questo scritto e dopo aver discusso la questione con altre persone, in particolare con Germain Grisez,sono ora dell'opinione che il principio della giustizia può a volte portare un adulto, nel pieno delle sue facoltà, a scegliere liberamente di partecipare ad esperimenti biomedici non terapeutici, con determinate condizioni. Ad esempio, se il medico di base di una persona le ha chiesto, nel corso di analisi mediche di routine, di dare un campione di urina, per un programma finalizzato al confronto dell'urina di adulti sani con quella di persone che soffrono di una particolare malattia, in modo tale da verificare alcune ipotesi relative alla cura di tale malattia o dei suoi sintomi, si dimostra, che in tutta equità, una persona potrebbe averel’obbligo morale di offrire il proprio aiuto. In un caso del genere, una persona potrebbe facilmente fare del bene all’umanità, senza costi o con costi minimi per se stesso. La situazione sembra essere analoga, a quella di un adulto sano che vede un anziano debole che cerca di trasportare una valigia dall’altra parte della strada; l’equità, radicata nella Regola d'Oro, come ha intuito la tradizione cristiana, richiederebbe normalmente che l'adulto sano venisse in aiuto della persona anziana e debole. Nonostante tale responsabilità non possa essere obbligatoria, da un punto di vista legale, è ragionevole pensare che per un adulto sano possa sussistere un obbligo morale a partecipare ad una sperimentazione biomedica non terapeutica, in situazioni di questo tipo. Se, tuttavia, la sperimentazione non terapeutica impone delle condizioni o degli inconvenienti più che onerosi, allora l'equità non esigerebbe che una persona si offrisse spontaneamente come soggetto di ricerca; la propria scelta libera ed informata a prendere parte alla ricerca, sarebbe effettivamente un atto di pietà, un "dono" di se stessi. Il problema del consenso per delega o surrogato nelle situazioni terapeutiche Non esiste un dibattito serio tra le diverse autorità -­‐ legale, medica o morale-­‐ nel trovare legittimo il consenso per delega o surrogato, quando la sperimentazione / ricerca / trattamento sia terapeutica, intesa come un beneficio, ad esempio, verso la salute o la vita di un soggetto incapace o "senza voce". 25 Parecchie volte, le responsabilità di coloro che delegano il loro consenso, per le procedure di tipo terapeutico, vengono descritte come scelte fatte in accordo alle preferenze dellapersona incapace, se sono conosciuti o moralmente onesti, oppure facendo tali scelte in accordo ai "migliori interessi" dell’individuo, se egli o ellanon ha mai espresso le sue preferenze, per esempio, se qualcuno funge da tutore di un neonato (nato o non ancora nato), di un bambino, o di un adulto che non è stato mai capace di agire in modo moralmente responsabile,a causa di qualche anomalia. Di conseguenza i vescovi degli Stati Uniti dichiarano che le decisioni prese a nome di una persona, da parte di un delegato nominato appositamente o di unmembro responsabile della famiglia, dovrebbero "essere fedeli ai principi morali Cattolici e alle intenzioni e ai valori della persona rappresentata [in modo tale da essere in accordo con i principimorali Cattolici), o se le intenzioni della persona sono sconosciute, con i migliori interessi della persona stessa ". 26 Allora, quale sarebbe la giustificazione ultima per concedere il "consenso per delega", agliindividui le cui "intenzioni" siano sconosciute? Io credo che il "consenso per delega", quando viene fatto a nome di coloro che non sono mai stati capaci di esprimere le loro preferenze, riguardo il tipo di procedure terapeutiche, sono disponibili ad accettare, non è tanto un consenso per "delega", ad esempio, un consenso fatto in nome di un’altra persona (come i genitori danno, nel battesimo, il consenso per il bambino), come é il consenso personale, richiesto alla persona(e) moralmente responsabili della cura degli esseri umani "senza voce". 129 Se la salute o la vita di una persona umana, in particolare, una persona per la quale abbiamo una particolare responsabilità (come i genitori nei confronti dei loro figli), é in pericolo o soffre per qualche malattia e ci sono strumenti che potrebbero proteggere e/o ottimizzare la vita e la salute della persona e/o migliorare la sua condizione,senza imporre gravi pesi alla persona, noi siamo moralmente obbligati, a ragione della nostra dignità proprio come agenti morali, ad autorizzare la ricerca/esperimento/trattamento, nella situazione terapeutica. Mi sembra che la Carta degli Operatori Sanitari identifica correttamente il fondamento morale del così detto consenso "per delega", in tale situazione, quando abbiamo parlato del " principio di responsabilità nella cura della salute ". 27 CONSENSO PER DELEGA NELLA SITUAZIONE NON TERAPEUTICA: È SEMPRE GIUSTIFICABILE ? Può essere giustificato il consenso "per delega" nella situazione non terapeutica, ad esempio, quando la ricerca/esperimento/trattamento proposta, non intende beneficare il soggetto umano di tali procedure, ma piuttosto migliorare le conoscenze, che in futuro potrebbero essere di grande beneficio ad altre persone? In tale sede, primariamente passerò in rassegna gli argomenti avanzati per legittimare e per contrastare il consenso per delega nella situazioni non-­‐terapeutica. Successivamente esaminerò l’Insegnamento Magisteriale più significativo. Argomentazioni pro e contro L’argomentazione principale, avanzata per giustificare il consenso per delega nella situazione non-­‐terapeutica, veniva proposta, nel 1970, da Richard McCormick. La sua argomentazione di base era che il consenso per delega, a scopo terapeutico, viene giustificato, propriamente perché i genitori ed altri loro rappresentanti possono presupporre che tali soggetti vorrebbero essi stessi acconsentire, se potessero, perché avrebbero il dovere diacconsentire, in virtù del loro obbligo morale di proteggere la propria vita e la propria salute. Similmente, egli ha argomentato, nelle situazioni non terapeutiche, che non comportano alcun rischio significativo o rischio minimo, nelle quali viene promesso un grande beneficio, il consenso per delega per i bambini e per altri incapaci viene giustificato dal momento che, come si può ragionevolmente supporre, le persone non capacivorrebbero per se stessi se potessero, perché dovrebbero rendersi conto che essi dovrebbero acconsentire a tali esperimenti a causa della loro natura sociale e il dovere dipromuovere il bene comune della società,quando essi possono fare così con un piccolo sforzo e nessun pericolo o il minimo rischio per se stessi.28 Paul Ramsey ed io, rifiutammo l’argomento proposto da Mc Cormick nel quale si giustifica il consenso per delegain ambedue casi, sia a scopo terapeutico, come non terapeutico, precisamente perché non ci sono motivi per presumere che i bambini e altri incapaci vorrebbero, se potessero,acconsentire in tali situazioni perché capirebbero che dovrebbero fare così. Non c’è bisogno di supporre, come ha fatto Mc Cormick, che i bambini ed altri incapaci hanno qualche obbligo morale. 29 Essi non lo hanno, precisamente perché non ne sono capaci, ma sono, tuttavia, personeche mai dovrebbero essere usate come semplici strumenti, per fini estrinseci a loro stessi. 30 Trattarli come se fossero agenti morali che hanno obblighi morali da realizzare, farli partecipare ad esperimenti non terapeutici, che promettono un grande beneficio, con un minimo o con nessun rischio significativo, significa non riuscire a riconoscerli per quello che, in verità, essi sono, vale a dire, persone umane vulnerabili, indifese,totalmente dipendenti da altri. 130 Credo che tali considerazioni mostrano con chiarezza che l’argomentazione di Mc Cormick, per giustificare il consenso per delega alla sperimentazione a scopo non terapeutico, non sia affatto valida. Anche se, ho sottolineato precedentemente, che gli adulti capaci potevano avere, in certe condizioni, un obbligo morale a partecipare ad alcuni tipi di ricerca non terapeutica, i non capaci, persone "senza voce" non possono avere tale obbligo precisamente perché essi non hanno obblighi morali, a causa della loro condizione. Come P. Ramsey, ho trovato non accettabile la giustificazione di R. Mc Cormick, nei confronti del consenso per delega a scopo non terapeutico. Infatti, dal 1970 fino al Settembre 2002, quando presentai una bozza preliminare di tale documento alla riunione, organizzata dalla Pontificia Accademia per la Vita, in preparazione della sessione plenaria del Febbraio 2003, trovai la mia posizione contestata aspramente. Ho mantenuto fermamente la posizione, secondo la quale non è mai moralmente corretto, da parte di altre persone, concedere il cosiddetto consenso "per delega" nei confronti di incapaci, persone umane senza voce, a favore della ricerca/sperimentazione a scopo non terapeutico. Fondamentalmente, l’argomento che sostiene tale conclusione, avanzata nel 1970 da Paul Ramsey e dal sottoscritto, sostiene che le persone umane incapaci o "senza voce", a ragione della loro dignità proprio come persone, non devono essere mai utilizzate come soggetti nelle procedure a scopo non terapeutico, intraprese non aloro beneficio, ma per il beneficio di altri. Secondo questo argomentazione, anche se tali procedure non possono "danneggiarli", risultano immorali perché violano la loro dignità come persone. P. Ramsey ha espresso bene questa posizione quando ha affermato: Sperimentare sui bambini [o altri soggetti non capaci ], con modalità che non si rivolgono a loro come pazienti, è già una forma ripulita di barbarie; già li rimuove dalla vista e non presta attenzione alla pienezza di fiducia che, come un bambino, semplicemente un normale ammalato o un bambino morente, pone su di noi e sulla cura medica ... Tentare didecidere per un bambino perché sia un soggetto della sperimentazione, è trattare il bambino come un non-­‐bambino... La sperimentazione non a scopo terapeutico, non a scopo diagnostico, che coinvolge soggetti umani, deve essere basata su un consenso vero, se deve procedere come un azione umana . Nessun bambino o adulto incapace, può scegliere di diventare un membro delle imprese medichee nessun altro sulla terra dovrebbe decidere di sottoporre queste persone a sperimentazioni, non in relazione con il proprio trattamento.Questo è un criterio di lealtà nei loro confronti. Semplicemente gli è dovuto come essere umano, bambino o incapace. 31 Come ho già sottolineato, ero stato indotto a cambiare la mia immutabile posizione, che si opponeva all’intero consenso per delega per le procedure a scopo non terapeutico, a motivo delle obiezioni contrarie sollevate nella riunione del 27-­‐28 Settembre 2002 ed anche a motivo del risultato delle discussioni che successivamente ho avuto con German Grisez. Sono giunto alla conclusione che, comunque, l’argomentazione di Mc Cormick per giustificare il consenso per delega, a favore dei soggetti "senza voce", a scopo non terapeutico, possa essere seriamente criticata, per le ragioni già dette, la posizione che ho assunto, può essere difesa per altri motivi. Alcuni partecipanti al Convegno, che si è svolto nel Settembre 2002, si riferirono ad un’unica linea di pensiero, suggerita precedentemente per giustificare tale consenso " per delega ". La richiesta di base non sarebbe irragionevole, e perciò non contraria ai criteri morali obiettivi,se i genitori,per esempio, dovessero permettere la sperimentazione sui loro bambini per ilbeneficio di altri, se l’esperimento non comportasse alcun rischio significativo. Dopo tutto, i genitori spesso portano i loro bambini, compresi i neonati, a fare viaggi in auto non intrapresi per un loro beneficio (ad esempio, per acquistare alcuni vestiti per la loro mamma) e 131 tali viaggi comportano certamente dei rischi ma, dopo tutto, i rischi di questo tipo sono accettabili sia per sé stessi, sia per coloro di cui ci si prende cura. E potrebbero essere riferiti altri esempi. Perciò, se non è sbagliato agire così per i genitori, perché sarebbe sempre immorale per loro dare il consenso, affinché i propri bambini prendano parte alla ricerca/sperimentazione a scopo non terapeutico? Germain Grisez, a tale proposito, ha enunciato queste linee guida: La gente prendendo decisioni per un’incapace – per esempio i genitori per un figlio -­‐ potrebbe non accettare alcun rischio significativo ( che è ogni rischio che oltrepassa il livello dei rischi comuni della vita), riguardo alla sua salute, a motivo di un possibile beneficio dell’esperimento per gli altri. I genitori ed altri rappresentantidegliincapaci, hanno la responsabilità d’agire nei loro interessi personali, senza subordinarli a quelli degli altri. Nemmeno una tale subordinazione degli interessi del proprio assistito, puòessere un atto dimisericordia, essendo la misericordia un fatto che comporta il proprio sacrificio, ma non impone i sacrifici nei confronti di colui del quale si è responsabili. 32 Desidero far notare alcuni note caratteristiche della presentazione fatta da G. Grisez. Innanzitutto, offre una chiara definizione/descrizione del rischio "significativo". Egli identifica come significativo, un rischio che sta "al di là dei rischi comuni della vita", ad esempio, alcuni rischi come guidare la macchina, attraversare una strada… "rischi" come quelli che i genitori abitualmente assumono quando hanno accompagnano i propri figli, in tipi di attività, che non sono finalizzate ad apportare alcun beneficio per i figli stessi. G. Grisez ci offre così, un criterio chiaro e ben definito, che ci aiuta a determinare se un certo rischio è "significativo". L’applicazione di questo criterio, perciò, potrebbe essere diversa, in relazione alla condizione socio-­‐culturale. Così, ciò che rappresenta un rischio "significativo" a Manhattan, a New York, potrebbe risultare diverso, da quello "significativo" a Wagga Wagga, in Australia. In secondo luogo, G. Grisez è chiaramente persuaso che un tale consenso dei genitori, in nessun modo "subordina" i propri figli agli interessi degli altri, dal momento che lo stesso consenso rifiuta tale subordinazione. Quando le condizioni offrono garanzie nei confronti del consenso dei genitori (o il consenso da parte di altri tutors) alla partecipazione, di coloro che vengono loro affidati, alla sperimentazione a scopo non terapeutico, in altre parole, tale consenso viene consegnato in buona fede alla fiducia, che viene data loro per proteggere l’inviolabiledignità proprio come persone, delle persone incapaci, del cui benessere sono i responsabili. Egli rifiuta esplicitamente, inoltre, che tale subordinazione possa essere "un atto di misericordia, perché la misericordia comporta il proprio sacrificio, non è un sacrificio imposto su qualcun’altro, di cui si è responsabili ". Dopo avere riflettuto sulle ragioni portate avanti da coloro che considerarono la mia visione troppo restrittiva e non necessariamente in grado di proteggere la dignità inviolabile delle persone "senza voce", ho concluso che non sarebbe irragionevole per i genitori permettere ai loro bambini di essere soggetti di studi a scopo non terapeutico, che non comportano alcunrischio "significativo" (come definito sopra) e non provocano un disagio significativo, o non rappresentano un peso per i loro bambini. Essi non tratterebbero i bambini come meri oggetti di uso o non mancherebbero di responsabilità, nel proteggere la loro vita e la loro salute, tramite ogni ragionevole mezzo. Ora penso, che la visione che ho difeso per molti anni rappresentasse infatti una reazione eccessiva agli esperimenti immorali sulle persone non-­‐capaci e una paura, ragionevole in se stessa, che la dignità intrinseca di persone così vulnerabili fosse messa in pericolo dal desiderio di subordinarli all'interesse di altri. Il consenso "per delega", in tali condizioni, non è un vero consenso per delega, cioè, un consenso dato anome delle stesse persone non capaci. 132 È il consenso personale, dei genitori o dei rappresentanti delle persone "senza voce",che permette a coloro, di cui hanno una seria responsabilità a motivo della partecipazione alle sperimentazioni non a scopo terapeutico se, e solamente se, tali esperimenti non presentano un rischio "significativo", promettono un grande beneficio e non possono essere eseguite su altri soggetti. Come prima abbiamo notato (si veda sopra la nota 29 ), penso che i bambini che hanno raggiunto " l'uso della ragione ", possano prendere decisioni libere e informate, anche se i genitori devono fornire ai loro figliinformazioni sufficienti, affinché loro facciano una scelta libera ed informata, riguardo al problema e possano rispondere ad alcuni loro bisogni e mantenereil potere di veto sulle decisioni dei loro figli, riguardo a tale questione, quando lo giudichino necessario. L’INSEGNAMENTO MAGISTERIALE PIÙ SIGNIFICATIVO Riguardo all’insegnamento magisteriale più significativo su tale argomento, è molto importante considerare a) il consenso per delega alla sperimentazione a scopo non terapeutico, sulle persone umane non ancora nate e b) e la stessa sperimentazione sulle persone già nate. Il Magistero Universale della Chiesa, ritiene assolutamente immorale il consenso per delega a favore degli esperimenti, a scopo non terapeutico, sulle persone umane non ancora nate. Un passaggio chiave, nella Donum Vitae, di assoluta importanza che riguarda tale argomento è il seguente: Per quanto riguarda la sperimentazione, presupposta la distinzione generaletra quella con finalità non direttamente terapeutica e quella chiaramente terapeutica per il soggetto stesso, nella fattispecie [ sperimentazione sugli embrioni umani e sui feti ] occorre distinguere anche tra la sperimentazione attuata sugli embrioni ancora vivi e la sperimentazione attuata su embrioni morti. Se gli embrioni sono vivi, viabili o non, devono essere rispettati come tutte le persone umane; la sperimentazione non direttamente terapeutica sugli embrioni è illecita. 33 Nessuna finalità, anche in se stessa nobile, come la previsione di un utilità per la scienza, per altri esseri umani o per la società, può in alcun modo giustificare la sperimentazione sugli embrioni o feti umani vivi, viabili e non, nel seno materno o fuori di esso. Il consenso informato, normalmente richiesto per la sperimentazione clinica sull’adulto, non può essere concesso dai genitori, i quali non possono disporre né della integrità fisica , né della vita del nascituro. D’altra parte, la sperimentazione sugli embrioni o feti, comporta sempre il rischio, anzi il più delle volte la previsione certa di un danno, per la loro integrità fisica, o addirittura della loro morte. Usare l’embrione umano, o il feto, come oggetto o strumento di sperimentazione, rappresenta un delitto nei confronti della loro dignità di esseri umani, che hanno diritto allo stesso rispetto dovuto al bambino già nato e ad ogni persona umana. 34 Quando ho letto questo passaggio, per la prima volta nel 1987 e negli anni successivi, lo interpretai nella prospettiva della mia posizione, che considera come immorale l’intero consenso per delega, per le cosiddette persone " senza voce ",a favore della sperimentazione a scopo non terapeutico, propriamente perché tale consenso viola la loro dignità come persone. Per tali motivazioni, suppongo che la ragione fondamentale per cui la Donum Vitae rifiuta in modo assoluto il consenso per delega alla sperimentazione, a scopo non terapeutico, sul bambino non ancora nato fosse la stessa ragione per la quale io stesso l’ho rifiutata. Comunque, il testo in questione mi sembra suscettibile di essere interpretato in tale direzione, in quanto il rifiuto a tale consenso è iniziato, sottolineando il rispetto dovuto agli embrioni umani, come persone che hanno la stessa dignità di tutte le altre persone umane. Infatti, suppongo che sia la Donum Vitae, sia Papa Giovanni Paolo II, nel passaggio citato nella nota a piè di pagina nº 29, considerarono immorale la sperimentazione a scopo non terapeutico, sugli embrioni umani – e certamente tutte le persone umane incapaci di sottoscrivere un 133 personale consenso informato – perché tale sperimentazione considera gli embrioni umani ed altre persone umane incapaci, come "oggetti" o "strumenti" da utilizzare. Così, quando in seguito ho scoperto che i Vescovi degli Stati Uniti, che, insieme con la Donum Vitae e Papa Giovanni Paolo II, hanno rifiutato in assoluto come illecito il consenso per delega, a favore degli esperimenti a scopo non terapeutico sulle persone umane non ancora nate, 35ciò nonostante hanno autorizzato i genitori a fornire il sopraccitato consenso, a favore delle sperimentazioni a scopo non terapeutico sui bambini già nati, se tali esperimenti non comportano alcun "rischio significativo per il bene delle persone implicate in essi". 36 Io li accuso di usare un "duplice criterio", uno che riguarda i bambini non ancora nati e un altro per i bambini già nati. 37 Una posizione simile a quella dei Vescovi degli Stati Uniti è stata presa dalla gerarchia Australiana. 38 Tuttavia, attualmente, dopo aver cambiato la mia posizione, relativa al consenso per delega alle sperimentazioni a scopo non terapeutico, che non comportano un rischio "significativo" per le persone incapaci o "senza voce", ho capito che avevo letto le mie opinioni nella Donum Vitaee nel passaggio di Papa Giovanni Paolo II già citato. Ero colpevole di esegesi e avevo dimenticato di considerare la possibilità di interpretare gli argomenti in modo diverso. Attualmente, penso che la ragione principale per la quale la Donum Vitae rifiuta il consenso per delega per le sperimentazioni a scopo non terapeutico, sulle persone umane non ancora nate è che: " […] la sperimentazione sugli embrioni o sui feti comporta sempre il rischio, anzi, il più delle volte, comporta la previsione certa di un danno per la loro integrità fisica o addirittura della loro morte ". ( Donum Vitae 1.4; il corsivo è stato aggiunto ). E’ per tale ragione che la Donum Vitae sottolinea, inoltre, che tale sperimentazione considera l’embrione umano vivo come un mero "oggetto" o come uno "strumento". Una obiezione ragionevolmente valida, perché tutte le sperimentazioni a scopo non terapeutico, sul bambino non ancora nato, sono illecite, a motivo dei gravi rischi che esse comportano e per quale motivo tali esperimenti sono giustificati sulle persone umane già nate? Un bambino non ancora nato non può essere un soggetto legittimo degli esperimenti a scopo non terapeutico, ma evidentemente lo stesso bambino, dopo la nascita, può diventarlo. Tutto questo mi sembra assurdo. Come risposta a tale obiezione logica, penso che sia fondamentale mettere in evidenza che i genitori e altri soggetti, che hanno la responsabilità di prendersi cura delle persone "senza voce" o incapaci, non possono lecitamente accettare di sottoporre quest’ultimi a procedure senza alcuno scopo terapeutico, se tali procedure comportano dei rischi "significativi". Inoltre, sostengo che i neonati sono soggetti molto vulnerabili e si può ragionevolmente ottenere che gli esperimenti condotti su di loro, a scopo non terapeuticonon comportino rischi significativi, maggiori dei benefici che ci aspetta. CONCLUSIONE SUL CONSENSO "PER DELEGA" A FAVORE DEI SOGGETTI INCAPACI O "SENZA VOCE"PER LA LORO PARTECIPAZIONE ALLE SPERIMENTAZIONI A SCOPO NON TERAPEUTICO Come abbiamo gia visto, qui il termine consenso "per delega" viene usato impropriamente, dal momento che i soggetti potenziali, precisamente perché non capaci o senza voce, non sono in grado di dare il loro consenso e nessuno dovrebbe presumere di dare il consenso per loro. Il consenso in questione, è il consenso personale dei genitori e di altri tutors. 134 La dignità propria degli esseri umani in quanto persone e la dignitàproprio come agenti morali, sono entrambi in pericolo. Per i genitori e per altri custodi, che potrebbero dare il consenso, per coloro che sono sotto la lorocura, per partecipare agli esperimenti con finalità non terapeutica, la prima dignità a rischio é la loro dignità proprio come agenti morali, in quanto devono rispettare assolutamente la dignità come persone, di coloro che sono "senza voce", incapaci, affidati alla loro fiducia. Se a loro giudizio, la sperimentazione proposta non violasse la dignità proprio come persone dei propri rappresentati, tutto questo potrebbe non essere ancora irragionevole o rappresentare una violazione alla fiducia a loro affidata, per dare il consenso necessario. Una condizione sine qua non, se tale consenso possa essere moralmente lecito, è precisamentela richiesta che l’esperimento proposto non comportialcun "rischio significativo" (così comè stato gia definito), per le persone affidate alla loro cura. 1 JOSEF SEIFERT, ha distinto una radice «quadrupla» della dignità umana ( o 4 tipi di dignità umana ) in un eccellente ed utile saggio, «Il diritto alla vita e la radice quadrupla della dignità umana », in « La natura e la dignità della persona umana come fondazione del diritto alla vita: Le sfide del contesto culturale contemporaneo » ( Atti dell’8ª Assemblea della Pontificia Accademia per la Vita, Città del Vaticano, 25-­‐27 Febbraio 2002 ), eds. Juan de Dios Vial Correa e Elio Sgreccia ( Città del Vaticano: Libreria Editrice Vaticana, 2003 ), pp. 194-­‐215. Laprima, la terza e la quarta “radice” della dignità umana che egli distingue, corrisponde ai tre tipi di dignità umana che descrivo in questa sede. Il secondo tipo di dignità umana che J. Seifert distingue è la dignità che gli esseri umani hanno in quanto persone, realmente consapevoli di loro stessi come soggetti, in possesso dell’esercizio delle facoltà di conoscere, ponderare e di scegliere. J. Seifert, giustamente sottolinea che dalla reale consapevolezza ha origine una « seconda e nuova dimensione della dignità della persona », che consiste nella « consapevole realizzazione della persona, nella cosciente consapevolezza personale, che rappresenta, in un certo senso, l’atto dell’essere personale » (p. 206). I bambini non ancora nati, i neonati ed altre categorie di esseri umani, che sono certamente persone in potenza e non soltanto potenziali persone, fanno parte del primo tipo di dignità che ho descritto e che J. Seifert include in questa quadruplice classificazione. Tuttavia, tali persone che godono di tale consapevolezza personale, hanno gli stessi diritti delle persone la cui consapevolezza non è stata ancora realizzata ( come ad esempio, bambini non ancora nati ) o nelle quali tale consapevolezza risulta assente o gravemente ridotta a causa di una lesione o non è posseduta a causa di una malattia. Così, tutte le persone umane, che siano realmente consapevoli oppure no, hanno il diritto di vivere, a motivo del loro essere persone, ma non hanno altri tipi di diritti reali, come il diritto di libertà di parola, come al contrario hanno le persone consapevolmente consapevoli di loro stesse. Tale radice di una dignità umana già distinta, di conseguenza, ha avuto uno spazio molto importante nel saggio di Seifert, che si è occupato della relazione tra i differenti tipi di dignità e di diritti umani. Mi concentrerò, in tale sede, sul diritto di tutte le persone umane di essere riconosciute come esseri di inalienabile dignità, a ragione della loro dignità proprio come persone e sul dovere morale, non sul diritto morale, di acquisire, in quanto persone consapevolmente consapevoli, la propria dignità come agenti morali, formando la propria vita e formulando le proprie scelte, in accordo con la verità. 2 Così dichiarava l’Associazione Medica Mondiale, nella giustamente famosa Dichiarazione di Helsinki, adottata dalla 18ª Assemblea Medica Mondiale, nel 1964 e rivisitata dalla 29ª Assemblea, nel 1975: « Il progresso medico è fondato sulla ricerca che, in definitiva, deve basarsi 135 in parte sulla sperimentazione che coinvolge soggetti umani » ( Introduzione ). E’ possibile trovare il testo di tale Dichiarazione in « Contemporary Issues in Bioethics » eds. TOM L. BEAUCHAMP E LEROY WALERS ( 2ª ed. C.A. Belmont: Wadsworth, 1986 ); pp. 511-­‐512. 3 Consultare, ad esempio, Pope Pius XII, Allocution to First International Congress of Histopathology, 14 settembre 1952; in The Human Body: Papal Teachings (Boston: St. Paul Editions, 1979), nn. 637-­‐649. Consultare, inoltre, Catechism of the Catholic Church (1994), nn. 2292-­‐2293, e Pontifical Council for Pastoral Assistance to Health Care Workers,Charter for Health Care Workers (1994), n. 75-­‐82 e fonti in esso citate 4 Studi meritevoli della ricerca medica e della sua storia vengono forniti da BEECHER, HENRY, Research and theIndividual (Boston: Little, Brown, 1977) e da KATZ, JAY; CAPRON, ALEXANDER; e SWIFT-­‐GLASS, ELEANOR,Experimentation with Human Beings (New York: Russell Sage Foundation, 1972). Moraczewski, ALBERT,O.P., dà una panoramica breve ma utile nel suo saggio, “Human Experimentation and Research,” in Catholic Health Care Ethics: A Manual for Ethics Committees, eds. MORACZEWSKI, ALBERT, O.P., e CATALDO, PETER, (Boston: National Catholic Bioethics Center, 2001), capitolo 23. 5 Associazione Medica Mondiale, Dichiarazione di Helsinki, Introduzione. 6 Catholic Health Australia,Code of Ethical Standards for Catholic Health and Aged Care Services in Australia (ACT: Catholic Health Australia, 2001), n. 6.1, p. 49. 7 APPLEBAUM, PAUL, et al., “False Hopes and Best Data: Consent to Research and Therapeutic Misconceptions”,Hastings Center Report 17 (2) (Aprile, 1987) 16-­‐30. 8 A riguardo, consultare ASHLEY, BENEDICT, O.P. e O’ROURKE, KEVIN, O.P., Health Care Ethics: A Theological Analysis ( 4 thed. Washington, D.C.: Georgetown University Press, 1997), pp.345-­‐346. Come il Codice dei Criteri EticiAustraliano ne descrive l’importanza: “ E’… importante distinguere tra una ricerca che è terapeutica, che è condotta con l’intenzione di procurare un chiaro beneficio clinico al partecipante alla ricerca stessa con il miglioramento della conoscenza, e una ricerca che è non-­‐terapeutica, che è condotta non con l’intenzione di procurare un beneficio al partecipante ma piuttosto con l’intenzione di migliorare l’informazione che può nel tempo giovare ad altri. ” 9 A riguardo, consultare FOSTER, CLAIRE, The Ethics of Medical Research on Humans ( Cambridge: Cambridge University Press, 2000 ), p. 21. 10 Testo inBEUCHAMP/WALTERS, p. 510. 11 Il Governo Statunitense richiede che tutte le istituzioni che portano avanti progetti di ricerca, finanziati con fondi pubblici, nominino un comitato di revisione istituzionale (CRI) e il governo federale degli Stati Uniti non finanzierà progetti di ricerca, se questi non saranno stati prima approvati da tale CRI (CommissionE DEL PRESIDENTE PER LO STUDIO DI PROBLEMI ETICI IN MEDICINA E NELLA RICERCA Biomedica E COMPORTAMENTALE,CRI Guidebook(Washington, D.C.: Ministero della Sanità e dei Servizi Umani, 1983). 12 Associazione Medica Mondiale, Dichiarazione di Helsinki, in BEAUCHAMP/WALTERS, pp. 511-­‐512. 13 GIOVANNI PAOLO II, Discorso ai Rappresentanti della Società Italiana di Medicina e alla Società Italiana di ChirurgiaGenerale, 27 Ottobre 1980, in Insegnamenti III/2, 1009, n. 3. 14 Karol Wojtyla, Amore e responsabilità, trad. H. Willetts (New York: Farrar, Straus and Giroux, 1981), p. 41. 15 HERRANZ, GONZALO, “Christian Contributions to the Ethics of Biomedical Investigation: An Historical Perspective,” un saggio contenuto in questo volume. Consultare in particolare le note 21 e 28. 16 Molte affermazioni di PAPA PIO XII sono raccolte in The Pope Speaks, vol. 1, nn. 3 e 4 (1954). Tra i suoi discorsi più importanti su tale argomento ci sono quelli relativi al Primo Congresso Internazionale sull' Istopatologia del Sistema Nervoso (14 Settembre 1952), il Sedicesimo 136 Congresso Internazionale di Medicina Militare (19 ottobre 1953) e il suo discorso all'Ottavo Congresso dell'Associazione Medica Mondiale Settembre 1951). 17 PAPA GIOVANNI PAOLO II, Discorso ai Rappresentanti della Società Italiana di Medicina ed alla Società Italiana di Chirurgia Generale, 27 ottobre 1980, in Insegnamenti III/2, 1009, n. 5. Io ritengo che le riflessioni del suddetto Paul Ramsey sul “principio” del consenso libero ed informato siano molto pertinenti su tale argomento. Dopo aver notato che altri aspetti della ricerca, ad esempio le esigenze scientifiche di un progetto sperimentale corretto e della conoscenza e della competenza professionali, considerano il soggetto come passivo o come paziente, Ramseyha affermato: «un essere umano è più di un paziente o di un soggetto sperimentale: è un soggetto personale—ogni parte di esso è un uomo allo stesso modo del medico che effettua l'esperimento. In procedure del genere, la lealtà è tra uomo e uomo. Il consenso esprime o stabilisce tale relazione e l'esigenza di ottenere tale consenso la supporta. La lealtà è il legame tra l'uomo che dà il proprio consenso e l'uomo che dà il proprio consenso, in procedure del genere. Il principio del consenso informato è uncanone cardine della lealtà che unisce gli uomini nella prassi e nell'indagine medica. In tale requisito, la fedeltà tra uomini—la fedeltà che è di norma per tutti i patti o gli impegni morali della vita con la vita—acquista importanza per le relazioni primarie, tipiche della prassi medica». P. Ramsey delinea la questione molto bene quando egli ha, inoltre, affermato: « nessun uomo è competente abbastanza per effettuare degli esperimenti su di un altro, senza il consenso di quest’ultimo». Fare riferimento a RAMSEY, PAUL, The Patient as Person (New Haven: Yale University Press, 1970), pp. 5, 7. 18 Codice di Norimberga, Articolo 1; il testo si trova in Beauchamp/Walters, p. 511. 19 Consultare il suo «Research and the Individual», pp. 18-­‐19, 231f. 20 Ramsey nota che “Sir Harold Himsworth ha affermato (1953) che il giuramento di Ippocrate può essere reso con un'unica frase: « Agisci sempre in modo da aumentare la fiducia…Questa frase potrebbe recitare ancor meglio nel modo seguente: Agisci sempre in modo da non abusare della fiducia: agisci sempre in modo da mostrare lealtà, da meritare ed ispirare fiducia » in“The Patient as Person” , p. 8, nota a piè di pagina 6. 21 CONsiglio PontificIO PER L'ASSISTENZA Pastorale AGLI OPERATORI SANITARI,Carta degli operatori sanitari(1994), n. 73.P. Ramsey ha espresso chiaramente, a mio avviso, il significato di quello che la Carta definisce il "principio di responsabilità sanitaria" nel modo seguente: « potremmo dire che se un medico si ferma sulla strada di Gerico, invece di passare sulla propria strada, per leggere un documento di ricerca prima di una riunione scientifica o di andare a visitare i suoi pazienti abituali e paganti, si autodefinisce come sufficientemente competente per la pratica medica, senza il consenso espresso dall'uomo bisognoso ». A tale riguardo, consultare il suo libro « Patient as Person », pp.7-­‐8. 22 JONAS, HANS, “Philosophical Reflections on Experimenting with Human Subjects,” in H. Jonas, PhilosophnicalEssays: From Current Creed to Technological Man (Chicago: University of Chicago Press, 1980), pp.105-­‐131. 23 Ashley and O’Rourke,HealthCare Ethics, pp. 346-­‐347. 24 Il testo di questi Articoli viene fornito in Beauchamp/ Walters, I nomi di battesimo degli autori e il titolo ?????p. 511. 25 Il termine significativo, “senza voce”, veniva usato da PAUL RAMSEY per descrivere bambini e altri incompetenti, dipendenti da altri per la cura, nel suo saggio: « A Reply to Richard Mc Cormick. The Enforcement of Morals: Non-­‐therapeutic Research on Children », Hastings Center Report 6.4 (May, 1976 ); 21-­‐23. 26 NATIONAL CONFERENCE OF CATHOLIC BISHOPS, Ethical and Religious Directives forCatholic Health Care Facilities (1994), n. 25. 27 Charter for Health Care Workers,n.73. 137 28 MC CORMIK, RICHARD, S.J., How Brave a New World? Dilemmas in Bioethics (Garden City, NY: Doubleday, 1981), capitolo 4°, “Proxy Consent in the Experimental Situation”, pp. 61-­‐62e capitolo 6º, “Sharing in Sociality: Children and Experimentation”, pp. 87-­‐98. 29 In tale sede desidero sottolineare che io credo, insieme ad altri, che i bambini nella misura in cui crescono, diventano capaci di esercitare il loro intelletto, e il potere di scegliere liberamente. In accordo con il Codice di Diritto Canonico, riconosciamo che “minorenni”, ad esempio, individui al di sotto del 18° anno d’età, “alla fine del settimo anno di vita.. [sono ] presumibilmente in grado di usare la ragione (“Minor... expleto autem septennio, usum rationis habere praesumitur”) (Canone 97.2). Coloro che hanno raggiunto l’uso della ragione, io penso, possono dare il loro personale consenso libero e informato per essere soggetti delle ricerche/esperimenti non terapeutichecome di quelle terapeutiche. Comunque, io credo che i genitori dei bambini minorenni, possono proibire tale autorizzazione. 30 A riguardo consultare il mio saggio: «Experimenting on Human Subjects », The Linacre Quarterly 41(3 ): 238-­‐252 e inoltre il mio saggio: « Human Existence, Medicine, And Ethics: Reflections on Human Life » (Chicago: Franciscan Herald Press, 1977), pp. 21-­‐28; P. RAMSEY, “A Reply to Richard Mc Cormik: «TheEnforcement of Morals: NonTherapeutic Research on Children ». 31 P. RAMSEY: « The Patient as Person »; pp. 12-­‐14. 32 GERMAIN GRISEZ: « The Way of the Lord Jesus », vol. 2;Living a Christian Life (Quincy, IL: Franciscan University Press, 1993), p. 534, la sottolineatura è stata aggiunta. 33 CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Istruzione Donum Vitae (1987); 1.4, AAS 80, 81-­‐83. L’originale è in italiano. A questo punto, si rimanda alla nota a piè di pagina, n° 29. Essa afferma: « Condanno, nel modo più esplicito e ufficiale, le manipolazioni sperimentali dell’embrione umano, perché è un essere umano, dal momento del suo concepimento sino alla morte, non deve essere strumentalizzato per nessuna ragione ».Cf. GIOVANNI PAOLO II, Discorso ai Partecipanti al Convegno della Pontificia Accademia delle Scienze, (23 Ottobre 1982), in AAS 75 (1983) 37. 34 Ibid. 35 A tale proposito, consultare NATIONAL CONFERENCE OF CATHOLIC BISHOPS, “ Ethical and Religious Directives for Catholic Health Care Facilities “; nº 51: « La sperimentazione a carattere non terapeutico, sull’embrione vivo o sul feto, non sono permessi, neanche con il consenso dei genitori ». Consultare inoltre “ Charter for Health Care Workers “ nº 82. 36 Ibid, nº 31, che in parte afferma: « Nel caso di sperimentazione a scopo non terapeutico, il delegato può dare il consenso solo se l’esperimento non comporta un rischio significativo per tutte le persone implicate in esso » ( il corsivo è stato aggiunto). 37 Ho fatto tale accusanel mio saggio: « Catholic Bioethics and the Gift of Human Life » ( Hunting, IN: Our Sunday Visitor, 2000 ); pp. 208-­‐209. 38 A tale proposito consultare il testo: Australian Bishops’ “Code of Ethical Standards for Catholic Health and Aged Services in Australia”. Al nº 6.6 di tale documento leggiamo: « La ricerca che coinvolge persone vulnerabili deve essere intrapresa soltanto quando la conoscenza che è stata ottenuta è sufficientemente avanzata, da garantire persone così vulnerabili, coinvolte in tale ricerca e tale conoscenza non può essere ottenuta attraverso altri mezzi […] La sperimentazione, con finalità non terapeutica, non deve comportare alcun rischio significativo per tutte le persone coinvolte in essa » ( il corsivo è stato aggiunto ). 138 DANIEL SERRÃO
L’ETICA DELLA RICERCA SPERIMENTALE SULL’UOMO: PRINCIPI E LINEE GUIDA INTRODUZIONE Gli aspetti etici della ricerca sperimentale sull’uomo sono oggi tra le questioniprincipali della società civile perché le biotecnologie sono percepite dall’opinione pubblica laica come una possibileminaccia personale. Per questa ragione molte organizzazioni internazionali, come l’OMS, il CIOMS ed altre, hanno dedicato tempo e risorse per discutere gli aspetti scientifici ed etici della ricerca sperimentale sugli animali e sugli uomini, compresi gli embrioni ed i feti. Nel mio contributo mi occuperò soltanto della ricerca su esseri umani adulti nello specifico ambito della sanità.Non è oggetto di questa trattazione la questione degli animali e delle piante, come soggetti della ricerca, pur essendo un argomento d’indubbia importanza per l’uomo e meritevole di attenzioneper l’avvenire. Ci sono differenti tipi di ricerca legati al contesto sanitario. Secondo una recente pubblicazione del Nuffield Council on Bioethics (1) gli ambiti più importanti sono: la ricerca di base la ricerca clinica la ricerca epidemiologica la ricerca sociale e comportamentale studi d’intervento, compresistudi sia clinici sia di popolazione studi sull’erogazione del servizio sanitario La ricerca di base è generalmente incentrata su attività di laboratorio che comprendono studi a livello cellulare, studi immunologici e patogenetici. Questo tipo di ricerca dipende spesso dall’utilizzazione di campioni prelevati dal paziente. La ricerca clinica è spesso eseguita con i pazienti in un contesto medico, ad esempio un ospedale, con lo scopo di ottenere migliori informazioni sulla storia naturale o lo sviluppo patogenetico di una malattia per poternemigliorare le strategie di diagnosi, di cura o di prevenzione. La ricerca epidemiologioca riguarda normalmente indagini su popolazioni, che possono comprendere studi incrociati su popolazioni selezionate (studi di caso-­‐controllo) oppure su tutti i membri di una comunità, o può coinvolgere studi longitudinali prospettici sulle popolazioni (studi di coorte). Questo tipo di ricerca è condotta per conoscere meglio la storia naturale di una malattia o per identificare fattori che aumentano o diminuiscono l’incidenza di rischio di una malattia negli individui. Questi tipi di ricerche riguardano spesso lo studio di grandi popolazioni e possono essere di tipo osservazionale o d’intervento. Lo scopo è di identificare strategie per il miglioramento della prevenzione o della cura della malattia una comprensione più approfondita dei fattori di rischio della malattia o della sua progressione. La ricerca sociologica e comportamentale è spesso una parte della ricerca epidemiologica ed è incentrata sullo studio dei fattori comportamentali e socialiche possono modificare il rischio d’incidenza di una malattia nei singoli individui o nelle popolazioni. Questo tipo di ricerca può implicare la raccolta dei dati sensibili riguardo alla persona e al suo stile di vita (ad es. i comportamenti sessuali). Mentre alcuni tipi di ricerca sono semplicemente osservazionali altri 139 possono riguardare i modi di esaminare o verificare il cambiamento dei comportamenti e delle condizioni sociali. Studi d’intervento sono condotti per valutare l’impatto di specifici interventi di prevenzione della malattia, spesso nel contesto di studi su popolazioni, o di modificazione del decorso clinico di una malattia, spesso nel contesto di studi clinici. Questo tipo di ricerca può costituire la base per definire linee di condotta sulle decisioni da prendere e sulle priorità da attribuire. Gli studi d’intervento riguardano spesso il confronto fra le diverse cure o strategie di prevenzione in cui il metodo utilizzato correntemente è messo a confronto con un altro, spesso nuovo, che potrebbe essere più efficace di quello già esistente. Se non ci sono trattamenti efficaci già esistenti possono essere utilizzati, sia un placebo sia “nessuna cura” come termini di paragone su cui stimare l’impatto del nuovo trattamento. Idealmente gli individui sono distribuiti casualmente per ricevere idiversi trattamenti che saranno confrontati nello studio. Le ricerche sui servizi sanitari e sulle politiche di erogazione del servizio riguardano lo studio dei metodi di erogazione della cura sanitaria, dell’accesso ai trattamenti e della qualità della cura, allo scopo di trovare metodi più efficaci per una migliore cura. Questi studi riguardano spesso anche la valutazione dei costidi accesso ad una cura medica e dei benefici forniti. Nel campo della ricerca su individui adulti, uomini e donne, ci sono molti problemi che meritano di essere posti all’attenzione dell’opinione cattolica. Esistono molti documenti internazionali e linee guida che hanno seguito il Codice di Norimberga, mapresenterò qui il Protocollo sulla Ricerca Biomedica, preparato dallo Steering Committee on Bioethics(CDBI) ed aperto alla discussione pubblica, la cui versione finale sarà approvata nel 2002 e proposta per la firma agli stati membri nel 2003. Il Protocollo copre l’intera gamma delle attività di ricerca biomedica comprendendo qualsiasi tipo d’intervento sugli esseri umani, ma non riguarda la ricerca sugli embrioni in vitro; riguarda, invece, la ricerca sul feto e sugli embrioni in vivo, così come sulle donne gravide. L’opinione cattolica non è contro le ricerche su individui umani a patto che siano pienamente rispettati la dignità ed i diritti dell’uomo. In questo senso il Protocollo afferma, come la Convenzione, che l’interesse ed il benessere degli esseri umani che partecipano alla ricerca deve prevalere al solo interesse della società e della scienza. Per proteggere la dignità ed i diritti umani il protocollo afferma che ogni progetto di ricerca debba essere approvato da un’autorità competente dopo un esame indipendente sul suo valore scientifico, compresa la valutazione dell’importanza dello scopo della ricerca ed un vaglio multidisciplinare della sua accettabilità etica. La revisione etica da parte di un comitato indipendente e multidisciplinare è il punto centrale per la protezione della dignità e dei diritti dell’uomo. Questo punto è sottolineato anche dalla Dichiarazione di Helsinki (Edimburgo, 2000) che afferma “il comitato deve essere indipendente dai ricercatori, dallo sponsor e da qualsiasi tipo d’indebita influenza”: il Protocolloafferma che i membri del comitato etico devono dichiarare tutte le circostanze che possono portare ad un conflitto d’interessi. Se un conflitto dovesse sorgere le persone coinvolte non dovrebbero partecipare alla revisione. Per promuovere una buona e solida conoscenza del comitato etico il Protocollo fornisce, negli Articoli successivi, i dettagli sulle informazioni che i ricercatori ed i promotori sono obbligati a presentare, la dimostrazione che nessuna indebita influenza, compresi guadagni finanziari, viene esercitata sulle personeper partecipare alla ricerca, con particolare attenzione alle persone dipendenti e vulnerabili. E’ inoltre importante che l’informazione sia fornita ai partecipanti della ricerca e che sia completa e comprensibile. Questa informazione è la condizione sine qua non per 140 ottenere il consenso da parte di coloro che intendono partecipare alla ricerca. I principali argomenti dell’informazione devono essere: la natura, l’entità e la durata delle procedure coinvolte, in particolare i dettagli di qualsiasi peso imposto; i rischi implicati; i diritti e le tutele prescritte per legge in loro protezione; Il loro diritto di rifiutare il consenso o di ritirarlo in ogni momento, senza che venga pregiudicato il loro diritto ad appropriate e tempestive cure mediche, e senza che venga subito alcun danno, le disposizioni per affrontare eventuali eventi avversi o le inquietudini dei partecipanti; provvedimenti per assicurare il rispetto della vita privata e la riservatezza dei dati personali; provvedimenti per l’accesso alle informazioni rilevanti sui partecipanti che derivano dalla ricerca e dai risultati completi; provvedimenti per un’adeguata indennità in caso di danno; qualsiasi prevedibile utilizzazione ulteriore, compreso l’uso commerciale, dei risultati della ricerca, dei dati o del materiale biologico. Il punto più difficile è la protezione della persona che non è in grado di dare un consenso per la ricerca. Se le ricerche sono in grado di dare un reale e diretto beneficio alla sua salute e con le precauzioni prescritte per legge, queste ricerche possono essere accettabili. Senza questi benefici l’accettabilità della ricerca è problematica ed aperta alla discussione.Anche se il rischio ed il peso della ricerca è minimo, in soggetti che non sono in grado di dare il consenso, compresi i minori, con un tutor che dia il consenso, e con qualche probabilità di produrre risultati che diano un beneficio diretto per la salute della persona coinvolta, mi sembra che si tratti di una manipolazione non in accordo con l’affermazione enfatica che il benessere delle persone che partecipano alla ricerca debba prevalere al solo interesse della società e della scienza. In generale l’opinione cattolica non è d’accordo con questo tipo di ricerche. Gli studi clinici promossi dalle industrie farmaceutiche sono un altro punto da prendere in considerazione. Ci sono quattro fasi distinte di questi trials: (Tradotto da (1)) Studi di Fase I Gli studi di fase I sono il primo momento in cui i soggetti umani sono esposti a medicine potenzialmente nuove. L’obiettivo di questi trials sarà di studiare la farmacodinamica e risposta alla dose, e nel caso dei vaccini, la risposta immunitaria, e di determinare la dose massima che può essere tollerata dai partecipanti. Nel caso della maggior parte delle medicine nuove questi studi saranno svolti su un piccolo numero di volontari sani. Non ci si aspetta che l’efficacia della medicina sia messa in evidenza dagli studi di Fase I. Studi di Fase II Utilizzando le informazioni riguardanti le dosi sicure fornite dagli studi di Fase I, il farmaco sarà somministrato ai pazienti che soffrono della malattia bersaglioed ora un numero significativo d’individui sarà coinvolto nello studio. Quasi sempre questi studi vengono svolti in vari centri clinici. Lo scopo dello studio di Fase II e di dimostrare l’efficacia della medicina contro una specifica malattia. Ulteriori informazioni sulla sicurezza della cura saranno messe in evidenza da questi studi perché un maggior numero di individui è esposto alla cura. Nel trial di Fase II il paziente è spesso assegnato casualmente al gruppo che riceverà la nuova cura o al gruppo che riceverà il placebo ( un composto che non possiede alcun effetto terapeutico), o più spesso, al trattamento convenzionale e già collaudato. 141 Studi di Fase III Se un farmaco ha dato prova di essere efficace e senza significativi effetti collaterali, si entrerà in Fase III, dove molte centinaia, a volte qualche migliaia di pazienti saranno arruolati. Questa fase è generalmente condotta non solo per confermare l’efficacia clinica del farmaco, ma anche per stabilire la sua efficacia in confronto ai trattamenti tradizionali. Questi studi sono spesso multicentrici e spesso condotti su basi internazionali. Di nuovo viene posta una grande attenzione ai possibili effetti collaterali in quanto un gran numero di pazienti è esposto alla cura. Gli end-­‐points di Fase III includonola dimostrazione di un miglioramento statisticamente significativo dell’efficacia della nuova medicina rispetto a terapie già collaudate, se ne esistono. Studi di Fase IV Una volta che la nuova medicina entra in commercio sarà soggetta a controlli post-­‐ marketing per identificare gli effetti collaterali ed altri affetti avversi che si metteranno in evidenza perché un numero molto maggiore d’individui saranno trattati con quel farmaco. Inoltre studi clinici formali continueranno per sviluppare una maggiore comprensione del farmaco e dei suoi effetti in un contesto clinico più ampio, ma anche per estendere la sua utilizzazione ad altre indicazioni cliniche o a differenti gruppi di pazienti, come i bambini e le persone più anziane. Speciali disegni di studio possono essere utilizzati a seconda degli obiettivi dello studio per la valutazione dell’efficacia e della sicurezza. Questi trialspossono includere studi di andamento temporale, studi di caso-­‐controllo, o l’introduzione graduale di un trattamento in differenti aree. Gli studi di Fase IV possono anche essere messi a punto per misurare l’impatto della cura in pattern epidemiologici o di trasmissione di una malattia infettiva. Quando ci si propone di avviare questi studi nei paesi in via di sviluppo c’è il rischio che non esista un comitato etico indipendente e multidisciplinare per dare un’opinione di carattere etico dopo aver revisionato il progetto di ricerca. Dopo la notizia di abusi in alcune città, come in Africa, le OMS così come alcune organizzazioni internazionali, come laWorld Medical Association, il Council for International Organization of Medical Sciences, ed altre hanno preparato un documento-­‐ Operational Guidelines for Ethics Commettees that Review Biomedical Research-­‐ per sostenere il miglioramento dell’organizzazione, della qualità e degli standards di revisione etica nel mondo: penso che questo documento possa essere approvato dalla nostra Accademia e che questa approvazione posa essere comunicata all’OMS. Il Forum Europeo per la Buona Pratica Clinica, così come il Parlamento Europeo e la Commissione Europea hanno preparato dei documenti per mettere d’accordo la legge ed i provvedimenti amministrativi che regolano gli studi clinici di Fase II e III. L’opinione cattolica sostiene i valori promossi da questi documenti; e rafforza le disposizioni sull’utilizzazione del placebo della dichiarazione di Helsinki riguardo alla “grande attenzione che dovrebbe essere presa nell’utilizzare trialscon placebo di controllo, e più in generale, questa metodologia dovrebbe essere utilizzata solo in assenza di terapie provate già esistenti”.L’utilizzazione del placebo può aprire la strada all’abuso di quelle persone coinvolte nello studio terapeutico che non possono essere informate del fattoche potranno ancheprendere la vera medicina ma una simile che non ha alcuna azione terapeutica. Ci sono notizie di certe ricerche terapeutiche sull’AIDS, in corso in Africa, che sono condotte con medicine contro il placebo in donne incinte-­‐ chiaramente contro la Dichiarazione di Helsinki. Dal punto di vista cattolico è sempre necessaria una chiara affermazione dell’imperativo morale del rispetto della dignità umana. Questo ci richiama a riconoscere che ogni persona deve essere 142 trattata innanzi tutto come persona e come un fine in se stessa, non come un oggetto o come unmezzo per un fine; questo significa rispettare il diritto di prendere decisioni libere ed informate nel rispetto dell’esercizio del consenso individuale. I ricercatori dovrebbero riconoscere e legittimare la realtà cheun consenso libero ed informato è frutto di un processo e non è semplicemente il mettere una firma nella scheda di consenso. Il processo inizia con il primo contatto con i potenziali partecipanti, comprende il dialogo e la condivisione delle informazioni, e continua per tutto l’iter del progetto. Le esigenze morali di una reale comprensione, di una reale assenza di controllo da parte di terzi, e di un’autorizzazione, concessa al ricercatore, per far qualcosa ai partecipanti, non sono suscettibili alla formulazione di valutazioni da parte dei ricercatori, o dei Comitati Etici quali il Research Ethics Boards. Questo è un punto molto importante e le istituzioni cattoliche, così come i partecipanti cattolici ai Research Ethics Boards dovrebbero sempre vigilare molto attentamente sul processo d’informazione data al paziente coinvolto nel programma di ricerca e sull’espressione del consenso. Questo vale soprattutto nei Paesi in via di sviluppo, dove gli ostacoli culturali, sociali e politici sono così preoccupanti che i promotori non informano le persone che saranno coinvolte nello studio ma le autorità, che danno o no il consenso per la ricerca. Sfortunatamente, in certi paesi, i soldi e la corruzione sono i mezzi più efficaci per ottenere autorizzazioni alla ricerca su soggetti umani. Le ricerche condotte nei paesi in via di sviluppo, sulla Malaria e l’infezione da HIV, sono state criticate perché non si utilizzano trattamenti per i pazienti con infezione da HIV che fanno parte del gruppo cui è somministrato il placebo. Una discussione ben equilibrata sulle questioni etiche è stata presentata da V.Leontis (2). Nel riferimento (1) può essere trovata una discussione pregnante e molto completa sulle questioni etiche correlate alla ricerca nei paesi in via di sviluppo. L’opinione Cattolica può essere d’accordo con le istanze proposte dal Nuffield Report; questi aspetti dovrebbero essere considerati nel revisionare proposte di ricerca nei paesi in via di sviluppo. Riassumendo l’opinione cattolica riguardo l’etica della ricerca sperimentale negli esseri umani può essere presentata in tre punti. In ogni tipo di ricerca la sacralità della vita umana creata da Dio, e la dignità dell’essere umano sono i valori principali che devono essere rispettati. I principi dedotti da questi valori sono, nella ricerca in ambito sanitario, il dovere di alleviare la sofferenza, il dovere di rispettarela persona, il dovere di non sfruttare i più vulnerabili. Questi principi devono essere tradotti nella pratica e per questo deve esistere una procedura appropriata. I comitati etici di ricerca con un ampio spazio d’intervento, sono una parte molto importante e necessaria per un’appropriata procedure di controllo del rispetto dei principi. Comunque i comitati etici di ricerca devono essere forniti di membri indipendenti e competenti, e dare pareri chiaramente giustificatied aperti alla responsabilità pubblica e democratica. Gli esseri umani, compresi gli embrioni ed il feto, non possono mai essere usati, nella ricerca sperimentale, come mezzi per un fine, senza rispetto per le loro vite, dignità e benessere, anche se il fine si presenta come un bene per la società o la salute dell’umanità. 143 APPENDICE -­‐ Nuffield Council of Bioethics “Issues to be considered when reviewing research proposals” Aspetti politici La ricerca ha bisogno di essere condotta nei particolari paesi in esame? Lo scopo della ricerca può essere giustificato? La ricerca proposta è pertinente per le priorità nazionali di ricerca sulla salute? Se la ricerca non è conforme alle priorità nazionali, è in ogni caso giustificata? Sono stati rilevati i criteri per selezionare la popolazione in studio? Sono state considerate tutte le questioni correlate al genere di popolazione da studiare? I fondi stanziati per la ricerca sono sufficienti per completare il progetto? Se positivi, i risultati possono essere implementati sia ora sia nel prossimo futuro? Aspetti scientifici I ricercatori che intraprendono la ricerca sono appropriatamente qualificati e hanno esperienza relativa all’argomento della ricerca? Il ricercatore è disponibile per tutta la durata dello studio? E’ disponibile lo staff che supporta la ricerca e le attrezzature, comprese quelle tecniche, sono adeguate? E’ questa la prima volta in cui è portato avanti questo tipo di ricerca? Se non lo è, il valore scientifico per intraprendere la ricerca è giustificato? Il progetto della ricerca è appropriato? E’ in grado di fornire risposte chiare alle questioni che la ricerca si è posta? E’ possibile ottenere un controllo di qualità dei dati e delle analisi? Sono stati presi in considerazione gli aspetti legati alla biosicurezza e ad una buona pratica gestionale? Gli interventi diagnostici, terapeutici e di prevenzione possono essere condotti con sicurezza? E’ utilizzato nella ricerca un gruppo di controllo? Se sì, sono inclusi nel progetto i dettagli sulla cura che sarà somministrata? Ci sono forme di follow-­‐up per chi partecipa alla ricerca?Se sì, sono forniti i dettagli per questo? Aspetti etici La ricerca è stata appropriatamente revisionata dal punto di vista scientifico? Il progetto è stato approvato dal comitato etico di revisione nel paese ospite/sponsorizzatore? E’ stato fatto ogni sforzo di consultazione con le relative comunità durante il corso di progettazione della ricerca? Sono stati forniti i dettagli sulle misure da prendere nel reclutare gli eventuali partecipanti alla ricerca? E’ stato considerato chi beneficerà della ricerca? Sono state fornite considerazioni sui rischi implicati nell’intraprendere la ricerca? Sono state prese misure per minimizzare il rischio dei partecipanti? Ci sono adeguati provvedimenti per il monitoraggio dei dati raccolti e per assicurare la sicurezza dei soggetti? Sono stati forniti i dettagli sulle informazioni che saranno rese disponibili per gli eventuali partecipanti? Sono appropriate e complete? Sono fornite in un linguaggio e ad un livello di complessità appropriato per gli eventuali partecipanti alla ricerca? 144 Sono stati forniti i dettagli sulle procedure che saranno utilizzate per ottenere il consenso a livello delle istituzioni e della società, dove sia opportuno? Sono stati forniti dettagli sulle procedure che saranno utilizzate per ottenere il consenso dai singoli partecipanti? E’ opportuno chiedere ai partecipanti di firmare una scheda di consenso informato? Se non lo è, come sarà documentato il loro consenso? Laddove sia previsto un consenso orale alla ricerca, c’è un adeguato procedimento per provare l’avvenuto consenso? Sono stati messi a punto provvedimenti per ricevere e rispondere alle domande o alle lamentele da parte dei partecipanti alla ricerca e dei loro rappresentati durante il progetto di ricerca? Sono stati forniti i dettagli su chi avrà l’accesso ai dati personali dei partecipanti alla ricerca, comprese le cartelle cliniche ed i campioni biologici? Sono state prese misure per mantenere la riservatezza e queste misure sono adeguate? Gli standards di cura proposti sono accettabili? Sono appropriati per il paese in cui la ricerca è condotta? Ci sono altri progetti di ricerca che possono rispondere alle questioni poste dalla ricerca? Se sì, perché è stato proposto questo particolare progetto? Si può utilizzare uno strumento di controllo? Se sì, la sua utilizzazione è adeguatamente giustificata? Se viene proposto che il gruppo di controllo nella ricerca debba ricevere meno rispetto al generale standard di cura, questo è giustificato? Vengono forniti i dettagli su come saranno distribuiti i trattamenti? Sono stati inclusi i dettagli su quali informazioni riceveranno i partecipanti al gruppo di controllo? Sono giustificati progetti per eliminare o rifiutare le terapie standard a scopo di ricerca? Quali standards di cura saranno forniti ai partecipanti che svilupperanno la malattia o condizioni diverse da quelle studiate? Se si tratta di standards più bassi rispetto alla migliore cura disponibile come parte del sistema sanitario pubblico nazionale, questo è giustificato? Saranno offerte ai partecipanti alla ricerca pagamenti, doni o altri incentivi in cambio della loro partecipazione? Questi sono appropriati? Ci saranno follow-­‐up e revisioni a lungo termine della ricerca? Se sì, saranno forniti i dettagli su come questi saranno portati avanti? Ci sono provvedimenti d’indennità o trattamenti nel caso di morte o danno dei partecipanti alla ricerca? I ricercatori si sono preoccupati di fornire un accesso sicuro a trattamenti efficaci post-­‐trial per i partecipanti allo studio? Se no, la mancanza di queste disposizioni è giustificata? Viene considerata la possibilità di introdurre una cura che si sia dimostrata di successo in un contesto più ampio e mantenere la sua disponibilità? Se non è possibile rendere disponibile il trattamento per una parte o l’intera popolazione nel paese in cui la ricerca è stata condotta, la ricerca è comunque giustificata? Il comitato etico della ricerca formulerà dei resoconti regolari sull’andamento della ricerca? Se sì, sono forniti i dettagli sulla frequenza con cui vengono fatti? Sono forniti i dettagli di ogni disposizione effettuata per fornire un’adeguata documentazione al comitato? Sono forniti i dettagli su come saranno utilizzati i risultati della ricerca? Come saranno divulgati i risultati della ricerca ai partecipanti ed alle altre parti interessate? La ricerca include programmi per lo sviluppo della competenza sulla ricerca nei paesi in via di sviluppo in cui lo studio sarà condotto? Se no, è giustificata la mancanza di questi provvedimenti? 145 Ricerche condotte su popolazioni vulnerabili E’ giustificata l’inclusione nelle ricerche d’individui che non possono dare il consenso? Le questioni poste dalla ricerca sono importanti per la salute ed il benessere di questa popolazione vulnerabile? Il progetto di ricerca è appropriato? Sono state poste nel progetto di ricerca le cautele necessarie per prevenire indebite coercizioni o influenze su questo gruppo? [1] The ethics of research related to healthcare in developing countries. Nuffield Council on Bioethics publication. London, 2002. [2] VASSILI LEONTIS – Ethical challenges posed by trials of biomedical intervention on human subjects conducted in developing countries. Information paper presented at the European Conference of National Ethics Committee. Porto (Portugal) 1998. CDBI/INF (98)2. 146 EUGENE DIAMOND
Il conflitto di interessi nell’etica medica La medicina è una libera professione dotata di una sua etica intrinseca, per la quale il fine della medicina è ordinato ad un bene, cioè alla salute. Tecnica e condotta medica non sono quindi neutrali rispetto ai valori, ma sono ordinate al bene generale rappresentato dalla salute, che è il fine datole per natura. La medicina è una professione precisamente perchéprofessa questo fine. Essere professionisti è più che essere tecnici. La professione pubblica della medicina come modo di vita rappresenta un’affermazione della natura morale dell’operato medico. La medicina come professione equivale a dichiarare pubblicamente la volontà di dedicarsi agli altri e di servire un bene superiore. Il medico è pertanto un soggetto morale che professa e afferma la natura morale della sua attività. Negli ultimi anni abbiamo assistito al tentativo di convertire la nostra professione in un’attività volta ad uccidere. I medici abortisti uccidono bambini non nati; altri medici si assumono la responsabilità di uccidere pazienti senza il loro consenso, come in Olanda, o di entrare nei meccanismi del suicidio medicalmente assistito, come nello Stato dell’Oregon in America. Il medico fedele alla sua chiamata, al contrario, non viola la proibizione di uccidere né per amore né per soldi. Ecco perché la medicina deve essere una professione e non un mero business. Il medico che è mosso principalmente dalla motivazione del profitto, infatti, ha rinunciato all’idea che il miglior interesse del paziente coincide con la ricerca della sua salute. C’è stata recentemente l’erosione di alcuni fra i baluardi che si erano andati formando a difesa del paziente e della società. Prima di tutto, consideriamo l’informazione pubblicata sulle riviste mediche. Tale informazione ci aiuta a delineare meglio le decisioni diagnostiche e terapeutiche. Perché una rivista medica sia valida, occorre che pubblichi informazioni autorevoli, aggiornate e libere da condizionamenti commerciali. Ciò comporta che le associazioni finanziarie degli autori vengano allo scoperto e che non influenzino la pubblicazione degli articoli: solo così si possono evitare pregiudizi, reali o apparenti, basati sul conflitto di interessi. Oltre che agli autori, la libertà dal conflitto di interessi si deve estendere al processo direvisione da parte dei colleghi di pari grado (peer review). Se coloro che assistono l’editore nella selezione degli articoli adatti alla pubblicazione non sono a loro volta liberi rispetto a simili associazioni finanziarie, le possibilità di discriminazione aumentano[1]. La connessione fra aziende biomediche e ricerca sta crescendo rapidamente. Oltre al supporto finanziario direttamente volto alla ricerca o alla sperimentazione terapeutica, gli autori possono ricevere compensi per consulenza, far parte di consigli consultivi (advisory board), possedere capitali azionari, avere diritti di brevetto, ricevere onorari per conferenze o per deposizione ai processi in qualità di esperti. Di recente il New England Journal of Medicine[2] e, per illazione, il Journal of the American Medical Association[3], hanno modificato le loro politiche editoriali in modo che gli autori sia di articoli originali che di rassegne e di editoriali non abbiano interessi finanziari “significativi” all’interno di una società (o dei suoi concorrenti) che causa la discussione di un prodotto all’interno di un articolo. Il NIH (National Institute of Health)[4] e la Association of American Medical Colleges[5] hanno parimenti ammorbidito i requisiti relativi alle associazioni finanziarie, con i possibili pregiudizi da ciò derivanti. Tale tentativo ha lo scopo di quantificare in quale misura le associazioni possono produrre pregiudizi. Il provvedimento chiave sarebbe quello stabilire il limite superiore della somma annuale percepita dagli autori, oltre il quale si può 147 valutare un rapporto finanziario come “significativo”. Attualmente il livello è di 10.000 $. Al di sopra di questo tetto, ogni patrimonio finanziario in cui il potenziale profitto non è limitato, come nel caso di azioni, opzioni e possesso di brevetti, risulterebbe probabilmente un elemento squalificante. La giustificazione di tali mutamenti nella politica editoriale pare essere l’incapacità di eleggere un numero di autori e/o di revisori adeguato a portare avanti le funzioni delle riviste, dal momento che moltissimi accademici e clinici sono coinvolti in complicate relazioni finanziarie con case farmaceutiche[6]. Inevitabilmente il risultato della politica sarà l’accresciuta possibilità di ricorrenza del conflitto di interessi, nonché una ridotta sicurezza nell’affidabilità dei dati pubblicati. Ciò si estenderà non solo al processo decisionale dei medici e dei ricercatori, ma anche al grande pubblico. Quasi tutti i principali mezzi di comunicazione degli Stati Uniti hanno un editore scientifico e uno staff che si occupa della letteratura medica corrente, spesso basandosi su sommari e annunci pubblicati dalle riviste stesse al fine di promuoverle. Fornire un simile servizio rappresenta una cospicua fonte di reddito, ad esempio, per l’Associazione Medica Mondiale. Un solo caso: un articolo del New England Journal sull’RU 486 (Silvestre L. et Al. New Eng J Med 322: 645, 1990) concludeva che l’RU 486 è “efficace e sicura”. Coloro che ritenevano i dati forniti eccessivamente fiduciosi e rassicuranti poterono rinforzare le loro preoccupazioni grazie alla rivelazione, effettuata in una sede autorevole, che tutti i sei autori erano dipendenti della Roussel-­‐Uclef, che produceva l’RU 486 e contava su ingenti profitti dalla vendita del prodotto. Venire a conoscenza del fatto che il sedicente articolo “scientifico” fosse in realtà un pezzo promozionale camuffato poteva dare origine ad un salutare cinismo da parte del lettore. E tuttavia l’infondato entusiasmo per il prodotto fu incoraggiato come dato di fatto non solo dal produttore, ma anche dall’intero apparato pubblicitario delle lobby abortiste e dai suoi collaboratori nei mezzi di comunicazione. Una nostra delegazione della Catholic Medical Association incontrò il direttore esecutivo e il comitato di redazione dello JAMA per manifestare perplessità sul fatto che nel corso dei precedenti tre anni erano stati pubblicati circa quindici articoli pro-­‐aborto e nemmeno uno contro. Il pregiudizio editoriale venne negato con veemenza. Tuttavia, successivamente, entrammo in possesso di un memorandum interno[7], fornitoci da un impiegato dello JAMA, che informava il comitato editoriale dello JAMA come, di fatto, la loro politica fosse quella dimostrata, cioè di non pubblicare studi contrari all’aborto o studi statistici sfavorevoli all’aborto. Se questo pregiudizio ideologico ora venisse accresciuto dal potenziale discriminatorio fondato sul rendiconto economico, la professione medica e l’opinione pubblica verrebbero completamente compromesse. Il presidente Bush è stato di recente chiamato a prendere decisioni salomoniche riguardo alla ricerca sulle cellule staminali. Fu certamente una decisione perfetta quella che lo portò a compiere l’importante distinzione fra cellule staminali embrionali (prodotte da embrioni creati con lo scopo di ucciderli per procacciarsi cellule staminali) e cellule staminali derivanti da adulto (da fonti come il sangue del cordone ombelicale, il midollo osseo, ecc.), come pure quella di vietare i fondi federali per la creazione di nuove linee di cellule staminali embrionali; tuttavia, il presidente ritenne ammissibile, nella sua linea di condotta, la conservazione delle linee cellulari embrionali già esistenti. Ma quando un albero è avvelenato lo sono anche i frutti; infatti, poiché le cellule staminali derivanti da adulto avevano oramai soppiantato le cellule staminali embrionali sia nella pratica clinica che nei laboratori, risultava difficile comprendere l’insistenza dogmatica da parte della comunità scientifica sulla superiorità e sulla necessità di linee cellulari embrionali. Si scoprì poi che molte delle linee cellulari embrionali esistenti avevano avuto il permesso di essere conservate perché di fatto erano possedute da università e da altre imprese decisamente 148 intenzionate a trarre profitto dalla diffusione e dalla distribuzione di cellule staminali embrionali per la ricerca. Durante il dibattito sulla clonazione[8] al Congresso degli Stati Uniti, fu rivelato che esistevano tre brevetti di clonazione umana in attesa all’ufficio brevetti USA. Il promotore dell’atto di proibizione sulla clonazione umana (Human Cloning Prohibition Act), il senatore Brownback, precisò che l’idea di uccidere una persona per trovare un terapia a vantaggio di un’altra persona è una falsa compensazione, che trascura i progressi compiuti con altre fonti di cellule staminali non embrionali. Ancora più preoccupante è la prospettiva di coloro che, in seno alla società americana, possiedono, commerciano, comprano e vendono persone (clonate) come fossero di loro proprietà. Tale questione deve essere inclusa nel dibattito sulla clonazione. Quando il senatore Brownback propose l’emendamento sulla non brevettabilità umana per proscrivere i cloni umani in attesa di diritto di brevetto[9] fu sconfitto, e ciò accadde lo stesso giorno in cui un’equipe dell’Università del Minnesota riportò la versatilità delle cellule staminali da adulto e la loro capacità di convertirsi in centinaia di cellule specializzate del corpo, assumendone la forma[10]. Jonathan Swift diceva: “la falsità vola e la verità giunge lenta più tardi, così che quando per gli uomini arriva la disillusione, lo scherzo è finito e la finzione ha già ottenuto il suo effetto”. La cultura della morte, che ha chiaramente controllato negli ultimi trent’anni la stampa e i media, mostra ora una sinistra inclinazione verso il controllo della letteratura scientifica e perciò dei processi politici. Attraverso il potente incentivo del profitto si fa largo l’evidente conflitto di interessi fra l’investigazione scientifica obiettiva e la scienza difensiva in cerca di un tornaconto economico. L’ultima perversione del commercio nella ricerca medica potrebbe diventare la vendita di parti del corpo per scopi di sperimentazione. La reale fattibilità di un business attivo riguardante le parti del corpo fetale è stata l’oggetto di numerose ricerche da parte delle agenzie investigative pro-­‐life. Si è dimostrato che questa emanazione dell’industria abortista intende pubblicizzare la disponibilità di organi provenienti da bambini abortiti nelle riviste scientifiche. Non si tratta di semplici illazioni, ma di fatti innegabili, poiché sono stati presentati veri annunci pubblicitari che contengono listini dei prezzi di tessuti umani. Sono state scoperte offerte come “fegato fetale, reni fetali del secondo trimestre, tessuto dell’isola pancreatica ciascuna con lista dei prezzi allegata, predisposte dai cosiddetti “laboratori” che sono in affari con le fonti abortiste[11]. Esiste attualmente un movimento che opera affinché sia ammesso un compenso per i donatori d’organi da parte di potenziali beneficiari. Al momento l’Atto nazionale sui Trapianti d’organo (National Organ Transplant Act) dichiara che “chiunque consapevolmente acquisti, riceva o in altro modo trasferisca un organo umano per trapianto a scopo oneroso” commette un atto illegale. L’Associazione Medica Americana (AMA) ha richiesto uno studio che indaghi la possibilità di pagamento ai donatori per i loro organi[12]. Lo sfondo di un simile cambiamento totale di prospettiva politica è, come è ovvio, l’annuale diminuzione della disponibilità di donazioni d’organo. Il database della United Network for Organ Sharing indica che ci sono attualmente 75000 pazienti in attesa di un organo. Un terzo fra quelli che aspettano un trapianto di cuore o di fegato moriranno prima che l’organo sia disponibile. La fonte primaria di organi provenienti da donatori sarebbe la cosiddetta donazione da Cadavere a Cuore Battente. Si tratta di pazienti che hanno subito la cessazione irreversibile e totale delle funzioni cerebrali e che sono tenuti sotto ventilazione meccanica nelle unità di terapia intensiva. Essi rappresenterebbero una risorsa pari a 10-­‐12 mila potenziali donatori l’anno, ma, nonostante l’intensa campagna di sensibilizzazione pubblica, la proporzione di potenziali donatori non è cresciuta a sufficienza[13]. Fra le motivazioni ci sono state il maggior affidamento riposto nei 149 donatori viventi (di reni), i trapianti parziali(di fegato e polmoni) e quelle fonti di reperimento di carattere eticamente discutibile, come i neonati anencefalici e gli animali[14]. Un’altra potenziale sorgente di organi trapiantabili sono i pazienti dichiarati morti secondo i tradizionali criteri cardio-­‐polmonari, e non sulla morte cerebrale. Il successo dei trapianti che utilizzano gli organi provenienti da quest’ultima fonte sono limitati a causa dei problemi causati dall’ischemia a caldo. Questi cadaveri a cuore non battente rientrano generalmente in due categorie: 1) morte cardio-­‐polmonare non controllata (normalmente nelle sale del pronto soccorso) e 2) morte controllata per tempo e luogo. Questa seconda categoria segue un metodo comunemente conosciuto come protocollo di Pittsburgh[15]. Secondo tale protocollo, le famiglie che hanno deciso di rinunciare ai mezzi di sostentamento vitale vengono convocati per proporre loro la donazione d’organi. Il tempo dell’ischemia a caldo è reso minimo portando il paziente in sala operatoria, ivi sospendendo il supporto vitale e rimuovendo gli organi immediatamente o poco dopo la dichiarazione di morte. Le questioni etiche sollevate dall’utilizzo di cadaveri a cuore non battente in qualità di donatori hanno a che fare con il processo di ottenimento del consenso, con la questione dell’irreversibilità e con quella della dichiarazione precoce di morte. Si presentano inoltre intuitivi problemi legati al fatto che la procedura pare attuarsi e risolversi dichiarando morto il paziente solo dopo averlo allontanato dai parenti stretti e averlo condotto in una sala operatoria. Le forze di mercato hanno iniziato ad indebolire il principio della donazione disinteressata da parte dei donatori viventi attraverso la possibilità di reperire organi fuori dagli Stati Uniti. Gli americani comprano organi dalla Cina, dal Perù e dalle Filippine, poi ritornano negli Stati Uniti per effettuare la terapia dei trapianti[16]. Un’altra sfida ai principi altruistici che sottendono l’Atto è l’aumentata frequenza delle donazioni di rene da parte di pazienti non legati ai beneficiari, dal momento che non è più necessaria l’affinità genetica. Si danno perciò possibilità di acquisto illegale e di profitto illegale che vanno al di là del controllo dei centri per i trapianti[17]. Il movimento per la liberalizzazione della normativa che regola il libero mercato nella compravendita di organi accresce lo spettro di una guerra dell’offerta, nella quale candidati facoltosi ma meno bisognosi di trapianto acquisiscono la priorità su candidati poveri che non hanno la possibilità di comprare organi. Un economista afferma che gli individui meno abbienti potrebbero comunque accedere a prestiti per acquistare organi, come fanno oggi per acquistare la macchina o la casa. Tuttavia, cosa accadrebbe se l’acquirente fosse incapace di restituire il debito? Abbiamo qualche sistema per confiscare o riavere un rene? L’attuale sistema per conferire incentivi etici o umanitari alle donazioni dovrebbe tutela la distribuzione non discriminatoria degli organi in base al criterio della maggior necessità[18]. Risulterebbe impossibile controllare criteri di brocheraggio negli Stati Uniti. Se l’attuale proibizione del commercio d’organi fosse annullata, non ci sarebbero giustificazioni legali per impedire alle persone di aggirare il sistema regolativo e entrare in concorrenza all’interno di un mercato senza controllo. Portare l’attenzione sulla potenziale iniquità di un simile mercato e sulla preferibilità di rafforzare gli incentivi etici (riconoscimenti pubblici, restituzione delle spese funerarie o delle tasse) sarebbe il modo migliore per sostenere l’interesse generale della società[19]. Occorre anche spendere qualche parola sul bioterrorismo, un conflitto d’interessi fondamentale sorto dalla questione se un biologo debba pubblicare un lavoro che può essere usato per il male. L’Accademia Nazionale delle Scienze ha riunito un gruppo di esperti per studiare come prevenire le applicazioni distruttive delle biotecnologie avanzate[20]. Studi recenti sull’epidemia di virus influenzale del 1918, svolti dall’Istituto di Patologia delle Forze Armate, hanno indicato quali risorse potenziali occorrano per ricostruire il virus del 1918 rendendolo più resistente al sistema 150 immunitario[21]. Sono stati pubblicati studi analoghi che dimostrano come manipolare i microrganismi perché si diffondano più rapidamente, resistano ad antibiotici e vaccini, e possano rappresentare perciò armi più efficaci per il bioterrorismo. Il problema se tali informazioni debbano essere disponibili nelle riviste è certamente grave. Fra gli esperti di armi biologiche del governo e la Società Americana di Microbiologia è sorto un conflitto di interessi sulla questione se in questi casi vi debba essere una speciale peer review. Neanche a dirlo, gli scienziati sono assai restii ad accettare l’idea che il loro lavoro o dei dati importanti debbano essere sottoposti a censura per ragioni politiche. Sebbene i conflitti di interessi non siano evidenziabili all’interno del sistema medico tanto quanto lo sono nel sistema capitalista, essi sono tuttavia inevitabili in un sistema basato sul privato, sia nella forma del pagamento a servizio (fee for service) che in quella della assistenza sanitaria managerizzata (managed care). La principale difesa contro l’intrusione di questioni politiche o economiche nell’assistenza medica è il ritorno al sistema ippocratico dell’etica medica, che resta attuabile in tutte le culture e in tutte le forme di risarcimento. Infine, un’altra opportunità di conflitto di interessi consiste nella cosiddetta “scienza difensiva”. Essa consiste nell’avanzare pretese di supposta “scientificità” o nel rifiutare le pretese contrarie, basandosi non sulla qualità dei dati implicati, ma su un intenzioni politiche nascoste o sulla ricerca della correttezza politica. Troviamo la principale occasione di impiego della scienza difensiva nella ricerca sull’eziologia e sul trattamento dell’omosessualità o dei disordini attrattivi verso lo stesso sesso. I media hanno promosso l’idea che sia stato già scoperto un “gene del gay”, e vi sono state alcune organizzazioni professionali che non hanno disconosciuto tale assunzione. Se l’attrazione verso lo stesso sesso fosse determinata geneticamente, allora ci si potrebbe aspettare che i gemelli identici siano identici anche nell’attrazione sessuale. Invece, molti studi mostrano come gemelli identici abbiano tendenze sessuali differenti[22-­‐23-­‐24]. Tuttavia, assistiamo a crescenti tentativi per convincere il grande pubblico che l’attrazione verso lo stesso sesso è geneticamente fondata. Tali tentativi sono motivati politicamente da un presupposto, e cioè che l’opinione pubblica risponda in modo verosimilmente più favorevole a mutamenti di legge e di insegnamento religioso se crede che l’attrazione verso lo stesso sesso sia geneticamente determinata e immutabile. Una controversia analoga si ritrova nella questione se la condizione omosessuale sia curabile e reversibile. All’interno del dibattito fra essenzialismo e costruttivismo sociale, chi crede nella legge naturale sosterrà che l’essere umano ha una natura essenziale – maschio o femmina – e che inclinazioni peccaminose come il desiderio di coinvolgersi in atti omosessuali sono costruite, e pertanto possono essere demolite. Alcuni membri dell’American Psychiatric Association, invece, sono giuntiad asserire che tali tentativi di cambiare gli omosessuali non sono solo senza successo, ma anche non etici. Tuttavia, un certo numero di terapeuti ha scritto diffusamente che la terapia riparativa ha successo nel 30% circa delle persone che sperimentano attrazione per lo stesso sesso, mentre un altro 30% nota un miglioramento[25-­‐26-­‐27-­‐28]. Il dottor Robert Spitzer, il noto ricercatore psichiatrico della Columbia University che fu in gran parte responsabile della rimozione dell’omosessualità dalla lista APA dei disturbi mentali, ha ora rivelato che le sue ricerche più recenti mostrano come il cambiamento prolungato possa davvero essere raggiunto[29]. Altri esempi di Scienza Difensiva sono il rifiuto della American Cancer Society di accettare la relazione fra aborto e cancro della mammella[30], nonostante schiaccianti evidenze in proposito, e l’insistenza del NIH sull’efficacia del preservativo nella prevenzione dell’AIDS. Quando, nel corso di un importante convegno internazionale che radunava i principali esperti di AIDS, si pose 151 la questione di quanti avrebbero voluto avere un rapporto sessuale con un sieropositivo, pur dotato di preservativo, nessuno[31] nell’assemblea alzò la mano. I fatti suggeriscono con forza che i burocrati di numerose organizzazioni professionali come l’AMA e l’American College of Obstetrics and Gynecology devono evadere una fitta agenda di richieste di scuse per avere sostenuto l’aborto o per aver supportato le lobby dei diritti omosessuali, nonostante evidenze contrarie e nonostante la diversa opinione di molti fra i membri di base. 152 [1] PARRISH D., BRUNS D., Legal Principles and Confidentiality in Peer Review, JAMA 2002, 287: 2839. [2] DRAZEN J., CURFMAN G., Financial Associations of Authors, New Eng J Med 2002, 346: 1901. [3] RENNIE D. ET AL, Conflicts of Interest in the Publication of Science, JAMA1991, 266: 266. [4] Public Health CFR42, May 21, 2002. [5] ASSOC. 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I SOGGETTI PIU VULNERABILI DELLA RICERCA BIOMEDICA Il caso dell'embrione umano La maggior parte delle ricerche biomediche presenta delle incertezze circa gli effetti degli agenti impiegati,gli interventi eseguiti e le loro conseguenze sui soggetti di ricerca. Per questa ragione tutti i partecipanti agli studi sperimentali sono di principio vulnerabili. Il mito degli "studi clinici esenti da rischio" è stato da tempo demolito e la categoria degli "studi a rischio minimo", che lo ha sostituito, non risulta di facile definizione ed applicazione.[1] La vulnerabilità è considerata un'espressione universale della condizione di limitatezza dell'uomo che caratterizza la sua esistenza terrena dal principio sino alla morte, e «la particolare vulnerabilità dei soggetti di ricerca»[2] è stata da lungo tempo riconosciuta. Tuttavia, «le condizioni e le circostanze da cui origina la vulnerabilità sono state messe a fuoco solo molto recentemente».[3] Il termine "vulnerabilità" deriva dal latino vulnus, una ferita che può guarire o risultare anche mortale. Similmente, l'uso contemporaneo del termine si riferisce a «uno stato di esposizione e di incapacità a resistere al danno, alla malattia, alla lesione, all'insulto, alla debolezza o alla tentazione».[4] Nel presente contesto, per vulnerabilità si intende la condizione di alcuni individui – intrinseca o situazionale – che li espone ad un rischio maggiore di venire arruolati in un progetto di ricerca eticamente scorretto. A ben vedere, il concetto di vulnerabilità orienta in due direzioni. Da una parte, la vulnerabilità costituisce una debolezza che caratterizza il soggetto stesso: «uno stato di assenza di protezione o di particolare esposizione nei confronti di qualcosa di nocivo o che risulti comunque indesiderabile».[5] D'altra parte, il termine ci ricorda che esistono persone «che sono disposte a trarre profitto da tale debolezza»,[6] sfruttando (intenzionalmente o negligentemente) questa opportunità ed avvantaggiandosi in modo disonesto a detrimento del soggetto. Nella maggior parte delle ricerche e delle situazioni cliniche, i soggetti possono risultare vulnerabili sia in conseguenza della loro limitata capacità di decidere (come nel caso dei bambini e degli adulti con disabilità mentale) o di attuare una decisione (come nel caso dei prigionieri), sia perché sono particolarmente esposti al rischio di sfruttamento (soggetti il cui status morale non è adeguatamente riconosciuto o protetto in un certo ambiente di ricerca o nella società). Un resoconto completo della vulnerabilità nella ricerca biomedica dovrebbe considerare entrambe le tipologie, la seconda delle quali risulta connessa al concetto di sfruttamento. Al pari della vulnerabilità, lo sfruttamento è diventato in tempi recenti una questione accesa nell'ambito dell'etica della ricerca.[7] Tuttavia, il concetto di sfruttamento non è esente da alcune ambiguità che richiedono una chiarificazione nel contesto della ricerca biomedica. Secondo Ruth Macklin, mentre «nessuno è a favore dello sfruttamento» e «risulta facile raggiungere un accordo su questo punto [...], il consenso svanisce quando si esaminano le diverse posizioni nei casi specifici».[8] In un recente saggio,[9] David Resnik ha fornito un'analisi ragionata dello sfruttamento (in generale) e ha applicato questa analisi ad alcuni contesti della ricerca biomedica. L'Autore sostiene che non tutta la "ricerca sfruttativa" risulta eticamente inaccettabile: uno studio può apparire prima facie come uno sfruttamento, ma essere moralmente giustificato in alcune situazioni. Perciò, «qualificare uno studio come sfruttamento non risolve definitivamente le questioni circa la moralità dello studio» stesso.[10] Tuttavia, occorre considerare che «esistono atti che, per se stessi e in se stessi, indipendentemente dalle circostanze, sono sempre gravemente illeciti in ragione del loro oggetto».[11] Questi atti includono «tutto ciò che è contro la vita stessa, come ogni specie di omicidio, il genocidio, 154 l'aborto, l'eutanasia e lo stesso suicidio volontario; tutto ciò che viola l'integrità della persona umana, come le mutilazioni, le torture inflitte al corpo e alla mente, gli sforzi per violentare l'intimo dello spirito»; e «tutto ciò che offende la dignità umana» e tratta gli individui «come semplici strumenti di guadagno, e non come persone libere e responsabili».[12] Ogniqualvolta lo sfruttamento di un soggetto di ricerca comporta un atto che attenta alla sua vita, alla sua integrità ed alla sua dignità umana, o tratta il soggetto semplicementecome mezzo, e non allo stesso tempo come un fine in se stesso,[13] nessuna circostanza clinica o intenzione terapeutica può “trasformare un atto intrinsecamente disonesto per il suo oggetto in un atto "soggettivamente" onesto o difendibile come scelta”.[14] L'analisi dello sfruttamento è stata condotta da vari autori a partire da fondamenti differenti. Esistono valutazioni dello sfruttamento che si rifanno alla dottrina kantiana, altre a quella del libero arbitrio o alla teoria marxista, ma non sono le sole.[15] Sviluppando il concetto di sfruttamento iniquo di Alan Wertheimer,[16] Resnik sostiene che vi sono tre elementi di base dello sfruttamento – il danno, la mancanza di rispetto e l'ingiustizia – e che in tutti i casi di sfruttamento è coinvolto almeno uno di questi elementi.[17] Tuttavia, mentre è conveniente per scopi analitici distinguere tra differenti aspetti dello sfruttamento, in pratica tali aspetti spesso si sovrappongono ed interagiscono tra di loro. Inoltre, vi sono diversi gradi di sfruttamento, che variano da atti gravissimi, quali la pratica della schiavitù o il commercio di organi umani,a situazioni di sfruttamento più contenuto, come il coprirsi della gloria altrui o usare per scopi di ricerca, senza il consenso specifico del paziente, dei campioni di sangue in esuberanza. Poiché la ricerca biomedica si accompagna spesso ad una somma di benefici e di danni per i soggetti, le situazioni possono risultare ancora più complesse. Nel caso di un protocollo clinico non strettamente terapeutico, dove il rapporto beneficio/danno non risulta favorevole per il soggetto di ricerca ma lo è per altri pazienti, tale ricerca dovrebbe essere considerata uno sfruttamento? Secondo l'argomentazione di Resnik, sebbene alcune considerazioni etiche – come il consenso informato espresso dal soggetto e l'assenza di un elevato rischio di danneggiare seriamente la vita e l'integrità dello stesso soggetto – possono giustificare l'esperimento, il protocollo «è tuttavia uno sfruttamento».[18] Negli studi dai quali i singoli pazienti non possono aspettarsi un beneficio sostanziale, il dilemma morale è se il danno inferto a ciascuno di questi soggetti può essere giustificato tenendo conto dei benefici di cui godranno altri pazienti. Alcuni autori ritengono che “esistono buone ragioni per considerare tutta la ricerca come essenzialmente non-­‐
terapeutica”,[19] essendo ogni conseguenza terapeutica, considerata in riferimento a ciascun individuo che è soggetto della ricerca, una caratteristica del tutto contingente del medesimo processo di ricerca.[20] Altri obiettano che, nelle fasi avanzate dei trial clinici, la conoscenza della efficacia di un nuovo trattamento è così elevata che è molto probabile che i soggetti di ricerca ne traggano un beneficio. Il dibattito è tuttora aperto e non sarà affrontato in questa sede. Tuttavia, si può osservare come diversi autori concordino nel ritenere che, «in un contesto di ricerca, lo sfruttamento si traduce in una questione di rischi e di benefici, e non di volontarietà».[21] Perciò, le soluzioni adottate per proteggere i potenziali soggetti di ricerca dalla coercizione sono differenti da quelle necessarie per proteggerli dallo sfruttamento. Il consenso informato, sia personale che per procura, non può prevenire il possibile sfruttamento dei soggetti di ricerca. La vulnerabilità nella ricerca biomedica Il rischio è la probabilità che un danno possa verificarsi,[22] e una valutazione del rischio dovrebbe contenere dei giudizi di probabilità: «la quantificazione del rischio implica un esame sia del grado o della grandezza del danno che potrebbe manifestarsi sia della possibilità che tale 155 danno si verifichi».[23] Un soggetto può venire danneggiato in conseguenza di una aumentata suscettibilità nei confronti di condizioni solitamente meno nocive, oppure il danno connesso alla ricerca può derivare dallo sfruttamento di una o più delle sue debolezze fisiche e non fisiche. In funzione di questo, la vulnerabilità può essere classificata sulla base della natura del danno per il quale i soggetti di ricerca sono a più elevato rischio (tipo di rischio) o in riferimento alla ragione per la quale questi soggetti sono vulnerabili (tipo di vulnerabilità). Levine[24] ha classificato i rischi dei soggetti della ricerca biomedica in quattro categorie: fisico, psicologico, sociale edeconomico. Sebbene adottata frequentemente dagli Institutional Review Board (IRB) e dagli Ethical Committee (EC), questo elenco di danni potenziali non è completo e tralascia due altri tipi di danno, di natura differente: quello legale e quello nella dignità. Le sei categorie non si escludono reciprocamente e più di un tipo di danno può essere presente in un determinato studio. I termini danno("harm") e lesione("injury") hanno acquisito un significato distinto nel diritto, ma, coerentemente con altri saggi,[25] saranno in seguito usati scambievolmente per quanto concerne gli aspetti etici della vulnerabilità. I danni fisici si estendono fino a comprendere, da un lato, la morte, la menomazione dello sviluppo e la lesione permanente, e, dall'altro, uno stato temporaneo di malattia, dolore o disagio.[26] I danni psicologici includono la percezione negativa di sé da parte del partecipante alla ricerca, la sofferenza emotiva, e le aberrazioni cognitive e comportamentali.[27] I danni sociali si riferiscono agli effetti negativi sulle relazioni familiari e sociali del soggetto. Gli esempi comprendono il rischio di stigmatizzazione in conseguenza del risultato positivo di un test per l'HIV[28] o il rischio che alcuni studi genetici possano escludere una paternità.[29] I danni economici derivano dall'onere, a carico dei partecipanti ad una ricerca, di costi finanziari (o dei loro equivalenti in termini di tempo e di lavoro) non rimborsati o sottostimati.[30]Danni legali possono sopravvenire nel corso di studi sul possesso e l'uso illegale di alcune sostanze, sugli abusi sessuali o fisici, o su altri tipi di comportamenti perseguibili.[31] Una particolare attenzione dovrebbe essere riservata ai cosiddetti danni alla dignità, cioè le ingiurie che un soggetto può subire nella sua dignità umana durante le fasi di arruolamento, operativa o di follow-­‐up previste dal protocollo di ricerca. I danni alla dignità sono una conseguenza degli attentati ai diritti umani, poiché «il fondamento sul quale si erigono tutti i diritti umani è la dignità della persona».[32] La violazione di alcuni diritti umani fondamentali e inalienabili – quali il diritto di un essere umano a non vedere la propria integrità fisica e psicologica menomata per qualsivoglia ragione che non sia quella strettamente terapeutica – risulta già compresa nelle precedenti categorie di danno. Tuttavia, la dignità umana non è ristretta né riducibile ai vari aspetti della vita fisica, psicologica, sociale ed economica. In quanto agente morale, ogni essere umano gode di valori e preferenze personali, di una concezione del bene e del male, e di impegni individuali. Queste ed altre dimensioni spirituali della vita umana sono profondamente radicate nella «esperienza originale o elementare” che costituisce la nostra identità nel modo in cui affrontiamo ogni realtà, cioè quel «complesso di esigenze e di evidenze con cui l'uomo è proiettato dentro il confronto con tutto ciò che esiste [...], talmente originali che tutto ciò che l'uomo dice o fa da esse dipende».[33] A questo livello ci troviamo di fronte al "cuore" della dignità umana. Questo "cuore" è vulnerabile, e la sua vulnerabilità è testimoniata da quell'«indefinibile disagio da cui si viene presi quando, ad esempio, si è trattati come oggettodi interesse o di piacere».[34] In termini kantiani, la dignità umana è danneggiata ogni volta che tu non “agisci in modo tale da trattare l'umanità, così nella tua persona come nella persona di ogni altro, sempre insieme come fine, mai semplicemente come mezzo».[35] Per evitare i danni alla dignità è necessario un profondo rispetto per ogni dimensione della dignità umana, compreso il senso religioso, il radicale impegno della persona con la vita ed il suo significato, qualunque sia l'identità di tale significato della propria vita. A sua volta, la dignità umana si fonda sulla natura 156 propria e originaria dell'uomo – «la natura della persona umana»[36] – che è «la persona stessanell'unità di anima e di corpo, nell'unità delle sue inclinazioni di ordine sia spirituale che biologico e di tutte le altre caratteristiche specifiche necessarie al perseguimento del suo fine».[37] Le ragioni della vulnerabilità Diverse sono le ragioni per cui i soggetti di ricerca risultano vulnerabili, e gli ultimi anni hanno visto un incremento degli studi sulle cause della vulnerabilità.[38] Secondo Kipnis,[39] esse possono venire raccolte in sei tipologie. Un settimo tipo, la vulnerabilità sociale, è stato aggiunto da altri autori.[40] La classificazione è alquanto ridondante, ma può risultare utile per decidere se una particolare categoria di soggetti è vulnerabile oppure no, ed in quale misura. La vulnerabilità cognitiva o comunicativa è la più familiare ai ricercatori e, probabilmente, è più comune di quanto solitamente riportato. Le circostanze che suggeriscono la presenza di questo tipo di vulnerabilità dovrebbero comprendere non solo l'immaturità (come nel caso di bambini e adolescenti),[41] il ritardo mentale,[42] la demenza[43] e alcune forme di malattia mentale,[44] ma anche le carenze educative e la non familiarità con la lingua[45] così come le situazioni che non consentono agli adulti, per altri versi competenti, di esercitare effettivamente le loro capacità (come nel caso di emergenze stressanti).[46] Questi deterioramenti cognitivi o comunicativi influenzano il processo decisionale del soggetto e limitano l'autonomia degli eventuali partecipanti alla ricerca. La vulnerabilità giuridica o istituzionale si riferisce al caso di un soggetto che è sottoposto all'autorità formale di altri (quali genitori, tutori, agenti di custodia, ufficiali e giudici) che possono avere degli interessi propri (vantaggi privati o pubblici) rispetto all'assenso dello stesso individuo al proprio arruolamento in uno studio biomedico.[47] I soggetti possiedono una vulnerabilità deferenziale – una forma sottile e sottostimata di vulnerabilità – quando la loro subordinazione decisionale ad altri (come parenti, amici, insegnanti, medici e opinion makers) è il frutto di una gerarchia informale.[48] La vulnerabilità medica può riguardare i potenziali partecipanti (pazienti) che soffrono di malattie gravi per le quali non esistono trattamenti standard disponibili, efficaci o accettabili (per esempio, le forme tumorali molto aggressive, gli ultimi stadi dell'AIDS, alcune malattie rare).[49] A motivo della loro condizione, che esige una eccezionale assistenza medica, lo sfruttamento di questi pazienti attraverso la loro speranza di remissione o di miglioramento non è rara. I soggetti di ricerca manifestano una vulnerabilità economica o allocativaquando risultano svantaggiati nella distribuzione sociale di beni e servizi come il reddito, la casa o l'assistenza sanitaria. L'offerta di un compenso per la partecipazione, o di accesso gratuito a determinati servizi sanitari, può costituire un incentivo per un arruolamento ingiusto, che passa attraverso lo sfruttamento di una autonomia economica ridotta.[50] Quando il reclutamento dei soggetti richiede o presuppone, da parte loro, una disponibilità di risorse o di prestazioni che contribuiscono in modo decisivo alla loro sicurezza personale nel corso dello studio (come un sistema rapido di comunicazione, un regime dietetico attendibile e dei professionisti sanitari esperti), i possibili partecipanti sono esposti ad una vulnerabilità infrastrutturale.[51] Da ultimo, la vulnerabilità sociale si riferisce agli individui che appartengono a gruppi sociali o comunità sottovalutati.[52] In alcuni casi questo tipo di vulnerabilità è subdola e insidiosa, ed «è una funzione della percezione sociale di determinati gruppi, che si accompagna a degli stereotipi e può condurre ad una discriminazione».[53] Con l'eccezione del primo tipo di vulnerabilità, quella cognitiva o comunicativa, che sconsiglia la eleggibilità di una persona che ne è affetta al ruolo di chi viene autorizzato adecidere nel caso di 157 un soggetto di ricerca non competente, le rimanenti forme di vulnerabilità posso riguardare anche lo stesso procuratore. Per quanto concerne la ricerca sugli embrioni e sui feti in utero, la naturale e prima scelta della persona che deve prendere una decisione per procura cade sulla madre, se essa è competente a decidere, non solo perché ci si aspetta che una madre percepisca e difenda i diritti del proprio figlio non ancora nato meglio di chiunque altro (se questo non è il caso, può sorgere un conflitto etico e legale la cui soluzione è spesso molto difficile),[54] ma anche in ragione del fatto che attualmente ogni ricerca sull'embrione (post-­‐impianto) e sul feto vivente passa attraverso il corpo della madre, e in nessuna circostanza ciò avviene senza un rischio per la gestante. In questo caso di consenso per procura, la vulnerabilità di colei che è chiamata a decidere può essere una conseguenza della sottomissione della madre ad una autorità formale (come nel caso dei i genitori, se essa è minorenne), a rapporti informali di potere, istituiti socialmente (per esempio, con il proprio ostetrico), o a dipendenze di natura più soggettiva (come quelle che possono instaurarsi con una persona amica influente). In conseguenza della diagnosi prenatale, la donna può venire a conoscenza di una malformazione o di una malattia grave da cui è affetto il feto e per la quale non esiste un trattamento efficace standard. Se alla madre viene chiesto di partecipare ad un protocollo sperimentale di terapia fetale, è prevedibile che la vulnerabilità medica possa costituire il punto di maggior debolezza del suo processo decisionale. In altre circostanze, la madre può essere sola e senza lavoro, appartenere ad una famiglia povera o vivere in un paese rurale e sottosviluppato, privo di strutture adeguate per un'assistenza ostetrica. Infine, la gestante può appartenere ad un gruppo sociale emarginato, per esempio, di immigrati o di rifugiati. In tutti questi casi, la vulnerabilità economica, infrastrutturale o sociale della madre espone il bambino non ancora nato ad un rischio maggiore di essere arruolato in un progetto di ricerca che può essere eticamente scorretto. Il non competente che risulta eleggibile per una ricerca biomedica rimane un soggetto potenzialmente vulnerabile anche quando sia stato autorizzato un consenso per procura al fine di compensare il suo deficit cognitivo o comunicativo. Salvo evidenza contraria, una vulnerabilità indiretta – che passa attraverso il consenso per procura – non può essere esclusa, e si dovrebbero istituire procedure etiche e strumenti legali per proteggere il non competente dallo sfruttamento di cui può essere vittima. Non si può infatti sempre presumere che il procuratore sostenga con fermezza i diritti del rappresentato o sia in grado di proteggerli incondizionatamente. I soggetti più vulnerabili Fino a tempi più recenti, la vulnerabilità nella ricerca biomedica– in quanto caratteristica etica propria di una sottopopolazione di soggetti eleggibili per gli studi sperimentali – ha ricevuto scarsa attenzione sistematica. Tuttavia, la necessità di tale riflessione era ormai evidente da qualche decennio.[55] Durante gli anni '70, negli Stati Uniti, alcuni episodi di ricerca scorretta ampiamente discussi (come lo studio sull'epatite nei bambini della Willowbrook State School,[56] la ricerca oncologica sugli anziani debilitati e sui pazienti indigenti presso il Brooklyn Jewish Chronic Disease Hospital[57] e lo studio sulla sifilide a Tuskegee, condotto su uomini di origine afro-­‐americana poveri e ignoranti[58]), mentre sono stati all'origine delle attuali procedure per assicurare la conduzione etica delle ricerche nelle scienze biologiche e mediche, hanno anche messo in luce come queste procedure (che comprendono la considerazione della validità e del valore scientifico di uno studio, l'analisi dei rischi e dei potenziali benefici, ed il consenso informato) non riescono sempre ad impedire che i ricercatori sfruttino (intenzionalmente oppure no) alcune debolezze degli individui e dei gruppi sociali che li rendono maggiormente esposti a venire coinvolti in trial sperimentali e clinici ad elevato rischio. I casi precedentemente ricordati 158 ed diversi altri hanno sollevato il dubbio circa l'opportunità di lasciare il giudizio sulla partecipazione di un soggetto ad uno studio alla sola discrezione dei ricercatori. Sin dagli albori della bioetica la richiesta di una protezione speciale per gli individui e le popolazioni vulnerabili[59] è stata presente in ogni manuale e in ogni corso che affrontava l'etica della medicina e della ricerca. Nell'identificare i soggetti vulnerabili della ricerca biomedica un ruolo particolare viene attribuito all'analisi dei rischi e dei potenziali benefici per i partecipanti ed alle procedure di selezione dei soggetti nei protocolli di ricerca. Il riferimento al concetto di "rischio minimo" è spesso presente (vedi sopra, nota 1). Per esempio, questo concetto è centrale nello schema per l'analisi dei rischi nella ricerca che coinvolge i bambini e le persone ricoverate come malati mentali proposto dalla U.S. National Commission on the Protection of Human Subjects of Biomedical and Behavioural Research.[60] Tuttavia, la distinzione tra "ricerca che non comporta un rischio superiore al minimo" e "ricerca che comporta un rischio maggiore del minimo" non è applicabile facilmente e senza ambiguità. Di fronte alle esperienze fisiche, psicologiche o sociali della maggior parte dei soggetti vulnerabili, il riferimento, contenuto nella definizione, alla «probabilità e grandezza del danno fisico e psicologico che si incontra normalmente nella vita di tutti i giorni o negli esami medici e psicologici di routine»[61] non è così immediato e chiaro come pretende di essere. A riguardo di questo modello di analisi etica del rischio, il Rapporto di Belmont fornisce pochi dettagli ulteriori, ma sottolinea l'importanza di una “analisi sistematica e non arbitraria dei rischi e dei benefici” attraverso «l'accumulo e la valutazione delle informazioni su tutti gli aspetti della ricerca», e invita «a considerare sistematicamente le alternative».[62] Le alternative ad uno studio invasivo, o comunque potenzialmente dannoso, condotto su soggetti vulnerabili rimangono la soluzione etica ideale al dilemma posto da molti trial che coinvolgono questi gruppi di partecipanti. Ciò non di meno, queste alternative non sono sempre facilmente escogitabili ed applicabili, e – anche se disponibili e fattibili – non tutti i ricercatori, le società, le agenzie, i governi ed i cittadini sono preparati ad accettarle, soprattutto quando si ritiene che il percorso verso i risultati biotecnologici e clinici attesi sia più lungo e/o più faticoso e costoso. L'embrione umano è un soggetto estremamente vulnerabile? La questione della vulnerabilità dell'embrione umano nel contesto della ricerca biomedica emerge dalla evidente condizione di debolezza che caratterizza la vita embrionale, in modo particolare quella dell'embrione umano in vitro. La precarietà propria della condizione dell'embrione umano che si sviluppa al di fuori del grembo materno non può essere negata. Anche da un punto di vista meramente biologico, che trascuri l'umanità dell'embrione in quanto membro della famiglia umana, il concepito che si sviluppa in vitro è tra i più deboli e non autosufficienti esseri umani descritti nella letteratura medica, la cui condizione fisica – per quanto concerne la totale dipendenza da un sistema di supporto vitale –è paragonabile a quella dei pazienti in condizioni acute di pericolo di vita, come il neonato gravemente prematuro in una incubatrice, il paziente chirurgico durante l'anestesia totale ed il malato critico in terapia intensiva. Nonostante i continui sforzi per migliorarli,[63] i mezzi e le condizioni di coltura degli embrioni sono lontani dall'essere ideali se confrontati con il naturale ambiente tubarico e uterino,[64] e lo sviluppo embrionale in vitro è esposto ad una serie di rischi che includono il ritardo nella crescita, le infezioni, la frammentazione dei blastomeri, la cavitazione parziale, una anomala distribuzione delle cellule tra la massa cellulare interna ed il trofoblasto, le alterazioni della zona pellucida ed il ritardo dell'hatching.[65] Inoltre, la crioconservazione in azoto liquido – una 159 procedura eseguita nel caso in cui l'embrione non venga trasferito in utero entro 5 o 6 giorni di coltura – non è una condizione di sicurezza per la conservazione degli embrioni. In dipendenza dello stadio di sviluppo embrionale, delle tecniche impiegate e della durata della crioconservazione, un numero di embrioni viene danneggiato irreversibilmente o esposto al rischio di morte.[66] Tutto considerato, l'embrione umano in vitro è completamente dipendente dall'ambiente artificiale del laboratorio e dalla cura dei biologi e dei tecnici.[67] Ogni strumento difettoso, mezzo di coltura alterato o mancanza di conformità alle regole di precauzione (come quelle che riguardano la sterilità) può avere conseguenze drammatiche per la vita e l'integrità dell'embrione.[68] Sebbene anche quello in utero non sia esente da rischi, lo sviluppo embrionale in vitro è caratterizzato da una insolita esposizione a diverse cause di danno e, a motivo di questo, l'embrione umano in vitro è un soggetto altamente vulnerabile. Oltre ai rischi che sono comuni ad ogni procedura di fertilizzazione in vitro (IVF) e di coltura (EC) e trasferimento (ET) di embrioni, i protocolli di ricerca aggiungono una ulteriore esposizione degli embrioni a condizioni pericolose. Alcuni esperimenti, per la loro stessa natura, richiedono la distruzione dell'embrione in fase di sviluppo. E' il caso della ricerca sulle cellule staminali embrionali (ESC) pluripotenti,[69] ottenute rimuovendo la massa cellulare interna della blastocisti a 5-­‐6 giorni dalla fertilizzazione e coltivando le cellule, così ricavate, in presenza di alcuni fattori di crescita.[70] Altri tipi di esperimenti, almeno in quanto tali, sono meno distruttivi. Tra di essi sono da annoverare gli studi sul ciclo cellulare, sulla espressione dei geni (sintesi di mRNA e proteine) e sul metabolismo degli embrioni allo stadio di segmentazione, di morula e di blastocisti.[71] Al fine di compiere queste ricerche, un certo numero di cellule vengono asportate dall'embrione o iniettate con sostanze traccianti ed analizzate mediante tecniche microscopiche, immunochimiche o molecolari.[72] Per le cosiddette "ragioni di sicurezza" – evitare la possibile nascita di un bambino con difetti congeniti – agli embrioni che sopravvivono a questi esperimenti non viene però consentito di svilupparsi e di essere trasferiti nell'utero. Da ultimo, la ricerca di nuove tecniche per la IVF microassistita[73] e la diagnosi pre-­‐
impianto,[74] sebbene di natura meno invasiva e mirate alla generazione di embrioni che si sviluppino normalmente, è gravata da un numero di insuccessi, inclusa la malformazione e la morte degli embrioni stessi. «La sperimentazione sugli embrioni e sui feti comporta sempre il rischio, anzi, il più delle volte la previsione certa di un danno per la loro integrità fisica o addirittura della loro morte».[75] Tuttavia, i danni fisici non sono in ogni caso il solo tipo di lesione che un embrione umano può subire durante la sua generazione ed il suo sviluppo al di fuori del grembo materno e, ancor più, se sottoposto ad uno studio sperimentale. La dignità dell'embrione umano in quanto individuo umano (soggetto) – figlio o figlia di una donna e di un uomo, dotato della loro stessa dignità – è minacciata quando altre persone esercitano un dominio incontrastato sulla vita e l'integrità del concepito che si sviluppa. Per quanto appaiano importanti i dati scientifici e clinici ottenuti e sia nobile ed umanitario lo scopo di uno studio sperimentale, esso non può ridurre l'embrione umano ad un "oggetto" o "strumento". «L'uso degli embrioni o dei feti umani come oggetto di sperimentazione costituisce un delitto nei riguardi della loro dignità di esseri umani, che hanno diritto al medesimo rispetto dovuto al bambino già nato e a ogni persona».[76] In secondo luogo, e nel contesto in cui usiamo il termine "vulnerabilità", esso ci ricorda che alcuni ricercatori, consapevolmente o negligentemente, in modo scorretto hanno sfruttato a proprio vantaggio la debolezza dell'embrione umano, conducendo esperimenti su un soggetto non competente e "senza voce". Le ragioni per le quali l'embrione è molto suscettibile di venire sfruttato in una ricerca biomedica non etica consentono di mettere in luce nuovamente la elevata vulnerabilità di questo soggetto di ricerca. Sebbene la raccolta di un consenso libero e informato non sia il solo criterio etico per giustificare una ricerca su soggetti umani, l'assenza della capacità 160 di decidere consapevolmente se partecipare oppure no ad uno studio sperimentale è considerata unanimemente un sicuro indicatore di vulnerabilità. La vulnerabilità cognitiva, in presenza di un rischio per i soggetti che sia superiore al "minimo", sarebbe sufficiente ad escludere l'ammissibilità del consenso per procura in un contesto sperimentale non terapeutico. Questo dovrebbe valere anche per l'embrione umano. «Nessuna finalità, anche in se stessa nobile, come la previsione di una utilità per la scienza, per altri esseri umani e per la società, può in alcun modo giustificare la sperimentazione sugli embrioni o sui feti umani, vitali o non, nel seno materno e fuori di esso. Il consenso informato, normalmente richiesto per la sperimentazione clinica sull'adulto, non può essere concesso dai genitori, i quali non possono disporre né dell'integrità fisica né della vita del nascituro».[77] Gli embrioni umani in utero sono sotto la potestà formale dei loro genitori (o della sola madre) se questi sono competenti, mentre l'embrione in vitro può essere soggetto ai genitori legali che hanno fornito i gameti per il processo di fertilizzazione o ad altre persone, come i medici, i ricercatori e i giudici (embrioni eccedenti rispetto ai cicli di ETo generati esclusivamente per scopi sperimentali). A motivo di questa subordinazione, gli embrioni umani sono vulnerabili giuridicamente: essi sono sottoposti alla autorità di altri che possono avere un interesse che trascura o risulta in conflitto con il "migliore interesse" del soggetto di ricerca.[78] Questa particolare vulnerabilità solleva obiezioni sulla validità del consenso alla ricerca sugli embrioni dato dai loro genitori o da altri soggetti coinvolti nella IVF-­‐ET. «Una speciale preoccupazione sorge quando coloro che esercitano l'autorità sono anche quelli che conducono o commissionano la ricerca, oppure ne traggono in qualche modo un beneficio».[79] L'embrione umano, in quanto soggetto della ricerca biomedica, risulta anche vulnerabile in modo indiretto, cioè attraverso la vulnerabilità della persona a cui è chiesto di fornire il consenso per procura. Tale persona può essere giuridicamente vulnerabile, come nel caso di una ragazza sotto l'autorità dei propri genitori o di una donna affidata ad un tutore. Per esempio, i genitori possono essere affetti da una vulnerabilità deferenziale in conseguenza di una forte pressione culturale e sociale in favore dell'uso delle ESC per la ricerca sulla terapia cellulare di malattie gravi.[80] Essi possono celare un desiderio interiore di non consentire ad una ricerca o trovarsi in forte difficoltà a respingere una richiesta – che può riguardare, per esempio, la cosiddetta "donazione di embrioni per la ricerca" – fatta dal proprio medico. Un modo scorretto di risolvere la questione Il modo più insidioso e pericoloso attraverso il quale un embrione umano diviene un soggetto di ricerca altamente vulnerabile deriva dalla negazione della sua soggettività. Quando non è riconosciuto come soggetto di ricerca – quale è ogni essere umano coinvolto nella ricerca biomedica – non esistono ragioni cogenti per trattare l'embrione umano secondo gli stessi criteri di rispetto e di protezione che dovrebbero essere adottati nei confronti di tutti gli individui umani ai quali si attribuisce comunemente lo status morale e legale di persone. Al contrario, «la Chiesa ha sempre insegnato, e tuttora insegna, che al frutto della generazione umana, dal primo momento della sua esistenza, va garantito il rispetto incondizionato che è moralmente dovuto all'essere umano nella sua totalità e unità corporale e spirituale: "L'essere umano va rispettato e trattato come una persona fin dal suo concepimento"[81]».[82] Nel contesto delle attuali discussioni sulla ricerca biomedica, l'oblio della soggettività dell'embrione umano e le implicazioni etiche che questo comporta sono spesso mascherate dalla argomentazione etica della "protezione speciale (o adeguata)" che viene accordata al concepito. Un esempio di questo approccio alla questione della ricerca sugli embrionipuò essere trovato nella Convenzione per la protezione dei diritti umani e la dignità dell'essere umano in riferimento alle applicazioni della 161 biologia e della medicina(Convenzione di Oviedo sui diritti umani e la biomedicina) della Comunità Europea, il cui articolo 18 recita: «Laddove la ricerca sugli embrioni in vitro è consentita dalla legge, questa assicurerà una protezione adeguata all'embrione».[83] L'espressione riflette la posizione quanti sostengono che, sebbene gli embrioni umani prima dell'impiantorichiedano una certa protezione, essi tuttavia non devono venire rispettati come esseri umani.[84] Gli argomenti in favore di questa opinione variano da un autore all'altro, e comprendono la supposta discontinuità di sviluppo tra l'embrione in vitro e in utero, lo status non-­‐personale o pre-­‐
personale dell'embrione umano, alcune versioni deboli dell'argomento di potenzialità, l'approccio del "conflitto di interessi" alle questioni morali e sociali, e l'idea che l'embrione umano possiede solo un "valore simbolico" che preclude la sua distruzione per ragioni banali.[85] Le argomentazioni citate non saranno oggetto di discussione in questa sede. Nell'ambito della vulnerabilità dei soggetti di ricerca, le nostre osservazioni conclusive si focalizzeranno sul significato oscuro ed ambiguo – in riferimento alla sperimentazione sugli embrioni umani – dell'espressione "protezione speciale (o adeguata)". Nel linguaggio quotidiano, così come nell'ambito etico e giuridico, la frase "proteggere qualcuno o qualcosa" richiama l'attenzione della gente alla necessità di preservare o salvare il protetto da un pericolo presente o prevedibile. Se, da una parte, la natura e la gravità del pericolo possono variare notevolmente e si può valutare da quali pericoli un soggetto o un oggetto debba essere protetto, vi è tuttavia un consenso unanime nell'affermare che il minimo grado di protezione da garantire ad una entità che abbia un certo valore sia il preservarla o il salvarla dalla morte e dalla distruzione. Il livello successivo è la protezione della sua integrità e della sua attività fondamentale. A prescindere da come l'embrione umanoin vitro venga considerato nell'attuale dibattito – se un soggetto umano con piena dignità personale e tutti i diritti, oppure un'entità biologica il cui valore si fonda sulla sua potenzialità di divenire una persona – la richiesta di protezione dell'embrione nell'ambito della ricerca biomedica dovrebbe almeno mettere al bando esplicitamente ogni sperimentazione che di sua natura e nelle intenzioni ne provoca la morte (distruzione) o il deterioramento permanente della capacità intrinseca di sviluppo. Se non è garantito il rispetto per la vita e l'integrità dell'embrione umano in qualunque situazione clinica o sperimentale si trovi, come può essere accordata al concepito in vitro una "protezione speciale (o adeguata)"? Una delle interpretazioni proposte per questa affermazione è la seguente: gli embrioni umani, nel loro complesso, meritano di essere adeguatamente protetti dalla distruzione, dal danno e dallo sfruttamento nel corso di ricerche sperimentali condotte su di essi. Pertanto, solo un limitato numero di embrioni umani, in speciali circostanze, può essere arruolato in protocolli di ricerca non terapeutica che porteranno alla loro morte o ne pregiudicheranno lo sviluppo. Questo concetto di rispetto collettivo considera gli embrioni umani come una specie da proteggere e non come soggetti i cui diritti individuali devono essere salvaguardati da un oltraggio. In analogia a quanto avviene per gli animali in via di estinzione, il valore della vita umana sotteso a questa modalità di applicazione del principio della "protezione speciale" non sgorga dalla "dignità speciale (unica)" – intrinseca ed inalienabile – di ogni essere umano, qualunque sia la sua condizione personale, ma riflette il "ruolo speciale" accordato ai primi stadi della vita umana individuale nel mondo o in una società. Poiché questo ruolo è associato alla nascita di un bambino, i cosiddetti "embrioni sovrannumerari" (messi da parte nel corso dei cicli di IVF, crioconservati oppure no) – qualora non più richiesti per un ET – perdono la loro "funzione" e vengono considerati dei candidati ideali per le ricerche sperimentali. Così, si sente spesso affermare che la generazione di embrioni umani mediante IVF realizzata esclusivamente per finalità di ricerca è eticamente inaccettabile, mentre l'utilizzazione degli "embrioni sovrannumerari" sarebbe meno discutibile.[86] Tuttavia, altri mettono in dubbio o addirittura 162 negano l'esistenza di una differenza morale tra le due procedure: «Non solo l'embrione è usato strumentalmente in entrambi i casi, ma anche lo status morale dell'embrione è identico».[87] L'argomentazione esibita da Annas et al.[88], secondo cui nei due casi l'intenzione di coloro che mettono a disposizione i gameti al momento della fertilizzazione è fondamentalmente diversa, risulta debole. «Anche nel contesto di una normale IVF, non ogni embrione è creato come un "fine in sé stesso". L'obiettivo della IVF è una soluzione alla mancanza involontaria di figli, e la perdita di alcuni embrioni in sovrannumero è calcolata preventivamente».[89] Un secondo modo di affrontare la questione della "protezione speciale" dell'embrione umano nasce dall'approccio proporzionalista e utilitarista ai dilemmi etici degli studi biomedici che generano benefici per alcuni soggetti e provocano danni ad altri. Mentre esiste un ampio consenso tra i fautori di questa concezione etica circa il fatto che il solo scopo accettabile della ricerca sull'embrione umano debba essere un beneficio per la salute dell'uomo, le opinioni riguardo all'applicazione di questo principio sono differenti.[90] La maggior parte degli autori sottolinea che la ricerca sugli embrioni umani può essere giustificata solo nel caso in cui ci si possa ragionevolmente attendere dei rilevanti e diretti benefici clinici per altri embrioni, per i neonati o per gli adulti. Pochi autori, invece, sono disposti ad accettare anche la ricerca di base.[91] In questo contesto, l'avvento della ricerca sulle ESC umane e delle ipotesi sul loro possibile contributo alla terapia cellulare[92] ha avuto l'effetto di catalizzare la diffusione di questo tipo di pensiero, secondo il quale il concetto di rispetto relativo dovrebbe sostituire l'idea di "rispetto incondizionato" per la vita e l'integrità di ciascun embrione umano.[93] Una terza soluzione che è stata adottata per rendere operativo il concetto di "protezione speciale" fa ricorso al cosiddetto "principio di necessità" o di "sussidiarietà",[94] che conduce ad una forma di rispetto revocabile per la vita e l'integrità dell'embrione umano. Secondo il principio di necessità, gli embrioni umani possono venire arruolati in ricerche sperimentali solo se non esistono delle valide alternative per raggiungere un obiettivo di altissimo valore nel campo della medicina, come la cura di gravi malattie che minacciano la vita del paziente. Sia la Warnock Commission (Regno Unito) sia la Royal Commission (Canada) hanno attribuito al termine "necessità" il significato di una assenza (o di una inadeguatezza) dei modelli animali necessari per condurre esperimenti analoghi e raggiungere i risultati attesi.[95] Un'area di ricerca per la quale è stata invocata la "necessità" di usare gli embrioni umani è quella della terapia cellulare. I sostenitori della tesi che la ricerca sulle ESC umane rappresenta l'opportunità più promettente di entrare nell'era della "medicina rigenerativa" spesso negano che le cellule staminali di origine diversa rispetto all'embrione allo stadio di blastocisti – quali quelle che provengono dal sangue cordonale e dai tessuti fetali e postnatali – possano costituire un'efficace alternativa per la terapia cellulare. Al contrario, vi è una solida e crescente evidenza che cellule staminali o progenitrici, isolate da diversi tessuti e coltivate in vitro, sebbene non dotate di una illimitata capacità di autorinnovamento e di un potenziale epigenetico amplissimo come le ESC, mostrano una sorprendente capacità di differenziarsi o transdifferenziarsi in un numero di linee cellulari differenti (plasticità cellulare). Si sta lavorando per confermare la plasticità funzionale delle cellule staminali provenienti da alcuni tessuti dell'adulto, scoprire nuove fonti di cellule staminali, dimostrare la ripopolazione clonale degli organi in cui sono state innestate le cellule di derivazione staminale e identificare dei meccanismi per incrementare l'efficienza del loro innesto.[96] Come ha ricordato Giovanni Paolo II nel suo discorso al 18th International Congress of the Transplantation Society, «su queste vie dovrà avanzare la ricerca, se vuole essere rispettosa della dignità di ogni essere umano, anche allo stadio embrionale».[97] Per quanto più lungo e laborioso possa essere il percorso alternativo per raggiungere l'obiettivo della terapia cellulare, la sua fattibilità scientifica di principio e l'assenza di controindicazioni assolute di natura clinica ed etica non giustificano il ricorso al principio di necessità. A ben vedere, il principio stesso non è 163 applicabile nelle circostanze in cui, per soddisfare alle necessità di un soggetto, si richiede di violare il rispetto dovuto alla vita e alla integrità di un altro individuo. Il "rispetto", inteso secondo queste prospettive, viene ridotto ad una forma debole di protezione ed applicato secondo una modalità che risulta appropriata per un oggetto (per quanto preziose, le cose non hanno un valore intrinseco) ma inadeguata per un soggetto (il valore degli essere umani non dipende da ciò che è estrinseco ad essi). Nel contesto della ricerca biomedica, la dissoluzione della soggettività dell'essere umano conduce ad un drammatico aumento della sua vulnerabilità. Il rispetto incondizionato che è moralmente dovuto all'essere umano L'unica forma di protezione adeguata all'embrione umano come soggetto di ricerca è la piena protezione dei suoi diritti individuali, che gli competono in quanto essere umano: «“Il frutto della generazione umana, dal primo momento della sua esistenza, e cioè a partire dal costituirsi dello zigote, esige il rispetto incondizionato che è moralmente dovuto all'essere umano nella sua totalità corporale e spirituale».[98] Ogni forma più debole di protezione non consente di riconoscergli “i diritti della persona, tra i quali anzitutto il diritto inviolabile di ogni essere umano innocente alla vita”.[99] Attualmente, la vita dell'embrione in vitro è esposta ad un rischio di essere minacciata nel corso degli studi sperimentali che è superiore rispetto a quello della vita di ogni altro essere umano. L'embrione umano è dunque uno dei soggetti di ricerca più vulnerabili. La vulnerabilità richiede un’attenzione singolare per il vulnerabile, e questa cura deve essere promossa dalla condotta etica degli scienziati e dei medici e garantita dalla legislazione nazionale ed internazionale. Il soggetto vulnerabile è un soggetto povero di protezione, non di diritti. La protezione dei poveri è un dovere morale e civile che non può essere trascurato nel corso della ricerca biomedica. In una prospettiva cristiana, fedele alla cura particolare per i più piccoli che il Vangelo esige, l'etica della ricerca biomedica deve porre una speciale attenzione ai diritti di questi soggetti di ricerca: «Ogni volta che avete fatto queste cose ad uno solo di questi miei fratelli più piccoli, lo avete fatto a me». (Mt 25, 40) 164 [1] Nonostante la valutazione ottimistica, espressa dall'Advisory Committee on Human Radiation Experiments, che «il 40-­‐50% delle ricerche sui soggetti umani presentano solo minimi rischi minimi di danneggiare i soggetti» coinvolti (Final Report, Washington, D.C.: U.S. Government Printing Office, 1995, Chapter 17, Commentary following Finding 22), il dibattito sul cosiddetto “rischio minimo stardard” ed il suo riverbero sull'etica e sul diritto dei trial clinici continua ad essere acceso. Secondo l'U.S. Federal Policy for the Protection of Human Subjects del Department of Health and Human Services, il “rischio minimo” si riferisce ad un contesto di ricerca nel quale «la probabilità e la grandezza del danno o del disagio previsti nel corso dello studio non sono maggiori, in sé stessi e per sé stessi, di quelle che si incontrano ordinariamente nella vita quotidiana o durante lo svolgimento di esami o test di routine, fisici o psicologici». (Code of Federal Regulations, Title 45, Part 46, § 102 (i) : Federal Register, June 18, 1991, 56: 28003) Evidentemente, per quanto concerne i rischi della "vita quotidiana", non vi è nulla che sia comune a tutti, ed ogni interpretazione del criterio proposto è discutibile. Per un'analisi critica della classificazione delle ricerche che si fonda sul rischio minimo standard, si veda: Prentice E.D. and Gordon B.G., Institutional Review Board Assessment of Risks and Benefits Associated with Research, in: National Bioethics Advisory Commission, Ethical and Policy Issues in Research Involving Human Participants, Bethesda, MD: National Bioethics Advisory Commission, 2001, vol. 2, pp. L1-­‐
L16, alle pp. L7-­‐L9. [2] Evans D. and Evans M., A Decent Proposal. Ethical Review of Clinical Research, Chichester: Wiley, 1996, p. 17. [3] Blacksher E. and Stone J.R., Introduction to "Vulnerability" Issues of Theoretical Medicine and Bioethics, Theoretical Medicine and Bioethics 2002, 23: 421-­‐424, p. 422. [4] Fox K., Hotep's story: Exploring the wounds of health vulnerability in the US, Theoretical Medicine and Bioethics 2002, 23: 471-­‐497, p. 472. [5] Kipnis K., Vulnerability in research subjects: a bioethical taxonomy, in: National Bioethics Advisory Commission,Ethical and Policy Issues in Research Involving Human Participants, op. cit., vol. 2, pp. G1-­‐G13, p. G5; si veda anche Id.,Seven vulnerabilities in the pediatric research subject, Theoretical Medicine and Bioethics 2003, 107-­‐120, pp. 108-­‐109. [6] Kipnis K., Vulnerability in research subjects: a bioethical taxonomy, op. cit., p. G5. [7] Negli ultimi anni, diversi autori hanno affrontato il tema dello sfruttamento nella ricerca biomedica e nei trial clinici, con particolare riferimento ai paesi in via di sviluppo ed alla ricerca sull'AIDS. Si veda, per esempio, Angell M., The ethics of clinical research in the Third World, The New England Journal of Medicine 1997, 337: 847-­‐849; Lurie P. and Wolf S.,Unethical trials of interventions to reduce perinatal transmission of the human immunodeficiency virus in developing countries, ibid.: 853-­‐856; Varmus H. and Satcher D., Ethical complexities of conducting research in developing countries,ibid.: 1000-­‐1005; Savulescu J., On the commercial exploitation of participants of research, Journal of Medical Ethics 1997, 23: 392; Resnick D., The ethics of HIV research in developing nations, Bioethics 1998, 12: 286-­‐306; Mbidde E.,Bioethics and local circumstances, Science 1998, 279: 155; Benatar S.R., Avoiding exploitation in clinical research, Cambridge Quarterly of Healthcare Ethics 2000, 9: 562-­‐565; Bhagat K. and Nyazema N., Ethics and HIV research in Zimbabwe, Central African Journal of Medicine 2000, 46: 105-­‐107; Mullings A., Genetic research in the Third World (developing) countries: science or exploitation?, St. Thomas Law Review 2001, 13: 955-­‐964; Miller F. and Brody H.,What makes clinical trials unethical?, American Journal of Bioethics 2002, 2(2): 2-­‐10; Resnik D.B., Exploitation and the ethics of clinical trials, ibid.: 28-­‐30; Agrawal M., Voluntariness in clinical research at the end of life, Journal of Pain Symptoms Management 2003, 25: S25-­‐S32; e Lee S. and Kristjanson L., Human research ethics committees: issues in palliative care research, International Journal of Palliative Nursing 2003, 9: 13-­‐18. 165 [8] Macklin R., After Helsinki: unresolved issues in international research, Kennedy Institute of Ethics Journal 2001, 11: 17-­‐36, pp. 23.25. [9] Resnik D.B., Exploitation in biomedical research, Theoretical Medicine and Bioethics 2003, 24: 233-­‐259. [10] Ivi, p. 234. [11] Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica post-­‐sinodale Reconciliatio et paenitentia (2 Dicembre 1984), 17, in: Acta Apostolicae Sedis 1985, 77: 185-­‐275, p. 221; citata in: Id., Lettera enciclica Veritatis splendor (6 Agosto1993), 80, in: Acta Apostolicae Sedis 1993, 85: 1133-­‐1228, p. 1197. [12] Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes (7 Dicembre 1965), 27. [13] Cf. Kant I., Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, Lipsia: Hartknoch, 1785 (Fondazione della metafisica dei costumi [trad. di F. Gonnelli], Bari: Laterza, 2a ed., 2002, p. 91). [14] Giovanni Paolo II, Veritatis splendor, 81, in: Acta Apostolicae Sedis 1993, 85, p. 1198. [15] Reeve A. 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[19] Edwards S.D., An argument against research on people with intellectual disabilities, Medicine, Health Care and Philosophy 2000, 3: 69-­‐73, p. 70. [20] Cf. Evans D. and Evans M., A Decent Proposal, op. cit., p. 17. [21] Agrawal M., Voluntariness in clinical research at the end of life, op. cit., p. S29. [22] Una discussione utile sul concetto di rischio si trova in Van Ness P.H., The concept of risk in biomedical research involving human subjects, Bioethics 2001, 15: 364-­‐370, e nella bibliografia citata dall'Autore. [23] Berg J.W., Legal and ethical complexities of consent with cognitively impaired research subjects: proposed guidelines, Journal of Law and Medical Ethics 1996, 24: 18-­‐35, p. 24. [24] Levine R., Balance of Harms and Benefit. Ethics and Regulation of Clinical Research, New Haven: YaleUniversity Press, 2nd ed., 1988, pp. 37-­‐65. [25] Si veda, tra gli altri, The President’s Commission for the Study of Ethical Problems in Medicine and Biomedical and Behavioural Research, Implementing Human Research Regulation: The Adequacy and Uniformity of Federal Rules and of Their Implementations, Washington, D.C.: U.S. Government Printing Office, 1983; National Bioethics Advisory Commission, Ethical and Policy Issues in Research Involving Human Participants, op. cit., vol. 1. [26] Lemberger L., Early clinical evaluation in man: the buck stops here, Xenobiotica 1987, 17: 267-­‐273; Weijer C. and Fuks A., The duty to exclude: excluding people at undue risk from research, Clinical and Investigative Medicine 1994, 17: 115-­‐122; Elliott C., Doing harm: living organ donors, clinical research and The Tenth Man, Journal of Medical Ethics 1995, 21: 91-­‐96; Groudine S. and Lumb P.D., At the coalface – medical ethics in practice. 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[27] I danni psicologici includono anche l'angoscia, l'irritazione o il senso di colpa che possono nascere dalla rivelazione di informazioni imbarazzanti, e l'ansia ed il timore che conseguono alla scoperta della probabilità di sviluppare una malattia per la quale non esiste un trattamento efficace: Glass, K.C., Weijer C., Lemmens T., Palmour R.M., and Shapiro S.H., Structuring the Review of Human Genetics Protocols, Part II: Diagnostic and Screening Studies, IRB: A Review of Human Subjects Research 1997, 19(3-­‐4): 1-­‐13; Marteau T.M. and Croyle R.T., Psychological Responses to Genetic Testing, British Medical Journal 1998, 316: 693–696; Meiser, B., and Dunn S., Psychological Impact of Genetic Testing for Huntington’s Disease: An Update of the Literature, Journal of Neurology, Neurosurgery and Psychiatry 2000, 69: 574-­‐578. 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1085; Kinard E.M., Ethical issues in research with abused children, Child Abuse and Negligence 1985, 9: 301-­‐311. [32] Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica postsinodale Ecclesia in America (22 Gennaio 1999), 57, in: Acta Apostolicae Sedis 1999, 91:737-­‐815, p. 792. A questa concezione, che vede i diritti umani profondamente radicati nella dignità di ogni individuo, si contrappone la «“interests” theory of rights» – frequentemente proposta nel contesto del dibattito sull'aborto (si veda, per esempio, Purdy L. and Tooley M., Is abortion murder?, in: Perkins R. (ed.), Abortion: Pro and Con, Cambridge, Massachusetts: Schenkman, 1974, p. 144) – secondo cui un essere può avere dei diritti solo se è in grado di avere "desideri coscienti" o "interessi". Su questo presupposto, gli embrioni e i feti umani non sono titolari di diritti umani inalienabili, neppure del diritto alla vita, allo sviluppo ed alla integrità fisica. Rifacendosi a questa teoria, Feinberg sostiene che qualcuno è danneggiato solo quando i suoi interessi sono stati contrastati, umiliati, invasi o abbattuti (Feinberg J., Harm to Others, New York: Oxford University Press, 1984, pp. 31–64). Questa definizione permetterebbe di includere un numero virtualmente illimitato di danni che i soggetti coscienti potrebbero lamentare e, invece, di escludere il danno più devastante inferto agli individui non coscienti. L'approccio "per interessi" alla fondazione dei diritti mostra tutta la sua 167 debolezza quando è messo a confronto con la questione morale della obbligazione a riconoscere e rispettare i diritti di un altro essere. Il solo fatto che qualcuno possiede, o è capace di avere, desideri e interessi non è ovviamente una ragione sufficiente perché ciascuno di noi accondiscenda a questi desideri e protegga questi interessi. [33]Giussani L., Il senso religioso, Milano: Rizzoli, 1997, pp. 8-­‐9. [34] Ivi, p. 14. [35] Kant I., Fondazione della metafisica dei costumi, op. cit., p. 91. Una lucida discussione intorno a questa affermazione nel contesto della teoria morale di Kant si trova in Hill T.E. Jr., Humanity as an end in itself, Ethics 1980, 91: 84-­‐90 e in Cooper N, The Formula of the end in itself, Philosophy 1988, 63: 401-­‐415. [36] Concilio Ecumenico Vaticano II, Gaudium et spes, 51. [37] Giovanni Paolo II, Veritatis splendor, 50, in: Acta Apostolicae Sedis 1993, 85, p. 1173. [38] Riportiamo, tra i molti, Brazier M. and Lobjoit M. (eds.), Protecting the Vulnerable: Autonomy and Consent in Health Care, New York, N.Y.: Routledge, 1991; Thomasma D.C., A communal model for presumed consent for research on the neurologically vulnerable, Accountability in Research 1996, 4: 227-­‐239; Brody B., Research on the vulnerable sick, in: Kahn J.P., Mastrioanni A.C., and Sugarman J. (eds.), Beyond Consent: Seeking Justice in Research, New York, N.Y.: Oxford University Press, 1998, pp. 32-­‐46; Dennis B.P., The origin and nature of informed consent: experiences among vulnerable groups, Journal of Professional Nursing 1999, 15: 281-­‐287; Udo, S., Protecting the vulnerable: testing times for clinical research ethics, Social Science and Medicine 2000, 51: 969-­‐
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V68; Casarett D.J., Knebel A., and Helmers K.,Ethical challenges of palliative care research, Journal of Pain Symptom Management 2003, 25: S3-­‐S5; Karlawish J.H.T.,Conducting research that involves subjects at the end of life who are unable to give consent, ibid.: S14-­‐S24. [50] Quanto lo sfruttamento della vulnerabilità economica, qualora associata alla vulnerabilità sociale, potesse risultare facile e pervasivo fu messo in luce chiaramente dallo scandalo dello studio sulla sifilide a Tuskegee(U.S. Department of Health, Education and Welfare, Final Report of the Tuskegee Syphilis Study Ad Hoc Advisory Panel, Washington, D.C.: U.S. Government Printing Office, 1973; Jones J.H., Bad Blood: The Tuskegee Syphilis Experiment, New York: Free Press, 2nd ed., 1993; Pence G., Classic Cases in Medical Ethics, New York: McGrow-­‐Hill, 2nd ed., 1995, pp. 225-­‐252). Lo studio, iniziato nel 1932, si protrasse per 40 anni, coinvolgendo 600 uomini afro-­‐
americani che abitavano nel Macon Country (Alabama), dei quali 399 erano affetti da sifilide e 201 erano sani. I ricercatori sfruttarono l'elevato grado di vulnerabilità dei soggetti – dovuto a 169 indigenza, ignoranza e discriminazione razziale – senza fornire loro alcuna informazione sullo studio in atto e senza richiedere il consenso ad esso. Gli uomini ricevettero, come compenso per la partecipazione alla ricerca, l'accesso a cure mediche non legate alla malattia, alcuni pasti ed i mezzi di trasporto gratuiti, e, nelle fasi più avanzate dello studio, un contributo di 50 dollari per la sepoltura al fine di incoraggiare il consenso all'autopsia. La remunerazione per la partecipazione ad una ricerca è una pratica comune ma poco discussa. Per una riflessione critica sulla questione si veda Dickert N. and Grady C., What's the price of a research subject: approaches to payment for research participation, The New England Journal of Medicine 1999, 341: 198-­‐203 e Anderson J.A. and Weijer C., The research subject as wage earner, Theoretical Medicine and Bioethics 2002, 23: 359-­‐376. [51] Jayasuriya D.C., Law, ethics, and biomedical research involving human subjects in developing countries, Journal of Clinical Research and Drug Development 1989, 3: 83-­‐88; Beauchamp T., Jennings B., Kinney E., and Levine R.,Pharmaceutical research involving the homeless, Journal of Medicine and Philosophy 2002, 27: 547-­‐564. [52] Weijer C., Protecting communities in research: philosophical and pragmatic challenges, Cambridge Quarterly of Healthcare Ethics 1999, 8: 501–513. [53] National Bioethics Advisory Commission, Ethical and Policy Issues in Research Involving Human Participants, op. cit., vol. 1, p. 90. Several aspects of social vulnerability are discussed in: Weisstub D.N., Arboleda-­‐Florez J., and Tomossy G.F., Establishing the boundaries of ethically permissible research with special populations, Health and Law in Canada 1996, 17: 45-­‐63; Dennis B.P., The origin and nature of informed consent: experiences among vulnerable groups, Journal of Professional Nursing 1999, 15: 281-­‐287; Dyregrov K, Dyregrov A, Raundalen M., Refugee families' experience of research participation, Journal of Trauma Stress 2000, 13: 413-­‐426. [54] Strong C., Ethical conflicts between mother and fetus in obstetrics, Clinical Perinatology 1987, 14: 313-­‐328; Meyer K.C., Forced medical treatment in pregnancy: resolving the conflicting rights of mother and fetus, Medical Staff Counseling 1990, 4: 53-­‐58; Mattingly S.S., The maternal-­‐fetal dyad. Exploring the two-­‐patient obstetric model, Hastings Center Report 1992, 22(1): 13-­‐18; Pinkerton J.V. and Finnerty J.J., Resolving the clinical and ethical dilemma involved in fetal-­‐maternal conflicts,American Journal of Obstetrics and Gynecology 1996, 175: 289-­‐295; Chervenak F.A. and McCullough L.B., The fetus as a patient: an essential ethical concept for maternal-­‐fetal medicine, Journal of Maternal and Fetal Medicine 1996, 5: 115-­‐119; Flagler E., Baylis F., and Rodgers S., Bioethics for clinicians: 12. Ethical dilemmas that arise in the care of pregnant women: rethinking "maternal-­‐fetal conflicts", Canadian Medical Association Journal 1997, 156: 1729-­‐
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Per una utile discussione di questa espressione in differenti situazioni cliniche, si veda Daniels K.R., Blyth E., Hall D., and Hanson K.M., The best interests of the child in assisted human reproduction: the interplay between the state, professionals, and parents, Politics of Life Sciences 2000, 19: 33-­‐44; Cotler M.P., The "do not resuscitate" order; clinical and ethical rationale and implications, Medicine and Law 2000, 19: 623-­‐633; Ross L.F., Genetic testing of adolescents: is it in their best interest?, Archives of Pediatric and Adolescent Medicine 2000, 154: 850-­‐852; Spencer K., The best interest principle as a standard for decision making in the care of neonates, Journal of Advanced Nursing 2000, 31: 1286-­‐1292; Allmark P., Mason S., Gill A.B., and Megone C., Is it in a neonate's best interest to enter a randomised controlled trial?, Journal of Medical Ethics. 2001, 27: 110-­‐113; Pham H.H. and Lerner B.H., In the patient's best interest? 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[80] Per una discussione sulle pressioni culturali e sociali che condizionano la campagna sulle ESC e la terapia cellulare, si veda Frist B., The promise and peril of embryonic stem cell research: a call for vigilant oversight, Yale Journal of Health Policy, Lawand Ethics 2001, 2: 167-­‐176; McLaren A., Human embryonic stem cell lines: socio-­‐legal concerns and therapeutic promise, Comptes Rendus de Séances de la Société de Biologie 2002, 325: 1009-­‐1012; Konsen A.H., Are we killing the weak to heal the sick? Federally funded embryonic stem cell research, Health Matrix Cleveland 2002, 12: 507-­‐555; Bruce A., The search for truth and freedom: ethical issues surrounding human cloning and stem cell research, Journal of Law and Medicine 2002, 9: 323-­‐335; Nippert I., The pros and cons of human therapeutic cloning in the public debate, Journal of Biotechnology 2002, 98: 53-­‐
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[82] Giovanni Paolo II, Evangelium vitae, 60, in: Acta Apostolicae Sedis 1995, 87, p. 469. [83] Council of Europe, Convention for the Protection of Human Rights and Dignity of the Human Being with Regard to the Application of Biology and Medicine (Oviedo: April 4, 1997), Council of Europe, ETS no. 164, art. 18. [84] Si veda, tra gli altri, Hursthouse R., Beginning Lives, Oxford – Cambridge: Blackwell, 1987. 174 [85] Dunstan G.R., The moral status of the human embryo: a tradition recalled, Journal of Medical Ethics 1984, 10: 38-­‐44; Strong C., Ethics in Reproductive and Perinatal Medicine. A New Framework, New Haven – London: YaleUniversity Press, 1977; Green R.M., The Human Embryo Research Debates. Bioethics in the Vortexof Controversy, Oxford: OxfordUniversity Press, 2001. Per una critica dell'argomento del "valore simbolico", si veda Quinn K.P., Embryonic stem cell research as an ethical issue: on the emptiness of symbolic value, St. Thomas Law Review 2001, 13: 851-­‐861. [86] Coloro che non ritengono che l'embrione umano in vitro sia già un soggetto titolare di diritti umani, ma affermano che esso «merita un rispetto speciale» e una «seria considerazione morale in quanto rappresenta una forma di vita umana che si sta sviluppando», sono disposti ad «approvare la ricerca sugli embrioni prodotti in sovrannumero nei tentativi di trattare la infertilità di coppia attraverso la IVF, ma disapprovano la creazione e la successiva distruzione di embrioni esclusivamente per scopo di ricerca. Secondo il loro pensiero, la pratica di creare embrioni per la ricerca strumentalizza e priva del suo significato la vita umana, e come tale dovrebbe essere proibita». (Robertson J.A., Symbolic issues in embryo research, Hastings Center Report 1995, 25[1]: 37-­‐38, p. 37) [87] Pennings G. and de Wert G., Evolving ethics in medically assisted reproduction, Human Reproduction Update 2003, 9: 397-­‐404, p. 398. La distinzione non può essere giustificata neppure assumendo che, prima dell'impianto, l'embrione umano non sia un soggetto titolare del diritto a non essere ucciso o danneggiato: «Se gli embrioni sono troppo poco sviluppati fisicamente per poter venire danneggiati, non dovrebbe risultare rilevante il fatto che i ricercatori usino degli embrioni in sovrannumero derivati dalla IVF piuttosto che crearli appositamente per la sperimentazione. In entrambi i casi, infatti, gli embrioni si trovano allo stesso stadio di sviluppo». (Robertson J.A., Symbolic issues in embryo research,a.c., p. 37) [88] Annas G., Caplan A., and Elias S., The politics of human embryo research: avoiding ethical gridlock, The New England Journal of Medicine 1996, 334: 1329-­‐1332. [89] Pennings G. and de Wert G., Evolving ethics in medically assisted reproduction, op. cit., p. 398. See also Iglesias T.,IVF and Justice. 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Nel 1979 l'Advisory Board dichiarò che l'embrione umano ha «diritto ad un profondo rispetto; ma questo rispetto non comprende necessariamente i pieni diritti morali e legali attribuiti alle persone». (Citato in: Callahan D., The puzzle of profound respect, Hastings Center Report 1995, 25[1]: 39-­‐40, p. 39). Se confrontato con il rispetto incondizionato che è dovuto ad una persona, anche il "profondo rispetto" che è accordato agli embrioni si configura come un rispetto relativo e non obbliga nessuno a rinunciare ad usare l'embrione umano come un mezzo per cercare nuove possibili vie per la cura delle persone affette da gravi malattie. [94] Cf. Pennings G. and de Wert G., Evolving ethics in medically assisted reproduction, op. cit., p. 398. [95] «Nessuno dovrebbe intraprendere ricerche sugli embrioni umani il cui scopo possa verire raggiunto attraverso l'impiego di altri animali o in qualche altro modo». (Department of Health and Social Security, Report of the Committee of Inquiry into Human Fertilization and Embryology, London: Her Majesty's Stationery Office, 1984, p. 63). Si veda anche Royal Commission on New Reproductive Technologies (Canada), Proceed with Care: Final Report of the Royal Commission on New Reproductive Technologies, Ottawa: Minister of Government Services, 1993, p. 630. [96] Per una rassegna equilibrata delle ricerche in corso sulle cellule staminali e sulla terapia cellulare, si veda: Cogle C.R., Guthrie S.M., Sanders R.C., Allen W.L., Scott E.W., and Petersen B.E., An overview of stem cell research and regulatory issues, Mayo Clinic Proceedings 2003, 78: 993-­‐1003. [97] Giovanni Paolo II, Discorso al 18th International Congress of the Transplantation Society (29 Agosto 2000), in: Acta Apostolicae Sedis 2000, 92: 822-­‐826, p. 826. [98] Congregazione per la Dottrina della Fede, Donum vitae, I, 1, in: Acta Apostolicae Sedis 1988, 80, p. 79. [99] Congregazione per la Dottrina della Fede, Donum vitae, I, 1, in: Acta Apostolicae Sedis 1988, 80, p. 79; citata in: Giovanni Paolo II, Evangelium vitae, 60, in: Acta Apostolicae Sedis 1995, 87, p. 469. 176 ANTONIO SPAGNOLO
COMITATI DI ETICA PER LA RICERCA: PROCEDURE E QUALITÀ DELLA REVISIONE ETICA LO SVILUPPO DELLA REVISIONE ETICA FORMALIZZATA DELLA RICERCA BIOMEDICA I Comitati Etici per la Ricerca biomedica (d’ora in avanti CER) possono essere definiti come organismi indipendenti composti da persone con diverse competenze, medico-­‐scientifiche e non, che hanno la responsabilità di assicurare che i progetti di ricerca biomedica che coinvolgono soggetti umani siano conformi ai principi dell’etica biomedica.[1] Questa esigenza della revisione etica formalizzata della ricerca biomedica deriva dal fatto che proprio la sperimentazione ha rappresentato una di quelle esperienze morali che hanno turbato profondamente le coscienze nella seconda metà del XX secolo e che possiamo collocare, insieme con la tecnologizzazione della medicina e l’uso ideologico della stessa, fra le condizioni storico-­‐
culturali che sono all’origine della bioetica come movimento e come disciplina.[2] All’indomani del Processo di Norimberga, infatti, emerse con sconcertante evidenza che la ricerca medica poteva essere utilizzata, oltre che per curare, anche per commettere delitti, delitti oggi conosciuti e raccolti dagli atti del Processo che rimangono come una testimonianza in negativo di quanto possa essere fatto dal potere assoluto svincolato dalla morale o presunto detentore della morale stessa, anche con la collaborazione di medici e ricercatori che si lasciarono strumentalizzare dal potere politico, ritenendosi giustificati perché “costretti”[3]. Così, nonostante che da sempre la ricerca biomedica fosse stata condotta in modo più o meno controllato – anche in ossequio alle esigenze del metodo sperimentale -­‐ la preoccupazione specifica degli aspetti etici implicati nella conduzione della ricerca si manifestò concretamente proprio dopo la Seconda Guerra Mondiale, con la documentazione delle atrocità commesse dai medici nazisti in nome di questa ricerca. E il Codice di Norimberga (1947), con il richiamo alla irrinunciabilità del consenso informato dei soggetti di sperimentazione e alla protezione “oggettiva” di essi da parte dello sperimentatore rappresentò uno dei primi documenti di bioetica ante litteram. Due linee di normative si svilupparono a partire da quel momento tragico: la dottrina dei “diritti dell'uomo”, culminata nella Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo del 1948, e l'approvazione via via aggiornata di linee-­‐guida specifiche per l’etica della sperimentazione emanati da organismi internazionali, come l'Associazione Medica Mondiale cui si deve la famosa Dichiarazione di Helsinki, emanata nel 1964 e successivamente rivista più volte (l’ultima ad Edimburgo nell’ottobre del 2000). Questa normativa sovranazionale necessariamente veniva ad implicare e richiedere una fondazione teoretica e giustificativa dell’etica della ricerca biomedica, facendo confluire di fatto tale fondazione fra gli ambiti di riflessione della bioetica, la nuova disciplina, appunto, che stava per sorgere. Ci volle un certo tempo prima che il Codice di Norimberga venisse implementato in termini di sorveglianza formale della ricerca sull’uomo. E così anche dopo Norimberga la società nord-­‐
americana degli anni ‘50-­‐‘60, dovette confrontarsi con la realtà di alcune ricerche che non avevano nulla da invidiare a quelle compiute dai medici nazisti, abusi sistematicamente organizzati di sperimentazione selvaggia sull'uomo che generarono profonda sofferenza morale. Nel 1963, ad esempio, al Jewish Chronic Disease Hospital di Brooklyn erano state iniettate, nel corso di una sperimentazione, cellule tumorali in pazienti anziani, senza il loro consenso, al fine di studiare le modalità di diffusione del tumore. L’età dei soggetti e la prospettiva che gli 177 eventuali effetti negativi di tale esperimento probabilmente non avrebbero fatto in tempo a manifestarsi in loro, permettendo invece lo studio dei meccanismi di metastatizzazione delle neoplasie, furono le ragioni addotte dai medici chiamati a risponderne in tribunale. O, ancora, nel periodo 1965-­‐1971 al Willowbrook State Hospital di New York vennero condotti una serie di studi sull'immunizzazione contro l’epatite virale, inoculando il virus in alcuni bambini orfani, psichicamente handicappati, ricoverati nell'ospedale. Henry Beecher, professore di anestesiologia alla Facoltà di medicina dell’Università di Harvard pubblicò circa venti anni dopo il Codice di Norimberga un famoso articolo nel quale riportava alcune decine di esempi di ricercatori che avevano messo a rischio la vita e la salute di soggetti umani senza informarli dei pericoli che la ricerca comportava e senza ottenere previamente il loro consenso.[4] E l’anno dopo M.H. Pappworth[5] denunciò centinaia di sperimentazioni non etiche molte delle quali pubblicate su prestigiose riviste scientifiche. Sarebbe un errore, tuttavia, pensare che prima della introduzione formalizzata di una revisione sistematica della ricerca non vi fosse alcuna attenzione alla sicurezza e agli interessi dei soggetti coinvolti nella sperimentazione. Walter Reed che ha studiato a lungo la febbre gialla, introdusse sin dal 1900 un vero e proprio consenso informato per i soggetti che partecipavano alla sperimentazione su questa malattia, con la informazione previa su rischi e la documentazione del consenso espresso.[6] E la Germania, forse primo paese al mondo, emanò nel 1931 delle linee guida ufficiali, rivolte ai centri di ricerca universitari, che i medici avrebbero dovuto seguire per l'uso di "nuove terapie" e per l'esecuzione di esperimenti scientifici. Fatto ancor più sorprendente, tali raccomandazioni riguardanti la sperimentazione avevano già un precedente in una direttiva emanata nel 1900 dal governo prussiano in seguito al dibattito acceso dal "caso Neisser". Nel 1898 il prof. Albert Neisser, scopritore del batterio che causa la gonorrea -­‐ che venne chiamato appunto Neisseria gonorreae -­‐ pubblicò i dati di una sperimentazione su pazienti sifilitici. Tale pubblicazione fu accompagnata da discussioni e polemiche poiché Neisser per raggiungere i suoi scopi scientifici aveva iniettato il siero proveniente da malati sifilitici a donne dedite alla prostituzione e ad altri pazienti ricoverati per altre patologie, inconsapevoli e ignari di tutto ciò.[7] Nonostante le raccomandazioni contenute nelle Richtlinien possano essere considerate non meno avanzate e cogenti, e in alcuni elementi anche più dettagliate di quelle del Codice di Norimberga e della Dichiarazione di Helsinki, esse non ebbero la forza e l'incisività per impedire a diversi medici di macchiarsi di orribili crimini contro persone inermi, vittime dell'abominio nazista nei campi di concentramento.[8] Quello che era mancato in questi esperimenti era non solo il consenso informato dei soggetti, ma anche la correttezza delle procedure del disegno sperimentale, la protezione contro i rischi eccessivi a cui i soggetti erano esposti, la libertà di potersi ritirare in qualsiasi momento dalla sperimentazione, e altri ancora. Furono perciò questi aspetti che la comunità scientifica e sociale ritenne si dovessero valutare prima di dare inizio ad una sperimentazione clinica ed è da qui che nasce sostanzialmente l’esigenza di una revisione etica previa, sistematica e formale, di ogni progetto di ricerca da parte di una commissione indipendente. La nascita e la diffusione dei CER deriva, cioè, dall'esigenza di impedire il verificarsi di abusi come quelli perpetrati in molte esperienze del passato attraverso sperimentazioni effettuate su soggetti umani, frequentemente appartenenti a categorie particolarmente vulnerabili. Ma sia il Codice di Norimberga sia la prima versione della Dichiarazione di Helsinki del 1964 non facevano alcuna menzione ai comitati di revisione; in questi documenti la responsabilità della tutela della salute e dei diritti dei soggetti coinvolti nella ricerca era fatta ricadere esclusivamente sul ricercatore. 178 SISTEMA GIURIDICO VS. SISTEMA NON GIURIDICO DELLA REVISIONE ETICA DELLA RICERCA La formalizzazione della revisione etica delle ricerca da parte di Commissioni etiche seguì sostanzialmente due diverse strade: quella del sistema giuridico che si sviluppò rapidamente negli Stati Uniti (USA) e che sostenne su un piano legislativo federale ben codificato la istituzione di queste commissioni indipendenti; e quella del sistema non giuridico, autoregolamentativo, che è stato prevalente fino a pochi anni fa in Europa e in particolare nel Regno Unito (UK), in cui linee-­‐guida di organizzazioni scientifiche e non norme di legge davano indicazioni su come costituire e far funzionare tali commissioni ai fini della revisione etica della ricerca. Negli USA, la Federal Food, Drug and Cosmetic Act del 1938 permetteva ai medici di sperimentare i nuovi farmaci senza che ci fosse una revisione etica del protocollo. Nel 1962 tale legislazione venne emendata a seguito dei drammatici danni che aveva causato sui feti la sperimentazione della talidomide nelle donne in gravidanza, e così per la prima volta al mondo venne esplicitamente introdotto in una legislazione l’obbligo del consenso informato dei soggetti a cui venisse somministrato un farmaco sperimentale (anche se questo non aveva impedito che si attuassero tutte quelle sperimentazioni non etiche degli anni ’60 che abbiamo prima richiamato). Un primo documento federale che richiedeva la revisione etica della ricerca da parte di una Commissione indipendente fu emanato già nel 1953 (Group Consideration for Clinical Research Procedures Deviating from Accepted Medical Practice or Involving Unusual Hazard). Tali linee-­‐
guida, però, erano applicabili solo a ricerche condotte in centri clinici pubblici presso i National Institutes of Health (NIH)[9] che in quegli anni venivano ad essere istituiti e che erano finanziati con fondi federali. Il Direttore dei NIH istituì una Commissione che esaminasse il sistema più opportuno per una revisione etica. Delle altre istituzioni di ricerca, come università e centri privati statunitensi si sa, invece, poco circa la presenza in quegli anni di organismi di revisione per la sperimentazione. Nel 1961-­‐62, fu rilevato, attraverso questionari inviati a dipartimenti di medicina di università americane, che un terzo di quelli che avevano risposto avevano dei comitati, e un quarto di essi aveva avviato le procedure per istituirlo. Nel 1966, il nuovo Direttore Generale Federale della Sanità degli Stati Uniti (Surgeon-­‐General of the United States Public Health Service, USPHS), il dr. William H. Stewart, emanò una disposizione sulla responsabilità delle istituzioni riguardo alla attività di ricerca che si faceva all’interno di esse. Egli sostenne infatti che, accettando i fondi pubblici per la ricerca, le scuole di medicina, gli ospedali e le altre istituzioni di ricerca accettavano anche di condividere la responsabilità pubblica del loro uso. Pertanto egli chiedeva che le istituzioni assicurassero all’USPHS che tutte le proposte di ricerca che coinvolgessero soggetti umani fossero sistematicamente sottoposti ad una revisione etica indipendente, sottolineando anche la necessità che si trattasse di persone esterne qualificate sul piano scientifico[10]. Tale Commissione avrebbe dovuto esaminare i diritti ed il benessere degli individui coinvolti, l'appropriatezza dei metodi utilizzati per richiedere il consenso informato, i rischi ed i potenziali benefici medici della ricerca[11]. E negli NIH venne istituito un apposito Ufficio che avrebbe dovuto dare attuazione alle disposizioni del Direttore Generale Federale della Sanità (Office for Protection of Research Risk, OPRR). Ma nonostante queste indicazioni per la ricerca pubblica, ancora nel 1972 un nuovo shock sconvolse l’opinione pubblica, quando venne alla luce il tristemente famoso “Taskegee Study”, la ricerca – iniziata alcuni decenni prima -­‐ che aveva lasciato senza trattamento antibiotico circa 300 braccianti negri dell’Alabama affetti da sifilide, per valutare l’evoluzione naturale della malattia. 179 Come reazione pubblica a questo studio, nel 1974 il Presidente Nixon firmò la legge sulla ricerca[12] nella quale, alla sezione 474, si chiedeva l’istituzione degli Institutional Review Boards (IRBs) in tutte le sedi dove si faceva ricerca con fondi pubblici di carattere biomedico e comportamentale che coinvolgeva soggetti umani, affinché venissero protetti i diritti di questi ultimi nel corso della ricerca. Tali commissioni dovevano essere presente nello stesso istituto dove si conduceva la sperimentazione. Fu regolamentata, così, una realtà già molto diffusa in molti istituti di ricerca negli Stati Uniti[13]. La stessa legge istitutiva anche una “Commissione Nazionale per la protezione dei soggetti umani nella ricerca biomedica e comportamentale” che avrebbe avuto il compito di fornire linee-­‐guida etiche per la ricerca (in particolare su soggetti vulnerabili come prigionieri, bambini, malati mentali, ecc.), come pure indicazioni per il funzionamento degli IRBs incaricati della revisione dei protocolli di sperimentazione e la formulazione di alcuni princìpi etici fondamentali che avrebbero dovuto guidare la sperimentazione sull’uomo. La Commissione lavorò dal 1974 al 1978, producendo il famoso Rapporto Belmont che venne pubblicato nel Registro Federale il 18 aprile 1979[14] nel quale vennero riportati i principi fondamentali a cui i ricercatori dovevano ispirarsi: principio del rispetto delle persone, principio di beneficità, principio di giustizia, e alla luce dei quali gli IRBs dovevano valutare i protocolli presentati per l’approvazione.[15] A fronte di questo sistema statunitense di revisione etica della ricerca rigidamente controllato dalla legislazione federale, oltre oceano, in particolare nel Regno Unito, la costituzione dei Comitati Etici per la ricerca (Research Ethics Committees,RECs) fu il risultato di una iniziativa promossa dalle società professionali e non di disposizioni da parte delle autorità: il Ministro della sanità, anzi, si astenne dall'intervenire ritenendo che si trattasse di materia di natura squisitamente etico-­‐professionale. Nell’ambito di questo sistema non giuridico, il Royal College of Physicians (RCOP) già nel 1967 aveva raccomandato che tutte le sperimentazioni cliniche fossero previamente approvate da un gruppo di medici comprendente persone esperte nella sperimentazione clinica: "all projects were approved by a group of doctors including those experienced in clinical investigation. This group should satisfy itself of the ethics of all proposed investigations"[16]. Negli anni successivi, pur con una notevole variabilità nella composizione e nelle modalità di funzionamento, si costituirono comitati per l'etica della sperimentazione ovunque nel Regno Unito. Perciò, il RCOP nel 1984 ritenne opportuno pubblicare delle linee guida che suggerissero una certa uniformità di obiettivi, strutture e procedure per un miglior funzionamento dei RECs.[17] Anche sul piano degli organismi internazionali, lo sviluppo dei CER avvenne inizialmente nel senso di un sistema non giuridico. E la prima menzione di un comitato con funzioni di revisione della ricerca in un documento internazionale inerente la ricerca clinica, risale alla Dichiarazione di Helsinki dell’Assemblea Medica Mondiale, nella revisione di Tokyo del 1975 (non vi era invece traccia del riferimento a un comitato di revisione per la sperimentazione clinica nella dichiarazione originaria del 1964). In tale revisione fu stabilito che “il progetto e l’esecuzione di ogni fase della sperimentazione riguardante l’uomo debbono essere chiaramente definiti in un protocollo sperimentale che deve essere sottoposto ad un Comitato indipendente nominato appositamente a tale scopo” (I, 2). Come si vede tale comitato non era ancora connotato con il termine “etico”, ma nella maggior parte delle nazioni dove via via andavano costituendosi, questi comitati vennero denominati Comitati Etici per la Ricerca (CER) o più semplicemente Comitati etici (CE). Negli Stati Uniti, dove la denominazione "comitato etico" (o, meglio, comitato di etica, Ethics Committee) viene utilizzata generalmente per i comitati afferenti ad un ospedale e che hanno funzioni di consulenza etica per la prassi clinica -­‐ e quindi sono di supporto alle decisioni cliniche al letto del malato -­‐ la legge federale con cui sono stati istituiti li ha denominati, come abbiamo 180 visto, richiamando la loro esclusiva autorità e responsabilità nell'autorizzare la conduzione di sperimentazioni in cui sono coinvolti soggetti umani[18]. Successivamente i CER si diffusero in tutte le nazioni dove si svolgeva ricerca clinica, con diversa denominazione ma con il compito preciso di revisione della ricerca: in Canada, alcuni anni dopo gli USA fu istituito il Comité Deontologique de la Recherche (1978), con responsabilità simili circa l'autorizzazione delle sperimentazioni, ma anche per offrire "una valutazione, un commento e una guida"[19]; in altre nazioni comparvero con vari nomi: Commissions Facultaires d'Ėthique in Belgio (1984); Ethik Kommissionen in Germania (1984); Comité Consultatif de Protection des Personnes dans la Recherche Biomédicale in Francia (1988)[20]. In Spagna i comitati che si occupavano di etica della sperimentazione clinica incominciarono a sorgere dopo l'emanazione della legge 3 agosto 1982 che obbligava ogni ospedale ad istituire un proprio comitato per la sperimentazione con ben definite caratteristiche e funzioni[21]. In Italia l’obbligo di sottoporre alla valutazione di un CER i protocolli di sperimentazione clinica è venuto dalla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del Decreto del Ministro della Sanità del 27 aprile 1992 che ha recepito la Direttiva della Comunità Europea 91/507 relativa alle "norme di buona pratica clinica" (GCP), finalizzate a stabilire i principi standard nella conduzione dei trials per la sperimentazione su soggetti umani di nuovi prodotti farmaceutici. Così, a seguito di tale Direttiva, i CER hanno cominciato a diffondersi nei vari luoghi di ricerca anche se non era ancora prevista una regolamentazione della istituzione e del funzionamento di tali organismi i quali hanno, perciò, continuato a sorgere in modo spontaneo ed improvvisato, senza coordinazione fra loro fino alla emanazione, nel 1997-­‐1998, di nuovi Decreti che hanno in qualche modo regolamentato l’attività dei CER[22]. Oggi, come vedremo, il loro ruolo di revisione della ricerca venne previsto da tutte le linee-­‐guida internazionali riguardanti la sperimentazione sull’uomo e considerato irrinunciabile ai fini dell’attuazione della sperimentazione stessa. LA QUALITÀ DEI CER: DALLO STATUTO ALLE PROCEDURE OPERATIVE DI REVISIONE ETICA Storicamente, dunque, l'oggetto fondamentale della valutazione del CER è stato quello della tutela dei diritti e del benessere dei soggetti umani inclusi nelle sperimentazioni, attraverso la richiesta del loro consenso informato, affinché la partecipazione fosse consapevole, libera e volontaria, e l'analisi dei rischi e dei benefici. Nel 1978 la National Commissionaggiunse come ulteriore requisito l'equità nella selezione dei soggetti di ricerca[23]. La National Commission era particolarmente preoccupata della tutela dei soggetti più vulnerabili rispetto all'eventualità di un loro utilitaristico coinvolgimento nelle sperimentazioni. Successivamente, allorché la partecipazione ad alcuni tipi di sperimentazioni vennero percepite come un possibile beneficio (ad es., nel caso del rischio di patologie cardiovascolari nelle donne in età menopausale o delle terapie anti-­‐AIDS) ai CER fu richiesto di assicurare un equo accesso a tali benefici alle categorie di persone più svantaggiate e bisognose di maggiore protezione sociale[24]. L'attività dei CER è quindi da sempre primariamente e spesso esclusivamente dedicata a cercare di assicurare che la ricerca clinica e scientifica, che costituisce di per sé un valore positivo e da promuovere per le ricadute benefiche che può dare nel progresso biomedico e sociale, non si rivolga contro l'uomo stesso che ne è direttamente coinvolto e che vi contribuisce in modo fondamentale, sia conforme ad una serie di requisiti rilevanti ai fini del giudizio di eticità. Un carattere simile avevano, fino al 1973[25], i comitati che stabilivano il rischio di vita per la madre in vista della richiesta di praticare l'aborto. La finalità ristretta e il carattere vincolante della decisione di questi comitati non hanno avuto seguito nei comitati di etica ospedalieri 181 istituiti negli Stati Uniti negli anni '80, dopo un pronunciamento dellaPresident's Commission for the Study of Ethical Problems in Medicine and Biomedical and Behavioral Research che raccomandava la costituzione in tutti gli ospedali di comitati di etica che svolgessero tre attività fondamentali: la consulenza etica di casi clinici, la redazione di linee-­‐guida e raccomandazioni e la formazione sugli aspetti etici della prassi clinica[26]. Per il compito di salvaguardia della sicurezza, dell'integrità e dei diritti delle persone coinvolte nella sperimentazione e per evitare il ripetersi di abusi e prevaricazioni di carattere scientifico ed economico, il CER rappresenta un organo di garanzia etica ma anche deontologica e legale, essendo riconosciuta la sua attività di revisione nelle normative e regolamenti nazionali e internazionali. Tale espressione di garanzia, in effetti, ha un valore fondamentale ed una ricaduta positiva e foriera di benefici anche per la qualità della ricerca clinica in generale e delle singole sperimentazioni. Nel 1996 l'Unione Europea, insieme a Stati Uniti e Giappone con l’emanazione delle International Conference on Harmonisation – Good Clinical Practice (ICH-­‐GCP)[27], poi recepite dalle singole nazioni, intendevano conseguire proprio questo duplice obiettivo: promuovere lo sviluppo e la qualità della ricerca clinica utilizzando al meglio le risorse disponibili, e garantire la sicurezza e la tutela dei diritti dei soggetti partecipanti. Il principale e determinante strumento applicativo di queste nuove linee guida veniva riaffermato, con più forza, essere il CER (definito in quel documento Comitato Etico Indipendente), dopo le precedenti linee guida europee del 1991. I CER sono chiamati, dunque, ad assolvere un compito fondamentale per il bene, prima di tutto, delle persone coinvolte, poi della società e del progresso biomedico, attraverso un'efficacia operativa ancora maggiore, che va oltre la necessaria legittimazione ufficiale e i rigori formali. È importante, allora, che il CER acquisisca il riconoscimento del valore della sua attività di revisione e delle sue decisioni in forza della dimostrazione della sua indipendenza ed autonomia, della sua competenza e del perseguimento del principale e fondamentale obiettivo della tutela della vita e della dignità dei soggetti di sperimentazione, prima che del progresso della ricerca clinica. Le disposizioni normative vigenti, oltre ai documenti internazionali di riferimento etico-­‐
deontologico, implicano per i CER alcuni impegni irrinunciabili: la conformazione del proprio statuto ai principi fondamentali contenuti nelle linee guida e l'organizzazione operativa necessaria ad un adeguato funzionamento del CER stesso. Rimane determinante e centrale, però, il recupero e la promozione del ruolo "etico", rispetto all'attività di revisione ma anche a quella di formazione, del CER disgiungendolo da quello burocratico-­‐amministrativo, che le stesse disposizioni di legge prevedono e forse enfatizzano. Infatti, l'attribuzione di un potere decisionale a carattere vincolante ha reso plausibile il rischio di trasformare questo organismo in un comitato di controllo amministrativo piuttosto che in un luogo di revisione e di riflessione scientifica ed etica sulla sperimentazione e di supporto per i ricercatori[28]. Diventano, dunque, fondamentali nell'attività del CER l'atto istitutivo, con il riferimento ai principi e finalità predefiniti nello statuto, e le modalità di funzionamento preventivamente organizzate ed eventualmente perfezionabili secondo le singole esperienze e necessità. Anche la World Health Organization attraverso l'emanazione nel 2000 delle Operational Guidelines for Ethics Committees That Review Biomedical Research (d’ora in avanti WHO Operational Guidelines)richiama la necessità di stabilire per i CER procedure che "assicurino coerenza e facilitino la cooperazione" (n. 3)[29]. L'atto costitutivo di un CER, da parte di un'istituzione sanitaria e di ricerca (ospedale, azienda sanitaria, università, …), potrebbe essere preceduto e facilitato da una commissione promotrice di esperti (che non faranno parte del CER), in parte interni alla stessa struttura e in buona parte esterni (per salvaguardare l'indipendenza), con il compito di emanare lo statuto (in concordanza 182 con le norme vigenti e con i principi dell'istituzione) e di individuare le persone competenti a svolgere il ruolo di componente rispetto alla professionalità richiesta. L'indicazione a procedere innanzitutto con l'elaborazione dello statuto deriva da un'esigenza di trasparenza e visibilità dell'attività, di coerenza e lealtà rispetto ai criteri di riferimento dell'ente promotore e del CER stesso. La dichiarazione pubblica dei principi ispiratori, dei criteri e delle linee guida di riferimento, delle priorità da perseguire, qualificano la natura non solo ideologica ma anche operativa del CER; perciò sarebbe opportuno che l'emanazione di tale documento preceda la costituzione del CER, pur rimanendo la possibilità di verifica successiva dell'idoneità delle modalità costitutive e l'eventuale proposta di elementi correttivi e migliorativi. I riferimenti, oltre a quelli ovvi alla normativa nazionale vigente, ai principali Documenti internazionali come la Dichiarazione Universale dei diritti dell'uomo (ONU, 1948) e soprattutto a quelli relativi alla sperimentazione sull'uomo, come la Dichiarazione di Helsinki nella versione più recente, le ICH-­‐GCP dell'Unione Europea, le International Guidelines del CIOMS (2002), la Convenzione europea sui diritti dell'uomo e la biomedicina del Consiglio d'Europa (1996), i Codici di deontologia medica, i documenti dei Comitati Nazionale per la Bioetica, costituiscono un elemento imprenscindibile al perseguimento delle finalità proprie del CER. Inoltre, nel caso di un'istituzione sanitaria di ispirazione religiosa o che intende caratterizzarsi per il rispetto di determinati valori e principi morali, lo statuto dovrebbe contenere il riferimento a tali principi (ad esempio, in una istituzione sanitaria cattolica potrebbe essere opportuno il riferimento alle indicazioni del Magistero cattolico[30]); tale sottolineatura non rappresenta una mera formalità ma un elemento fondamentale che contraddistingue quella particolare istituzione sanitaria e l'attività dello stesso CER, un elemento dirimente e da far valere soprattutto in eventuali contenziosi fra la legge civile e i suddetti principi (vedi più avanti). Oltre a principi ispiratori e finalità, lo statuto dovrebbe indicare la composizione e tutti quegli elementi necessari all'operatività dei membri che non possono essere stabiliti dagli stessi nel regolamento interno: gli aspetti economici, l'autorità che approverà e istituirà il CER. Per l'Italia, il Decreto Ministeriale del 15 luglio 1997 stabilisce che i comitati etici per la valutazione delle sperimentazioni cliniche sono istituiti dall'organo di amministrazione delle strutture sanitarie che intendono eseguire sperimentazioni cliniche (art. 3)[31]. Insieme al requisito della multidisciplinarietà e della composizione multisettoriale, dovrebbe essere ribadita nello statuto l'esigenza fondamentale dell'indipendenza del CER da ogni influenza, interna ed esterna all'istituzione, per cui anche la composizione dovrebbe riflettere tale volontà. A questo proposito, l'European Forum for Good Clinical Practice (EFGCP) nelle Guidelines and Recommendations for European Ethics Committees (una proposta di linee guida e raccomandazioni per i comitati etici europei coinvolti nella valutazione della ricerca biomedica) raccomanda che i comitati etici non siano nominati da persone o istituzioni che possano avere interessi specifici nella sperimentazione, come sponsor o sperimentatori (2.A)[32], mentre, più realisticamente, le WHO Operational Guidelines richiedono, laddove tale conflitto di interessi sia inevitabile, che vi sia trasparenza e siano resi noti tali interessi (4.1.3). Entrambi i documenti raccomandano comunque di prevedere una procedura per la nomina che includa oltre al nome della struttura o del responsabile della nomina, anche la procedura per selezionare i candidati e il metodo per la scelta del candidato (ad esempio, se per consenso, per voto di maggioranza, per scelta diretta). Le modalità della nomina dovrebbero includere, al minimo, oltre alla durata e alla condotta per il rinnovo, anche le procedure per le dimissioni, per la ricusazione, per la sostituzione. Insieme ai componenti effettivi del CER, un importante contributo alla revisione dei protocolli di sperimentazione può venire da consulenti esterni e indipendenti che possono essere invitati ad hoc o, come suggeriscono le WHO Operational Guidelines, essere scelti e inclusi in una lista permanente: tali consulenti, che possono anche fornire solo un commento scritto (6.1.5) possono 183 essere esperti di specifici aspetti del protocollo o di patologie o di metodologie, o anche rappresentanti di associazioni o di particolari gruppi di pazienti, e le modalità di consultazione dovrebbero essere precedentemente definite (4.6). Naturalmente, anche i consulenti esterni invitati a collaborare con il CER sono esplicitamente vincolati, come i componenti del CER, all’obbligo della segretezza sulle informazioni che verranno a conoscere nello svolgimento del proprio incarico. La valutazione etica di un protocollo di sperimentazione implica un giudizio relativo al rispetto dei diritti dei soggetti per quanto concerne l’integrità fisica, psichica e morale, dei principi di giustizia e pari opportunità, dei diritti delle persone che accedono alla struttura per motivi assistenziali e che, pur non essendo direttamente coinvolti nel protocollo, possono risentire delle conseguenze, del diritto del medico partecipante a svolgere il proprio compito primario di terapeuta senza condizionamenti. Perciò il CER ha anche la funzione di verificare la compatibilità delle sperimentazioni non solo con le normative ed i regolamenti vigenti, ma anche con le caratteristiche culturali ed il background etico-­‐morale e religioso della popolazione locale, con le condizioni operative della struttura dove si svolgerà la sperimentazione, con i diritti fondamentali della persona. Le già menzionate Guidelines del 1997 dell’EFGCP contengono le indicazioni sulle disposizioni che dovrebbero essere prestabilite dal CER circa le competenze auspicabili per una idonea revisione del protocollo, oltre al quorum minimo dei componenti. L’EFGCP (come le ICH-­‐GCP) raccomanda che un minimo di cinque persone costituisca il quorum e rileva, per quanto concerne il numero massimo, che non dovrebbe essere superiore a dodici, poiché con un grande numero di persone è più difficile pervenire alle decisioni. Nello stesso documento si raccomanda che nel quorum siano rappresentati soggetti di entrambi i sessi, un’ampia fascia di età, l’espressione culturale della comunità locale, ed inoltre siano presenti almeno i seguenti membri: due medici che abbiano esperienza e pratica corrente di ricerca clinica secondo le GCP, indipendenti dall’istituzione dove è condotta la sperimentazione, un componente “laico”, un giurista e un paramedico (2.E)[33].Oltre alla competenza ed esperienza professionale nell’area specificamente richiesta, le persone cui viene richiesto di collaborare nel CER dovrebbero essere, anche per ovvi motivi di credibilità esterna, di riconosciuto valore etico ed integrità professionale. Una questione che è connessa con i membri del CER è la loro indipendenza nei confronti dell’istituzione: certamente una significativa presenza (e l’eventuale presidenza) di componenti non dipendenti dalla istituzione potrebbe rappresentare un elemento determinante nella salvaguardia del CER da influenze indebite[34]. Tale misura non dovrebbe essere sottovalutata, dato che l’interesse a condurre sperimentazioni cliniche non è solo animato da motivi scientifici o accademici ma anche e soprattutto di natura economica (gli introiti economici previsti dagli sponsor non sono solo per gli sperimentatori ma anche per l’istituzione) che potrebbero condizionare le decisioni in caso di presidenti professionalmente dipendenti (soprattutto se direttamente coinvolti nell’amministrazione) della stessa istituzione in cui opera il CER. Un'altra misura da porre in essere per quanto concerne l’imparzialità della decisione è l’allontanamento dalla riunione e l’astensione dal partecipare alla discussione e alla decisione riguardante protocolli o questioni da parte del componente del CER che vi abbia un qualche interesse o condizionamento. Come si evince dalle raccomandazioni dell’EFGCP (2.C.i) e della WHO (7.1), nel caso di conflitto di interesse, tale procedura di esclusione (e prima ancora di comunicazione e registrazione per iscritto di tale condizione) dovrebbe essere stabilita nello statuto o nel regolamento del CER, e sottoscritta dai singoli componenti all’atto di accettazione della nomina. Occorre considerare, inoltre, che il conflitto di interesse può essere diretto o indiretto, come il coinvolgimento nella progettazione o nella conduzione della sperimentazione, i rapporti di cointeresse o di dipendenza con lo sperimentatore, i rapporti di consulenza con 184 l’azienda produttrice del farmaco[35]. Complessa è in particolare la questione relativa al cointeresse economico rispetto soprattutto alle grandi aziende farmaceutiche internazionali, spesso quotate in borsa e coinvolte in investimenti economici, cui potrebbe partecipare, sotto forma di prodotto finanziario, un qualsiasi cittadino, quindi anche un componente del CER. Nello statuto deve essere, infine, fatto riferimento al funzionamento del CER, rimandando alle procedure operative che dovranno essere in seguito definite nel regolamento interno. Dopo l'approvazione dello statuto e la nomina dei componenti del CER da parte dell'autorità competente, è indispensabile, come indicato nelle WHO Operational Guidelines (4.4), per un adeguato funzionamento, l'istituzione di un ufficio di segreteria che abbia la responsabilità dell'organizzazione tecnica delle riunioni, della tempestiva distribuzione ai componenti dei documenti da esaminare, dell'archiviazione della documentazione, dei contatti con i componenti e con gli utenti esterni, da qui l'esigenza di pianificare anche la spesa, per dotare delle necessarie risorse tale ufficio. Perciò per contribuire a coprire tali costi viene generalmente prevista una tassa a carico dello sponsor per l'istruzione della pratica. Un tema importante che dovrebbe essere sottolineato anche nello statuto del CER è quello dell'educazione continua e dell'aggiornamento dei membri. Nella dichiarazione di accettazione dell'incarico ogni componente del CER dovrebbe sottoscrivere anche questo particolare impegno a partecipare a occasioni di formazione e di aggiornamento. La disponibilità a ricevere uno specifico training introduttivo e ulteriori successivi aggiornamenti per contribuire a migliorare il lavoro del CER viene anzi indicata dalle WHO Operational Guidelines come una condizione da accettare al momento della nomina (4.7). Dopo aver visionato lo statuto e eletto le principali cariche (presidente e vicepresidente), occorre dunque procedere all'elaborazione delle procedure operative, definite in un regolamento che sarà vincolante per i membri del CER e per coloro che sottoporranno una richiesta di parere etico su una sperimentazione clinica. Queste procedure, che dovranno essere il più possibile funzionali, flessibili, trasparenti e standardizzate, costituiscono lo strumento che traduce in un certo senso tutta l'attività multidisciplinare di revisione del CER, dal momento della richiesta fino alla comunicazione del parere. L'applicazione standardizzata delle procedure operative contribuisce, inoltre, a garantire imparzialità e coerenza nella valutazione, continuità di riferimento e uniformità di lavoro sia per coloro che richiedono il parere sia per gli stessi componenti del CER sia per altri CER chiamati a valutare le stesse sperimentazioni. L'aderenza alle procedure, come la continua revisione dell'efficacia di esse, permettono al CER di funzionare in modo regolare e idoneo, tenendo conto delle opportunità per aumentare la qualità della valutazione. Di certo la prova della condotta appropriata ed equilibrata del CER è rappresentata proprio dalla risultante dell'attività di discussione e valutazione e cioè il parere scritto, motivato, sulle singole sperimentazioni. Per pervenire all'emanazione del parere il CER dovrà affidarsi ad una componente rigida o burocratica -­‐ i vincoli operativi fondamentali e le formalità, in genere richiesti dalle norme vigenti, per la validità delle riunioni, l'emissione dei pareri, l'istruttoria del protocollo, ecc. -­‐ ed una più interessante ed impegnativa componente dinamica delle procedure. Quest'ultima, che dovrà tenere conto di esigenze e caratteristiche locali, potrà trasformare indicazioni e raccomandazioni di ordine generale in una guida flessibile di lavoro e stimolare il CER ad un continuo confronto tra i criteri costitutivi e la realtà in cui opera. Questa particolare capacità di adattamento del CER potrà facilitare una evoluzione delle sue qualità e renderne più efficace il lavoro, aumentando, quindi, innanzitutto la garanzia di protezione dei pazienti (ad esempio, nell'evidenza di ripetute necessità di particolari competenze, potrebbe essere modificata la composizione), e svolgendo una funzione pedagogica per i ricercatori. Utili indicazioni potrebbero derivare anche per gli sponsor farmaceutici, oltre ad ottenere i pareri in 185 tempi ragionevoli. È importante, perciò, che le procedure stesse prevedano una continua auto-­‐
valutazione. Indispensabili indicazioni per l'elaborazione delle procedure operative vengono oltre che da leggi e regolamenti delle singole nazioni (che in genere derivano da recepimenti e adattamenti dalle linee guide internazionali), dalle già citateWHO Operational Guidelines e Guidelines dell'European Forum for Good Clinical Practice, oltre che dalle ICH GCP, nel paragrafo relativo ai comitati di etica. Utili suggerimenti possono derivare anche da associazioni o altri organismi che si occupano di etica della sperimentazione. I punti fondamentali considerati in questi documenti e che dovrebbero essere parte integrante delle procedure istitutive ed operative del CER possono confluire in uno schema generale che comprende le procedure per le riunioni, le cariche e l'avvicendamento dei membri, le procedure per presentare la richiesta e per la revisione del protocollo di sperimentazione, le procedure per la formulazione e la comunicazione del parere, le procedure per il monitoraggio della sperimentazione, le procedure per la documentazione e l'archiviazione e, infine, quelle per la revisione dell'attività dello stesso CER.[36] Il momento centrale dell'attività del CER è costituito dall'esame del protocollo di sperimentazione, dall'analisi di tutte le sue parti, dalla discussione sui molteplici aspetti, e soprattutto quelli problematici, che lo caratterizzano, anche se la revisione non è limitata al solo protocollo ma include anche altri documenti allegati (ad esempio, i pareri eventualmente già emessi da altri CER). Per quanto riguarda le procedure per la valutazione del protocollo, dopo la distribuzione della documentazione ai componenti prima della riunione, può essere utile eseguire, prima dell'analisi complessiva degli aspetti etici e scientifici del protocollo, una revisione contenutistico-­‐
strutturaleper accertare, da parte della segreteria, la completezza della documentazione. Quindi una valutazione di validità scientifica e fattibilità tecnica potrebbe essere preventivamente (rispetto alla riunione collegiale) condotta da un nucleo -­‐ un subcomitato tecnico-­‐scientifico, eventualmente implementato da consulenti esterni -­‐ del CER ed infine, nell'ambito della riunione collegiale, disponendo già di dati tecnici se non di un giudizio sulla validità scientifica, può aver luogo la valutazione complessiva di eticità -­‐ con l'analisi degli aspetti scientifici ed etici, assicurativi, etc., attraverso la discussione ed i contributi individuali dei vari membri. Lo sperimentatore potrebbe anche essere invitato a presentare la ricerca o a chiarire particolari aspetti di essa. Uno schema degli elementi da considerare ai fini della valutazione etica del protocollo di ricerca è riportato nella Tab. 1 e riprende integralmente il punto 6.2 delle WHO Operational Guidelines. Il CER potrebbe anche prevedere delle procedure per revisioni "accelerate" (expedited review) dei progetti di ricerca, stabilendo le condizioni di applicabilità di tale modalità e il carattere della decisione presa in tale evenienza[37]. Imprescindibile dalla valutazione del CER non è solo la validità scientifica della sperimentazione, ma anche l'adeguatezza delle condizioni di protezione dei soggetti, la conformità alle GCP, alla Dichiarazione di Helsinki e alle norme vigenti, e la fattibilità nella struttura in oggetto. In particolare, la decisione sulla validità scientifica implica l'onere e la responsabilità del giudizio tecnico-­‐scientifico di diverse e specifiche figure che devono necessariamente possedere adeguata competenza, per i riflessi determinanti che avrà il loro parere nel corso della valutazione e del parere complessivo. 186 Tab. 1 -­‐ Elementi di revisione etica di una ricerca (WHO, Operational Guidelines for Ethics Committees that review biomedical research, Geneva 2000, 6.2)
Disegno scientifico e conduzione dello • le cure mediche che saranno • l’adeguatezza, completezza e studio fornite al soggetto di ricerca comprensibilità della durante e dopo la ricerca informazione scritta e • l’appropriatezza del disegno dello studio in relazione agli stessa; verbale che sarà data ai obiettivi, alla metodologia soggetti di ricerca e, se del • l’adeguatezza della statistica (inclusa le dimensioni caso, ai loro legali supervisione medica e il del campione) e la possibilità rappresentanti; supporto psico-­‐sociale per i di raggiungere valide soggetti di ricerca; • una chiara giustificazione se conclusioni con il più piccolo si intende includere nella • le azioni che saranno numero di soggetti di ricerca; ricerca soggetti che non intraprese se i soggetti di • la giustificazione dei rischi e possono acconsentire e una ricerca si ritirano degli inconvenienti prevedibili completa descrizione delle volontariamente durante lo soppesati in rapporto ai modalità di ottenimento del svolgimento della ricerca; benefici attesi per i soggetti di consenso o l’autorizzazione • i criteri per un accesso esteso, ricerca e le comunità coinvolte; per la partecipazione di tali per emergenza e/o per un uso soggetti; • la giustificazione dell’uso di un compassionevole del prodotto gruppo di controllo; • la garanzia che i soggetti di in studio; ricerca riceveranno le • i criteri per il ritiro anticipato • le modalità, se del caso, per informazioni che si dei soggetti di ricerca; informare il medico curante renderanno disponibili nel (medico di famiglia) del • i criteri per la sospensione o la corso della ricerca e che conclusione di tutta la ricerca; soggetto di ricerca incluse le saranno rilevanti ai fini della procedure per acquisire il • l’adeguatezza dei loro partecipazione (incluse consenso dei soggetti di provvedimenti che saranno quelle relative ai loro diritti, ricerca p
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iò; presi per monitorare e valutare alla sicurezza e al benessere); la conduzione della ricerca, • la descrizione di come si • le disposizioni per ricevere e inclusa la costituzione di un renderà disponibile ai rispondere alle domande e comitato per il monitoraggio soggetti di ricerca il prodotto alle lamentele da parte dei dei dati sulla sicurezza (CMDS); in studio una volta conclusa la soggetti di ricerca o dei loro ricerca; • l’adeguatezza della struttura, rappresentanti durante lo incluso lo staff di supporto, le • la descrizione di qualsiasi svolgimento del protocollo di risorse disponibili e le costo economico per i soggetti ricerca; procedure di emergenza; di ricerca; • le modalità con cui i risultati • i compensi e i rimborsi per i Considerazioni sul piano sociale della ricerca saranno soggetti di ricerca (sia in • l’impatto e la rilevanza della comunicati e pubblicati; denaro, sia in servizi e/o ricerca sulla comunità locale regali); come pure sulle comunità Reclutamento dei soggetti di ricerca • le modalità di indennizzo o interessate da cui sono • le caratteristiche della trattamento medico in caso di reclutati i soggetti di ricerca; popolazione da cui saranno danni, disabilità o morte del • i passi che sono stati presi i soggetti di ricerca soggetto di ricerca attribuibile intrapresi per consultare le (inclusi sesso, età, scolarità, alla partecipazione alla comunità interessate durante aspetti culturali ed etnici, stato ricerca; la fase della progettazione economico); • l’assicurazione e le della ricerca; disposizioni per il • i mezzi mediante i quali sarà •
l’influenza della comunità sul attuato il contatto inizialee il risarcimento dei danni; consenso dei singoli soggetti reclutamento dei soggetti; di ricerca; • i mezzi mediante i quali sarà Protezione della riservatezza dei •
le modalità di consultazione soggetti di ricerca fornita l’informazione ai della comunità nel corso potenziali soggetti di ricerca o della ricerca; ai loro rappresentanti; • descrizione delle persone che •
l’ambito in cui la ricerca può avranno a
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ati • i criteri di inclusione e di contribuire alle sue personali d
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i esclusione dei soggetti di possibilità costruttive, come ricerca, inclusa la cartella ricerca; 187 Cura e protezione dei soggetti di clinica e i campioni biologici; ricerca • le misure intraprese per assicurare la riservatezza e la • l’adeguatezza della qualificazione ed esperienza e la sicurezza delle del/i ricercatore/i nell’ambito informazioni personali dello studio proposto; riguardanti i soggetti di ricerca; • ogni previsione di sospensione o non inizio delle terapie standard a motivo della ricerca, Procedure del consenso informato e giustificazione di tale • completa descrizione delle condotta; procedure per ottenere il consenso informato, inclusa la identificazione di coloro che saranno responsabili di questo; •
•
il miglioramento della sanità locale, della ricerca e della capacità di rispondere ai bisogni di sanità pubblica; la descrizione della disponibilità e possibilità di usufruire del prodotto sperimentato con successo da parte delle comunità interessate, alla fine della ricerca; le modalità con cui i risultati della ricerca saranno resi disponibili ai partecipanti alla ricerca e alle comunità interessate. Anche nell'analisi dei rischi-­‐benefici, nelle misure per limitare o evitare i rischi, nei criteri per la sospensione o l'interruzione della partecipazione dei soggetti, in tutti quegli aspetti in cui è assolutamente necessaria una competenza tecnica specialistica sarà il parere dei membri "tecnici" ad assumere un rilievo fondamentale, mentre i membri con competenze non medico-­‐
scientifiche saranno chiamati a porre particolare attenzione agli aspetti etici, legali, ma anche psicologici, per l'impatto che la sperimentazione può avere sulle persone partecipanti (ad esempio, valutando se la partecipazione alla sperimentazione condizionerà eccessivamente situazioni già difficili o precarie dovute alla patologia) ma anche sulla comunità locale. Ampio spazio deve essere dato nelle procedure alle modalità di revisione della informazione e della dichiarazione di consenso dei soggetti. Per questo elemento del protocollo, spesso carente, il CER potrebbe redigere una guida per lo sperimentatore affinché le schede di informazione e consenso presentate per l'approvazione contengano almeno gli elementi di eticità previsti dalla normativa e dalle linee guida internazionali. L'ampiezza e completezza dell'informazione non è condizione sufficiente, da sola, di eticità: occorre tenere conto delle diversità culturali e soggettive, quindi porre attenzione alla chiarezza e scorrevolezza del testo[38], alla comprensibilità dei termini, alla caratterizzazione del linguaggio (né terroristico, né persuasivo). Oltre a quelli propri del protocollo, altri aspetti da prevedere nelle procedure di valutazione della sperimentazione sono: l'idoneità del ricercatore, in relazione alla sua qualificazione ed esperienza, e della sede, gli oneri economici che non devono gravare sulla struttura, l'adeguatezza della supervisione medica e del follow-­‐up dei soggetti e la polizza assicurativa. Tutti questi elementi devono essere vagliati prima della formulazione del parere, che dovrebbe seguire un metodo ben definito ed uniforme. È certamente auspicabile che il CER emetta un parere che esprima il più ampio consenso o dissenso dei membri, anche se, qualora l'accordo sarà improbabile, dovrà essere previsto il voto e la decisione a maggioranza (due terzi dell'assemblea) e la possibilità per i dissenzienti di aggiungere la loro opinione. Il parere, se sub conditione, deve specificare i requisiti da acquisire, e se negativo deve essere supportato da chiare motivazioni. Nelle procedure di comunicazione del parere deve essere sottolineata la necessità di esprimersi in modo chiaro e inequivocabile sull'esito della valutazione. A questo proposito vi sono precise indicazioni nelle ICH-­‐GCP, che devono essere riprese nelle procedure del CER. Anche per questa procedura il CER può predisporre un modulo standard per il parere scritto con tutti i punti che devono essere presenti: titolo e data della sperimentazione, i documenti esaminati, il nome e le qualifiche dei componenti, l'esplicitazione della decisione raggiunta, eventuali prescrizioni 188 vincolanti per il parere positivo, eventuali raccomandazioni aggiuntive, le motivazioni del parere negativo o di sospensione. È importante -­‐ anche per dare un contributo al miglioramento della qualità della ricerca clinica -­‐ fornire tutti elementi di critica che hanno condotto a un parere negativo, e che potrebbero essere successivamente considerati e corretti in vista di una nuova presentazione. L'emanazione del parere, dopo l'approvazione della sperimentazione, non conclude i compiti di revisione del CER: perciò, dovranno essere previste dal CER anche delle procedure che permettano di eseguire delle verifiche periodiche sull’andamento della sperimentazione fino alla sua chiusura formale. Tali verifiche, che richiederanno una segreteria efficiente per l’aggiornamento della documentazione nel corso dello studio e per lo scadenzario, riguardano essenzialmente, oltre al follow-­‐up dello studio, gli emendamenti, la valutazione degli eventi avversi seri, la chiusura dello studio. Le verifiche dovrebbero essere ancora più accurate soprattutto per quegli aspetti che possono avere conseguenze sulla sicurezza dei soggetti. Perciò il CER ha il compito di valutare con rigore anche tutte le notifiche che possono pervenire da altri CER o da altri centri di sperimentazione, e rinnovare o ritirare l’approvazione già espressa sul protocollo. Oltre alle procedure per un’idonea registrazione e archiviazione della documentazione, dei pareri sulle sperimentazioni e dei verbali e della corrispondenza del CER, che potranno essere sottoposti alle verifiche delle autorità regolatorie o di altri che potranno accedere, secondo le modalità precedentemente stabilite, un’ultima considerazione va fatta sulle procedure di revisione dell’attività ed efficienza del CER stesso (la verifica annuale della periodicità delle riunioni, il numero di protocolli esaminati, il tempo di attesa per il parere, la necessità di sostituire qualche componente o di inserire delle nuove competenze, ecc.). Il CER dovrebbe, infatti, avere in se, grazie alla presenza al suo interno di figure qualificate professionalmente e moralmente, all’adeguata presenza di membri esterni alla struttura, alle competenze multidisciplinari e nel perseguimento di un continuo miglioramento della qualità del proprio lavoro, un forte stimolo all’auto-­‐critica e un impegno per la revisione delle proprie procedure operative e delle attività svolte. CONCLUSIONI: DARE FIDUCIA MA VERIFICARE Sebbene il sistema di revisione dei CER sia radicato sulla fiducia nei ricercatori, collaborando con loro e presupponendo le loro migliori intenzioni, vin sono però importanti responsabilità da parte del CER di verificare che le intenzioni di proteggere i soggetti di ricerca siano in pratica messe in atto. Riportando i risultati di alcuni anni di ispezione agli IRB, un ispettore dell’FDA, George Grob, ha fornito una serie di interessanti osservazioni che possono servire per capire in quale direzione dovrebbero muoversi tali organismi di revisione della ricerca e quale trasformazione dovrebbero, dunque, avere.[39] Grob rileva che vi sono almeno sei elementi principali che contraddistinguono l’attuale situazione degli CER: 1) In passato la ricerca era condotta per lo più in singole istituzioni universitarie e ospedaliere, da parte di un singolo ricercatore, con un piccolo numero di soggetti, per cui i CER avevano un minor carico di lavoro e più tempo per esaminare attentamente i protocolli e valutarne i rischi. Oggi, la ricerca è condotta spesso da sponsor commerciali, che premono per avere subito l’approvazione da parte dei CER, trattandosi di studi multicentrici, e vedono di cattivo occhio le loro richieste di modifiche di tali protocolli. A ciò si aggiunga che la ricerca riguarda spesso dati genetici e che vi è una forte pressione da parte degli stessi potenziali soggetti di ricerca ad 189 entrare in uno studio, per cui i CER devono accertarsi che vi sia un’adeguata informazione che assicuri la comprensione dei soggetti della differenza tra ricerca e trattamento. 2) Sebbene il monitoraggio della ricerca dopo l’approvazione costituisca un mezzo importante per proteggere i soggetti partecipanti, l’enorme mole di lavoro impedisce ai CER di esercitare tale ruolo, dedicando in genere solo pochi minuti nel corso della riunione. 3) La stessa numerosità dei protocolli da rivedere, e dunque la necessità di fare presto per esaminarli tutti, rappresenta un motivo di poca attenzione e di superficialità nella valutazione, rinunciando spesso a convocare un esperto nel settore specifico di ricerca. 4) Né i CER né gli organismi governativi pongono molta attenzione alla necessità di valutare l’efficacia del lavoro dei CER: migliora effettivamente la modalità di informazione ai fini del consenso? I soggetti di ricerca hanno effettivamente ricevuto il meglio nella loro condizione? I CER hanno controllato se le modifiche da loro richieste sono state effettivamente attuate? 5) Spesso, molti dei membri del CER hanno interessi di diversa natura relativamente al protocollo che essi sono chiamati a valutare e spesso ci sono pochi membri esterni alla istituzione a garantire l’imparzialità del parere. 6) I CER e le istituzioni di appartenenza forniscono troppo poco aggiornamento e formazione ai ricercatori e ai componenti stessi del CER. In conseguenza di questi rilievi viene perciò raccomandato che i CER rivedano le loro procedure operative e tutto il loro lavoro al fine di ovviare alle carenze riportate e migliorare sempre di più la protezione per i soggetti di ricerca, nonché il valore e la validità scientifica della ricerca stessa. Si inserisce a questo punto il recente dibattito che si è sviluppato riguardo al significato che hanno le sempre più numerose linee guida emanate nell’ambito della sperimentazione sull’uomo in generale. Richiamando i termini della questione, Jonathan Moreno[40] ha evidenziato come all’inizio del XX secolo le linee guida sulla sperimentazione, compresa la Dichiarazione di Helsinki, si basassero sostanzialmente sulla discrezione del ricercatore. Con il tempo, però, si è andati sempre più verso un’imposizione dall’esterno degli elementi etici che devono essere salvaguardati nella ricerca. Si sarebbe passati, cioè, attraverso tre diversi gradi di protezione: 1. debole: tutto veniva affidato alle qualità morali (virtù) del ricercatore; 2. moderata: le virtù personali erano importanti ma non erano considerate sufficienti, per cui si cominciò a richiedere il rispetto di alcune linee-­‐guida; 3. forte: la protezione è stabilita per legge ma manca l’incentivazione per il ricercatore ad esercitare le sue virtù. La domanda di Moreno è: siamo sicuri che aumentare la protezione da parte di enti esterni sia il modo migliore per condurre eticamente la ricerca? Con una protezione forte, infatti, sembrerebbe che i soggetti siano più tutelati, ma nella realtà i codici etici, le linee-­‐guida, il consenso informato, i Comitati Eticisono solo punti di partenza, certamente irrinunciabili, ma che non sostituiscono la coscienza etica del ricercatore, che è la migliore garanzia di sicurezza per i soggetti di ricerca. Ed è alla formazione di questa coscienza che deve puntare anche il CER il quale non può rinunciare alla sua funzione pedagogica nei confronti dei ricercatori. 190 [1] Foster C., Research Ethics Committees, in Chadwich Ruth (ed.) Encyclopedia of Applied Ethics, London: Academic Press 1998, 3: 845-­‐852. [2] Jonsen A.R.The Birth of Bioethics, New York: OxfordUniv.Press; 1998: 125-­‐165 [3] Spagnolo A.G., voce Bioetica, in Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede (a cura di G. Tanzella-­‐Nitti e A. Strumia), Urbaniana University Press, Roma 2002 pp. 196-­‐214. [4] Beecher H.K., Ethics and clinical research, The New England Journal of Medicine 1966, 274(24): 1354-­‐1360. [5] Pappworth M.H., Human guinea pigs, Beacon Press, Boston 1967. [6] Evans D., Evans M., A decent proposal. Ethical review of clinical research, J. Wiley & Sons, Chichester 1996, p. 2. 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Nuremberg German Regulation concerning new therapy and human experimentation, J. Med. Philos., 1983, 8(2): 99-­‐111. [8] Spagnolo A.G., Minacori R., Il consenso informato alle sperimentazioni mediche prima e dopo Norimberga.In: A, Tarantino e R. Rocco (a cura di), Il processo di Norimberga a Cinquant'anni dalla sua celebrazione (Atti del simposio internazionale, Lecce 5-­‐7 dicembre 1997), Giuffrè Editore, Milano 1998, pp. 173-­‐191. [9] Lipsett M.B., Fletcher J.C., Secundy M., Research Review at NIH, HastingsCenter Report, 1979, 9(1): 18-­‐21. [10] Foster, Research Ethics Committees, p. 846. [11] Curran W., Governmental Regulation of the Use of Human Subjects in Medical Research: The Approach of Two Federal Agencies, in Freund P.A. (ed.), Experimentation with Human Subjects, George Braziller, New York 1970, pp. 402-­‐454. [12] National Research Act Public Law 93-­‐348, July 12, 1974 [13] U.S. National Commission for the Protection of Human Subjects of Biomedical and Behavioral Research, Institutional Review Boards, DHEW Publication No. (OS) 78-­‐0008, Washington 1978. [14] The National Commission for the Protection of Human Health Subject of Biomedical and Behavioral Research: The Belmon Report: Ethical Principles and Guidelines for the Protection of Human Subject of Research.U.S. Office for Protection from Research Risks (OPRR), National Institutes of Health (NIH), Public Health Service (PHS), Human Health Service (HHS). Washington, D.C., 1979. [15] Come è noto, tali principi vennero poi estesi da Beauchamp e Childress dall’ambito limitato della sperimentazione sull’uomo a tutti i campi della bioetica (cfr. Spagnolo A.G., I principi della bioetica nord-­‐americana e la critica del “principlismo”, Camillianum 1999, 20: 225-­‐246.) [16] Supervision of the Ethics of Clinical Investigations in Institutions. Report of the Committee appointed by the Royal College of Physicians of London, Br. Med. J., 1967, 3, 429-­‐430. [17] Royal College of Physicians of London,Guidelines of the Practice of ethics Committees in Medical Research, London 1984. [18] National Commission for The Protection of Human Subjects of Biomedical and Behavioral Research, Report and Recommendations: Institutional Review Boards, Publication n. (OS) 78-­‐0008. Washington D.C: Department of Health, Education and Welfare. [19] Medical Research Council of Canada, Guidelines on Research Involving Human Subjects, Ottawa 1987. [20] Viafora C., Comitati etici: la bioetica all'interno delle istituzioni sanitarie, in A Bompiani (a cura di ), Bioetica in medicina, CIC Edizioni internazionali, Roma 1996: 434-­‐450. 191 [21] Herranz G., Il Comitato centrale di deontologia spagnolo, in Spinsanti S. (a cura di), I comitati di etica in ospedale, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (Mi) 1988: 141-­‐148. [22] Spagnolo A.G., Bignamini A.A., De Franciscis A., I Comitati di Etica fra linee-­‐guida dell'Unione Europea e decreti ministeriali, Medicina e Morale 1997, 6: 1059-­‐1098. [23] Levine R.J., Ethics and Regulation of Clinical Research, 2d ed., Urban and Schwarzenberg, Baltimore 1986. [24] Levine C., Has AIDS Changed the Ethics of Human Subjects Research?, Law, Medicine and Health Care, 1988, 16(3-­‐4): 167-­‐173. [25] L'accesso all'aborto negli Stati Uniti, dopo la sentenza Roe versus Wade del 1973, è stato riconosciuto come diritto di privacy della donna, e quindi sottratto al controllo dei comitati. [26] US President's Commission for the Study of Ethical Problems in Medicine and Biomedical and Behavioral Research,Deciding to Forego Life-­‐Sustaining Treatment, US Government Printing Office, WashingtonDC 1983. [27] International Conference on Harmonisation of Technical Requirements for Regulation of Pharmaceuticals for Human Use, Tripartite guidelines for good clinical practice, International federation of Pharmaceutical manufacturers Association, Geneva 1996. [28] Cfr. A.G. Spagnolo -­‐ D. Sacchini -­‐ G. Torlone -­‐ A.A. Bignamini, Il laboratorio del Comitato Etico. Istituzione e procedure operative standard, Medicina e Morale, 1999, 2: 221-­‐263. [29] World Health Organization, Operational Guidelines for Ethics Committees That Review Biomedical Research, Geneva 2000. [3